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lantidiplomatico

Fuochi d'artificio al tramonto

di Andrea Zhok

Che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (e ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere

Del tramonto dell'Occidente si parla da più di un secolo, e da ben prima della pubblicazione del fortunato volume di Oswald Spengler. Quando ne parlava Spengler si era all'indomani della grande distruzione della Prima Guerra Mondiale, e, paradossalmente, si era alle soglie di una possibile svolta nel processo di decadenza: l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma.

Ma i tentativi che emersero in quel periodo, dapprima all'insegna della Rivoluzione d'Ottobre (i tentativi di rivoluzione degli spartachisti in Germania, il biennio rosso 1919-1920, ecc.) e poi sotto l'egida delle dittature degli anni '20, non riuscirono a creare condizioni stabili per una ricostruzione alternativa. I “fascismi” cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare a favore di un patto strutturale con la grande borghesia liberale, mantenendo l’impianto aggressivo e “darwiniano” che era stato proprio dell’imperialismo prebellico.

Due decenni dopo, il secondo grande massacro del XX secolo aprì un nuovo tentativo di revisione del modello liberalcapitalistico con cui l'Occidente aveva finito per identificarsi. Questo tentativo ebbe maggior successo e durò circa tre decenni, producendo la prima e finora unica situazione moderna in cui autentici meccanismi democratici vennero implementati e in cui migliorarono distintamente le condizioni di vita generali di chi viveva del proprio lavoro.

Ma quel tentativo venne minato dall'interno e infine rovesciato con successo nella seconda metà degli anni '70, a causa della scarsa consapevolezza della natura profonda della crisi di civiltà dell'Occidente (chi di questa crisi aveva consapevolezza, come Pasolini, rimase una vox clamantis in deserto).

Il modello liberalcapitalista riuscì a travestirsi negli anni '80 da movimento libertario ed emancipativo, con la complicità militante di gran parte della concettualità postmoderna. Con la caduta dell'URSS l'idea stessa che potessero (dovessero) esistere modelli di sviluppo storico diversi dal liberalcapitalismo venne meno.

La storia degli ultimi tre decenni è la storia di una ripresa dei medesimi meccanismi che precedettero la Prima Guerra Mondiale, solo in forma più potente e virulenta.

L'accelerazione e il potenziamento della tecnica, finanziaria, mediatica e bellica, presentano le dinamiche distruttive “fin de siècle” in una forma iperbolica.

Gli esiti distruttivi si stanno affacciando in maniera vigorosa e priva di serio contrasto. Mediamente, le classi dirigenti e i ceti intellettuali sembrano avere una consapevolezza della crisi persino inferiore a quella delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali del 1914, del 1938 o del 1968. In Occidente l’idea che “non c’è alcuna alternativa” (TINA) e che la forma di vista liberalcapitalistica rappresenta l’ideale fine della storia (Fukuyama) rimane ampiamente maggioritaria, serenamente propalata, seriosamente sostenuta da stuoli di giornalisti e accademici. La coscienza critica appare, quando appare, nella forma di richieste di ritocchi, di cambiamenti di dettaglio, di riformismi settoriali.

Rispetto al passato esiste un elemento differente: l’Occidente non rappresenta più l’unica concentrazione rilevante di potere economico e militare. Durante la guerra fredda la sfida era stata sempre impari: dalla seconda guerra mondiale gli USA, come centro dell’impero liberalcapitalistico, ne erano usciti arricchiti, intoccati nelle infrastrutture, demograficamente solidi, militarmente egemoni (unici detentori della bomba atomica). La Russia, lo sfidante ideologico, era un paese straziato, con venti milioni di morti in guerra, infrastrutture devastate e già precedentemente carenti, e una condizione di inferiorità tecnologico-militare. Nonostante queste premesse l’URSS riuscì a giocare un ruolo di contraltare ideologico e ideale per altri quattro decenni.

La situazione odierna è diversa perché gli sfidanti sono potenzialmente molto più solidi e credibili. E tuttavia questo può rappresentare un’aggravante della situazione. Per la prima volta da quando è divenuta la forma trainante dello sviluppo europeo a fine XVIII secolo il modello liberalcapitalistico si ritrova sfidato da modelli ibridi, differenti, che ciascuno a modo suo tenta di cavalcare la tigre tecnologica e produttiva in modo da non essere più inerme rispetto alle pretese imperiali dell’Occidente a guida americana. In ciascuno di questi sistemi la legittimazione del potere avviene secondo forme di accreditamento non prevalentemente economiche, che è invece ciò che caratterizza il modello occidentale moderno. Per questo la sfida appare come una sfida esistenziale, una sfida in cui l’Occidente liberalcapitalistico non ha alcun piano B perché da tempo non riesce a immaginare un futuro che non ricalchi il modello corrente (individualismo acquisitivo, materialismo astorico, universalismo globalista, capitalismo politico).

Che nel futuro alberghi una deflagrazione per il mondo occidentale è ovvio e strettamente necessario: il sistema liberalcapitalistico è sempre stato un sistema generatore di grandi accelerazioni e grandi squilibri, con crisi esplosive ricorrenti. La vera questione è quale sarà la natura della deflagrazione prossima ventura. Infatti una condizione di accettazione della pacifica convivenza con forme di sviluppo radicalmente differenti e non subordinabili risulterebbe fatale per l’Occidente a guida americana. L’ammonimento di Trump di ieri, che dichiara letteralmente guerra a ogni tentativo di proseguire il processo di dedollarizzazione è espressione di una chiara presa di coscienza in questo senso. L’Occidente a guida americana sa che se non può continuare a giocare la partita di sfruttamento unilaterale che ha giocato finora, capitalizzando forme di scambio asimmetrico, non può sopravvivere. Il problema, ideologico non meno che strutturale, dell’Occidente liberalcapitalistico è che può esistere solo come vertice della catena alimentare. Nel momento in cui si accettasse come un primus inter pares, senza mutare modello di sviluppo, finirebbe per collassare. Per questo motivo, in maniera sempre più tenace, l’Occidente a guida americana cercherà il confronto diretto con tutti i suoi potenziali competitori, per sfruttare ancora la propria posizione di relativa superiorità in alcuni campi.

Dunque, che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (e ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere.

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Comments

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Lorenzo
Saturday, 07 December 2024 07:33
Le demoplutocrazie si sono suicidate colla globalizzazione, realizzata delocalizzando industria e tecnologia ed importando masse di disperati da foraggiare sulla pelle della piccola e media che paga le tasse e del proletariato costretto a conviverci e ad entrarci in competizione.

Non è una novità: nel Trecento Pisa aveva fatto la stessa identica cosa all'indirizzo di Firenze. Nelle repubbliche mercantili/capitalistiche comanda Mammona e questa fa il proprio interesse particolaristico e di breve-medio termine. Sono le potestates indirectae così ben descritte da Carl Schmitt.

Siccome il crollo del mercato interno conseguente all'emorragia di ricchezza reale non conveniva a nessuno, esso è stato tenuto a galla a suon di finanza creativa e adesso l'occidente (colla minuscola: lo west anglosassone e talassocratico, non l'Abendland teutonico della Festung Europa e del progetto di rigenerazione razziale e culturale), ufficialmente fallito colla crisi del 2008, non ha altra scelta che stringersi attorno all'egemone transatlantico nello sforzo di salvaguardare l'egemonia geopolitica e finanziaria che gli consente di continuare a vivere di conti truccati.

L'assalto alla Russia è partito con Brzezinski, ma è continuato nello sforzo sempre più frenetico di trovare sangue fresco per nutrire l'economia finanziarizzata occidentale ritrasformando la Russia nel gigantesco campo estrattivo sotto costo che era sotto Jeltsin.
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Max Mag
Friday, 06 December 2024 05:10
Prof. Zhok, questa volta non ne ha indovinata una...
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renato
Friday, 06 December 2024 10:17
Quali sarebbero quelle da indovinare e risolutive dell'enigma pluricentennale ?
Condividiamo appassionatamente il sapere dunque.
Grazie
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Max Mag
Saturday, 07 December 2024 15:01
Quoting renato:
Quali sarebbero quelle da indovinare e risolutive dell'enigma pluricentennale ?
Condividiamo appassionatamente il sapere dunque.
Grazie


Buongiorno Renato, sono d’accordo, condividiamolo questo sapere. Ecco dunque le mie note.
Innanzitutto, niente di risolutivo: voglio solo provare a dire, brevemente se riesco, dove secondo me a questo giro il prof ha “cannato”.
Già la partenza: “Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei” - intendendo a quanto capisco il sistema capitalistico in affanno e alla canna del gas che, di fronte alla propria inevitabile fine, decide bellamente di portarci tutti con lui nel baratro - lascia un attimo perplessi. Questo concetto andrebbe approfondito: pensare che ci sia una sorta di “decisione” dietro questo crollo prevede un qualche “organismo decisionale” (ombra o meno che sia) che pianifica questo tipo di cose etc., mentre questo a mio avviso non è vero. L’eventuale crisi non dipende in alcun modo dagli attori in gioco, e nessuno la decide, ma tutti la subiscono. Certo il capitale la fa pagare soprattutto ai soliti, ci mancherebbe, ma da qui a dire che, consapevole dell’inevitabile declino, ci voglia cinicamente portare tutti con sé nell’abisso, ce ne corre, e la differenza non è una questione di lana caprina.
Altro punto critico: dopo la catastrofe della prima guerra mondiale “l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma.” Ma siamo sicuri? Innanzitutto, chi sarebbe questo “soggetto Europa” che “prende coscienza” (sembra un po’ il “Sansone” di cui sopra). Zhok evidentemente ama incarnare questi soggetti molto astratti, dando loro capacità decisionali e una coscienza che, a mio avviso, sono ancora più astratte di questi stessi soggetti. Ma più ancora, proprio al contrario la famosa “Europa” (ma direi il mondo intero), non coscientemente (ancora non si è vista un “scelta consapevole” nel capitalismo, e mai la vedremo, perché questo tipo di passaggio presuppone proprio l’uscita dal capitalismo) ma in una forma che potremmo definire “automatica”, si lanciava, dopo la fine della prima guerra mondiale, verso l’assestamento definitivo della conquista capitalistica della terra, i cui tragici esiti ci stiamo godendo noi proprio oggi, nella nostra devastata quotidianità. Anche i tentativi “antagonisti” di quel periodo in realtà hanno sopratutto messo il sistema del capitale in condizione di penetrare con più facilità all’interno di territori ostili, uno per tutti l’esempio proprio della Rivoluzione d’ottobre, menzionato dal prof. Dire poi che “i ‘fascismi’ cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare” è veramente sconcertante, perché presuppone l’idea che il fascismo sia nato come, in qualche modo, organismo di promozione di una qualche liberazione popolare, mentre nasce come guardia armata del capitale, e questo non sono certo io a dirlo ora. Certo, persino Togliatti, personaggio ambiguo come non mai, era portatore della stessa convinzione, arrivando a definire i fascisti “fratelli in camicia nera”, e la famosa lettera ai fascisti sta a dimostrarlo (come anche la successiva famosa “amnistia”), ma da qui a dare per buona questa panzana, come mi sembra faccia il prof, ce ne corre. Fra l’altro, questa panzana, che va di moda anche a livello main stream, almeno dalla famosa commemorazione dei “ragazzi di Salò” dello sconcertante Violante, si è rivelata molto pericolosa, perché ha dato luogo ad una sorta di cacciucco indifferenziato, dove spariscono tutte le distinzioni e tutto sembra uguale, cacciucco che ha contribuito ad alimentare la situazione disastrata in cui ci troviamo adesso, portando biada alle destre e riqualificando personaggi orrendi quali quelli che vediamo oggi al governo, e non solo.
Altro clamoroso svarione del nostro, dire che, dopo la seconda guerra mondiale, si “aprì un nuovo tentativo di revisione del modello liberalcapitalistico con cui l'Occidente aveva finito per identificarsi”. Questa “revisione” avrebbe portato ai celebri “30 anni gloriosi”, come li definisce qualcuno, sotto l’egida del fordismo e con grandi risultati democratici, di arricchimento popolare etc. Lasciando perdere la questione, comunque non indifferente, di chi abbia goduto di questo apparente salto di qualita’ della vita, e chi invece l’abbia subito, affermare che questo passaggio sia stato ancora una volta effetto di una “scelta” consapevole, a favore di una maggiore diffusione del benessere sociale, significa a mio avviso non aver ben chiari certi meccanismi di fondo dell’economia capitalistica e della sua necessità permanente di valorizzare il valore in misura sempre crescente all’interno di un sistema di competizione. Ma, peggio ancora, affermare che “quel tentativo venne minato dall'interno e infine rovesciato con successo nella seconda metà degli anni '70, a causa della scarsa consapevolezza della natura profonda della crisi di civiltà dell'Occidente” onestamente mi sembra il colmo, e fa persino sorridere. Dunque, il tentativo socialdemocratico (del tutto interno alla logica della valorizzazione capitastica) di diffondere benessere e welfare sarebbe fallito a causa della scarsa consapevolezza della “crisi di civiltà dell’Occidente”? Inviterei il prof.Zhok a spiegarci meglio questo punto, soprattutto cosa intende per “crisi di civiltà” ché questa affermazione, messa così, mi sembra quanto di più oscuro ci possa essere.
Poi “Il modello liberalcapitalista riuscì a travestirsi negli anni '80 da movimento libertario ed emancipativo”. E questa, da dove esce? I tragici anni ‘80 possono piuttosto essere definiti come periodo di piena “restaurazione”, dove tutti i pochi, frammentari e purtroppo effimeri elementi di emancipazione, a tutti i livelli, conquistati negli anni precedenti sono stati riassorbiti alla velocità della luce. Questi anni piuttosto non avevano niente di libertario né di emancipativo, ben al contrario, sono stati gli anni del riflusso e del ritorno della diffusione massiva di ideologie di destra, e non vedo come faccia il prof. ad ingannarsi su questo punto. Che la caduta dell’URSS poi abbia fatto venir meno “l’idea stessa” che possano esistere sistemi di “sviluppo” (parola, questa, molto ambigua che andrebbe usata con più cautela) alternativi è l’ennesima fola, perché presuppone che l’URSS sia stata davvero un “modello diverso” rispetto alla civiltà capitalistica, cosa che non era. Ma a questa fola, purtroppo, non crede solo il nostro prof, e questo è un altro dei problemi del nostro disgraziato momento storico.
Ci sarebbe altro da dire e, soprattutto, da approfondire, ma volevo essere breve e invece la sto facendo troppo lunga, per cui interrompo qui, chiedo venia. Spero comunque di aver chiarito almeno un po’ quali sono le mie obiezioni a questo articolo di Zhok. Un’ultima nota però voglio farla. In linea con una delle letture in voga oggi, il nostro scrive, parlando della crisi attuale dell’Occidente rispetto a quelle precedenti, che “la situazione odierna è diversa perché gli sfidanti sono potenzialmente molto più solidi e credibili”. In altre parole, Russia, Cina, i Brics adesso si sono fatti potenti, e possono sostituire l’attuale potenza egemone, gli USA, e così provocare un qualche sconvolgimento mondiale. Ma di che tipo? Non sarebbe il caso di chiederselo? Se una potenza che fa del verbo capitalista il modello di riferimento, e in base ad esso si dispone a tutti i livelli, viene “sconfitta” da altre potenze che fanno del verbo capitalista il modello di riferimento, e in base ad esso si dispongono, cosa cambierebbe essenzialmente, di fatto? Forse che quei paesi riuscirebbero ad assorbire più ricchezza creata capitalisticamente, sottraendola ai precedenti “padroni” del mondo. Ma questo porterebbe forse ad una qualche vera “liberazione” o “emancipazione” degli esseri umani, o farebbe loro solo “cambiare padrone”? A meno che qualcuno non creda veramente che i famosi Brics siano qualcosa di diverso da un’associazione, peralto molto poco coesa, che pretenderebbe e/o potrebbe rivendicare un ruolo diverso nella scacchiera mondiale (facendo a mio avviso molto male i conti, ancora una volta, con la crisi capitalistica in corso), semplicemente scambiando i fattori, il prodotto non cambia, e il disastro mondiale che si profila all’orizzonte (anch’esso comunque gia’ in corso, come almeno questo giustamente sottolinea anche il prof) non si risolverà semplicemente con un cambio della guardia, ma con uno sprofondo globale, da cui non si può uscire replicando gli stessi meccanismi che ci hanno portato fino a questo punto, semplicemente cambiandone la guida. La “deflagrazione” che si profila all’orizzonte non è quella dello scontro fra potenze allo scopo di determinare chi sarà il prossimo detentore dello scettro mondiale. Il problema è molto più serio e le cause più profonde, e la soluzione prevede, questa volta davvero, una “presa di coscienza” collettiva, che non deleghi a governi o forme di potentati vari la soluzione, e che apra possibilità di civiltà qualitativamente diverse, da costruire (anche culturalmente, ma non solo) tutti insieme. Come dirlo, vero? :-) Ma è ancora più folle aspettare che sia la “Cina” o chissà chi a liberarci dal capitalismo.
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renato
Sunday, 08 December 2024 10:42
Grazie della risposta .
E' tutto in cambiamento e tendenziale trasformazione, a livelli bassi (in alto non cambia niente , ovvio).
Si , non dobbiamo sperare che il sol dell'avvenire siano i Brics o la Cina.
Nemmeno pero' non vedere che c'è qualcuno o qualcosa nel movimento generale che sta smuovendo l'acqua stantia (sempre dal fondale...),in cui siamo immersi da 50 anni , o pensare di farcela da soli soltanto con la cultura allargata e nuovi movimenti dal basso ecc ecc .(chissà perchè poi sempre sto basso deve assumersi l'onere delle rivoluzioni ...).
Le civiltà o epoche che si ammalano e possono morire , ci mettono centinaia di anni a farlo, noi purtroppo siamo ancora neanche a metà del guado, e per quanto riguarda la mia aspettativa di vita non è il mio problema ma delle generazioni successive , forse dei miei nipoti se ne avro'.
Tuttavia continuare a credere nella rivoluzione mondiale è piu' o meno come sperare nella venuta di un nuovo gesu' cristo e tutto cio' limita il campo di azione e di lotta possibile e giusta da esprimere comunque. Sempre senza troppe aspettative o caricamenti eccessivi di significato.
L'ontologia del nuovo soggetto umano o individuo, persona "ragionevole" è intrisa , pervasa e formata allo stile di vita privatistico, egoico e indifferente e tutto sembra naturale e giusto, questo è il primo problema da affrontare.
Insieme logicamente al concetto di valore , qualunque esso sia . Metteremo tutto in discussione? come si scriveva sui muri delle case e delle fabbriche,dal 62 fino al 80 ?
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Max Mag
Monday, 09 December 2024 22:33
Quoting renato:
Si , non dobbiamo sperare che il sol dell'avvenire siano i Brics o la Cina.
Nemmeno pero' non vedere che c'è qualcuno o qualcosa nel movimento generale che sta smuovendo l'acqua stantia (sempre dal fondale...),in cui siamo immersi da 50 anni


Ciao Renato, in tutta onesta' non riesco a vedere qualcuno o qualcosa che smuova veramente le acque, almeno nel senso che spero io (ovvero, in direzione dell'emancipazione dai tentacoli del capitalismo). E non e' nemmeno una questione di pessimismo: in realta' io sono tendenzialmente ottimista, ma proprio e' che non vedo neanche l'ombra di questo movimento di acque, nemmeno un'increspatura piccola piccola. E non puoi immaginare quanto mi piacerebbe sbagliarmi...

Quoting renato:
… o pensare di farcela da soli soltanto con la cultura allargata e nuovi movimenti dal basso ecc ecc .(chissà perchè poi sempre sto basso deve assumersi l'onere delle rivoluzioni ...).


Questo perche’ ritengo sia impossibile cambiare veramente qualcosa dall’alto. L’“alto” è sempre troppo coinvolto nella gestione del potere, deve come minimo scendere a compromessi col potere, e su quel piano si perde sempre. Solo i movimenti dal basso possono “imporre”, quando trovano l’intelligenza e la forza per farlo, uno scossone al reale in un senso emancipatorio. Ma questi movimenti, al momento, latitano parecchio, e dall’alto tutto quello che ci si puo’ aspettare sono solo manganellate date con vigore sadico, possibilmente dalla parte del manico

Quoting renato:
Le civiltà o epoche che si ammalano e possono morire , ci mettono centinaia di anni a farlo, noi purtroppo siamo ancora neanche a metà del guado


Non sono mai riuscito a pensare questa cosa in termini cosi’ deterministici, come se una civilta’ fosse una persona, che nasce, cresce, si sviluppa, matura, invecchia e poi the end. Ho l’impressione che la cosa sia un attimo piu’ complessa. Ma sarei comunque curioso di sapere come calcoli, temporalmente, la data in cui dovrebbe finire questa nostra faticosa civilta’: dunque, se siamo a meta’, e dando per buono l’inizio della civilta’ capitalistica nel sedicesimo secolo, come dice una certa scolastica, ci toccherebbe sorbirci questa menata galattica (non direttamente a noi, certo, ma i nipoti dei nostri nipoti etc) almeno fino al 2800 / 2900 d.c. Mamma mia, che prospettiva allucinante! Speriamo si sveglino e si facciano valere ben prima, ‘sti nipoti, assestando una bella spallata a questo orrore, di cui siamo ben pieni gia’ ora, senza bisogno di attendere altri 7 secoli :-)

Quoting renato:
Tuttavia continuare a credere nella rivoluzione mondiale è piu' o meno come sperare nella venuta di un nuovo gesu' cristo e tutto cio' limita il campo di azione e di lotta possibile e giusta da esprimere comunque. Sempre senza troppe aspettative o caricamenti eccessivi di significato.


Niente affatto: credere nella (possibilita’ della) rivoluzione non dispone necessariamente ad una sorta di “attesa”, in uno stato di passivita’ in cui, aspettando gli eventi, ci metteremmo sulla sponda del fiume a sperare di vedere il cadavere del nemico che passa portato dalla corrente. In quel caso, molto piu’ probabile che saremmo noi quel cadavere, addirittura non galleggiante sul fiume ma piu’ prosaicamente affogato con un bel masso legato alla gola, per fare prima. L’azione e la lotta devono sempre essere il nostro pane quotidiano, e la (speranza dell’eventuale) rivoluzione deve rendere ancora piu’ viva questa azione, non certo frenarla.

Quoting renato:
L'ontologia del nuovo soggetto umano o individuo, persona "ragionevole" è intrisa , pervasa e formata allo stile di vita privatistico, egoico e indifferente e tutto sembra naturale e giusto, questo è il primo problema da affrontare.


Sono del tutto d’accordo: che un po’ tutti si sia orrendamente formattati dallo stile di vita capitalistico e’, ahinoi, un fatto con cui dobbiamo fare i conti. Ma gia’ rendersene conto e’ un primo passo per uscirne (quanto piu’ possibile, collettivamente). Non e’ un percorso facile, questo e’ sicuro, ed e’ anche pieno d’insidie. Ma ci sono altre strade?

Quoting renato:
Insieme logicamente al concetto di valore , qualunque esso sia . Metteremo tutto in discussione? come si scriveva sui muri delle case e delle fabbriche,dal 62 fino al 80 ?


Come si scriveva non lo so, o almeno se ne scrivevano tante, ma voglio provare ad immaginare cosa sarebbe bello scrivere in un prossimo futuro: “pensavate di averci fottuti, e invece eccovi mazziati e cornuti”. Beh, magari non proprio con queste parole, ma il senso e’ questo, diciamo :-).

Un caro saluto
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Enzo Rossi
Thursday, 05 December 2024 17:26
La proposta di rilessione sulla storia dell'ultimo secolo è molto interessante e stimolante per ulteriori approfondimenti.
La caduta dell'Urss appena accennata (e, nel nostro Paese, del Partito Comunista che ha guidato fino ad un certo punto il processo di emancipazione della classe operaia e del mondo del lavoro) meriterebbe una maggiore trattazione; magari partendo dall'affermazione dei massimi dirigenti del capitalismo italiano ovvero Agnelli e l'allora presidente della confindustria Abete ovvero:

“Il deficit pubblico, se vogliamo, è la somma di tutti i mali. All’origine c’è un grande
partito comunista che, alla fine degli anni settanta, era arrivato alla soglia del potere. Per sbarrargli la strada sono state fatte concessioni assurde. In un certo senso, in Italia è stato comprato il consenso anticomunista.
Poi si è visto, il partito comunista è caduto, ma per ragioni internazionali. Ciò detto, alcune riforme sono indispensabili. La più urgente è il rafforzamento del governo per sottrarlo alle richieste dei partiti politici. Poi il presidente della repubblica dovrà essere eletto a suffragio universale diretto, ma ci vorrà del tempo”:

GIANNI AGNELLI, dall’intervista a “Le Monde” del 16-6-1992 (corriere della sera 12-6-1992)



“L’equilibrio è stato garantito con ingenti risorse pubbliche, destinate a vaste categorie sociali e funzionali all’acquisizione del consenso, in presenza del rischio di comunismo e di una elevata conflittualità antisistema. In questa chiave si spiegano lo scambio fiscale degli anni sessanta, la dilatazione dello stato sociali degli anni settanta, l’ipergarantismo del mercato del lavoro. Sono stati tasselli di un “patto sociale improprio” per consolidare l’assetto democratico del Paese: un obiettivo conseguito pur con molte contraddizioni”.

LUIGI ABETE, primo discorso da presidente della confindustria del 28-5-1992 (l’Unità 29-5-1992)
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