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marx xxi

L’impatto dell’euro sulle economie nazionali*

di Spartaco A. Puttini

Innanzitutto, ai fini della questione che dobbiamo affrontare, sono indispensabili alcune premesse.

Nonostante nel linguaggio comune Unione europea ed Europa vengano utilizzati come sinonimi, in realtà l’Unione europea non è l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona non è che una parte della Ue.

Mentre per quanto riguarda la costruzione degli Stati nazionali la spinta era venuta da quella che Renan definiva “la coscienza di aver costruito insieme cose importanti nel passato e la volontà di continuare a costruirle insieme in futuro”, il processo di integrazione europeo ha avuto come molla la paura dell’irrilevanza in cui il vecchio continente era precipitato in seguito all’esito del secondo conflitto mondiale e all’ascesa degli Usa e dell’Urss come attori di primo piano sulla scena internazionale. E’ stata questa irrilevanza all’ombra dell’equilibrio del terrore termonucleare tra le due superpotenze che ha garantito per alcuni decenni la pace sul vecchio continente e non il processo di integrazione.

Il processo di integrazione europeo è stato accompagnato da suggestioni federaliste e ipotesi unitarie. Quella più nota è la spinta verso gli Stati uniti d’Europa, formulata da Altiero Spinelli. Abbastanza nota è anche la propensione delle forze d’ispirazione democratica cristiana alla costruzione di un’Europa unita, intesa come terza forza tra le due superpotenze. Ma non furono solo forze democratiche, laiche o cattoliche, a definirsi europeiste.

E’ esistito anche un europeismo dell’estrema destra, come quello del gruppo “Jeune Europe”, “Giovane Europa”, che faceva capo al belga Jean Thiriart e che aveva costruito una piccola forza effettivamente transnazionale. E’ un gruppo dal quale sono usciti alcuni brillanti intellettuali, ma forse il personaggio più noto presso il largo pubblico è Borghezio.

Ricordo questo particolare perché smentisce ciò che, ultimamente, nella canea mediatica, si tenta di imporre nell’immaginario collettivo: vale a dire la malsana idea che il termine del contendere sia scegliere l’europeismo, variamente declinato, o cadere nel “populismo”, nella xenofobia, nel nazionalismo. E’, questo, un equivoco che si è radicato anche a sinistra.

Inoltre, occorre tenere presente che quando critichiamo il processo d’integrazione europeo, noi muoviamo le nostre critiche ad un processo specifico, concreto, quello che si è venuto determinando in questi decenni e che ha condotto alla formazione dell’Unione europea e dell’Unione monetaria europea, e non l’idea di una qualsiasi ipotesi di integrazione o di cooperazione stretta tra i paesi europei. Questo va sottolineato, perché vi è la tendenza, da parte di alcuni, a proiettare l’idea di Europa che hanno nella propria testa, come se questa esistesse in realtà, con il risultato di giustificare o salvare il processo di integrazione come concretamente si è venuto configurando.

Quale è stato il ruolo che hanno svolto queste idealità e queste suggestioni nel processo d’integrazione europeo? Quello delle foglie di fico, che sono servite per coprire le vergogne di un progetto che è stato definito su ben altre basi. Ultimamente c’è chi parla di uno “scippo” del sogno europeo da parte delle tecnocrazie europee, ma non c’è stato nessuno scippo. Sono stati i sogni europeisti ad essere funzionali ai progetti del grande capitale che ha modellato il progetto di integrazione. Eloquente in proposito il ruolo puramente coreografico dell’europarlamento, un contentino dato ai sostenitori del federalismo per poter dare alle istituzioni comunitarie un simulacro di legittimità presso le diverse opinioni pubbliche dei diversi paesi. Il motore del processo d’integrazione è stato ben altro.

Come disse Giorgio Napolitano nell’annunciare il voto contrario dei comunisti all’ingresso dell’Italia nello SME (1978), “se ci si vuole confrontare con i problemi di fondo bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico”. Come parlava bene, all’epoca, Giorgio Napolitano.
 

Natura del processo di integrazione

Il motore del processo d’integrazione è stato l’obiettivo di costruire uno spazio integrato per la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Tale processo ha avuto una potente accelerazione tra gli anni Ottanta e Novanta, in un contesto preciso: quello egemonizzato dal “Washington Consensus”.

Se nel corso degli anni Settanta in area anglosassone si iniziano ad affermare in ambito accademico le teorie neoclassiche, monetariste, neoliberiste, è solo alla fine del decennio, e più marcatamente nel decennio successivo, che il neoliberismo viene assunto dai decisori politici statunitensi e britannici. Una svolta in tal senso può essere forse ravvisata nella nomina di Paul Adolph Volcker alla guida della FED.

Il neoliberismo promuove la libera circolazione dei capitali e la deregolamentazione, lo stato minimo e la privatizzazione di beni e servizi, una massiccia finanziarizzazione. L’obiettivo che la centrale dell’imperialismo si pone nell’implementare queste politiche è la reazione globale. Contro la pressione esercitata dall’avanzata dei popoli del Sud del mondo e contro la pressione esercitata sul capitale, dalle masse lavoratrici all’interno delle stesse metropoli capitalistiche avanzate.

Il processo di costruzione dell’Unione europea e dell’Unione monetaria europea, dall’Atto unico del 1986 al Trattato di Maastricht e oltre, è profondamente caratterizzato e impregnato dall’accettazione delle dottrine neoliberiste.

Vediamo sinteticamente un caso di deregolamentazione dell’economia, a tutto pro della libera circolazione dei capitali: l’Italia.

Innanzitutto occorre tenere presente che parliamo di deregolamentazione e di libera circolazione dei capitali, perché prima dell’ondata reazionaria degli anni Ottanta nelle economie avanzate vigevano politiche che promuovevano la cosidetta “repressione finanziaria”. Con questo termine si intende indicare l’adozione, da parte dei governi degli Stati nazionali, di una serie di normative e misure che mirano a reprimere la redditività del capitale finanziario posto a rendita. Per inciso, potete notare che quando si parla di esercitare una pressione sulla redditività del capitale messo a rendita si parla di “repressione”, mentre quando si esercita una pressione sulle tasche dei lavoratori si parla più pudicamente di “moderazione salariale”. Le parole sono importanti e il potere di gestirle e di definire i contorni del discorso pubblico rappresenta il primo tassello per la costruzione di un’egemonia culturale e politica. Ma questo è un discorso vecchio quanto il mondo! Già nell’Antico Testamento, quando Dio si rivela a Mosè e questi gli chiede “chi sei?”, Dio risponde: “Io sono colui che è” (in realtà “Io sono colui che sono”), come a voler sottolineare che non dava a Mosè la possibilità di definirlo, come a voler stabilire subito le gerarchie.

In Italia la “repressione finanziaria” si articolava in alcune normative, tra le quali la più importante consisteva nella possibilità (e dal 1975 nell’imposizione) di comprare i titoli di Stato che restavano invenduti sul mercato. Il risultato era quello di tenere i tassi d’interesse bassi, negativi. Durante il periodo che alcuni definiscono “Trentennio glorioso” (dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta) praticare tassi d’interessi negativi sui propri titoli costituiva una politica comune da parte dei paesi capitalistici avanzati. Per questa via veniva finanziato il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia si configurava come uno strumento dell’intervento pubblico. Il permanere di tassi d’interesse bassi e negativi permetteva di tenere sotto controllo il debito pubblico ed evitava di costringere le politiche nello spazio ristretto dei tagli ai servizi per pagare gli interessi sul debito.

Questo assetto viene meno con il “divorzio” tra il Tesoro (ministro in carica Andreatta) e la Banca d’Italia (governatore in carica Ciampi) nel 1981. Da allora lo Stato italiano ha dovuto interamente finanziarsi sul mercato. Il risultato è stata l’esplosione della quota di debito pubblico sul Pil (dal 60% del 1981 al 120% del 1992) e delle spese per interesse (passate dal 6% al 12% nello stesso periodo). La scelta del divorzio lega le mani al potere politico nella direzione dell’economia, limitandone fortemente le possibilità d’azione a causa del fatto che la centralità è ormai acquisita dal mercato dei capitali finanziari. Al centro non sono più le necessità della comunità, ma quelle del rentier. Le spese del finanziamento dei capitali finanziari messi a rendita, non più “repressi, costringono a rivedere le spese per altre voci, in primo luogo per la spesa sociale. Nello stesso arco di tempo non è un caso se lo Stato diventa risparmiatore netto, tramite il taglio dei servizi.

Tramite questa manovra di deregolamentazione si ha una diversa ripartizione della torta della ricchezza prodotta dall’economia nazionale tra il lavoro e la rendita, tra il lavoro e il capitale. Guardiamo nel dettaglio il raffronto tra l’aumento della produttività e l’aumento dei salari reali, per avere un’idea di come si assottigli la fetta di torta dei lavoratori:


- dal 1971 al 1980: produttività +4% ; salari reali + 5%
- dal 1981 al 1995: produttività +2% ; salari reali +0,6%
- dal 1996 al 2009: produttività +0,4% ; salari reali +0,2%


Inoltre occorre segnalare che nel giro di cinque anni la disoccupazione sale fino al 12%.

Il risultato è eloquente: il “divorzio” ha disciplinato il mondo del lavoro a tutto pro del capitale. L’indipendenza della Banca d’Italia è stata la punta di lancia dell’attacco sferrato al ruolo dello Stato in economia e rende insostenibile qualsiasi prospettiva di sviluppo guidato dall’intervento pubblico.

Ecco che differenza c’è nell’avere una Banca centrale sottoposta al potere politico oppure averla indipendente! Alcuni si chiedono cosa cambi per i comunisti e cosa ne ricavino dall’avere la Banca centrale nazionale non sottoposta alla Bce e non indipendente, ecco cosa ci ricavano: un’arma per poter condurre la lotta di classe! Si tenga presente che l’indipendenza della Banca centrale è parte integrante del Trattato di Maastricht.

L’Unione europea è nata come uno spazio a misura del grande capitale finanziario. Questo spiega in qualche modo la sua “incompiutezza istituzionale”. Nel corso della stesura dei Trattati non si sono dimenticati, distratti dalle foto di rito, della gamba politica dell’unione, semplicemente questa non era ritenuta necessaria, dato l’obiettivo. Bastavano la Bce e la Commissione per “fare il lavoro”.

 
L’unione monetaria

Mano a mano che si procede lungo la strada dell’unione monetaria viene condotto l’attacco alla sovranità degli Stati, cioè alla democrazia, visto che, con buona pace di Barbara Spinelli, è lo Stato nazionale la cornice per l’implementazione della democrazia e della partecipazione popolare. Sentiamo in proposito le eloquenti riflessioni di un protagonista dell’epoca, Padoa Schioppa:

“Soprattutto negli anni ’80 e ’90…il mercato unico rappresentò un formidabile promotore di riforme economiche in tutti gli stati europei”;

“L’affermarsi di una concezione di politica economica favorevole a un governo minimo e alla deregolamentazione consentì di far progredire l’integrazione”;

“…la decisione di completare il mercato unico con una moneta unica prese origine dal riconoscimento di due fatti. In primo luogo, si riconobbe che l’ordine di un mercato unico non poteva essere mantenuto senza stabilità macroeconomica; in secondo luogo, che la stabilità nel suo insieme non poteva essere raggiunta in modo duraturo se ciascun paese continuava ad agire in modo indipendente”;

“Nel governo dell’economia la creazione del mercato unico europeo ha imposto allo Stato nazionale una drastica limitazione della sovranità, del suo diritto illimitato a prendere decisione autonome”.


L’euro è una conseguenza di questa impostazione. La fluttuazione dei cambi tra le diverse valute nazionali rappresentava uno scoglio per proseguire sulla strada dell’integrazione economica, uno scoglio per la libera circolazione dei capitali e per la loro rincorsa alla massima remunerazione possibile. Vi era sempre il pericolo che questo o quel paese svalutasse, facendo saltare l’allineamento tra le monete europee e decurtando i profitti dei capitali che erano fluiti verso quel determinato paese. La possibilità che gli Stati membri conducessero ciascuno una loro politica economica andava eliminata.

Le prove tecniche dell’euro sono state il Serpente monetario e lo SME e sono andate in frantumi o in seguito a shock esterni (crisi petrolifere del ’73 e del ’79) o in seguito alle ondate speculative sui tassi di cambio (’92-’93). Da notare però che questi shock esterni sono risultati fatidici per queste due prove perché hanno impattato su economie strutturalmente diverse, spingendo i vari paesi comunitari ad adottare soluzioni differenti di fronte alla crisi. A fronte di un marco tedesco che tendeva alla rivalutazione rispetto al dollaro, gli altri paesi comunitari (Francia, Italia, Gran Bretagna) dovevano scegliere se tenere la parità di cambio con il marco, a costo di deflazionare, con conseguente caduta degli investimenti e impennata della disoccupazione oppure ricorrere alla svalutazione, visto che disponevano ancora degli strumenti per impostare una politica monetaria autonoma, con la conseguenza di far saltare gli allineamenti, la fluttuazione congiunta, e decretare la fine del Serpente e dello SME.

Come potete notare alcuni elementi di criticità ritornano nella situazione attuale, c’è una sinistra analogia, o, per meglio dire, una premonizione.

La moneta unica ha stretto di fatto la camicia di forza e ha ovviato al problema della speculazione tra i tassi di cambio ma, come abbiamo visto, ha lasciato la porta aperta alla speculazione sui titoli di Stato.

Le tensioni sotto l’ombrello della moneta unica sono però rimaste, ma ora si accumulano senza potersi scaricare negli aggiustamenti necessari. Perché l’unione è disomogenea, e in parole povere i paesi aderenti all’unione monetaria hanno una valuta sola ma inflazioni diverse. Come diceva giustamente Lucien Febvre, la congiuntura economica è lo specchio di una struttura economica; e l’inflazione è un po’ l’evidenza della congiuntura.

Le aree valutarie hanno un che di paradossale, se realizzate tra paesi simili sono praticamente inutili (perché è minimo lo scarto tra i tassi di cambio), se realizzate tra paesi molto diversi risultano dannose per i partner più “deboli”. Perché, come sottolinea nei suoi studi Paul De Grauwe, in un’unione monetaria, in caso di shock asimmetrici, il paese in deficit DEVE ricorrere alla deflazione interna dei salari oppure ricorrere ad una massiccia emigrazione di manodopera verso il paese in surplus.

Perché la differenza di inflazione segna una differenza di competitività tra chi è in surplus e chi è in deficit, e per colmare il gap il paese in deficit non può ricorrere alla svalutazione della moneta a causa del cambio fisso e si trova costretto a svalutare il lavoro. Non è un incidente: era previsto. Già nel 1990, due anni prima di Maastricht, la Commissione europea sosteneva:


“si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti”.


Ecco a cosa serve l’euro! Ha ragione chi ha detto che l’euro è il Reagan europeo!

 
Come funziona la macchina infernale

Vediamo ora come funziona concretamente questa macchina stritola diritti.

Il mix di liberismo, deregulation e cambio fisso ha creato all’interno dell’eurozona una dinamica tra un centro (essenzialmente la Germania) e una periferia. Non c’è bisogno di aggiungere parole in questa sede, perché i comunisti conoscono questa dinamica come un classico dell’imperialismo.

La crisi delle periferie dell’eurozona è sinistramente analoga a quelle attraversate dai paesi in via di sviluppo durante gli anni del Washington consensus. Quando all’adozione di misure economiche neoliberiste si è accompagnata, da parte di questi paesi, anche la scelta di dollarizzare la loro economia agganciando la loro divisa a quella statunitense. Due studiosi, Roberto Frenkel e Martin Rapetti, hanno svolto uno studio molto interessante in proposito, uno studio che è stato merito di Alberto Bagnai aver proposto didatticamente in Italia ad un pubblico più vasto.

All’inizio del “ciclo” che caratterizza questa dinamica centro-periferia si verifica un massiccio afflusso di capitali dal centro alle periferie. Il capitale cerca una maggiore remunerazione (è normale, è nella sua natura, questo lo spiega già Marx) e si riversa sulle periferie dove i tassi d’interesse sono mediamente più alti. In un sistema a cambi fissi o in un’unione monetaria come l’eurozona il capitale del centro è maggiormente “invogliato” perché sa che non pagherà il pegno di una possibile svalutazione del paese della periferia.

Arrivano i capitali, e Monti è contento, ma… l’afflusso genera un’inflazione creditizia che rende ancor meno competitiva l’economia della periferia, la quale accresce le sue importazioni dal centro. L’afflusso di capitali dal centro serve per importare prodotti del centro! La periferia arriva così ad accumulare deficit strutturali e il centro matura surplus strutturali. Una posizione aggravata dal fatto che i capitali arrivati alle periferie sono, di fatto, nuovi debiti (le monete e le banconote hanno sempre due facce, per così dire). Questo è ciò che è successo.

Successivamente, a causa di uno shock esterno i capitali del centro arrestano il loro afflusso, o addirittura refluiscono, evidenziando il debito estero maturato dalla periferia. Questa è la natura del debito di cui tanto si (s)parla: debito estero contratto principalmente da privati e coperto dallo Stato, quindi debito che diviene pubblico. La fragilità mostrata dai paesi periferici, evidenziata dall’inclinazione assunta dalla bilancia dei pagamenti, provoca (e consente) un attacco speculativo che fa schizzare il tasso di interessi sui titoli di Stato e spiega il differenziale tra questi e i bund tedeschi, il famigerato spread. Il tasso di interesse sui titoli di Stato è più alto alla periferia perché incorpora già una sorta di “premio di rischio” che l’investitore si fa pagare di fronte all’ipotesi di una svalutazione conseguente alla rottura dell’unione monetaria, in prospettiva palesemente insostenibile.

Poi è arrivata l’assunzione di misure di austerità, che, come sapete, ha aggravato la crisi. Ma l’austerità si è innestata sul tronco malato del meccanismo infernale della moneta unica. Chi sostiene, come gli amici della sinistra europea, che si deve combattere l’austerità ma senza toccare l’euro, non ha capito bene di cosa sta parlando ed è destinato a spaccarsi la testa contro il muro.

In parallelo al “ciclo” che abbiamo visto determinarsi nella periferia, vediamo adesso la politica del centro tedesco.

Dall’inizio degli anni 2000, grazie alle riforme del pacchetto Hartz, volute dalla socialdemocrazia tedesca, la Germania ha imboccato la strada di una fortissima deflazione salariale e ha alimentato un’esplosione della precarietà, misure che spiegano l’aumento della competitività della Germania rispetto ai partner comunitari. Questo grazie all’utilizzo della manodopera a basso costo costituita dall’esercito industriale di riserva della ex DDR, come ha mostrato magistralmente nel suo ultimo libro Vladimiro Giacchè.

Vediamo alcuni dati: nel 2010 i lavoratori tedeschi che guadagnavano meno di 10 euro lordi erano 6,5 milioni; tra 2000 e 2008 i contratti atipici sono passati dal 20% al 40% degli occupati; i minijob sono aumentati del 50%. Quanto ai salari, tra 2003 e 2009, sono diminuiti del 6% in media. A fronte della depressione del proprio mercato interno, la Germania si rifà grazie ai mercati di sbocco del suo export. E’ un modello mercantilista che è vecchio come il mondo, basta pensare a Colbert, ministro del Re Sole.

L’accumulazione di surplus nei confronti della periferia dell’eurozona tiene a galla la Germania, che registra il 60,5% delle proprie eccedenze nei confronti dei partner dell’eurozona. Non sono i paesi della periferia ad aver messo in crisi il progetto del sogno europeo, è stata la periferia ad ingrassare il centro tedesco ed è stata la Germania, con la sua politica di dumping salariale feroce, a mettere in crisi la fragilissima eurozona.

Da notare che la crisi non riguarda ormai solo i PIGS, pensate alla Francia, storico esportatore di capitali, che dal 2005 è diventata importatrice di capitali. Dall’inizio della crisi la Francia ha visto il debito pubblico aumentare del 20%, peggio di lei hanno fatto solo Grecia, Portogallo e Spagna.

Ovviamente, mano a mano che i PIGS si impoveriscono e che sotto la scure delle politiche di austerità il loro mercato interno rinsecchisce diminuisce lo stesso volume di importazioni dal centro. A questo punto sembra che la Germania stia segando il ramo su cui è seduta, come ha notato qualcuno.

Questo, nelle valutazioni di Syriza e della sinistra europea, dovrebbe aprire uno spiraglio di trattativa con Berlino. Ma lo spiraglio appare a mio giudizio assai angusto. Tant’è che la politica tedesca al momento non si è discostata di una virgola. In realtà, mano a mano che procede la crisi, le periferie restano in balìa di un processo che può consentire al grande capitale del centro tedesco di acquisire a basso prezzo le attività produttività dei paesi periferici. E’ un processo già innescato, pensate alla Ducati.

I paesi periferici e semiperiferici dell’Eurozona, restando nell’unione monetaria, sono destinati a subire un processo di “mezzogiornificazione”, o perché seguono la Germania sul suo stesso terreno in una corsa al ribasso che ne stronca l’economia, fino al crollo nella depressione (linea Monti), o perché vengono spinti verso la strada dell’emigrazione massiccia (ecco cosa intendono gli “europeisti” quando parlano di libera circolazione delle persone), che resta però attualmente difficile per le grandi disparità che intercorrono tra i vari paesi quanto a lingua e cultura. In ogni caso il destino dei PIGS è offrire braccia a basso costo per il mercato del lavoro del centro del sistema.

 
Come si esce dalla trappola?

Per uscire dall’eurocrisi vi sono varie ipotesi di riforma della Ue. Sono accomunate dal non fare i conti con la realtà. Della linea Monti abbiamo già detto, in qualche modo. Si tratta di proporre il modello tedesco, ma in ritardo e partendo da un punto più basso di sviluppo e ricchezza. E’ una strada che si può percorrere solo per suicidarsi. Poi ci sono alcune correzioni.

Prodi ha proposto si svalutare l’euro del 20% circa. L’euro è sicuramente sopravvalutato (in tutti i sensi, potremmo dire con una battuta). Di fronte ad una contrazione degli scambi mondiali a seguito della crisi (mi pare del 16% circa) tutte le altre principali monete hanno svalutato (sterlina, yen…), solo l’euro ha rivalutato. Ma tale proposta, pur ragionevole, sarebbe sostanzialmente inutile, perché destinata a non incidere sulla dinamica divaricante interna all’eurozona ma solo sul rapporto tra eurozona e resto del mondo. Mentre sono le tensioni divaricanti interne all’eurozona a costituire il nocciolo del problema.

Vi è l’ipotesi di uno standard retributivo europeo che stabilisca un reddito minimo all’interno della Ue, accompagnato da altre misure a sostegno del lavoro. Sono ottime ipotesi, per un’altra integrazione dopo che saremo riuscii ad affossare questa. Non è per fare politiche a favore del mondo del lavoro che la Ue è nata e che l’euro è stato adottato. E non sarà adesso che il capitale appare vincente che cambierà rotta. Del resto durante le discussioni per la definizione del Trattato di Maastricht le socialdemocrazie europee avevano tentato di far includere, tra tanti parametri bislacchi, anche alcuni punti in merito ai diritti del lavoro e alla disoccupazione. Incassarono un secco rifiuto e, tra la possibilità di salvaguardare i diritti a livello nazionale e il sogno dell’integrazione sovranazionale e della conseguente cessione di quote di sovranità, scelsero la seconda strada. I loro propositi riformisti restarono seppelliti sotto il Moloch reazionario dell’Unione europea. Non sarebbe positivo seguirne l’esempio.

La stessa ipotesi di far reflazionare i salari alla Germania si scontra con la cattiva volontà del grande capitalismo monopolistico tedesco e di tutti i principali partiti (Linke esclusa) di assumere una postura collaborativa sulla questione europea. Se avesse voluto collaborare alla crescita armonica dell’Unione la Germania non avrebbe mai attuato una politica di concorrenza mercantilista così feroce. La stessa durezza con cui si colpisce la Grecia, colpevole di aver contratto un debito svariate volte più piccolo di quello delle banche tedesche salvate dalla cancelleria di Berlino, dovrebbe suggerire qualcosa.

Quanto ai trasferimenti dal centro alla periferia: anche se la Germania lo volesse, non potrebbe probabilmente in alcun modo sostenere a lungo andare il finanziamento delle periferie. Se si trattasse solo di sovvenzionare la Grecia, che è, se non vado errato, un tredicesimo o un quattordicesimo dell’economia tedesca, forse ancora ancora… Ma qui si tratta si sostenere la Spagna, che è la quarta economia dell’eurozona, e l’Italia, che è la terza economia dell’eurozona! La Germania dovrebbe accollarsi il 70% dei costi dei trasferimenti, ammesso che la Francia riesca a collaborare. Qualcuno ha valutato il possibile sforzo tedesco attorno a una cifra pari al 12% del suo Pil annuo, almeno, e chissà per quanto tempo.

Ma anche se la Germania si accollasse questo sforzo, si affaccerebbe il problema di una maggior “dependencia” delle periferie dal centro, di una loro colonizzazione economica. Ammesso, e non concesso, che per la Grecia possa essere una soluzione, non può certo esserlo per una nazione manifatturiera come l’Italia, che si vedrebbe condannata alla deindustrializzazione e alla mezzogiornificazione appunto. C’è chi ha paragonato queste misure alla Cassa per il Mezzogiorno, ma almeno lì, nonostante tante carenze, errori, storture, qualcosa si era prodotto, fossero anche solo cattedrali nel deserto! Qui non si vedrebbero con ogni probabilità nemmeno le cattedrali, ma solo il deserto (produttivo).

Ma la scarsa volontà di collaborare dei gruppi dirigenti tedeschi taglia la testa a queste ipotesi. Nessuno può obbligare la Germania a fare ciò che non vuole.

C’è poi chi butta il cuore oltre l’ostacolo alimentando i vecchi sogni federalisti. Ma il rischio è di fare per l’ennesima volta la foglia di fico al processo di integrazione di segno reazionario. L’ipotesi di dare più poteri al coreografico europarlamento non sta in piedi. Bisognerebbe riscrivere i trattati da capo. Infatti: sarebbe opportuna un’altra integrazione. Ma per avviarla occorre che gli Stati nazionali si siedano attorno a un tavolo e rifacciano tutto da capo, con ben altro segno politico. Dal che non si capisce l’accanimento di Barbara Spinelli e dei suoi amici verso gli Stati nazionali, né come contino di “correggere” l’architettura della Ue partendo dall’impotente dieta di Strasburgo. C’è una sorta di pregiudizio irrazionale in questa chiusura verso la questione nazionale, un pregiudizio cosmopolita verso la dimensione nazionale. Non bisogna confondere il cosmopolitismo borghese con l’internazionalismo proletario.

Come ha notato anche Samir Amin, è sostanzialmente impossibile un cambiamento complessivo d’indirizzo in contemporanea in tutti i principali paesi europei. Non resta che agire laddove è possibile, restituendo agli Stati nazionali ciò che loro spetta: la sovranità di decidere la loro sorte. Non resta pertanto che spezzare le catene della Ue e dell’eurozona. E’, di fatto, impossibile implementare politiche economiche capaci di farci uscire dalla crisi ridando centralità al lavoro restando legati alla Ue e all’eurozona.

Il processo di integrazione e l’adozione delle politiche neoliberiste non sono stati eventi naturali, ma frutto di ben precise scelte politiche. Gli Stati ora appaiono impotenti perché determinate élites, per determinati motivi rispondenti a determinati interessi, hanno optato per la cessione della sovranità. C’è stata la volontà di compiere queste scelta. Ora ci vuole la volontà di farne altre, semplicemente.

Il discorso che insiste sul fatto che alla nostra epoca la sovranità nazionale sia impossibile è risibile e contraddetto da numerosi esempi, a partire dal processo di emancipazione latinoamericano che, prima di assumere una dimensione continentale, è partito proprio dalla riaffermazione della sovranità nazionale di paesi, come il Venezuela, da sempre schiacciati dall’imperialismo. Luciano Vasapollo e i compagni della Rete dei comunisti hanno avuto il merito di porre l’attenzione sull’esperienza dell’integrazione latinoamericana e caraibica dell’ALBA. Un’integrazione che avviene in contrasto con l’imperialismo e come affermazione di sovranità. I paesi che fanno parte dell’ALBA non cedono quote di sovranità, ma la rafforzano tramite la collaborazione reciproca e la cooperazione, mettendo a disposizione dei partner i loro punti di forza. Ma nella loro critica all’euro e nel delineare un’ipotesi di uscita questi compagni sembrano scettici circa la possibilità che sia un singolo paese a spezzare le catene. Sostengono l’ipotesi di costituire un fronte comune dei PIGS. Ma, anche in questo caso, è difficile che in tutti i PIGS maturino le condizione politiche per operare una rottura coordinata della Ue e dell’eurozona. Appare assai più probabile la svolta euroscettica di un paese, che possa eventualmente innescare un effetto a catena. Mi sono permesso di dilungarmi su questi punti per dare sommariamente conto, seppur in modo sintetico e parziale, delle ipotesi in campo, sia tra i riformisti eurocritici che tra gli euroscettici.

Nella scelta di utilizzare il recupero della sovranità come passaggio strategico per combattere la reazione e riaffermare un minimo di democrazia, uscire dalla crisi e riportare al centro il lavoro non vi è alcuna chiusura all’economia-mondo (alcuni interpretano erroneamente questo discorso come se si trattasse di un tentativo di riesumare l’autarchia fascista…). Vorrei sottolineare che c’è una bella differenza tra il trovarsi all’interno di rapporti di interazione o il trovarsi legati a rapporti di dipendenza neocoloniale. Del resto la Cina, che è il paese più sovrano del mondo, probabilmente, è anche il più aperto economicamente. Se invece con apertura all’economia-mondo s’intende l’accettazione della libera circolazione dei capitali sanciti dalla deregulation degli anni Ottanta, è tutto un altro paio di maniche. Bisogna avere il coraggio di ammettere che queste misure sono in contrasto con l’affermazione della democrazia. O c’è la centralità delle esigenze delle grandi centrali finanziarie, o c’è la centralità degli interessi dei popoli e delle nazioni. Punto.

Barbara Spinelli decida dove collocarsi, al di là della sua propensione per i gargarismi retorici. La sinistra di classe dovrebbe già sapere come collocarsi. Vi è qualcosa di triste e ridicolo al tempo stesso a vedere la figlia di Altiero Spinelli, nonché compagna di Padoa Schioppa, che cerca di dare lezioni sulla questione europea a quella parte della sinistra che, bene o male, si era schierata contro il Trattato di Maastricht in tempi non sospetti. (Anche se occorre ammettere che, purtroppo, successivamente, non è stata sempre coerente con quell’intuizione originaria).

E’ ovvio che l’uscita dalla moneta unica, di per sé, non sarebbe una misura risolutiva della crisi. Permetterebbe però l’adozione di una serie di misure macroeconomiche, delle quali nel Partito e sui suoi organi si è già scritto parecchio, che restando all’interno dell’Unione europea sarebbe impossibile applicare.

Dal punto di vista politico infatti dalla moneta unica si può uscire o da destra, continuando a fare politiche liberiste di attacco al mondo del lavoro, o da sinistra, cambiando radicalmente impostazione nella politica economica e sociale rispetto al recente passato. E’ evidente che dietro alla critica all’euro spesso si nascondono partiti politici squalificati, perché corresponsabili della crisi attuale, che cercano di stare a galla o di risalire la china e parti del corpo sociale di questo paese che avevano accettato l’europeismo per poter guadagnare dalla compressione dei diritti del lavoro, compressione promossa dalle politiche volute dalla Ue. Ma chi di precarietà ferisce, di crollo della domanda perisce. In ogni caso ciò non toglie che il nodo e il problema costituito dall’euro sia reale.

Occorre una grande unità e una grande massa d’urto per fermare la reazione in Europa. I comunisti, le forze della sinistra di classe, i sinceri democratici devono trovare la collocazione migliore in questa battaglia e devono chiedersi se sono di più gli europeisti critici di sinistra o se sono di più gli euroscettici di ogni colore che possono essere convinti della bontà e validità delle tesi e delle soluzioni che i comunisti e una sinistra patriottica e di classe possono proporre per uscire dalla crisi. Lasciare questo giusto e naturale terreno di lotta non presidiato può condurre solo a lasciare campo libero a forze demagogiche, qualunquiste o apertamente reazionarie, che potrebbero agitare verbalmente determinate bandiere pur di affermarsi, in modo gattopardesco.

In questa sede non posso fare a meno di notare che i comunisti sono sempre stati contrari a questo processo d’integrazione, fino a che non hanno imboccato il tunnel della mutazione genetica. Del resto, in proposito è illuminante quanto sostiene Giorgio Napolitano nella sua autobiografia:

“l’approdo del Pci all’europeismo costituì di fatto la più radicale rottura col suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivoluzionaria di matrice leninista”.

Per questo nell’affrontare la questione europea bisogna abbandonare miti europeisti e sovranazionali e rifiutare altresì i pregiudizi infondati sulla presunta impossibilità dello Stato nazionale di rappresentare ancora un arsenale per le conquiste delle classi subalterne, come è stato nel corso del Novecento, e come è ancora in altre parti del mondo. Credo che su questa base i comunisti di questa parte del mondo possano iniziare un nuovo percorso, una loro “lunga marcia” che gli consenta di riposizionarsi in modo fruttuoso, in prospettiva. Come sosteneva Mao, un protagonista della “lunga marcia”, “abbandoniamo le illusioni, prepariamoci alla lotta”.
* Relazione tenuta alla Scuola di formazione politica “Antonio Gramsci” del Pdci delle Marche
San Benedetto del Tronto, 8 febbraio 2014

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