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Foto di famiglia

di Rosalba Corradazzi

rif lavoroE’ uscito, nel dicembre 2015, un libro di Ottone Ovidi per le Edizioni Bordeaux, dal titolo “Il rifiuto del lavoro/ Teoria e pratiche nell’ autonomia operaia”

Io giudico un film bello se ha due requisiti, il primo se scorre velocemente, il secondo se ho voglia nel tempo di rivederlo. Questo vale anche per i libri. Questo libro si legge facilmente e si arriva con interesse fino in fondo.

E’ stato come aprire un cassetto con tante foto della propria storia che non è mai esclusivamente personale ma si intreccia con le vicende del paese in un unicum dove non c’è un prima e un dopo. Leggo dell’occupazione della Fiat Mirafiori da parte degli operai nelle giornate del 29 e 30 marzo del ’73 e subito per associazione di idee mi viene in mente l’antecedente che aveva preparato quell’avvenimento cioè lo sciopero degli operai della Fiat nell’aprile del ’69 per i fatti di Battipaglia. Gli operai in quell’occasione rompono il diaframma costruito artificialmente, proprio dai sindacati confederali, di divisione fra il momento politico e quello sindacale e smascherano che questa divisone era tenuta artificialmente in vita da chi voleva ricondurre le lotte ad un ambito meramente corporativo per poi attribuirne agli stessi operai la responsabilità.

Ma sulle vicende di Battipaglia vengono gettate luci negative, il PCI e l’Unità parlano di oscure trame e ipotizzano non tanto larvatamente lo zampino dei fascisti. E’ un momento nodale del nuovo e diverso approccio nei confronti delle lotte che poi sarà sviluppato e portato a compimento con le vicende dell’autonomia e del 7 aprile.

E’ in questo clima di ritrovata dimensione politica, di rifiuto della lettura mistificatoria del PCI e dei sindacati che si creano le basi per lo sciopero del giugno del’69.

Davanti ai cancelli della Fiat ci andranno molti compagni di varie realtà e in un processo di vicendevole osmosi gli operai porteranno fuori dalle fabbriche le loro lotte. E’ l’inizio di una stagione che vedrà realizzarsi una compenetrazione fra le lotte degli studenti medi, gli universitari, gli operai, le riviste e i collettivi di classe. Per mortificare e distruggere questo ideale rivoluzionario, il capitale ha mobilitato tutte le sue risorse, dai media ai partiti, dai sindacati alle forze repressive e alla magistratura, ognuna nell’ambito del proprio ruolo. Contro la volontà di riaffermare prepotentemente il valore d’uso come occasione di realizzare i propri bisogni, le proprie necessità e i propri sogni hanno sparato a palle incatenate con leggi speciali, operazioni repressive, campagne di calunnie, tanto più delittuose quanto più si affermava il bisogno e la voglia di avere una casa decente, di avere un lavoro, di avere la possibilità di rifiutarlo, e quando lo si aveva, di averlo con ritmi umani, al sicuro da malattie professionali. Il diritto a godere del bello, della musica, dell’arte, non più declinata al servizio dei ricchi i quali prendendo strumentalmente il vantaggio di poterne essere fruitori, ne traevano, bontà loro, l’assurda pretesa di essere i soli colti e amanti della cultura.

In quella stagione, per togliere l’acqua ai pesci, hanno reso strumentalmente vincenti le battaglie corporative e hanno permesso a tanti giovani di laurearsi in prima generazione. La crisi economica che pure c’era in quegli anni non ha impedito contratti nazionali vantaggiosi per i lavoratori perché aleggiava la paura del venticello della rivoluzione che soffiava nel paese.

In quella stagione si rompe una certa concezione messianica della storia intesa in termini di un prima e un dopo ed emerge in tutta la sua concretezza come le esigenze del presente proprio perché soffocate o respinte nel futuro si presentino in tutta la loro urgenza. L’impegno quotidiano si manifesta nella richiesta del possibile attualmente impossibile. Passa nella società tutta una dialettica positiva e si configura un’esigenza di realizzazione totale della propria vita.

La tensione permanente che il proletariato introduce sulla base della sua stessa condizione materiale, rimuove l’esistenza divisa due volte, quella della divisione sociale del lavoro e quella del prima e del dopo.

Con spirito anticipatore si ha consapevolezza che gli individui a diversi livelli sono monadi sempre più sostituibili da parte di un altro che ha la tua stessa immagine.

E’ un’anticipazione forte e precisa di quello che oggi noi chiamiamo la proletarizzazione di interi strati considerati fino a ieri privilegiati.

E’ la scoperta che l’intellettuale non è più la coscienza della società, ma bensì uno specialista, un professionista integrato come tecnico nel sistema. L’intellettuale, sia esso un dirigente, un libero professionista, un docente o un letterato si trova esattamente nella situazione di altri tecnici anche se mente a se stesso e nega questa realtà e, paradossalmente, più nega di essere un tecnico, soltanto un tecnico specializzato, più si smaschera da solo,  perché evidentemente ha consapevolezza che non vende solo la proprio forza lavoro ma è il lavandaio di cui parla Brecht, colui che vende la propria coscienza critica, è l’aedo del riformismo che propone sempre nuovi alibi e vie d’uscita.

In quella stagione si ha la consapevolezza che le stesse contraddizioni che sono presenti nell’industria, e cioè la coercizione produttivistica, sono presenti anche se in modo meno tipico ed evidente, anche fuori dalla fabbrica, e sono presenti anche nelle situazioni di privilegio che derivano dal sapere specialistico e che la formulazione di lotta e le piattaforme rivendicative dei tecnici, dei lavoratori, degli operatori culturali devono essere comuni.

C’è una consapevolezza mai avuta prima, e che oggi si è persa, che scuole, ospedali, enti culturali e assistenziali non sono servizi per il popolo, e neppure sono servizi per un’ élite, ma strumenti organizzativi di discriminazione e di oppressione che servono per lo più a selezionare i cittadini fin dall’infanzia, togliendo ad alcuni, solo e soltanto in base ad una scelta di classe, opportunità di vita, di salute, di istruzione favorendo invece coloro che appartengono o sono destinati ad appartenere alla classe dominante.

Viene smascherato il richiamo alla realtà che non è altro che un richiamo all’ordine perché la realtà non è altro che una società determinata nel momento e che pretende di essere assoluta ed ha altresì la pretesa di essere totale e di abbracciare ogni possibilità reale, ogni possibile forma di bene e chi lo nega viene considerato e trattato come inesistente o cattivo. Ma, proprio il desiderio che si estende dal sogno, dalle aspettative chiarisce l’inconsistenza di ogni pretesa realtà assoluta. La colpevolizzazione del movimento palesa in maniera inequivocabile le sue radici conservatrici e reazionarie.

Le domande dei questurini, dei rettori, dei funzionari del PCI sono uguali: Chi li comanda? non sanno neanche loro cosa vogliono. Chi mette loro in testa certe cose? Per arrivare tutti alla stessa conclusione: sono matti o provocatori o eterodiretti.

La risposta è la consapevolezza, che pervade il movimento, che lo sfruttamento dell’operaio è possibile non solo grazie al disciplinamento cui è soggetto sul posto di lavoro, ma è anche l’effetto dei controlli sociali fuori dalla fabbrica il cui scopo è di convincere la società tutta della naturalità della divisione del lavoro.

La grande novità che viene messa in discussione cioè il prima e il dopo, prima la riflessione-emancipazione e poi l’azione politica, si manifesta nella consapevolezza che sono un tutt’uno e lo sono la vita e le scelte private e la vita e le scelte politiche.

Il movimento produce un nuovo tipo di militante qualificato anche dalla sua relativa autonomia politica, in grado di valutare autonomamente la situazione in cui opera e di formulare il discorso politico adeguato al caso concreto. E’ proprio l’idea di partire dalla riflessione sul ruolo sociale, per mettere in moto il processo di politicizzazione, che comporta il rifiuto, la rottura con la politicizzazione astratta propria del modello tradizionale del militante. Il pericolo corporativo e tradunionista è evitato nella misura in cui la presa di coscienza politica del ruolo, che passa attraverso la discussione dei problemi sul posto di lavoro, è lo spunto e l’occasione per ricostruire tutta la catena che tiene insieme il sistema sociale capitalista anche nelle sue articolazioni repressive.

Il pregio del libro non si limita ad essere quello di essere riuscito a ricostruire il clima e i valori che agitavano l’impegno politico di quegli anni, ma di aver saputo dare risposte alla situazione attuale

E’ il PCI di allora lo strumento privilegiato di cui il capitale si è dotato per manipolare, corrompere, reprimere il movimento e la sporca operazione sarà portata a compimento dal PD attuale che naturalizza oggi il neoliberismo.

Raccontare gli anni ’70 è leggere il nostro presente e il modo di raccontarli e, naturalmente, di interpretarli, fa la differenza. Sono anni legati a doppio filo con il biennio rosso in Italia e con la lotta degli spartachisti in Germania. E, non a caso, la borghesia reprimerà gli uni e gli altri e spianerà la strada all’avvento del fascismo qui da noi e del nazismo in Germania. Perciò non solo il racconto e la lettura di quei periodi storici non è neutrale ma è una scelta di campo, ma significa anche interpretare il presente e capire perché e come siamo arrivati al regime odierno. Questo libro, in effetti, è anche uno strumento politico.

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