La libertà dell’animo tradita: un dialogo con Schiller
di Lorenzo Graziani
Molti filosofi contemporanei si sono interrogati sulle ragioni del nostro strano comportamento nei confronti delle opere d’arte che suscitano emozioni negative come tristezza, rabbia o paura. Se nella vita quotidiana tendiamo a evitare queste emozioni, perché invece le cerchiamo nell’arte?[1] Questa apparente contraddizione è stata chiamata paradosso della tragedia – una formula che dice molto più sulla nostra difficoltà a capire il tragico che sul tragico stesso. Forse è davvero arduo spiegare il fascino di opere soltanto tristi o spaventose senza invocare una presunta attrazione per il negativo.[2] Ma nel caso della tragedia – almeno un tempo – il fascino nasceva altrove. Perché un’opera sia davvero tragica, infatti, non basta che rappresenti un’umanità sofferente: deve anche offrire un guadagno cognitivo sul dolore.
Questo processo, probabilmente, era piuttosto evidente per i Greci, tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni. La nozione stessa di catarsi pone ancora oggi non pochi problemi interpretativi, forse proprio perché Aristotele le dedica solo poche e rapide parole, dando evidentemente per scontata una dinamica che per lui e i suoi contemporanei doveva risultare immediata. Iniziava a non essere più così evidente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, periodo in cui gli scritti di Hölderlin e Schiller tornano più volte proprio su questo tema. Ma quella fu anche l’ultima stagione in cui quello che sarà poi chiamato paradosso della tragedia è stato affrontato in termini propriamente tragici.
Tragico è l’uomo libero
È proprio Schiller, in due brevi ma densissimi testi – Sul patetico e Sul sublime – a offrirci forse la riflessione più lucida su questo tema. L’artista tragico utilizza il pathos per suscitare nel pubblico un sentimento sublime, una “sintesi tra un senso di pena […] e un senso di letizia”.[3] Poiché un medesimo oggetto non può provocare emozioni opposte, Schiller interpreta questa ambivalenza come la prova dell’esistenza, in noi, di due nature distinte: una sensibile e una razionale.
La prima è legata all’istinto e alla “necessità fisica”, mentre la seconda ci distingue dagli animali e mostra la nostra capacità di elevarci al di sopra del piano sensibile. Quando tutto scorre serenamente e il mondo ci premia con il benessere, la componente razionale rimane invisibile. È solo nella sofferenza, quando la parte sensibile vacilla, che la parte razionale può emergere in tutta la sua forza. Così, nel sentimento sublime che nasce dal patetico, è la nostra natura sensibile a provare un senso di pena, mentre quella razionale sperimenta un senso di letizia, perché si riconosce capace di dominare l’istinto e di non lasciarsene sopraffare.
L’eroe tragico, infatti, non è colui che si lascia travolgere dagli eventi, ma colui che accoglie il proprio destino con dignità. Se, al culmine del dolore, resta fedele a ciò in cui crede, la sua condotta diventa prova concreta dell’indipendenza dell’essere umano dalla necessità materiale: il fatto che la natura colpisca i nostri corpi non ci costringe ad abdicare ai nostri principi. Ecco, dunque, la radice della nostra ambivalenza emotiva di fronte alla tragedia: essa rappresenta un’umanità ferita, ma attraversata da una forza che ne rivela la libertà – una libertà che nasce dal fatto che l’uomo, pur essendo parte della natura, non è interamente determinato dalle sue leggi.
Questo, tuttavia, non significa che l’eroe tragico debba essere considerato una figura “buona” nel senso comune del termine. La sua grandezza non sta nella bontà morale delle sue azioni, ma nel fatto che, opponendosi agli impulsi e alle leggi della natura sensibile, egli dimostra la libertà dell’essere umano. In tal senso, il pathos tragico non è morale in sé, ma è ciò che permette all’essere umano di riconoscere dentro di sé la possibilità di agire seguendo una legge interiore, diversa da quella imposta dall’esterno o dall’istinto. Medea, per esempio, compie un atto terribile uccidendo i suoi figli per vendicarsi di Giasone. Tuttavia, proprio perché sacrifica la propria natura di madre, la sua azione assume una forma di grandezza tragica. Non conta tanto che l’azione sia giusta o sbagliata, ma che attraverso il dolore l’essere umano riesca a staccarsi dalla sua parte sensibile, per lasciare emergere una volontà indipendente. In questo modo, la sofferenza tragica diventa la condizione per la nascita di una vera moralità.
La funzione educativa dell’arte tragica – su cui insiste Schiller – non risiede dunque nel proporci il buon esempio, ma nel renderci sensibili alla possibilità che il buon esempio esista: possibilità fondata, come egli scrive, “sull’interesse della fantasia che un’azione giusta sia possibile, vale a dire che nessuna sensazione, per quanto possente, soffochi la libertà dell’animo”.[4] Ed è proprio a questo che serve il patetico: a far emergere, attraverso la sofferenza provocata da una sventura immaginaria, la natura razionale dell’essere umano. A differenza del dolore reale, che spesso ci coglie impreparati e ci annienta, la “sventura artificiale” della tragedia ci trova vigili, nella pienezza delle nostre facoltà interiori. Grazie a questa finzione, il nostro spirito può esercitare la propria autonomia, reagendo non con disperazione, ma con forza, per affermare la sua piena indipendenza. L’arte tragica, dunque, attraverso una simbolica “inoculazione del destino inevitabile”,[5] ci addestra a fronteggiarlo e prepara l’animo a resistere anche quando la sofferenza sarà autentica. Il patetico, dunque, non è un cedimento all’emozione, ma un allenamento dell’anima alla libertà.
Attraverso il dolore, nella tragedia, si apre uno spazio di consapevolezza che nutre il senso di ciò che l’essere umano può diventare. Ma questa consapevolezza non si raggiunge opponendosi realisticamente alla natura, cioè cercando di dominarla con la forza, bensì idealisticamente. Questo accade – secondo Schiller – quando l’essere umano “si separa dalla natura”,[6] annullando da un punto di vista concettuale la violenza che essa può recargli: la accetta, senza che per questo la sua parte razionale venga piegata.
Il mondo calcola, l’uomo sparisce
Forse, sebbene immersi in tempi tragici (i sintomi ci sono tutti: dalla ricerca spasmodica di un capro espiatorio allo spirito profetico diffuso), non sappiamo più pensare tragicamente perché abbiamo rinunciato alla possibilità di annullare concettualmente la violenza della natura. Al suo posto abbiamo scelto la via della reazione concreta, un realismo che non cerca catarsi ma controllo, che riconosce come unici strumenti di salvezza la scienza e la tecnica.
Mi viene in mente Leibniz. Era convinto che Dio, nella sua infinita bontà, avesse creato il mondo calcolando la miglior combinazione possibile, e che molte delle contese umane derivassero solo dalla nostra incapacità di cogliere il piano matematico divino. Non c’è bisogno di ammazzarsi: il mondo è matematica, basta sedersi a un tavolo e “calcolare”. Ma l’arretratezza delle tecnologie e l’ottusità dei suoi contemporanei gli impedivano di dimostrarlo. Sognava il giorno in cui l’umanità avrebbe compreso che bastava calcolare per far regnare l’armonia.[7]
La sua sfortuna? Avere avuto ragione sul mondo, ma torto su Dio. Perché oggi viviamo davvero in un mondo immerso nel calcolo. Solo che Dio è morto. E così abbiamo un mondo che ci promette immortalità sintetiche, visto che le azioni di quelle autentiche sono in ribasso da un pezzo. Un mondo in cui chi svolge “attività tecnicamente inutili” viene – come già scriveva Jaspers quasi ottant’anni fa – “annientato senza pietà”.[8]
La meccanizzazione dell’esistenza, con la crescente pervasività della tecnica, ci ha aperto possibilità incalcolabili. Ci ha fatto sentire più forti, offrendo strumenti sempre più efficaci contro la violenza della natura. Ma non nel senso tragico, idealistico, di chi si eleva sopra la propria natura sensibile – bensì come organismi integrati nel e potenziati dal mondo stesso. È così andata perduta quella che potremmo chiamare la gratuità inesorabile con cui, nella tragedia, il destino colpisce l’eroe: una forza cieca e impersonale che si abbatte su di lui senza offrire alcuna spiegazione, sfuggendo a ogni pretesa di giustizia umana. Una realtà che si impone com’è, che va accettata con dignità, ma senza consolazioni. Al posto di questa visione tragica, nella modernità la vita si è trasformata in un’attesa continua, quasi burocratica, che il senso – anche se momentaneamente assente – debba prima o poi manifestarsi: come se ogni dolore, ogni perdita, fossero in debito di giustificazione o di riscatto.
Questa rimozione del tragico ha coinciso con una crescente intolleranza verso ogni valore che non si traduca in utilità pratica. Viviamo in un’epoca che ha fatto del progresso l’unico orizzonte possibile e che relega la finitezza umana a un fastidioso inciampo da superare. In questo contesto, il limite – ciò che nella tragedia imponeva misura e destino – viene percepito non come una realtà da comprendere, ma come un ostacolo da rimuovere. È su questo sfondo che si è radicato il mito di un progresso senza limiti, alimentato dallo sviluppo tecnologico e intrecciato con i grandi processi di quello che qualcuno ha chiamato Antropocene: dalla conquista dello spazio alla globalizzazione, dalla democrazia di massa alla digitalizzazione. In un mondo dove tutto appare migliorabile, ottimizzabile, potenzialmente eterno, la morte stessa assume i tratti di un’anomalia assurda e la coscienza moderna smarrisce progressivamente la percezione del limite. E quando il limite scompare, si diffonde l’illusione che ogni domanda sia destinata ad avere prima o poi una risposta.
Che cosa si è perso lungo il cammino? Si è dimenticato che un approccio puramente tecnico-scientifico – tutto rivolto a opporre una contro-forza alla natura – non basta. Non basta a rivelare all’uomo ciò che lo rende davvero umano. Perché l’uomo è sì un essere naturale, ma non del tutto determinato dalla natura. Aspira alla libertà, una libertà che nessuna legge fisica può spiegare. Schiacciami, natura – ma non sarò mai tuo.
Questa libertà non è data una volta per tutte. È un ideale, qualcosa a cui si tende ogni volta che ci si oppone a ciò che ci inchioda alla necessità: l’istinto, la funzione, il calcolo. L’eroe tragico – lo abbiamo detto – non è buono: è libero. È grande non perché fa il bene, ma perché si stacca dalla sua natura sensibile e, affrontando il dolore, dispiega la sua volontà che lo solleva dalle ristrettezze del normale senso del sé. La sua libertà si rivela proprio là dove non c’è alcun vantaggio, alcuna utilità. Ciò che è davvero libero, infatti, non è utile, né produttivo, né funzionale. E proprio per questo è libero. Non risponde a un comando. Non serve a nulla e non serve nessuno. È fine a sé stesso, eccedenza pura, gesto che non ha bisogno di giustificazione. Vive nel gioco, nell’ozio, nell’arte – in quelle attività che non sono obbligate e che, proprio per questo, ci rivelano che cosa può un essere umano quando non è ridotto a pura funzione.
L’uomo reale, però, non è mai completamente libero. Come scrive nelle lettere sull’Educazione estetica dell’uomo, la libertà è una “consegna della ragione”:[9] un orizzonte verso cui tendere per realizzare pienamente la propria umanità. Nella realtà, l’essere umano è vincolato a un sostrato materiale e solo entro quei limiti può esercitare la propria autonomia, cercando in essi quella forma di eccedenza che resiste alla riduzione all’utile. Là dove, invece, si illude di raggiungere la libertà soltanto attraverso i mezzi della tecnica, si condanna. Perché la tecnica non conosce l’inutile. Respinge ciò che non produce effetti misurabili e non contempla che una sconfitta materiale possa rivelare una superiorità interiore. Ma senza l’inutile – senza quella distanza da sé che solo la sofferenza tragica può aprire – l’uomo smette di essere fine a sé stesso. Diventa funzione. L’illusione di emanciparsi dalla natura con la potenza della tecnica finisce allora per renderci suoi schiavi. Ciò che doveva liberarci ci piega, ci assorbe, ci svuota. Per dirlo ancora con le parole di Schiller:
Una durata sconfinata dell’esistenza e del benessere, solo per amore dell’esistenza e del benessere, è puramente un ideale del desiderio, quindi un’esigenza che può essere posta soltanto da un’animalità che tende all’assoluto. Senza guadagnar nulla alla propria umanità […] perde la felice limitatezza dell’animale, di fronte al quale vanta ora soltanto il poco invidiabile privilegio di sprecare, per l’aspirazione a ciò che è lontano, il possesso del presente, pur senza mai cercare in tutta l’immensa lontananza nient’altro che il presente.[10]
La scienza e la tecnica, insomma, possono colmare il vuoto interstellare, ma non quello esistenziale. Come ci ricorda lo storico francese Pierre Legendre, tutto parte da una domanda fondamentale: “perché vivere?”.[11] Una domanda che tutti gli uomini si pongono – e hanno il diritto di porsi – nel momento in cui entrano nell’esistenza. Le risposte razionali che proviamo a dare a questa domanda, per quanto necessarie, non riescono mai davvero a chiuderla del tutto. Rimane un resto ineliminabile. E se questo resto non trovasse uno sbocco nei sogni, nelle immagini, nelle opere d’arte, rischierebbe di travolgere l’intera esperienza umana.
Se l’unico modo per opporsi alla violenza della natura è contrapporle una forza altrettanto reale, allora tutto viene riportato sullo stesso piano: anche il male finisce per essere spiegato, giustificato, dominato. Se ogni cosa, in linea di principio, può essere ricondotta a una spiegazione naturalistica, allora il mistero svanisce. E senza mistero – afferma Legendre – “la tragedia è liquidata”.[12] La modernità ha prodotto un’umanità che, in un mondo dove l’Altrove è stato sostituito dalla tecnica e dalla “ragion di mercatura”, pretende risposte sempre più chiare, rapide, rassicuranti, per spiegare ciò che non comprende. Ma l’attesa di una risposta che non arriva genera frustrazione. E una volta rimossa, poiché inaccettabile, la gratuità inesorabile dell’accadere, resta solo l’aggressività.
Ecco perché le narrazioni cospirative hanno così successo oggi. Queste storie mettono in scena conflitti che sembrano tragici, ma che sono privi di autentica complessità. Il male, in questo contesto, non è qualcosa da interrogare, ma solo da smascherare: sempre spiegabile, sempre localizzabile, sempre attribuito a un colpevole.
L’Abisso viene negato. E, negandolo, gli apriamo la porta. Così, nel mondo occidentalizzato e ottimizzato, la vittima sacrificale non è più il capro espiatorio. È l’umanità stessa.