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Antonio Gramsci e la concezione del partito comunista

di Andrea Catone

gramsci ales proc relief mapQuesto 95° anniversario della fondazione del Pcdi a Livorno cade in un momento particolare, in cui i comunisti in Italia si cimentano nuovamente con l’impresa “grande e terribile” di ricostruire in Italia un partito comunista “degno di questo nome”. Impresa grande e terribile perché i comunisti, che hanno contribuito in modo determinante a scrivere la storia d’Italia nel ‘900 – dalla Resistenza antifascista alla stesura della Carta costituzionale, alle lotte politiche e sociali del secondo dopoguerra condotte lungo il filo rosso della strategia della “democrazia progressiva” – sono oggi ridotti ai minimi termini, dispersi e frammentati in piccoli rivoli. Eredi di una storia gloriosa, ma anche di errori teorici e di pratiche politiche rovinose, dovuti in gran parte a subalternità ideologica e politica alle classi dominanti e ai loro partiti di riferimento, ci proponiamo di consegnare alle nuove generazioni uno strumento – il partito comunista – che riteniamo, oggi come ieri, indispensabile per resistere al capitalismo finanziario e all’imperialismo sempre più aggressivi, e accumulare forze per la trasformazione rivoluzionaria della società. 

Impresa resa ancor più difficile dal fatto che oggi è abbastanza diffusa anche nella cultura di “sinistra” la messa in discussione del partito politico tout court, in quanto tale. Questo attacco alla “partitocrazia”, apparentemente anarchico e libertario, è funzionale allo stadio oggi raggiunto dal dominio del capitale finanziario, che privilegia una società “liquida”, il più possibile atomizzata e incapace di esprimere strutture e corpi organizzati, resistenti e duraturi, alla quale far pervenire messaggi dall’alto, senza il filtro e l’elaborazione di un organismo critico e strutturato.  

Per Gramsci, invece, il partito politico era elemento imprescindibile nello stato moderno. Egli individuava tre gruppi di elementi fondamentali per l’esistenza e la resistenza di un partito politico:

1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente” con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito [già esistente] è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo “fisico” ma morale e intellettuale [Q 1733-34] [1].

Il secondo elemento, “l’elemento coesivo principale”, i “capitani affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni”, in una parola il “gruppo dirigente”, svolge una funzione cardine nel moderno partito politico, al punto che «un “movimento” diventa partito, cioè forza politica efficiente, nella misura in cui possiede “dirigenti” di vario grado e nella misura in cui questi “dirigenti” sono “capaci”» [Q 1133]. Occorre però che esistano “le condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante” [Q 1734]. 

La formazione del gruppo dirigente del partito politico, soprattutto del partito che si propone come fine la trasformazione rivoluzionaria della società è dunque questione centrale. Non a caso Palmiro Togliatti ne ripropone agli inizi degli anni ’60 una riflessione storico-documentaria, pubblicando La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924 [Editori riuniti, Roma, 1962].

Ma i gruppi dirigenti di un partito comunista – che è antitetico al partito politico borghese – non devono sostituirsi al corpo del partito e alle masse. Nel 1925, opponendosi alla concezione di Bordiga, Gramsci scrive:

Il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri distintivi politici e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse [Introduzione al primo corso della scuola interna di partito].

La concezione gramsciana del partito comunista si forma nel fuoco della lotta, passando attraverso la militanza nel PSI, di cui il giovane rivoluzionario sardo ha modo di sperimentare tutti i limiti politici, ideologici, organizzativi; la cruciale esperienza dell’occupazione delle fabbriche e del “biennio rosso”, filtrata attraverso l’azione di agitazione, propaganda ed elaborazione teorico-politica dell’Ordine nuovo fino alla scissione dal PSI a Livorno nel 1921; la grande scuola dell’Internazionale comunista e del leninismo; la battaglia interna al PCd’I contro le tesi di Bordiga, conclusasi col III Congresso, tenutosi clandestinamente a Lione tra il 20 e il 26 gennaio 1926. 

Moltissime cose sono cambiate rispetto a quella fase storica. Vale, tuttavia, la pena riproporre alla riflessione alcune grandi questioni sul modo di essere e di operare del partito comunista che nella battaglia politica contro il riformismo e contro il bordighismo e nella successiva elaborazione dei Quaderni dal carcere Gramsci pose. Alla condizione, però, di leggere il partito gramsciano secondo le indicazioni metodologiche dello stesso Gramsci, concependolo cioè come forma transitoria, legata ad una determinata fase storico-politica di una società concretamente determinata:

Solo dal complesso quadro di tutto l’insieme sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico [Q 1630].

Non si può, in altri termini, assumere meccanicamente la stessa forma partito che Gramsci contribuì a costruire negli anni Venti: il partito è una formazione storica, destinata ad estinguersi, insieme con lo Stato, in una determinata fase dello sviluppo della società comunista. “Storicamente”, scrive Gramsci in una lettera di fondamentale importanza indirizzata da Vienna a Togliatti e Terracini (9 febbraio 1924), “un partito non è mai definito e non lo sarà mai, poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popolazione, cioè quando sarà sparito. Fino alla sua sparizione, per aver raggiunto i fini massimi del comunismo, esso attraverserà tutta una serie di fasi transitorie e assorbirà volta per volta elementi nuovi nelle due forme storicamente possibili: per adesione individuale o per l’adesione di gruppi più o meno grandi”. Concetto ribadito nella riflessione successiva dei Quaderni:

poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più perché non esistono classi e quindi loro espressioni [Q 1732-33].

Al III Congresso del partito comunista d’Italia furono presentati dal Comitato centrale e approvati a larghissima maggioranza (la minoranza di Bordiga presentò un suo progetto di Tesi) 5 documenti: sulla situazione internazionale; per il lavoro nazionale e coloniale; tesi agrarie; tesi politiche: la situazione italiana e la bolscevizzazione del partito; tesi sindacali. Al punto 24 delle Tesi politiche [d’ora in poi indicate con T] si afferma che “la costruzione di un partito comunista [...] è in connessione diretta con i seguenti punti fondamentali: 1) la ideologia del partito; 2) la forma della organizzazione e la sua compattezza; 3) la capacità di funzionare a contatto con la massa; 4) la capacità strategica e tattica”. E si sottolinea: “Ognuno di questi punti è collegato strettamente con gli altri e non potrebbe, a rigore di logica, esserne separato”.

 

1. La formazione ideologico-politica

Nel 1925, nell’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito, Gramsci traccia un bilancio inclemente dello stato in cui versava lo studio e l’analisi marxista nel movimento operaio italiano:

L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata dal movimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all’infuo¬ri di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica bor¬ghese, che dai rivoluzionari. Abbiamo visto perciò nel partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le tendenze più disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del parti¬to le concezioni più contraddittorie. Mai le direzioni del parti¬to immaginarono che per lottare contro l’ideologia borghese, per liberare cioè le masse dall’influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel partito stesso la dottrina marxista e occor¬resse difenderla da ogni contraffazione [...] Questa fu la fortu¬na del marxismo in Italia: che esso servì da prezzemolo a tutte le più indigeste salse che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini…

Le Tesi di Lione riaffermano – nel giudizio critico che esprimono sul passato – la necessità di fondare la costruzione del partito comunista su una seria base marxista:

In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituì mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso (T, 3).

Tale errore costitutivo della precedente esperienza del socialismo italiano va corretto con

l’innalzamento del livello ideologico del partito [...] ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). È da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero dei singoli che lo compongono [T, 25].

 

2. La forma organizzativa del partito

“Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici” si dice al punto 29 delle tesi di Lione. La concezione che Gramsci ebbe del partito fu lontanissima da tendenze al burocratismo o da una visione feticistica dell’organizzazione. Si veda ad esempio la già citata lettera inviata da Vienna il 9.2.1924:

L’errore del partito è stato quello di aver messo in primo piano e in modo astratto il problema dell’organizzazione del partito, che poi ha voluto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero ortodossi verso la concezione ufficiale [...] Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé [corsivo mio, AC].

Uno dei punti su cui Gramsci insiste costantemente è quello della partecipazione consapevole e attiva di ogni membro del partito all’attività politica: occorre che “ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente” [Introduzione al primo corso della scuola interna di partito, 1925]. «È da combattere la forma di passività [...] che consiste nel sapere solo “attendere gli ordini dall’alto”. Il partito deve avere alla base una sua “iniziativa”»(T, 34). 

Il partito comunista deve essere un organismo vivente in cui possano fondersi “spontaneità e direzione consapevole” [Q 328]. La centralizzazione che Gramsci rivendica non significa in alcun modo accentramento ed esclusione della “periferia” dalle decisioni, ma “che in qualsiasi situazione [...] tutti i membri del partito, ognuno nel suo ambiente, siano posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva” (Introduzione al primo corso..., cit.). È un partito che eviti – e qui interviene la riflessione dei Quaderni (cfr. “Noterelle su Machiavelli”) – ogni forma di cristallizzazione burocratica:

La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria [Q 1604].

Il centralismo democratico caratterizza un partito “progressivo”, il centralismo burocratico un partito “regressivo”.

Il partito – si dice ancora nelle Tesi di Lione – deve essere attrezzato per dirigere il movimento di massa della classe operaia. Proprio per questo “la organizzazione del partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del luogo di lavoro (cellule)”. Infatti,

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di ‘aristocrazia operaia’. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.) i quali sono parte della massa e rimangono in essa pur esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice [T, 29-30].

 

3. Il rapporto partito-masse

Sin dall’esperienza dell’Ordine Nuovo e dei consigli di fabbrica Gramsci afferma la necessità di un rapporto stretto, “organico”, tra partito e masse: il partito deve vivere “sempre in mezzo alla massa operaia” [Soviet e consigli di fabbrica, aprile 1920], deve essere “sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo”, sapendone comprendere “le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l’unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all’insieme dei movimenti” (Per un rinnovamento del partito socialista, maggio 1920). 

Alla definizione di Bordiga del partito comunista quale “organo” della classe operaia, Gramsci contrappone quella di “parte della classe operaia”:

Dall’estrema sinistra il partito viene definito, trascurando e sottovalutando il suo contenuto sociale, come un “organo” della classe operaia, che si costituisce per sintesi di elementi eterogenei. Il partito deve invece essere definito mettendo in rilievo anzitutto il fatto che esso è una “parte” della classe operaia. L’errore nella definizione del partito porta a impostare in modo errato i problemi organizzativi e i problemi di tattica; 
per la estrema sinistra la funzione del partito non è quella di guidare in ogni momento la classe sforzandosi di restare in contatto con essa attraverso qualsiasi mutamento di situazione oggettiva, ma di elaborare dei quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle situazioni l’avrà portata al partito, facendole accettare le posizioni programmatiche e di principio da esso fissate [T, 27].

“Un partito bolscevico – è scritto nelle tesi di Lione – deve essere organizzato in modo da poter funzionare, in qualsiasi condizione, a contatto con la massa. [...] È da combattere la tendenza a tenere artificialmente ristretti i quadri: essa porta alla passività, alla atrofia. Ogni iscritto però deve essere un elemento politicamente attivo, capace di diffondere la influenza del partito, e tradurre quotidianamente in atto le direttive di esso, guidando una parte della massa lavoratrice”. Tutti i compagni vanno utilizzati in un lavoro pratico, è necessario il funzionamento collegiale degli organi centrali del partito. Va presa in considerazione “la capacità dei compagni di lavorare tra le masse, di essere continuamente presenti tra di esse, di essere in prima fila in tutte le lotte, di sapere in ogni occasione assumere e tenere la posizione che è propria all’avanguardia del proletariato”.

La direzione del movimento di massa non è mai acquisita una volta per tutte, e non può essere imposta in modo autoritario dall’esterno:

Questo non è vero per il periodo che precede, né per il periodo che segue la conquista del potere [...] Noi affermiamo che la capacità di dirigere la classe è in relazione non al fatto che il partito si proclami l’organo rivoluzionario di essa, ma al fatto che esso effettivamente riesca, come una parte della classe operaia, a collegarsi con tutte le sezioni della classe stessa e a imprimere alla massa un movimento nella direzione desiderata e favorita dalle condizioni oggettive. Solo come conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che esse lo riconoscano come il “loro” partito (conquista della maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni “patriottismo” di partito (T, 36).

Ma nel rapporto partito-masse, partito-organismi di massa, il partito comunista conserva il suo specifico e autonomo ruolo:

Le organizzazioni in cui il partito lavora e che tendono per loro natura a incorporare tutta la massa operaia non possono mai sostituire il partito comunista, che è la organizzazione politica dei rivoluzionari, cioè dell’avanguardia del proletariato (T, 37).

 

4. Capacità strategica e tattica

Il partito comunista deve essere presente in tutte le lotte proletarie di carattere parziale per legarsi alle masse, ma mirando a legare “ogni rivendicazione immediata a un obbiettivo rivoluzionario”; si serve, insomma, di ogni lotta parziale “per insegnare alle masse la necessità dell’azione generale, della insurrezione contro il dominio reazionario del capitale, e cerca di ottenere che ogni lotta di carattere limitato sia preparata e diretta così da poter condurre alla mobilitazione e unificazione delle forze proletarie, e non alla loro dispersione” [T, 39]. Sicché, “tutte le agitazioni particolari che il partito conduce [...] devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti”.

Nella direzione del movimento di massa il partito è portatore di una strategia per il passaggio ad “una forma superiore di civiltà”, di un progetto e concezione del mondo che non si lascino disperdere e annullare nelle pieghe (e beghe) della “piccola politica”. Il partito, il “moderno Principe”, “deve e non può non essere il banditore e dunque organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna” [Q 1560].

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NOTE
1. Le citazioni dai Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, saranno indicate con “Q” seguito dal numero di pagina.

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