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sinistra

Alcune geniali intuizioni di Alberto Moravia nel romanzo La ciociara

di Eros Barone

Estetizzazione della guerra, critica sociale in bocca nazionalsocialista e antitesi ‘furbi-fessi’

11124083Alcuni romanzi contengono pagine di una forza così intensa e inaspettata che quando il lettore ci arriva, dopo deve fermarsi. Non può continuare a leggere, ma sente il bisogno di chiudere il libro, magari tenendo il segno con l’indice incastrato fra le pagine, respirare profondamente, ricacciare indietro le lacrime. Sono momenti di commozione potente che i grandi scrittori dosano con parsimonia e che sanno travolgere chi legge con l’autenticità della vita. La ciociara contiene più di un momento del genere.

Sandra Petrignani

La ciociara, romanzo pubblicato nel 1957 ma iniziato dieci anni prima e poi abbandonato, non solo rappresenta il momento più avanzato, marxista e comunista, della evoluzione ideologica e culturale di Alberto Moravia, ma fornisce anche la chiave per comprendere i diversi aspetti che caratterizzano, in quel periodo, l’opera dello scrittore. 1 L’argomento del libro è noto, grazie anche alla riduzione cinematografica di Vittorio De Sica e all’interpretazione di Sofia Loren (1960): vi si narra la storia di Cesira, una bottegaia romana – una ciociara sposa di un uomo molto più vecchio di lei e ben presto vedova – e di sua figlia Rosetta, entrambe sfollate durante l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale, come accadde anche allo stesso autore e ad Elsa Morante, allora sua moglie, nelle montagne vicino a Fondi, comune della provincia di Latina.

Le due donne vivono in quei mesi del 1943 i sacrifici, le ansie, le speranze e le illusioni di tutti coloro che aspettavano la pace e la liberazione, maturando nel contempo anche una nuova consapevolezza attraverso i quotidiani discorsi con un giovane intellettuale antifascista (il dialogato di questo romanzo è uno dei pregi più avvincenti della mossa scrittura moraviana). Michele Festa – questo è il nome dell’intellettuale – viene portato via e ucciso da una delle ultime pattuglie tedesche in ritirata e le due donne, finalmente liberate, s’imbattono in un reparto di marocchini che abusa di loro. Sennonché il trauma dello stupro, tanto più violento in quanto la giovinetta era del tutto semplice e ingenua, spinge Rosetta a perdere ogni pudore e a darsi a tutti gli uomini che incontra, finché, sulla strada del ritorno a Roma, un nuovo trauma (l’assassinio del suo ultimo amante) non le restituisce l’equilibrio perduto.

Rispetto al modo in cui aveva sviluppato in precedenza (ad esempio, negli Indifferenti, sua prima grande prova risalente al 1929) un tema che è centrale nella sua narrativa, la dialettica fra “normalità” e anormalità, nella Ciociara Moravia inquadra tale tema in modo diverso e fa coincidere la ‘normalità’ con un tipo di esistenza civile, che è poi quella del mondo in pace, anche se le rimangono tuti i limiti inerenti alla grettezza e ai contrastanti interessi degli uomini: limiti sempre rilevati dallo scrittore romano con l’esattezza implacabile del grande moralista. L’‘anormalità’ è invece la guerra, è la condizione umana durante i nove mesi di occupazione tedesca, quando il tessuto connettivo della società italiana sembra del tutto lacerato e disfatto e le basi stesse della convivenza civile – la legge, lo Stato, i diritti fondamentali del cittadino –vengono meno.

In questa dimensione storica reale, rispecchiata da Moravia con un’aderenza minuta ai particolari più vivi e insieme con un respiro universale nella rappresentazione di un dramma collettivo, i due termini di questa dialettica acquistano il significato di un’autentica contrapposizione di valori. L’aspirazione alla normalità – cioè l’aspirazione alla pace, il rifiuto delle gravi condizioni imposte dalla guerra - fa così venire in primo piano quanto di meglio c’è nel cuore degli uomini: la solidarietà con i propri simili, la resistenza sia pure passiva alla occupazione straniera, la difesa degli affetti e dei sentimenti fondamentali, i tanti esempi di piccoli eroismi e di atti di sacrificio e di abnegazione, e infine, nei migliori, la lotta consapevole per un mondo più giusto ed umano. La condizione della guerra scatena, invece, gli istinti bestiali non più controllati, consegna all’arbitrio e al capriccio la vita e la morte, calpesta l’onestà, fa trionfare la violenza, il furto, lo stupro.

Non meno significativo è l’altro personaggio, Michele Festa, il quale subordina i suoi interessi e le sue tendenze personali a quelli che egli considera imperativi ideali inderogabili. Da questo punto di vista, è giusto rilevare che Michele, con i suoi tratti utopistici ed ascetici, è l’unico eroe positivo di tutta la narrativa moraviana.

Passando dai personaggi all’ambiente, occorre invece rilevare che quest’ultimo è disgregato e corrotto. In questo caso, però, la disgregazione non nasce da una scelta dello scrittore, ma corrisponde ad un’esperienza storica reale e generale. Infatti, il degradarsi e disgregarsi della società non è descritto con compiacenza e Moravia non reagisce, come in altri casi, tutt’al più con una sensazione di disgusto, ma, nella lotta fra i princìpi e il loro corrompersi nel carattere liminare delle vicende, egli si schiera con i primi, che, attraverso la prova della sofferenza, finiscono col trionfare. Quando, rispetto alla fenomenologia della decadenza, del vizio e della corruzione che occupa il proscenio della narrativa di questo grande scrittore e si esplica attraverso l’analisi spietata della amoralità e immoralità della società borghese, sale in primo piano un autentico desiderio di normalità, una nostalgia dei sentimenti semplici e veri, allora emerge il filone più nascosto della sua arte, che si caratterizza, rispetto agli altri filoni pur presenti e ad esso intrecciati, per la dimensione storica e conferisce al suo dettato la massima concretezza e organicità. È questo il caso dei due episodi che ho trascelto.

Il primo è incentrato sul dialogo tra un giovane tenente tedesco, apologeta estetizzante della guerra di sterminio e colto conoscitore della realtà del nostro paese, e un avvocato italiano, ricco e tremebondo proprietario liberale e verbalmente antifascista (laddove il dialogo è visto e descritto, come in tutto il romanzo, dalla voce narrante della “ciociara”). L’incalzante polemica condotta dal giovane tenente smaschera la sostanziale coincidenza di interessi economici che contrassegna le classi proprietarie di là dalle contrapposte opzioni politico-ideologiche.

Davvero straordinaria è l’intuizione che conduce Moravia, precorrendo moduli interpretativi storiografici che intorno a tale problematica saranno sviluppati alcuni decenni dopo, ad incarnare nel tenente tedesco una critica sociale che ricalca, nella sua articolazione concettuale, l’analisi marxista del nazismo e pone in luce, dal punto di vista di un capitalismo più avanzato e di una “socialdemocrazia totalitaria”, le differenze rispetto al fascismo (laddove è doveroso rammentare che tale analisi fu elaborata da certe correnti comuniste: si pensi in particolare all’interpretazione sviluppata da Amadeo Bordiga). Sta di fatto che, quale che sia la fonte da cui Moravia, uomo di larghe ed articolate letture, ha eventualmente mutuato il suo approccio interpretativo e pur considerando il carattere demagogico dello sfruttamento del tema delle disuguaglianze sociali nell’ideologia nazista, la demistificazione della falsa antitesi tra fascismo e antifascismo a livello del ceto proprietario ha il sapore della realtà vissuta e resta fortemente impressa nella memoria di chi legge. 2

Altrettanto significativa, dal punto di vista della fenomenologia di un certo senso comune assai diffuso ancor oggi nel nostro paese, è l’antitesi ‘furbi-fessi’ che sta al centro di un episodio narrato da Moravia nel terzo capitolo del romanzo: il capitolo in cui Filippo Festa, padre di Michele, espone la sua filosofia, che è la tipica filosofia del negoziante. La reazione di Michele, animata da un’ispirazione nobile ma ancora impigliata nella pania di un’astratta intransigenza moralistica, determina così la contro-reazione del padre, il quale ha buon gioco nel sottolineare che la possibilità che Michele ha di una rivolta netta e tagliente, dipende, in ultima analisi, dalla furbizia del padre, è condizionata, di fatto, proprio da quella filosofia. Insomma, come lo scrittore ci fa capire con un rigore dialettico impietoso, quello di Michele, che fa professione di idealismo, è un lusso, e fiorisce su un terreno di aperta corruzione. Sennonché, in questo caso, la contraddizione è nelle cose stesse, e non si pone come una malattia dell’anima: procede direttamente dalla realtà storico-sociale, la rispecchia con icasticità sino in fondo, e affiora infine nella stessa coscienza dei personaggi, di Michele non meno che di Filippo. Così, nel settimo capitolo, quando Michele accusa il padre di non pensare ad altro che a mangiare, e gli dà del porco, la situazione si ripete con eguale intensità e viene rappresentata dall’autore, ancora una volta, con l’obiettività lucida e severa del grande realista.

* * * *

Siccome non si vedevano i tedeschi da nessuna parte, Michele propose di andare da certi suoi conoscenti che gli risultava che si erano rifugiati in una baracca, tra gli aranceti. Disse che era brava gente.... Così, dopo un poco, lasciammo la strada maestra e ci inoltrammo per un sentierucolo, tra i giardini. Michele ci disse che tutti quegli aranci partenevano alla persona da cui ci recavamo, un avvocato scapolo, il quale viveva con la vecchia madre. Camminammo forse dieci minuti e alla fine sbucammo in una piccola radura, davanti una baracchetta da niente, con le pareti di mattoni e il tetto di bandone ondulato. La baracca aveva due finestre e una porta. Michele si avvicinò ad una delle finestre, guardò, disse che i padroni c’erano e picchiò due volte. Aspettammo un pezzo e alla fine la porta si aprì lentamente e come malvolentieri e l’avvocato apparve sulla soglia. Era un uomo sui cinquant’anni, corpacciuto, calvo, con la fronte pallida e lucida come l’avorio circondata di tanti capelli neri tutti arruffati, gli occhi acquosi e un po’ a fior di pelle, il naso a becco, la bocca molle e ripiegata sul mento grasso....Vedendoci, lo notai subito, ci rimase male; però si riprese subito e gettò le braccia al collo a Michele, con una cordialità persino eccessiva.... Michele ci presentò e lui ci salutò a distanza, con impaccio e quasi con freddezza. Intanto, però, restavamo sulla soglia e lui non ci invitava ad entrare. Michele allora disse: «Passavamo di qua e allora abbiamo pensato di farle una visita». L’avvocato rispose, come trasalendo: «Ma bravi... beh, stavamo appunto mettendoci a tavola... venite anche voi, mangerete con noi». Esitò e poi soggiunse: «Michele, ti avverto... siccome conosco i tuoi sentimenti che del resto sono anche i miei... Ho invitato il tenente tedesco che comanda la batteria antiaerea qua accanto... dovevo farlo... eh, purtroppo di questi tempi...». Così, scusandosi e sospirando, ci introdusse nella baracca. Una tavola tonda era apparecchiata presso la finestra ed era la sola cosa pulita e in ordine della stanza; per il resto non si vedevano che cianfrusaglie, mucchi di stracci, cataste di libri, valigie e casse ammonticchiate. Alla tavola stavano già seduti la madre dell’avvocato, una signora anziana, piccola, vestita di nero, con la faccia grinzosa e apprensiva, come di scimmietta impaurita, e il tenente nazista, un biondino magro, piatto come un foglio di carta nella divisa attillata, con certe gambe lunghe in pantaloni da cavallerizzo e stivali, che lui stendeva sanfason qua e là sotto la tavola. Pareva un cane e ci aveva il viso di un cane: tutto naso, gli occhi quasi gialli ravvicinati, senza ciglia né sopracciglia, con l’espressione pronta e ostile, la bocca grande e tirata indietro. Cortese e compito, si levò in piedi e ci salutò battendo i tacchi; ma non strinse la mano a nessuno e si risedette di colpo, come per dire: «Non lo faccio per voi ma lo faccio perché sono una persona educata». L’avvocato, intanto, spiegava che il tenente era addetto alle batterie antiaeree, cosa che noi già sapevamo; e che quel pranzo era un pranzo di buon vicinato. «E speriamo – concluse l’avvocato – che presto la guerra finisca e il tenente possa invitarci a casa sua, in Germania». Il tenente non diceva nulla, non sorrise neppure; e io pensai che non sapesse la nostra lingua e non avesse capito. Ma poi, ad un tratto, disse in buon italiano: «Grazie, non bevo aperitivi», alla madre che con voce lamentosa gli offriva un vermut. E capii, allora, non so perché, che lui non sorrideva perché, per qualche suo motivo, ce l’aveva con l’avvocato.

[...]

Intanto la madre dell’avvocato, spaurita, tremante, apprensiva, andava e veniva dalla cucina portando i piatti con le due mani, manco fossero stati il Sacramento. Mise in tavola dell’affettato, salame e prosciutto, del pane a cassetta tedesco...e poi una minestra di vero brodo, con i tagliolini e, alla fine, un grosso pollo lesso con un contorno di sottaceti. Mise anche in tavola una bottiglia di vino rosso, di buona qualità. Si vedeva che l’avvocato e sua madre avevano fatto uno sforzo per quel giovanottello tedesco il quale adesso, con la sua batteria, era loro vicino e perciò gli conveniva tenerselo buono. Ma il tenente ci aveva davvero un brutto carattere perché, per prima cosa, indicò il pane a cassetta e domandò: «Potrei chiederle, signor avvocato, come ha fatto lei a procurarsi questo pane?». L’avvocato...rispose con voce con voce esitante e scherzosa: «Beh, un regalo, un soldato l’ha regalato a noi e noi abbiamo fatto un regalo a lui... si sa, in tempo di guerra... ». «Uno scambio – disse l’altro, spietato – è proibito... e chi era questo soldato?». «Eh, eh, tenente, si dice il peccato e non il peccatore... provi questo prosciutto, questo non è tedesco, è nostrano». Il tenente non disse nulla e incominciò a mangiare il prosciutto.

Dopo l’avvocato, il tenente rivolse ad un tratto la sua attenzione verso Michele. Gli domandò, così a bruciapelo, quale fosse la sua professione; e Michele rispose senza esitare che era professore e insegnava. «Insegnante di che?». «Di letteratura italiana». Il tenente, con meraviglia dell’avvocato, disse allora tranquillamente: «Conosco la vostra letteratura... Ho persino tradotto in tedesco un romanzo italiano». «Quale?». Il tenente disse il nome dell’autore e il titolo, ora non ricordo né l’uno né l’altro; e potei vedere che Michele, il quale fin’allora, non aveva mostrato alcun interesse per il tenente, adesso pareva incuriosito; e che l’avvocato, vedendo che il tenente parlava a Michele quasi con una specie di considerazione, come da pari a pari, aveva cambiato anche lui di atteggiamento: pareva contento di aver Michele a tavola, arrivò persino a dire al tenente: «Eh, il nostro Festa è un letterato... un letterato di valore», battendogli una mano sulla spalla. Ma il tenente sembrava farsi un punto d’onore nel non occuparsi dell’avvocato, che pure era il padrone di casa e l’aveva invitato. E proseguì, rivolto a Michele: «Sono vissuto per due anni a Roma e ho studiato la vostra lingua... personalmente mi occupo di filosofia». L’avvocato cercò di intrufolarsi nella conversazione, dicendo, scherzoso: «Allora lei capirà perché noialtri italiani prendiamo tutto quello che ci è successo in questi ultimi tempi, con filosofia...». Ma ancora una volta il tenente neppure lo guardò. Adesso parlava fitto fitto con Michele, facendo una quantità di nomi di scrittori e di titoli di libri, si vedeva che conosceva bene la letteratura e mi accorgevo che Michele, quasi suo malgrado e come con avarizia, pian piano cedeva ad un sentimento se non proprio di stima, per lo meno di curiosità. Andarono avanti così per un poco e poi, non so come, si venne a parlare della guerra e di quello che può essere la guerra per un uomo di lettere o un filosofo; e il tenente, dopo aver osservato che era un’esperienza importante, anzi necessaria, se ne venne fuori con questa frase: «Ma la sensazione più nuova e anche più estetica», ripeto questa parola “estetica”, sebbene sul momento non la capissi, perché tutta quella frase mi è rimasta impressa nella memoria come con il fuoco, «l’ho provata durante la campagna dei Balcani e sa lei, signor professore, in che modo? Ripulendo una caverna piena di soldati nemici con il lanciafiamme». Questa frase l’aveva appena proferita che rimanemmo tutti e quattro, Rosetta, io, l’avvocato e sua madre, come di sasso. Dopo ho pensato che forse era una vanteria e ho sperato che non l’avesse mai fatto e non fosse vero: aveva bevuto qualche bicchiere di vino, il viso gli si era arrossato e gli occhi erano un po’ lustri; ma lì per lì sentii il mio cuore sprofondare e mi gelai tutta. Guardai gli altri. Rosetta teneva gli occhi bassi, la madre dell’avvocato, dal nervoso, rimetteva a posto, con mani tremanti, una piega della tovaglia; l’avvocato aveva fatto come la tartaruga, si era ritirato con la testa dentro il cappotto. Soltanto Michele guardava al tenente con occhi spalancati; quindi disse: «Interessante, non c’è che dire, interessante... e ancor più nuova ed estetica, suppongo, sarà la sensazione dell’aviatore che sgancia le bombe su un villaggio e, dopo che è passato, dove c’erano le case non c’è più che una macchia di polvere». Il tenente, però, non era così scemo da non accorgersi che la frase di Michele era ironica. Disse, dopo un momento: «La guerra è un’esperienza insostituibile, senza la quale un uomo non può dirsi un uomo... e, a proposito, signor professore, come mai lei si trova qui e non al fronte?». Michele domandò di rimando, con semplicità: «Quale fronte?»; e, strano a dirsi, il tenente questa volta non disse nulla, si limitò a lanciargli una brutta occhiata e poi ritornò al suo piatto.

Ma non era contento, si vedeva lontano un miglio che si rendeva conto di avere intorno a sé persone se non proprio ostili, per lo meno non amiche. Così, tutto ad un tratto, lasciò stare Michele che forse non gli sembrava abbastanza impaurito e attaccò di nuovo l’avvocato. «Caro signor avvocato – disse di punto in bianco indicando la tavola – lei nuota nell’abbondanza, mentre, in generale, tutti qui intorno crepano di fame... e come ha fatto lei a procurarsi tanta buona roba?». L’avvocato e sua madre si scambiarono un’occhiata significativa, spaurita e apprensiva quella della madre, rassicurante quella dell’avvocato, quindi quest’ultimo disse: «Le assicuro che gli altri giorni non mangiamo davvero in questo modo... l’abbiamo fatto per fare onore a lei». Il tenente tacque un momento e quindi domandò: «lei è proprietario, qui, in questa valle, non è vero?». «Sì, in certo modo, sì». «In certo modo? Mi dicono che lei possiede metà della valle». «Oh, no, caro tenente, chi gliel’ha detto doveva essere un bugiardo o un invidioso o tutti e due... posseggo alcuni giardini... noi chiamiamo giardini questi bei boschetti di aranci». «Mi dicono che questi cosiddetti giardini rendono moltissimo... lei è un uomo ricco». «Beh, signor tenente, proprio ricco, no... vivo del mio». «E lei sa come vivono i suoi contadini, qui intorno?». L’avvocato che ormai aveva capito la piega che aveva preso il discorso, rispose con dignità: «Vivono bene... qui in questa valle sono tra quelli che vivono meglio». Il tenente che in quel momento stava tagliandosi un pezzo di pollo, disse senza sorridere, puntando il coltello in direzione dell’avvocato: «Se questi vivono bene, figuriamoci come vivono quelli che vivono male. Li ho visti i suoi contadini come vivono. Vivono come bestie, in case che sembrano stalle, mangiando come bestie e vestendosi di stracci. Nessun contadino, in Germania, vive così. Noi in Germania ci vergogneremmo di far vivere i nostri contadini in questo modo». L’avvocato, anche per far piacere alla madre che lo saettava di sguardi supplichevoli come per dire: «Non dargli spago, sta’ zitto», si strinse nelle spalle e non disse nulla. Il tenente però insistette: «Che dice, caro avvocato, di tutto questo, che ha da rispondermi?». L’avvocato questa volta disse: «Sono loro che vogliono vivere in questo modo, gliel’assicuro, tenente... lei non li conosce». Ma il tenente, duro: «No, siete voi, i proprietari, che volete che i contadini vivano in questo modo. Tutto dipende da questo», e si toccò il capo, «dalla testa. Voi siete la testa dell’Italia ed è colpa vostra se i contadini vivono come bestie». L’avvocato adesso pareva proprio spaventato e mangiava con uno sforzo che si vedeva, facendo con la gola un movimento ad ogni boccone, come i polli quando ingozzano in fretta. La madre aveva un’espressione del tutto smarrita e la vidi, di nascosto, giungere le mani in grembo, sotto la tovaglia: pregava e si raccomandava a Dio. Il tenente proseguì: «Io conoscevo un tempo soltanto alcune città dell’Italia, le più belle, e in queste città non conoscevo che i monumenti. Ma adesso, grazie alla guerra, l’ho conosciuto a fondo il vostro paese, l’ho percorso tutto, in lungo e in largo. E sa lei, egregio avvocato, che cosa le dico? Che voi avete delle differenze tra classe e classe che sono addirittura uno scandalo». L’avvocato rimase zitto; però fece un movimento con le spalle come per dire: «E che posso farci, io?». Il tenente se ne accorse e saltò su: «No, caro signore, la cosa riguarda lei come tutti gli altri che sono come lei, avvocati, ingegneri, medici, professori, intellettuali. Noialtri tedeschi, per esempio, siamo rimasti indignati per le differenze enormi che ci sono tra gli ufficiali e i soldati italiani: gli ufficiali sono coperti di galloni, vestono con stoffe speciali, mangiano cibi speciali, hanno in tutto e per tutto un trattamento speciale, privilegiato. I soldati sono vestiti di stracci, mangiano come bestie, sono trattati come bestie. Che ha da dire, caro signor avvocato, su tutto questo?». L’avvocato, questa volta, parlò: «Ho da dire che sarà anche vero. E che sono il primo a deplorarlo. Ma che posso farci io, da solo?». E l’altro, tignoso: «No, caro signore, lei non deve dire questo. La cosa la riguarda direttamente e se lei e tutti coloro che sono come lei volessero veramente che questa situazione cambiasse, ebbene cambierebbe. Lo sa lei perché l’Italia ha perduto la guerra e adesso noialtri tedeschi dobbiamo sprecare dei soldati preziosi sul fronte italiano? Proprio per questa differenza tra i soldati e gli ufficiali, tra il popolo e voialtri signori della classe dirigente. I soldati italiani non combattono perché pensano che questa guerra sia la vostra guerra, non la loro. E vi dimostrano la loro ostilità appunto non combattendo. Che ha da dire, egregio avvocato, su tutto questo?». L’avvocato, forse per la gran stizza, questa volta riuscì a superare la paura e disse: «È vero, questa guerra il popolo non l’ha voluta. Ma neppure io. Questa guerra c’è stata imposta dal governo fascista. E il governo fascista non è il mio governo, di questo lei può stare sicuro». Ma l’altro, alzando un poco la voce: «No, caro signore, troppo comodo. Questo governo è il suo governo». «Il mio governo? Lei vuole scherzare, tenente». La madre intervenne a questo punto: «Francesco, per carità... per l’amor di Dio». Il tenente insistette: «Sì, il suo governo, ne vuole la prova?». «Ma quale prova?. «Io so tutto di lei, caro signore, so per esempio che lei è un antifascista, un liberale. Però, lei, in questa valle, non se la fa con i contadini o gli operai, lei se la fa con il segretario del fascio... ebbene, che ne dice?». L’avvocato si strinse una volta di più nelle spalle: «Intanto non sono antifascista né liberale, io non mi occupo di politica e bado ai fatti miei... E poi che c’entra, con il segretario del fascio io ci andavo a scuola, siamo persino un po’ parenti per via di mia sorella che ha sposato un suo cugino... voialtri tedeschi certe cose non potete capirle... Non conoscete abbastanza bene l’Italia». «No, caro signore, questa è una prova bella e buona... voialtri fascisti e antifascisti siete tutti legati gli uni agli altri perché siete tutti quanti della stessa classe... e questo governo è il governo di tutti quanti voialtri fascisti e antifascisti perché è il governo della vostra classe... eh, caro signore, i fatti parlano e il resto sono chiacchiere». Il sudore adesso imperlava la fronte all’avvocato, benché nella baracca ci facesse freddo; la madre, non sapendo più che fare, si era alzata, tutta smarrita, dicendo con voce tremante. «Adesso vado a preparare un buon caffè» ed era scomparsa in cucina. Il tenente, intanto, diceva: «Io non sono come la maggior parte dei miei compatrioti che sono tanto stupidi con voialtri italiani... loro amano l’Italia perché ci sono tanti bei monumenti e perché i paesaggi dell’Italia sono i più belli del mondo... oppure trovano un italiano che parla tedesco e si commuovono sentendo parlare la loro lingua... oppure ancora gli viene offerto un buon pranzo come lei oggi l’ha offerto a me e diventano amici sulla bottiglia. Io non sono come questi tedeschi stupidi e ingenui. Io vedo le cose come stanno e gliele dico in faccia, caro signore». Allora, non so perché, forse perché quel povero avvocato mi faceva compassione, dissi ad un tratto, quasi senza riflettere: «Lei lo sa perché l’avvocato le ha offerto questo pranzo?». «Perché?». «Perché voialtri tedeschi fate paura a tutti e tutti hanno paura di voi e allora lui ha cercato di rabbonirla come si fa appunto con una bestia feroce, dandole qualcosa di buono da mangiare». Strano a dirsi, lui fece un viso, un istante soltanto, quasi triste e amareggiato: a nessuno, neppure a un tedesco, fa piacere sentirsi dire che fa paura e che la gente è gentile con lui soltanto perché ha paura. L’avvocato, atterrito, cercò di riparare, intervenendo: «Tenente, non dia retta a questa donna... è una persona semplice, certe cose non le capisce». Ma il tenente gli fece cenno di star zitto e domandò: «E perché mai noi tedeschi facciamo paura? non siamo uomini come tutti gli altri?». Io, ormai lanciata, stavo per rispondergli: «No, un uomo che è un uomo, ossia un cristiano, non trova piacere a ripulire, come lei ha detto poco fa, una caverna piena di soldati vivi con il lanciafiamme»; ma per fortuna, perché non so quello che poi avrebbe potuto succedere, non ne ebbi il tempo, perché tutto ad un tratto, dalla valle si levò un fracasso di spari sparsi e secchi, come dell’antiaerea, alternati, però, ai botti più cupi delle bombe che cascavano. Nello stesso tempo l’aria si riempiva di un rombo lontano che andava facendosi sempre più vicino e più distinto. Il tenente subito scattò in piedi, esclamando: «Gli aeroplani... debbo correre alla mia batteria», e rovesciando seggiole e quanto si trovava sul suo passaggio, uscì di corsa. 3

* * * *

«Lo sapete che cosa vorrei scrivere nel mio negozio, sopra la cassa: ‘cca’ nisciuno è fesso’. Lo dicono a Napoli ma lo diciamo anche noialtri, qui, ed è la pura verità. Io non sono fesso e non lo sarò mai perché a questo mondo non ci sono che due categorie di persone: i fessi e i furbi; e nessuno che lo sappia vorrà mai appartenere alla prima categoria. Tutto sta a saperle, certe cose, tutto sta a tenere gli occhi bene aperti. I fessi sono quelli che credono a quello che c’è scritto nei giornali e pagano le tasse e vanno in guerra e magari ci rimettono al pelle. I furbi, eh eh, i furbi sono il contrario, ecco tutto. [...] Date retta, i governi vanno e vengono e fanno le guerre sulla pelle della povera gente e poi fanno la pace e poi fanno quello che gli pare, ma la sola cosa che conta e non cambia mai è il negozio. Vengano i tedeschi, vengano gli inglesi, vengano i russi, quello che per noialtri negozianti deve contare soprattutto è pur sempre il negozio e se il negozio va bene, tutto va bene.

[...]

Ecco, tutto ad un tratto, il figlio di Filippo alzarsi di botto e dire, con la faccia scura: «Nessuno è fesso qui, fuorché me. Io sono fesso».

[...]

Filippo, alzando la voce, gridò: «Tu puoi fare il fesso perché in casa ci sono io a fare il furbo». Qualcuno osservò: «È proprio vero: Filippo lavora e fa i soldi e il figlio intanto passa il tempo a leggere i libri e a darsi delle arie». Ma Filippo che, in fondo, sembrava fiero di questo suo figlio così diverso da lui e così istruito, soggiunse, dopo un momento, levando la punta del naso dal bicchiere: «Intendiamoci, però; mio figlio, veramente, è un idealista... ma di questi tempi che è un idealista? Un fesso. Magari non per colpa sua, magari per forza, ma un fesso». 4

[...]

Filippo ci rimase male a sentirsi dare del porco da suo figlio, diventò tutto rosso e disse con forza: «Tu non rispetti i tuoi genitori». E Michele: «Non soltanto non li rispetto, ma me ne vergogno». Filippo rimase di nuovo sconcertato da questo tono così duro e intransigente e si limitò ad osservare, più calmo: «Se tu non avessi avuto un padre che pagava, tu gli studi non li avresti fatti e non potresti adesso vergognarti di noi... mea culpa». A queste parole, Michele restò un momento silenzioso e poi disse: «Hai ragione tu... ho fatto male ad ascoltarvi... d’ora in poi mi terrò lontano e voi parlerete quando vorrete di roba da mangiare». Filippo, allora, disse, conciliante e quasi commosso, perché era forse la prima volta, da quando eravamo lassù, che il figlio gli dava ragione: «Se vuoi, parliamo d’altro... hai ragione tu, che bisogno c’è di parlare di roba da mangiare?... parliamo d’altro». Ma Michele, d’improvviso, montò in collera e, rivoltandosi come una vipera, gridò: «Va bene e di che parleremo? Di quello che faremo quando saranno arrivati gli inglesi? Dell’abbondanza? Del negozio? Della roba che ha rubato il personale? Di che parleremo, eh?». Questa volta Filippo ammutolì perché quelle e poche altre simili erano appunto le cose di cui lui poteva parlare e Michele le aveva dette quasi tutte e non c’era altro che a lui potesse venire in mente. 5


Riferimenti critico-bibliografici essenziali
E. De Michelis, Introduzione a Moravia, La Nuova Italia, Firenze 1954
A. Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, a cura di N. Ajello, Laterza, Roma-Bari 1978
A. Moravia – A. Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990
M. Onofri, Tre scrittori borghesi: Soldati, Moravia, Piovene , Gaffi, Roma 2007
R. Paris, Alberto Moravia, La Nuova Italia, Scandicci, 1991
C. Salinari, Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967
E. Sanguineti, Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962
E. Siciliano, Alberto Moravia , Marzorati, Milano 1990
Pasquale Voza, Moravia, Palumbo, Palermo 1997

Note
1 Personalmente condivido il giudizio di chi si è spinto ad affermare che Moravia sia, dopo Boccaccio, il più grande narratore italiano. La ‘damnatio memoriae’ di questo autore è un capitolo significativo, per un verso, della reazione culturale ed artistica contro il realismo di cui egli è stato un insigne e riconosciuto maestro, e, per un altro verso, della reazione anticomunista ed antimarxista rappresentata, non solo negli ambienti intellettuali ma in tutta la società, dal “lungo Termidoro” che è succeduto al dissolvimento dell’Unione Sovietica, di buona parte del campo socialista e dei partiti comunisti ad esso afferenti.
2 Mi permetto di allegare, a questo proposito, una testimonianza tratta dalle memorie di una famiglia umbra, quella di mia madre, che fu coinvolta, vivendo presso l’aeroporto militare di Castiglione del Lago, nel passaggio del fronte, tra la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli anglo-americani. Gli ufficiali tedeschi, nelle conversazioni con i miei nonni e con mia madre, spesso sottolineavano, ovviamente senza l’acredine del personaggio moraviano, la notevole differenza tra le condizioni di vita dei contadini italiani e quelle dei contadini e, in generale, dei lavoratori tedeschi.
3 A. Moravia, La Ciociara, Bompiani, Milano 1966, pp. 235-245.
4 Ibidem, pp. 93-96.
5 Ibidem, pp. 259-260.

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