Cessate il fuoco – La resa dei conti è rinviata
di Konrad Nobile
I sorprendenti sviluppi che hanno portato al cessate il fuoco tra Israele e Iran mi spingono a fare il punto della situazione e fare un bilancio di questa guerra dei 12 giorni e delle sue possibili conseguenze.
Ovviamente premetto che si tratta di considerazioni fatte a caldo e ancora sotto l’effetto di un forte coinvolgimento emotivo. Inoltre, mi rendo conto che dalla posizione di spettatore lontano, sicuro e privilegiato non si possa comprendere appieno la situazione reale.
Sicuramente per capire veramente quel che è successo e le sue ripercussioni ci vuole del tempo, calma e una lucidità e una profondità che mi mancano.
Qualche giorno or sono ho scritto un articolo per ComeDonChisciotte dal titolo “GUERRA ALL’IRAN: I NODI VENGONO AL PETTINE”, nel quale ho sostenuto che lo scontro apertosi in Asia occidentale sia da interpretare come uno scontro esistenziale (per tutte le parti coinvolte).
Nonostante lo sviluppo del cessate il fuoco, riconfermo questa lettura, per quanto lo scontro venga ora “congelato” e rinviato nuovamente.
Ad ogni modo, la soluzione trovata da Trump con la mediazione del Qatar è stata sorprendente: è stata smentita la tesi, espressa nel mio precedente articolo, che sosteneva che “Lo scontro apertosi il 13 giugno con l’aggressione israeliana alla Repubblica Islamica è ormai molto difficile possa rientrare per lasciare spazio a nuovi compromessi e negoziati.”.
Alla fine, invece, almeno per ora, è stata trovata proprio quella “improbabile de-escalation” che non ritenevo di facile realizzazione.
Ho l’impressione che la mossa di Trump, aiutata dalla Russia e dalla Cina, sia stata abilissima per tutelare i suoi interessi e salvaguardare il sistema economico-commerciale globale.
Il presidente americano è riuscito a venirne fuori alla grande, anche se i risultati finali si potranno trarre nel medio-lungo periodo.
Se c’è un vincitore temporaneo, questo è proprio Donald Trump e la sua amministrazione, che con il cessate il fuoco esce dal vicolo cieco nel quale era finito sotto pressione israeliana.
In controtendenza con la propaganda iraniana e le analisi di stessi molti analisti occidentali, ritengo infatti che questo scontro non si sia chiuso propriamente con una vittoria per l’Iran, né tanto meno per Israele.
Per quanto alla Repubblica Islamica le cose potessero andare decisamente molto peggio; per quanto la sua risposta militare a Israele abbia arrecato un danno significativo all’entità sionista; per quanto il tentativo di cambio di regime sia attualmente fallito e per quanto il suo programma nucleare non sia stato definitivamente demolito, l’Iran corre il rischio di pagare gli effetti dell’aggressione israeliana nel medio e lungo periodo. Il compromesso raggiunto con il cessate il fuoco, che se regge può fortunatamente evitare un ulteriore spargimento di sangue, presenta infatti anche delle ombre.
Il fatto che la Repubblica iraniana abbia scampato il pericolo e abbia per ora evitato un massacro ben più vasto non è cosa di poco conto, anzi è da considerarsi come un buon successo nel bilancio finale, soprattutto considerando gli esordi di questa guerra che parevano disastrosi per l’Iran. Una mezza vittoria quindi c’è… MA, nonostante questo, ritengo che da questa guerra ne escano indeboliti non solo Israele e l’ala radicale sionista (che sta diventando sempre più un problema da gestire per lo stesso Occidente), ma anche una parte importante del regime iraniano.
Ad armistizio fatto, col senno di poi, pare che in questi dodici giorni di guerra ci sia stata un’operazione di “potatura”, o perlomeno ridimensionamento, delle fazioni più dure e radicali delle due parti in causa: Iran e Israele.
La “potatura” – o più propriamente eliminazione fisica – dell’ala dura (e pura) iraniana è avvenuta per mano dello Stato ebraico (in questo sostenuto da tutto l’occidente) che ha, in particolar modo nei primi due giorni (ma non solo), eliminato gran parte dei vertici militari e statali facenti parte della fazione più intransigente e contraria a un accordo con Usa & Co.
Tutti gli omicidi mirati sono stati condotti contro una specifica corrente del regime iraniano.
Uno dei pochi esponenti di alto rango a salvarsi è stato Khamenei, la cui uccisione avrebbe probabilmente generato un’insurrezione di tutto il mondo sciita.
Per gli interessi generali dell’imperialismo, che teme come la peste il dover fronteggiare sommosse e guerriglie in mezzo Medio Oriente, un tale omicidio sarebbe stato troppo pericoloso.
Ora però la Guida Suprema rischia di ritrovarsi politicamente “isolata” nelle alte sfere della gerarchia politico-militare della Repubblica Islamica, essendoci stata una decapitazione mirata.
La decapitazione condotta da Israele (facendo il lavoro sporco per tutto il blocco occidentale-imperialista, parafrasando il cancelliere tedesco Merz) fa sì che nelle istituzioni militari iraniane (i cui membri sanno benissimo di poter essere i prossimi della lista israeliana degli obiettivi) ci sia ora una sorta di sbilanciamento interno a favore della fazione moderata e più aperta al dialogo con l’occidente.
E infatti non è un caso che i vertici militari, oltre ad aver rinunciato al blocco di Hormuz, abbiano firmato non appena possibile l’accordo di cessate il fuoco.
Significativo che su questo accordo, presentato dagli iraniani come una vittoria, non ci sia stato ancora alcun commento della Guida Suprema, che invece prometteva nessuna resa e la fine del dialogo con gli Usa.
Per quanto sia chiaro che il vero obiettivo (fallito) di Israele era il cambio di regime – la questione del nucleare c’è ma è secondaria – si può comunque dire che, in un certo senso, le esecuzioni mirate israeliane hanno creato l’opportunità di realizzare una sorta di “golpe morbido” in Iran.
Così si comprende come sia possibile che il Presidente riformista (e di fatto filo-occidentale) Masoud Pezeshkian arrivi oggi, stando a quanto riportato dal canale Telegram di Giubbe Rosse, a dire le seguenti parole in un suo discorso: “Teheran è pronta al dialogo e alla tutela dei diritti del popolo iraniano al tavolo delle trattative”.
Questo dopo essere stati ripetutamente fregati dalle trattative con gli americani e attaccati a tradimento. Ora si intende pure tornare a trattare, dopo 12 giorni di guerra, con chi ha collaborato all’uccisione dei propri ufficiali di maggior rilievo (nonché di centinaia di civili, compresi bambini) e dei propri scienziati, con chi ha armato e protetto il nemico ed ha preso direttamente parte ai raid contro le centrali nucleari nazionali. Roba da matti (apparentemente), indice della possibile futura direzione della politica iraniana.
A questo punto tocca togliersi i peli sulla lingua e dire le cose come stanno.
In guerra, certamente, è imperativo fare propaganda, ma ingannare platealmente il pubblico internazionale e soprattutto la propria gente, che paga con sacrifici e sangue, non credo sia una strategia vincente.
Sicuramente mi riferisco alle ultime dichiarazioni di Pezeshkian, ma non solo.
Penso anche, solo per fare un esempio, al comunicato delle forze armate iraniane sull’attacco missilistico alla base americana di Al Udeid, ovvero la risposta persiana al bombardamento americano ai siti nucleari iraniani. Essa è consistita in un lancio simbolico, telefonato e concordato con Qatar e Usa alla base americana alle porte di Doha (evacuata in tutta sicurezza dagli americani prima dell’attacco). Questo attacco è stato presentato come un “attacco devastante e potente” (1).
Ora, anche i muri sanno che si è trattato di un attacco simbolico e concordato con gli americani stessi per “salvare la faccia”, e qui il problema non è tanto aver scelto di reagire così all’offesa americana (scelta distensiva legittima e saggia), quanto quella di definirla ufficialmente e pubblicamente “devastante”… perché offendere così l’intelligenza delle persone?
Sulla questione si è prestato il fianco, fra le altre cose, a una velata umiliazione di Trump (che ha detto pubblicamente le cose per come stavano, contraddicendo i comunicati trionfalistici e retorici delle forze iraniane), successiva alla risposta iraniana:
Su questo il regime iraniano scade in termini di credibilità interna ed esterna.
L’Iran, come già scritto, sta presentando il cessate il fuoco come una sua vittoria, però quello che è accaduto è in realtà una botta durissima ad un’importante corrente del regime, ovvero quella più integra e determinata. Ciò può gettare le basi per un indebolimento – non nell’immediato ma nel medio-lungo periodo – del sistema iraniano, di ciò che rimane dell’Asse della Resistenza e della sua tenuta. Le forze riformiste e filo occidentali potrebbero, passata la fase del compattamento nazionale e popolare avvenuto dopo l’attacco subito, prendere il sopravvento e smobilitare progressivamente l’Iran dal suo ruolo antimperialista.
Qui emerge un altro problema interno all’Iran di cui poco si tratta e che, ai nostri occhi, è difficile da comprendere. Si tratta di un problema di classe.
La fazione riformista è infatti espressione di parte dell’alta e media borghesia iraniana (spesso di fatto disinteressata agli aspetti e ai precetti religiosi), che per ingrossare le tasche e i suoi affari sarebbe anche disposta a limare, se non cancellare, tanto la natura islamica quanto la postura antimperialista del regime e a sacrificarne un certo grado di sovranità.
Dall’altro lato, l’altra corrente conservatrice e religiosa, che comunque gode ancora di un diffuso sostegno interno tra gli stati popolari, persegue il compromesso nazionale e non fa guerra a questo ceto, perdendo al contempo il sostegno di parte del popolo minuto e di classe lavoratrice, questa chiamata a grossi sacrifici (per di più in un periodo di grave crisi economica). La disaffezione di una parte crescente di popolazione iraniana emerge, tra le altre cose, dalla grande astensione al voto. Tra questi disaffezionati una parte sono sicuramente i filo-occidentali più spinti e radicali, spesso giovani, ma non è solo in questa categoria che si concentra l’insofferenza al regime.
Le sorti dell’Iran dipendono in ogni modo anche da quello che accade in Israele.
Questo conflitto ha indebolito parecchio Israele e la sua società, e in particolar modo l’ala dura della destra sionista.
La società israeliana non ha mai vissuto una situazione come quella che ha passato negli ultimi dodici giorni di guerra, e molti cittadini dello Stato ebraico hanno iniziato ad avere molta paura e ad assaggiare le conseguenze delle azioni compiute dal proprio Stato, aprendo una crepa interna in una parte della popolazione. A tal proposito va però detto che anche i figuri dell’opposizione sionista a Netanyahu hanno sostenuto l’aggressione all’Iran, dunque su questo in Israele non esiste attualmente uno schieramento politico importante che possa proporsi come grande alternativa.
Nel mentre, l’ala dura israeliana, nazionalista e di stampo kahanista, ha dovuto accettare malvolentieri questo cessate il fuoco, visto come un’imposizione esterna ed una strozzatura.
Un certo malcontento scorre tra le fila dei sionisti oltranzisti, sia per il mancato raggiungimento degli obiettivi spacciati come principali (la distruzione degli impianti nucleari e delle capacità atomiche iraniane) sia per la consapevolezza di aver manifestato vulnerabilità agli attacchi dell’Iran.
Le strigliate di Trump poi non fanno che aumentare la rabbia nell’area della destra ebraica:
Ora, forse e con molta audacia, Trump e altri leader potrebbero tentare di scaricare Netanyahu per affidare Israele in mani sioniste più sicure, più moderate e più affidabili, così anche da procedere con la ripulitura e il rilancio dell’immagine di Israele, gravemente compromessa dopo il genocidio commesso ai danni del popolo palestinese (in merito rimando all’articolo “E’ già “tutta colpa di Netanyahu”: esecutore spietato e parafulmine del Sistema”).
Al tempo stesso, un cambio di governo in Israele in senso più laico e moderato darebbe la sensazione di una riduzione della minaccia israeliana e farebbe ulteriormente smobilitare la compattezza iraniana generatasi dopo l’attacco del 13 giugno, dando maggiori possibilità di ammorbidimento della Repubblica Islamica.
Ma togliere Netanyahu (politico opportunista tanto cinico quanto intelligente) dal suo trono non è cosa assolutamente facile, esso infatti ha ancora una base molto potente che lo protegge e sostiene (e che notoriamente sa farsi ascoltare a Washington).
Un’altra eventualità, di dubbia efficacia, potrebbe essere il tentativo di riorientare formalmente Netanyahu in senso “centrista” e di scaricare esclusivamente gli elementi più fanatici alla Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
Anche qui il procedere della storia, che potrebbe smentire ulteriormente tutte le mie modeste analisi, ci darà le risposte e certamente ci riserverà grosse sorprese.
Comunque resto convinto che lo scontro esistenziale c’è e rimane tale, pur venendo per ora procrastinata la vera resa dei conti.
Allo stato attuale lo staff di Trump, che, come già scritto, reputo il vero vincitore di questo round, dimostra di avere una grande intelligenza politica nel difendere i suoi interessi e sciogliere i nodi spinosi. Assieme al governo statunitense, questa soluzione beneficia particolarmente le petromonarchie arabe della regione come il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, che evitano così l’imbarazzo di rivelarsi collaboratori di Stati Uniti e Israele.
Per gli Stati Uniti sarebbe stato un enorme problema nonché un grande rischio farsi coinvolgere in questo conflitto, ma al tempo stesso per gli Usa rimane necessario perseguire lo smantellamento dell’Iran e dell’Asse della Resistenza, che continuano a rappresentare un bastone fra le ruote per gli interessi imperialistici nell’area.
Ma il governo Trump è, per ora, uscito dal vicolo cieco ottenendo un successo diplomatico e l’indebolimento dei duri e delle “teste calde”, sia israeliane che iraniane.
Il merito di questa manovra d’emergenza va però, con grande probabilità, condiviso con le abilissime diplomazie di Cina e di Russia. Non è un caso che il ministro degli esteri iraniano Araghchi si trovasse in Russia proprio il 22 giugno, cioè nella giornata che ha preparato l’accordo di cessate il fuoco annunciato da Trump. Pare poi che la Cina, su richiesta americana, abbia invitato l’Iran a desistere dal blocco di Hormuz.
Ecco poi cosa dice oggi Trump:
https://www.reuters.com/business/energy/trump-says-china-can-continue-purchase-oil-iran-2025-06-24/
Il business non va fermato, e su questo tutte le potenze sono d’accordo, anche se ciò significa indurre il proprio “amico” e “partner” a desistere dal combattere.
In ogni caso, ciò che importa di più alle potenze e ai pescecani, anche aldilà delle considerazioni geopolitiche e delle loro rivalità, è salvare e tutelare il Mercato, il Capitale e il sistema globale, dentro il quale tutti questi banchettano sulle spalle dei popoli e di chi sgobba.
E, anche in questo giro, ci sono riusciti.