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sinistra

Guerra e Rivoluzione” di Carlo Formenti. Appunti di lettura

di Piero Pagliani

111 1024x12911. Nel panorama delle analisi italiane sulla guerra si devono segnalare il volume di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, “La guerra capitalista” (Mimesis), quello di Raffaele Sciortino, “Stati Uniti e Cina allo scontro globale” (Asterios) e infine quello di Carlo Formenti, in due volumi, “Guerra e rivoluzione”.

In estrema sintesi l'analisi di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ci presenta un conflitto inquadrabile come uno scontro interimperialistico tra i debitori in declino e i creditori in ascesa, mosso dalla tendenza ineliminabile del capitalismo alla concentrazione.

Considerare, come fanno gli autori, anche il cosiddetto “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” come un tipo nuovo di imperialismo ha suscitato critiche e perplessità, a mio avviso legittime, tra cui quelle, pur differenti, di Sciortino e Formenti.

L'interpretazione di Brancaccio e coautori si colloca nella scia di una lettura “classico marxista” della realtà economica e sociale e anche, si potrebbe dire, “classico leninista”, dove con “classico” intendo un approccio logico che seppur ben fondato su poderose categorie fatica ad adeguarsi ai processi storici e quindi è in difficoltà a cogliere lo snodo politico della crisi.

È utile capire la natura di questo tipo di errore.

Lo scorso ottobre in un articolo apparso su Sinistrainrete (“La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro”) ho presentato il conflitto globale in corso, di cui l'Operazione Militare Speciale in Ucraina è la parte ad oggi più drammatica - ma l'attacco proxy e a volte diretto degli Usa alla Siria non è stato meno drammatico - come un contrasto tra due “modi di essere” nello spazio economico globale:

«Qua e là nei discorsi di Putin sembra di cogliere alcuni apprezzamenti precisi dei fenomeni in gioco, come la finanziarizzazione, come quando ricorda che con le “capitalizzazioni gonfiate”, con la “capitalizzazione virtuale” non si può “riscaldare nessuno”. Ma questo testimonia solo di una asincronicità tra le fasi di sviluppo e di crisi occidentali e quelle eurasiatiche. La finanziarizzazione non è uno stadio del capitalismo, ma l'espressione delle sue crisi sistemiche, crisi che sono indotte dai meccanismi di accumulazione. Quindi si può ipotizzare in prima battuta che per ora non sono entrati in contrasto due sistemi di rapporti sociali distinti, ma due “orologi” che non possono sincronizzarsi. Che poi questo contrasto assuma contorni ideologici è naturale. È sempre stato così e lo è ancora di più in un'epoca dove la comunicazione e il dominio delle idee sono diventati un'arma diretta. Ma la domanda è: sappiamo quali interessi difende Biden, ma quali interessi difende Putin, quali Xi? Che sistemi hanno in mente? Quanto sono praticabili? Quanto sono compatibili con la stabilità di un mondo multipolare? Si andrà incontro a una situazione permanente di caos, a una società di mercato postcapitalistica, o a che altro?»

In ragione di queste domande avvertivo:

«Durante la guerra fredda si contrapponevano due progetti distinti, due visioni del mondo distinte, due sistemi economici e sociali distinti. C'erano poderosi corpi dottrinari, da una parte e dall'altra, che permettevano di interpretare quello scontro, pur con tutti i limiti che i corpi dottrinari hanno rispetto al fluire storico. Oggi non è più così.

Nello scontro che ora sta seguendo la dissoluzione dell'ordine mondiale della guerra fredda, si sa che da una parte c'è un complesso neoliberista, ma dalla parte opposta c'è un complesso ancor meno decifrabile di quanto lo fosse il sistema sovietico e che si sta arricchendo di soggetti eterogenei. Una nave che affonda viene abbandonata da tutti: ufficiali, sottufficiali, macchinisti, camerieri, passeggeri di lusso, di prima classe, di seconda classe, di terza classe, persino dai clandestini.

Apparentemente non siamo nemmeno di fronte a un classico scontro interimperialistico, nonostante si possa riscontrare la ripetizione di alcuni schemi presenti nella prima parte del secolo scorso – ad esempio la finanza anglosassone da una parte vs l'industrializzazione della Germania (oggi della Germania, della Russia e della Cina).»

E nel febbraio di quest'anno, in “Slittamento di paradigma. Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica” (sempre su Sinistrainrete), davo al primo punto una forma ancor più decisa di ipotesi di lavoro:

«Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

Un'ipotesi che serve come sfondo a una domanda fondamentale [...]:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?»

Avanzavo infine l'idea che dato che è materialmente impossibile sia il mantenimento del vecchio centro egemone mondiale sia la nascita di uno nuovo, la traiettoria del capitalismo così come si è data storicamente, si dovrebbe interrompere. Ma non perché il capitale reale coinciderebbe finalmente col proprio concetto (idea che non ho mai preso sul serio, nemmeno quando avanzata da Marx, forse perché non l'ho capita) ma «perché - scrivevo - da cinquecento anni a questa parte un'economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso» e questo centro egemone garantiva la riproduzione dei differenziali (di sviluppo, politici, militari, finanziari, di accesso alle risorse e alle conoscenze) che servono, per dirla con Fernand Braudel, a “pompare energia” dall'economia materiale a quella propriamente capitalistica.

Il punto di raccordo tra le due precedenti proposizioni in evidente contrasto (reale, non formale) è a mio avviso proprio il fatto che l'accumulazione capitalistica si basa su differenziali e che la finanziarizzazione, come si diceva prima, in sé non è uno stadio del capitalismo, men che meno il suo stadio finale, ma l'espressione delle sue crisi sistemiche, crisi che sono indotte proprio dai meccanismi di accumulazione.

Detto in altri termini, dietro l'asincronismo degli “orologi” dell'accumulazione e quindi l'asimmetricità del posizionamento nella crisi sistemica dei due blocchi, uno in essere e uno in formazione, che si stanno contrapponendo, si cela la disomogeneità dei rispettivi rapporti di classe, del conflitto di classe e di quei rapporti interno/esterno che finora sono stati storicamente impostati come rapporti centro/periferia. Una disomogeneità che deve essere svelata (come ad esempio Raffaele Sciortino ha iniziato a fare riguardo alla Cina).

Per comprendere ciò basta pensare alla cesura che si è consumata negli anni Ottanta-Novanta tra l'accumulazione reale e quella fittizia. Così scrivevo nel giugno scorso in “Hic sunt leones” (Sinistrainrete):

«L'accumulazione “reale” e l'accumulazione “fittizia” sono [...] due aspetti, due stadi, della stessa logica, benché siano così diversi da dar vita a epoche sociali molto differenti, come la società fordista-taylorista col suo controprogetto comunista, e la società liquida postmoderna occidentale priva per ora di controprogetti visibili per aver metabolizzato tutti quelli della fase precedente (chi aveva come habitus il comunismo ora ha come habitus il politicamente corretto)».

A ciò si devono aggiungere i caratteri specifici dell'accumulazione e della forma-stato della Cina, cioè del nuovo gigante economico planetario, e delle trasformazioni in atto nella Federazione Russa, il nuovo gigante politico e militare. Trasformazioni dovute al conflitto e alla necessità di contrapporsi al neoliberismo finanziarizzato Usa-occidentale.

Un tale intreccio di contraddizioni è capibile solo se lo si traguarda attraverso la differenza tra la logica del Potere del Denaro (PdD) e quella del Potere del Territorio (PdT), differenza posta da Giovanni Arrighi nel suo capolavoro “Il Lungo XX Secolo: Denaro, potere e le origini del nostro tempo ” (Il Saggiatore, 1996; prima edizione: “The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times”, Verso, 1994).

Ed è sul rapporto di conflitto e di complementarità tra queste logiche che infatti, a mio modo di vedere, fa implicitamente perno il libro di Carlo Formenti. Lo si vede già dal titolo, perché è impensabile la “rivoluzione” all'interno di un'ipotesi di appiattimento di un potere sull'altro (solitamente del Potere del Territorio su quello del Denaro a causa di un vizio economicista che riaffiora costantemente sia nelle analisi mainstream sia in quelle marxiste).

 

2. In queste brevi note sono costretto ad essere schematico.

Fin dalla Prefazione (al primo volume – non sono ancora riuscito a leggere il secondo) Formenti sottolinea come la specificità della “economia mista” cinese risieda nel fatto che «la politica mantiene il controllo e il comando sull'economia». Ma la “politica al primo posto” sarebbe solo uno slogan se, per l'appunto, questa strategia non avesse la possibilità di inserirsi negli interstizi delle contraddizioni tra PdD e PdT. Questo concetto è implicitamente ribadito, sempre nella Prefazione, quando Formenti ci ricorda che dopo Marx c'è stato il genio politico di Lenin (e quindi hanno poco senso i “ritorni” a un Marx “puro”).

Insomma, così come non esiste una teoria del capitalismo distinta dalla storia del capitalismo (Samir Amin), parimenti non esiste il “comunismo” ma solo il fluire storico del comunismo. E la Storia è frutto di condizioni, di necessità e di scelte.

Nel primo capitolo, intitolato “La cassetta degli attrezzi”, Formenti mette subito le carte in tavola. I suoi attrezzi sono Costanzo Preve (a cui viene affiancato quasi per contrasto un oscillante Ernst Bloch) e il Gyorgy Lukács della “Ontologia dell'essere sociale”.

Ciò che lega i due autori è proprio la concezione che il marxismo è storia, così come lo è il capitalismo. Penso quindi che sia necessario capire la logica di entrambi questi studiosi facendo riferimento al meccanismo dell'astrazione determinata, della “risalita dall'astratto al concreto”, per dirla con Marx. La Logica non può precedere la Storia, pena il ricadere nella mistica del “concetto” (a più riprese criticata da Marx, ad esempio nella “Introduzione del '57” e nelle “Glosse a Wagner”).

Questo avvertimento traspare nel libro di Formenti anche attraverso il richiamo dell'analisi di Onofrio Romano su alcune spinosità del pensiero di Marx, e nella constatazione che nella mistica del concetto sono cascati ad esempio i teorici del post-operaismo, col conseguente fraintendimento della globalizzazione e della finanziarizzazione1.

Dualmente, la storia senza interpretazione logica diventa un semplice susseguirsi inutilizzabile di eventi. Inutilizzabile perché non riesce neppure a formulare in modo razionale le scelte su cui dobbiamo decidere. Cioè inutilizzabile per la politica.

E qui entra in scena Lukács con la sua categoria di “lavoro” in quanto agire teleologico, dove la necessità di agire (tramite scelte finalizzate) è data dalla separazione tra il soggetto e l'oggetto, tra l'uomo e il suo ambiente (da cui - è un semplice inciso - deriva secondo Agamben anche la necessità del linguaggio2).

Ovviamente l'uomo è inteso in quanto essere sociale, dove l'ambiente sociale è una complessità di fattori nella quale quello economico definisce il campo delle possibilità, ma dove le scelte vengono prese in base a un insieme di valutazioni e spinte nelle quali l'ideologia agisce come forza materiale3.

 

3. Messi in chiaro quali sono i suoi attrezzi, Carlo Formenti passa in rassegna i punti di passaggio della crisi sistemica e della lotta di classe dall'alto che l'accompagna, fino a un punto fondamentale che affronta nel quarto capitolo: l'imperialismo.

Qui l'idea che politica ed economia si siano ormai fuse nel concetto puro di “capitale”, un capitale universale, viene rigettata con forza (e con essa le ideologie post-colonialiste) riprendendo un altro strumento fondamentale da tenere a portata di mano nella cassetta politica (anche se in apparenza economica) degli attrezzi: la nozione di “sviluppo ineguale”. L'autore non fa esplicito riferimento a Lenin qui (lo faceva altrove), ma a quegli autori, erroneamente chiamati da tanti marxisti “terzomondisti” che invece ponevano, e giustamente, l'accento sulla necessità, per l'accumulazione, di differenziali tra un “dentro” (il Centro) e un “fuori” (le Periferie).

Questa “dialettica differenziale” (chiamiamola così) interno-esterno (formulata in questo modo non dovrebbe generare fraintendimenti “terzomondisti”) è di fatto una replica di quella che è alla base dell'estrazione del plusvalore. Come quest'ultima, essa “funziona” fin quando le cose vanno per il loro verso, come direbbe Marx. Poi deve intervenire la forza extraeconomica.

Detto in altri termini, il processo politico, basato sulla violenza, della cosiddetta “accumulazione originaria” non è un episodio singolare nella Storia, ma un evento ricorsivo che investe varie dimensioni, da quella dei rapporti di classe a quella dei rapporti internazionali. E questa è una convinzione tipica della scuola del Sistema-Mondo a cui Giovanni Arrighi apparteneva (si veda anche la nozione di “accumulation by dispossession” di David Harvey). Nel libro di Formenti questa lettura non è formulata esplicitamente ma non di meno credo che la possiamo vedere con chiarezza.

Sempre nel quarto capitolo viene descritta la nascita dell'egemonia statunitense e la sua crisi, e il ruolo della “provincia Europa” nell'architettura della potenza egemone e in special modo il ruolo della UE.

Qui si potrebbe discutere sull'affermazione che lo scopo precipuo della UE e dell'Euro fosse quello di condurre agevolmente la lotta di classe dall'alto spronata dagli organismi internazionali controllati dagli USA (come l'FMI). Io ad esempio penso che in realtà l'Euro fosse inteso principalmente, almeno da alcuni importanti settori, come strumento per rispondere o resistere allo strapotere del Dollaro che con la finanziarizzazione reaganiana-thatcheriana rischiava di togliere aria al capitalismo europeo (che poi l'architettura dell'Euro si sia dovuta sottomettere al Dollaro – e al Marco – è un altro discorso, ma si ricordino gli attacchi al processo di costruzione della moneta unica, ad esempio allo SME, condotti a suon di speculazioni contro le monete partecipanti, condotti dagli Stati Uniti per boicottarne le velleità di indipendenza dal Dollaro).

In ogni caso è del tutto vero che la costruzione europea e dell'Euro non solo ha permesso di portare affondi devastanti contro le classi subalterne in termini sia economici che politici, ma questi affondi erano richiesti non solo dal mercantilismo tedesco ma proprio dal tentativo dell'Euro di rincorrere il Dollaro nella finanziarizzazione. Tentativo fallito perché esclusivamente economico, mentre la finanziarizzazione ha bisogno del sostegno del PdT, cioè della capacità di perseguire e imporre una strategia geopolitica.

Un'altra affermazione che per me è questionabile è che l'architettura di Bretton Woods – e in particolare il gold exchange standard – serviva a impedire l'emergere di potenze che potessero sfidare l'egemonia statunitense.

L'utilizzo di una valuta nazionale come valuta di scambio internazionale è intrinsecamente problematico (il cosiddetto “dilemma di Triffin” descrive la logica di questo problema). E il Dollaro non ha fatto eccezione: il gold exchange standard non durò nemmeno trent'anni.

C'è una parziale giustificazione storica nella scelta di Bretton Woods: gli Usa erano usciti dalla II Guerra Mondiale con una forza economica senza paragoni sia a livello di concentrazione dei mezzi di pagamento che di produttività e quindi il gold exchange standard (ovvero il gold-dollar exchange standard) poteva sembrare una scelta sensata e naturale nel 1944, non essendo disponibile un pool di monete sostenute da adeguate economie (cosa assolutamente falsa oggi).

Ad ogni modo, la conferenza di Bretton Woods era effettivamente guidata da principi politici e non economici (i banchieri privati nemmeno vi parteciparono e avrebbero voluto un gold standard), perché in essa agiva la convinzione di Roosevelt (che poi era la visione condivisa da tutti i Paesi almeno dalla fine della I Guerra Mondiale) secondo cui la politica doveva guidare l'economia. Tuttavia questo principio non aveva come obiettivo diretto quello d'impedire che emergessero competitor internazionali. Il competitor c'era, era l'URSS, ma era un competitor politico. E oltretutto Roosevelt aveva intenzione di associare l'URSS in un New Deal internazionale (progetto accantonato da Truman).

La dismissione del gold exchage standard (cioè il Nixon shock, che ebbe luogo mentre gli Usa stavano perdendo la guerra del Vietnam) accrebbe esponenzialmente il potere finanziario statunitense, tramite ciò che è stato chiamato Treasury-bill standard che era direttamente basato sulla potenza politica e militare americana4. Lungi dal far scomparire o spingere in secondo piano lo stato-nazione e i suoi meccanismi violenti di potere, come fu in seguito teorizzato da molta gauche abbagliata dal fenomeno della finanziarizzazione-globalizzazione, col Nixon shock il collaterale del Dollaro smise di essere l'oro ma solo per trasformarsi nell'uranio delle bombe atomiche, nell'esercito e nella marina degli Stati Uniti (più il predominio nell'innovazione e altri fattori più propriamente economici).

Il Nixon shock generò una lotta tra il PdD che morso dalla crisi di sovraccumulazione (impossibilità di investire i capitali accumulati in intraprese nell'economia reale sufficientemente redditizie) puntava alla finanziarizzazione e il PdT che voleva invece rilanciare l'accumulazione tramite una ripresa dell'economia reale (il famoso “Adesso siamo tutti keynesiani” di Nixon). La prima tendenza aveva come protagoniste ristrette élite, la seconda coinvolgeva (seppur in modo conflittuale, ma con una conflittualità tangibile) l'intera società. Un contrasto che permette di apprezzare la differenza tra la logica del PdD e quella del PdT.

Questa lotta finì con un nuovo patto d'alleanza tra i due poteri sancito dal Volcker shock: il PdT, dopo quasi un decennio di stag-flazione dovuta alle politiche “keynesiane” in condizioni che non consentivano però di ritornare ad adeguati livelli di estrazione di plusvalore, aveva infine deciso di sposare la finanziarizzazione. La finanziarizzazione doveva associarsi alla globalizzazione per estrarre plusvalore all'esterno dei circuiti centrali capitalistici e frenare così, assieme a un micidiale aumento sia estensivo che intensivo dello sfruttamento della forza-lavoro metropolitana, la comunque inevitabile divergenza tra l'accumulazione finanziaria e quella reale.

Fu allora, a mio avviso, che si affacciò il problema della supremazia del Dollaro in quanto baluardo all'emergere di competitor internazionali: quando il resto del mondo fu integrato nelle catene del valore in un ruolo diverso da quello classico di “periferia”, e specialmente quando lo furono enormi Paesi che erano al di fuori del raggio d'azione politico statunitense, come la Cina ma anche l'India, o che vi sfuggivano, come la Russia di Putin, o che maturavano la necessità di farlo, come il Brasile.

A parte questa precisazione, è forse oggi più utile politicamente discutere l'affermazione, fatta verso la fine del capitolo, che la provocazione in Ucraina è stata agevolata dalla cedevolezza dell'Europa (vero) ma che il conflitto con la Russia ha tuttavia un significato marginale rispetto a quello con la Cina (cosa che non credo).

Per me i due conflitti sono collegati. Una crisi sistemica agisce sul piano ideologico, sociale, politico, economico e militare, che sono le forze che, congiunte, permettono l'egemonia globale. In questo momento abbiamo una loro separazione: la supremazia militare è, già oggi, appannaggio della Russia mentre quella economica sta per diventare appannaggio della Cina. Per quanto riguarda la supremazia politica e ideologica io la vedo correntemente ripartita tra Stati Uniti, Cina e Russia (tenendo conto che politica e ideologia non si presentano in modo omogeneo a tutte le latitudini e quindi il confronto è difficile5).

Ricordo che sono stati Xi, il ministro degli esteri e quello della difesa cinesi ad andare recentemente a Mosca, e non viceversa. Perché? Perché la Russia ha risorse naturali e tecnologie militari che la Cina non possiede e che insieme all'appoggio politico e diplomatico del Cremlino formano un trittico indispensabile per il suo sviluppo economico e per affrontare la crescente pressione militare statunitense. Sarei quindi molto cauto a vedere nella Russia un “junior partner” della Cina e un obiettivo secondario degli Stati Uniti.

In realtà la Russia è stata trascinata nel conflitto militare perché è un ostacolo per l'attacco alla Cina.

Per contro la Russia capisce benissimo che la crescita della potenza economica cinese è uno dei pilastri portanti dello sgretolamento dell'impero Usa e della possibilità di un nuovo ordine multipolare.

Lo si è visto ad esempio nel rapprochement tra Arabia Saudita e Iran. Ora Riad vuole anche allacciare rapporti con Hezbollah. Il che vuol dire che lo sfruttamento yankee del contrasto tra sciiti e sunniti cesserebbe, che il Libano potrebbe tirare il fiato, che la Siria potrebbe tirare il fiato, che lo Yemen potrebbe tirare il fiato, cioè che milioni di uomini, donne e bambini potrebbero tirare il fiato, smetterla di essere massacrati, pensare a un futuro meno angoscioso. Una dimostrazione che l'asse eurasiatico Russia-Cina è in grado di portare ordine laddove l'Occidente collettivo è foriero di disordine.

 

4. Il capitolo finale del primo volume, il quinto, intitolato “I volti del nemico. La sinistra del capitale”, è una sacrosanta requisitoria contro la sinistra liberal.

Oltre al disincantato libertario Michéa, Carlo Formenti si avvale ancora di Costanzo Preve (odiatissimo dalla sinistra, anche sedicente “di classe”, fino al punto di tacciarlo di rossobrunismo – insulto corrente, lo stesso Formenti ne ha fatto le spese, e di rara imbecillità).

Io qui suggerirei di far leva sull'importante distinzione previana tra il “metron”, il limitato, e l'“aoriston”, l'illimitato, una distinzione che è coerente con la nozione di “doppio movimento” di Polanyi, ovvero il doppio movimento indotto dalla contraddizione tra società (metron) e mercato (aoriston) che in termini marxiani si ritrova nella contraddizione tra socializzazione e reificazione6. Questo doppio movimento s’intreccia con quello indotto dallo scambio politico tra Potere del Territorio e Potere del Denaro che produce complessi movimenti oscillatori della società capitalistica concreta, in avanti e all’indietro, verso il progresso o verso la conservazione, verso la liberalizzazione o verso la protezione, con predominio a volte della logica territorialistica e a volte di quella capitalistica. E si riscontra nella contraddizione posta da Braudel tra economia materiale ed economia capitalista.

È un punto che ritengo essenziale, perché è nel doppio movimento che bisogna cogliere la possibilità di rottura.

Tuttavia per sua stessa natura, il doppio movimento è foriero di confusioni ideologiche, sociali e politiche che devono via via essere chiarite quando si presentano.

Infatti il doppio movimento mette in azione spinte in avanti e ritorni all’indietro, modernizzazione e ritorni a fedeltà e ideologie persino premoderne, progresso e reazione, e si possono osservare continui cambiamenti di alleanze e commistioni tra gli agenti di questi processi7.

Ciò pone alla prassi politica un continuo problema di disambiguazione (non capendo il fenomeno del doppio movimento, la sinistra liberal e, purtroppo, anche non poca parte dei gauchisti, si trastullano per l'appunto con la comoda e inetta pseudo-categoria di “rossobrunismo”).

 

5. Per finire devo dire due cose sulle tesi di Raffaele Sciortino, il cui libro merita un'intera analisi a parte.

Intanto il lavoro di Sciortino è importante per vari motivi: a) la metodologia rigorosa, b) la mole di dati estratti grazie a questa metodologia e messi a disposizione in un quadro coerente, c) il continuo richiamo alla “testardaggine dei fatti” per frenare superficiali e pericolosi trionfalismi.

Qui, per confrontarlo con l'approccio di Formenti, devo però velocemente elencare solo alcuni punti critici.

Per prima cosa la geopolitica del Dollaro non può essere separata dalla geopolitica di potenza, pena appiattire il PdT sul PdD. Ad esempio, io prenderei molto con le pinze l'affermazione di Qiao Liang che “ciò che la Cina deve affrontare non è tanto l'egemonia militare [degli Usa], quanto quella finanziaria”.

Per fare un esempio, è vero che essere contemporaneamente i maggiori debitori mondiali e i maggiori clienti mondiali ha posto per lungo tempo gli Usa e la sua valuta in una situazione “inattaccabile” (tramite il Treasury-bill standard di cui si parlava prima). Tuttavia i Plaza Accords del 1985 (deprezzamento del Dollaro) e i Reverse Plaza Accords di dieci anni dopo (rafforzamento del Dollaro) furono imposti al Giappone e alla Germania mostrando più i muscoli di potenza vincitrice che quelli economici. In più, in una fase in cui gli Stati Uniti stanno perdendo il ruolo di maggiori acquirenti globali mentre mantengono quello di Paese super-indebitato, i muscoli militari diventano ancora più importanti.

Non solo, il passaggio dal made in China al made by China così pure, possiamo dire, al made for China, ha subito, e non può che ulteriormente subire, un forte impulso dai contrasti geopolitici, così come ha dimostrato la velocissima import substitution russa post 24 febbraio 2022, che non solo ha fatto crescere l'economia della Russia in modo inaspettato persino in campi che nessuno sospettava, come la produzione di computer, ma l'ha affrancata dall'Occidente collettivo.

In diversi settori la Russia è più avanti degli Usa e della Cina e a differenza di quest'ultima ha un'autonomia pressoché totale dall'Occidente in attività strategiche come la cantieristica e l'industria aerospaziale.

Inoltre il predominio finanziario mondiale degli Usa deve fare i conti con la natura della finanziarizzazione in Occidente che si fonda sulla crisi e la riproduce. La finanza occidentale, lungi da essere meramente una leva, è eminentemente speculazione. Ad esempio, secondo la Bank for International Settlements di Basilea il valore nozionale dei titoli derivati over-the-counter ammonta a 558,1 trilioni di dollari, con una stima totale di 1 quadrilione di dollari se si calcolano anche i contratti non-over the counter. La prima cifra, quella più bassa, equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021. In altre parole sono titoli fuffa, capitali fittizi “in senso stretto”.

L'ostilità nei confronti della Cina è a mio avviso anche dovuta alla presa d'atto che Pechino si rifiuta di compromettere la propria finanza con quella speculativa occidentale8.

È quindi contestabile che gli Usa siano egemoni non grazie alla loro posizione di forza ma perché sono “il soggetto capitalistico risultato nel corso storico più adeguato … a quello che il capitalismo è divenuto all'altezza di un mercato mondializzato” (Sciortino, cit. pag. 339). Erano il soggetto più adeguato nel mondo capitalistico del dopoguerra e in quello che nei tre primi decenni della crisi sistemica avevano forgiato a proprio uso e consumo per gestirla. Ma sono gli sviluppi della crisi che rendono questa egemonia sempre meno adeguata, fonte di caos e disordine.

Dove tutto si tiene, tutto si può sfasciare in breve tempo in un effetto domino. Ad esempio, il ritiro dal mercato dei titoli di stato Usa della Cina e di altre potenze economiche in ascesa, avrà come conseguenza che masse crescenti di capitali statunitensi dovranno essere impegnate per sostenere il debito sovrano. Questo vuol dire che non potranno essere impegnate in investimenti esteri. Non solo, ma per attrarre questi capitali i tassi dovranno essere sufficientemente alti (cosa che comunque non servirebbe ad attrarre i capitali cinesi se la decisione di disertare i titoli statunitensi è politica), con serie conseguenze sull'economia reale interna e sulla ricerca e sviluppo (e quindi anche sull'apparato militare), a meno di imporre limitazioni all'esportazione di capitali e agli investimenti esteri come succedeva negli anni di Kennedy in condizioni storiche però totalmente diverse.

Il punto generale è che nel momento che le grandi economie mondiali non occidentali si staccheranno dalle interazioni col capitale fittizio occidentale, a causa dell'attrazione geopolitica del blocco eurasiatico, la bolla finanziaria rischierà di esplodere. È un evento che finora i Cinesi hanno evitato che avvenisse, contando su un “atterraggio” il più possibile morbido, in uno sgonfiamento e non in uno scoppio. Ma cosa succederà se gli Usa porranno una minaccia esistenziale alla Cina, così come hanno fatto con la Russia? Ma a parte un conflitto diretto, basterebbe il perseverare in una politica di fatto di autoisolamento da parte dell'Occidente collettivo perché si innesti una reazione a catena devastante.

 

6. Dal punto di vista oggettivo la crisi sistemica è dovuta ai fini non sociali ma di classe dell'accumulazione capitalistica. E la gestione della crisi sistemica cozza contro i limiti dei rapporti sociali capitalistici anche in assenza di una resistenza di classe. Ma chiarito ciò, c'è una specifica aggravante, che ci riporta alla categoria di “scelta”, la cui importanza è sottolineata da Carlo Formenti: è la drammatica mancanza di visione strategica negli Stati Uniti governati dai neo-liberal-con, capaci esclusivamente di appoggiarsi su una ormai soltanto supposta posizione “insulare” (che i sottomarini atomici e i missili ipersonici russi hanno definitivamente annullato) e su una supposta capacità di muovere guerra a chiunque. In realtà non si capisce su cosa si basi questa fiducia, visto che dal 1945 sono sempre stati sconfitti, a volte da alcuni dei popoli più poveri della Terra, come i Vietnamiti degli anni '60 e '70 e gli Afgani nei due decenni scorsi, e che ovunque hanno incontrato enormi difficoltà: in Libia, in Iraq, in Siria i loro piani sono saltati: se quindi, come sosteneva von Clausewitz, una guerra si vince quando si costringe l'avversario a fare la nostra volontà, tutte quelle guerre gli Usa le hanno perse.

E ora, in Ucraina, la Nato sta fronteggiando una guerra di dimensioni che nemmeno si immaginava (parole del generale Christopher Cavoli, nuovo comandante della Nato in Europa: «The scale of this war is out of proportion with all of our recent thinking»). Una guerra di dimensioni inimmaginabili per gli Usa ma che per la Russia è solo un'Operazione Militare Speciale (niente grandi bombardamenti, forti restrizioni nelle azioni per preservare la vita dei civili, niente mobilitazione generale, niente stato di guerra, meno del 20% delle forze armate all'opera).

Credere o far finta di credere di essere invincibili militarmente come unica strategia è un'idiozia che dice tutto della catastrofica caratura politica e intellettuale degli attuali dirigenti statunitensi.

Ed è un'idiozia pericolosissima, perché gli Stati Uniti hanno la bomba atomica. E l'hanno già usata. Gli unici al mondo.

Una ripresa dell'iniziativa politica dal basso è una condizione imprescindibile per uscire da questa situazione di estremo pericolo e per evitare che si ripresenti. Su questo tutti gli autori che ho citato sono d'accordo. È necessario capire come suscitarla, quindi su che basi sociali e su quali obiettivi si può fondare. Ed è altresì necessario comprendere in che modo le contraddizioni mondiali che si sono aperte possono aiutare a farlo e dove possono invece ostacolarla.


Note
1 Le critiche di Onofrio Romano sono pertinenti. Tuttavia voglio richiamare l'attenzione sulla scarsa sistematicità del pensiero di Marx. Se una “logica” del rapporto sociale capitalistico emerge in modo evidente in “Per la critica” e nel primo libro del “Capitale” (e nei “Grundrisse”), al contrario il secondo volume del “Capitale” è occupato in larga parte da uno stadio superiore della “risalita al concreto”, popolato da leggi, commercio estero, intrallazzi bancari, crisi. Qui la logica implacabile del primo libro non appare. Nel terzo libro del “Capitale” essa sembra ricomparire nella formulazione della “legge” della caduta tendenziale del saggio di profitto dove, però, la controtendenza rimanda ad aspetti che superficialmente possiamo considerare contingenti, come il commercio estero. La logica del primo libro riappare in forma superba quando Marx deduce il sistema finanziario proprio dalla separazione tra “valore d'uso” e “valore di scambio” postulata nel Libro Primo. Tuttavia il cerchio si chiude solo apparentemente (e a questa apparenza contribuisce anche Marx, indubbiamente). Di nuovo, altri scritti e altri frammenti, come le “Glosse a Wagner”, “Le lotte di classe in Francia” o “Il 18 Brumaio”, per non parlare della lettera a Vera Zasulič, non permettono di parlare di un corpo sistematico marxiano dove Storia e Logica procedono di pari passo in modo coerente (una capacità, o meglio una possibilità sistematica la cui attribuzione a Marx viene definita “troppo onore e troppo torto” da Marx stesso).
2 G. Agamben: Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia. Torino, Einaudi, 2001.
3 Se non erro Lukács usa il termine “complessità dinamica”. Prendendo a prestito un termine matematico tratto dalla Teoria delle Categorie potrei suggerire il termine “fascio di relazioni”, dove un “fascio” si ha quando queste relazioni formano una particolare struttura (Nota: la Teoria delle Categorie ha una storia interessante di “utilizzo marxista” da parte del grande matematico statunitense William Lawvere recentemente scomparso).
4 Tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 gli Usa dovettero fronteggiare la sconfitta nel Vietnam e l'inconvertibilità del Dollaro in oro. Facilmente si sarebbe potuto pensare a una fine imminente dell'egemonia statunitense. Ma ciò non fu. Gli Usa dimostrarono di avere ancora formidabili carte da giocare e il Treasury-bill standard fu una sorta di capolavoro (i Paesi in surplus non potendo convertire i dollari in oro li convertivano in titoli del Tesoro statunitensi per evitarne la svalorizzazione. Con ciò finanziavano la Potenza che li ricattava e che comprava le loro merci a credito). Questo dovrebbe raccomandare prudenza nei giudizi, pur tenendo conto di due cose: la difficoltà oggi di utilizzare meccanismi simili e l'oggettivo scadimento culturale e intellettuale dei decisori statunitensi (e occidentali in generale).
5 Fino al 24 febbraio 2022 mi sentivo di sostenere che il predominio ideologico era appannaggio degli Stati Uniti. Tuttavia la guerra in Ucraina, i fondamentalismi ideologici liberal e la sguaiata russofobia che ha assunto forme inconcepibili persino durante le fasi più acute della Guerra Fredda, hanno iniziato a separare un predominio superficiale da un predominio profondo e fatto emergere il rifiuto di gran parte del mondo a farsi colonizzare ideologicamente dagli Stati Uniti. Gli estremismi della “cancel culture”, della “woke culture” della “gender theory” stanno isolando culturalmente gli Stati Uniti (e i suoi seguaci) e oltretutto stanno aprendo profonde ferite all'interno delle stesse società occidentali. Il perché questi eccessi (non approvati nemmeno da buona parte di quelle minoranze che dovrebbero teoricamente rappresentare) siano coltivati e appoggiati dall'élite liberal è un bel tema di studio.
6 Questa contraddizione si ripresenta in quella tra bisogni e desideri, tra umanesimo e nichilismo, tra essere sociale (o uomo in quanto ente generico, Gattungswesen, ζῷον πολιτικόν) e individuo astratto, tra etica e anti-etica.
7 Le lotte e le proteste contro il lockdown e il green pass sono quasi da manuale sotto questo profilo. Per contro, le accuse di rossobrunismo dimostrano un'assoluta incapacità di cogliere queste contraddizioni, una vera e propria imbecillità analitica e politica. E' d'obbligo allora ricordare la distinzione posta da Pier Paolo Pasolini tra “reazione prima” e “reazione seconda”:
«Mentre la reazione prima distrugge rivoluzionariamente (rispetto a se stessa) tutte le vecchie istituzioni sociali – famiglia, cultura, lingua, chiesa – la reazione seconda (di cui la prima temporaneamente si serve, per poter adempiersi al riparo della lotta diretta di classe), si dà da fare per difendere tali istituzioni dagli attacchi degli operai e degli intellettuali. È così che questi sono anni di falsa lotta, sui vecchi temi della restaurazione classica, in cui credono ancora sia i suoi portatori che i suoi oppositori. Mentre, alle spalle di tutti, la “vera” tradizione umanistica (non quella falsa dei ministeri, delle accademie, dei tribunali e delle scuole) viene distrutta dalla nuova cultura di massa e dal nuovo rapporto che la tecnologia ha istituito – con prospettive ormai secolari – tra prodotto e consumo; e la vecchia borghesia paleoindustriale sta cedendo il posto a una borghesia nuova che comprende sempre di più e più profondamente anche le classi operaie, tendendo finalmente alla identificazione di borghesia con umanità. Questo stato di cose viene accettato dalle sinistre: perché non c’è altra alternativa a tale accettazione che quella di restare fuori dal gioco. Di qui un generale ottimismo delle sinistre, un vitale tentativo di annettersi il nuovo mondo – totalmente diverso da ogni mondo precedente – creato dalla civiltà tecnologica. I gauchisti vanno ancora più avanti in tale illusione (protervi e trionfalistici come sono) attribuendo a tale nuova forma di storia creata dalla civiltà tecnologica, una potenzialità miracolosa di riscatto e di rigenerazione. Essi son convinti che questo piano diabolico della borghesia che tende a ridurre a sé l’intero universo, compresi gli operai, finirà col portare all’esplosione di un’entropia così costituita, e l’ultima scintilla della coscienza operaia sarà capace, allora, di far risorgere dalle sue ceneri quel mondo esploso (per sua propria colpa) in una sorta di palingenesi (vecchio sogno borghese-cristiano dei comunisti non operai). Tutti dunque fingono di non vedere (o forse non vedono realmente) qual è la vera, nuova reazione; e così tutti lottano contro la vecchia reazione che la maschera. » (“La prima, vera rivoluzione di destra”, Tempo illustrato, 1973).
8 Credo che il blocco dell'Ipo di Ant Group, e il silenziamento di Jack Ma, possano avere anche questa spiegazione (le domande da tutto il mondo per l'Ipo a fine ottobre 2020, cioè a pochi giorni dal blocco deciso dal governo cinese, ammontavano a 3mila miliardi di dollari, il PIL degli UK), oltre che il controllo politico sulla fintech, la regolamentazione, l'antitrust e la lotta politica interna.

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Franco Trondoli
Thursday, 01 June 2023 00:16
Cosa ne faranno delle loro popolazioni Cina, India, Asia in genere, Africa (colonizzata) ecc.??.
Essere in tanti può essere un vantaggio ma anche uno svantaggio. Dipende da quale punto di vista si vedono le questioni.
Il Capitalismo è uno in tutto il mondo. Merce, valore,denaro,lavoro (capitalistico),mercato (capitalistico).
C'è una lotta di potenze multiple per una nuova fase di dominio totale. Non ci sarà un mondo multipolare pacificato. Mi pare evidente.
Il multipolarismo è l'ideologia del caos delle potenze che sfidano gli Usa sul loro stesso terreno per sostituirli nel dominio mondiale.
Le popolazioni di tutto il mondo non hanno niente da guadagnare in ogni caso. Sarà una lunga transizione caotica. Facile a dirsi. Con la variabile Climatica in primo piano. Non è detto che il genere umano debba per forza continuare a vivere sulla terra. Anzi.
Manca la Filosofia. Questa sconosciuta. Bisogna farla finita con il finito e il possibile.
La Filosofia maggiore moderna ha portato avanti il progetto di dismissione della Filosofia stessa. I risultati sono sotto i nostri occhi. Ma in pochi li vedono. Le persone di talento devono occuparsi dell'infinito della Filosofia speculativa. I maestri, antichi e moderni ci sono, basta non seppellirli continuamente in un eterno ritorno sempre uguale a se stesso.
Spinoza, Nietzsche, Bergson, Whitehead, Deleuze. E anche qualche Italiano. Non è difficile trovarlo, basta avere la curiosità di cercarlo. Non rincorrere gli avvenimenti. Lasciarli andare per un po'. Visto che il filo che sbroglia la matassa per ora mi sembra che non venga trovato.
Scusate
Cordialmente
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