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Il conflitto sociale

Valerio Bertello

E’ sempre stata ambizione delle scienze umane quella di costituire un sapere nel senso unitario in cui lo sono le scienze della natura, cioè una scienza fondata su un unico metodo, quello scientifico, e su un unico principio fondamentale, quello causale. Coloro che operano in campo sociale hanno sempre agito secondo principi pragmatici più o meno esplicitati, ma lontani dal costituire una teoria, e comunque contrapposti fra loro. Circostanza che in questa disciplina ha sempre costituito fonte di incertezza e perplessità.

Vi è un’unica significativa eccezione, l’economia, che ha sempre asserito di costituire una scienza del comportamento sociale secondo l’accezione delle scienze naturali. Non a caso essa è alla base dell’economia politica, quale sua applicazione in campo sociale nel senso più estensivo del termine. Nell’ambito dell’economia politica il socialismo scientifico è la teoria più comprensiva e conseguente, in quanto pone integralmente l’economia come propria base e dichiara suo campo d’indagine e d’applicazione tutta la storia. Quindi il socialismo scientifico non è solo un’applicazione dell’economia alla società, ma una teoria che considera l’economia una teoria della storia. Cioè come afferma Marx “l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica”. Più precisamente il socialismo scientifico teorico è il materialismo storico marxiano, mentre come prassi è il socialismo in quanto movimento politico. Così non solo l’economia viene storicizzata, ma la storia diviene storia materiale e l’economia, interpretata come materialismo storico, diviene per la storia ciò che la fisica è per le scienze della natura, la teoria fondamentale di tutte le scienze umane[1].

Compito di un discorso che si presenta come teoria della storia è spiegare il mutamento storico. Quindi questo è il banco di prova del socialismo. Il primo tentativo in questa direzione è opera di Marx, il creatore del materialismo storico. In effetti, poiché per il materialismo storico la storia è una storia di lotta fra classi sociali, esso è una teoria del conflitto sociale e tale era anche considerata la natura del mutamento storico dal socialismo politico, il cui scopo era proprio quello di operare un mutamento sociale in un contesto conflittuale.

Marx sviluppa il materialismo storico in modo non sistematico, cioè non come teoria astratta, ma applicando i suoi principi alla società capitalista. Infatti il suo intento principale è individuare il movimento complessivo del capitalismo, indagandone la nascita dalle società precedenti, l’evoluzione nel presente e i segni della decadenza. E’ soprattutto quest’ultimo il fine dell’indagine, vedere come il tramonto della società capitalista si rapporta con il progetto comunista, che così viene trasformato da volontarismo utopico e astrattamente razionalista in progetto storico, cioè fondato sulla conoscenza di concrete tendenze storiche già in atto.

1. - IL MATERIALISMO STORICO MARXIANO

Nel materialismo storico l’economia è la chiave per la comprensione del mutamento storico. La spiegazione di tale evento è fondata sui seguenti principi. Primo principio (IP) – Le forze produttive generano, in quanto forze sociali, le classi sociali e i rapporti di produzione di esse, cioè la struttura. Questi due elementi costituiscono un modo di produzione[2].

Le forze produttive sono dinamiche mentre i rapporti di produzione sono statici, per cui lo sviluppo delle forze produttive incontra da un certo momento in poi la resistenza dei rapporti di produzione vigenti. L’ulteriore sviluppo delle forze produttive richiede quindi una trasformazione dei rapporti di produzione, ciò che avviene con un certo ritardo sull’evoluzione delle forze produttive.

Secondo principio (IIP) – I rapporti di produzione determinano i rapporti politici e giuridici e questi a loro volta le produzioni intellettuali connesse e tutte le altre: storia, economia, filosofia, arte, religione, scienza, tecnica, che pertanto in generale sono creazioni ideologiche, cioè produzioni non autonome. Complessivamente queste forme sociali costituiscono la sovrastruttura[3].
Terzo principio (IIIP) – In una società di classe le attività sociali hanno un duplice fine: (1) politico: riprodurre i rapporti di produzione; (2) economico: soddisfare i bisogni sociali. Il primo fine ha la priorità assoluta, per cui il secondo diviene un mezzo per il primo. Quindi gli interessi particolari prevalgono nettamente su quelli generali[4].
Da questi principi discendono alcune conseguenze.


Principio materialista: essendo l’intera struttura sociale fondata sulle forze produttive (IP, IIP), ogni loro sviluppo o decadenza si riflette sulla struttura economica e di qui alla sovrastruttura ideologica. Pertanto lo sviluppo delle forze produttive è la causa del mutamento storico (primo corollario, IC).

L’utilizzazione delle forze produttive sarà determinato sia da esigenze politiche che economiche, ma sono le prime ad avere la priorità (IP, IIIP). Quindi la tecnologia è determinata sia dalla scienza che dalla lotta di classe, ma soprattutto da quest’ultima. Così anche l’introduzione di determinate forze produttive da parte della classe dominante, come l’uso che di esse viene fatto da parte dei produttori (secondo corollario, IIC).

Le finalità della produzione intellettuale sono sia politiche che economiche (IIP, IIIP), cioè preservare i rapporti di produzione e produrre contenuti intellettuali validi, però dando priorità delle prime
Quindi il pensiero di tutta la società rifletterà il pensiero della classe dominante, cioè sarà apologetico nei confronti della società esistente e influenzerà in tal senso la coscienza delle classi subalterne, costituendo così un freno alla lotta di classe. Di conseguenza, quando il modo di produzione entra in crisi ciò accade anche per tutta la sovrastruttura, per cui viene meno l’egemonia del pensiero della classe dominante, e la sua funzione di contenimento della lotta di classe. La coscienza dei subordinati si fa teorica e le lotte si radicalizzano (terzo corollario, IIIC)[5].

 

2. MODELLO MARXIANO DI CONFLITTO

Sulla base dei due principi fondamentali e le loro conseguenze è possibile ipotizzare un modello di conflitto sociale, costituito da fasi successive che nel loro insieme formano un ciclo storico. Ma questo è possibile in più modi. Il modello originario è quello marxiano, ma non è l’unico possibile.
Il materialismo storico marxiano propone uno specifico modello di conflitto sociale che può essere schematizzato nella seguente successione di fasi[6].

1. Equilibrio. I rapporti di produzione sono stabili, le istituzioni politiche e la produzione culturale sono in armonia con essi. Le forze produttive si sviluppano come conseguenza dello sviluppo storico della società senza entrare in conflitto con essa, cioè con i rapporti di produzione.

2. Crisi. Lo sviluppo delle forze produttive rende i rapporti di produzione inadeguati. Quindi i rapporti di produzione divengono un ostacolo a tale sviluppo per cui lo sviluppo delle forze produttive entra in conflitto con essi. Ma sulla base di tali rapporti sono organizzati gli interessi delle classi. Per cui si crea una opposizione fra quelle classi che nei vecchi rapporti, ora in crisi, trovano soddisfazione ai loro interessi e quelle che in essi sono svantaggiate e vedono quindi la crisi come la possibilità di instaurare nuovi rapporti di produzione, e di conseguenza sociali, più favorevoli.

3. Adeguamento. Le classi che sostengono il mutamento impongono le loro esigenze. I rapporti di produzione sono trasformati, l’equilibrio è ripristinato, le forze produttive possono nuovamente svilupparsi, sia quelle provvisoriamente paralizzate, sia altre per le quali si sono create le condizioni di sviluppo[7].

Questo modello pone due problemi.
In primo luogo il modello spiega il conflitto con lo sviluppo delle forze produttive, e quest’ultimo con lo sviluppo storico. Ma questa è una petizione di principio perché lo sviluppo storico stesso è considerato da Marx essenzialmente identico allo sviluppo economico, cioè delle forze produttive. Quindi da un punto di vista puramente logico tale affermazione non spiega nulla. Per cui il modello marxiano va completato con una ipotesi sullo sviluppo delle forze produttive. La causa di tale sviluppo può essere individuata nel carattere che le forze produttive assumono in una società di classe, quello per cui i bisogni sociali includono anche imperativi politici (IIIP). Cioè in una società classista lo sviluppo delle forze produttive non è contingente ma determinato dalle scelte politiche della classe che ha il controllo di tali forze. Per cui vi è un uso politico delle forze produttive, sia da parte della classe dominante, che può decidere quali forze produttive è necessario introdurre per preservare il suo dominio, sia da parte della classe subordinata, che utilizza i punti deboli del ciclo produttivo in modo da vanificare il controllo.

Quindi vale il seguente principo politico: la lotta di classe decide sia la nascita delle forze produttive che il modo in cui verranno utilizzate. Questo principio, insieme a quello materialista, costituisce il modello operaista, il quale appunto afferma essere la lotta dei produttori contro lo sfruttamento il motore dello sviluppo capitalistico e quindi della storia contemporanea.

In secondo luogo, Marx afferma che causa della crisi è il fatto che lo sviluppo delle forze produttive entra in conflitto con rapporti di produzione, ma non spiega perché lo sviluppo di forze produttive provoca la crisi limitandosi genericamente ad affermare che gli rapporti di produzione “si convertono in loro catene” in quanto “forme del loro sviluppo” divenute inadeguate poiché rimaste immutate. “E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”[8].

Espresso in questi termini l’ostacolo sembrerebbe solo di carattere tecnico, mentre in realtà si tratta di un rapporto sociale, cioè tra classi, in cui si contrappongono interessi economici, che a loro volta rimandano ad aspettative, aspirazioni, desideri, in una parola: bisogni. Ma i bisogni sono un elemento soggettivo e sovrastrutturale, come tali sono il riflesso di mutamenti nella struttura, cioè nella sfera della produzione. Occorre quindi ragionare in termini strutturali. In una società capitalista la prima questione sulla quale le classi si scontrano è il fatto che il capitale è interessato alla produzione in quanto produzione di valore di scambio, mentre il proletariato vi è interessato come valore d’uso. Infatti la produzione per il capitale ha come fine il plusvalore e la sua accumulazione in quanto profitto, per il proletariato il fine è la soddisfazione dei bisogni. Cioè il capitale costringe il proletariato a produrre più di quanto è necessario per impadronirsi del surplus.

Poi su questa opposizione di interessi si innesta quella tra modo sociale della produzione e modo classista dell’appropriazione del prodotto. Infatti in generale la cooperazione in una società di classe implica una contraddizione nei rapporti sociali:
- la divisione del lavoro opera come cooperazione tra i produttori secondo un principio egualitario, per il quale ognuno contribuisce secondo le proprie competenze;
- la ripartizione del prodotto invece ha luogo secondo un principio di classe, per cui il prodotto appartiene alla classe che esercita a vario titolo, secondo il modo di produzione (vari tipi di proprietà) la funzione di coordinamento (nella forma di comando in una struttura gerarchica), funzione che si arroga in quanto classe proprietaria dei mezzi di produzione.

Per cui la classe dominante decide in modo discrezionale la ripartizione del prodotto:
- trattenendo per sé la parte maggiore, sia in quantità che in qualità; - decidendo per ogni categoria di lavoro la parte corrispondente e usando tale facoltà come strumento di potere;
- impadronendosi del surplus, quindi del plusvalore, disponendo così del potere di decidere sul futuro della società.
Complessivamente si ha socializzazione della produzione e privatizzazione del prodotto.

Tale rapporto tra le classi è all’origine dell’alienazione, condizione generale delle classi subalterne nella società di classe, da esse percepita come sfruttamento, ineguaglianza, servitù, origine di un sentimento di esclusione dalla società che induce a combatterla. Nella società di classe l’alienazione è fonte permanente di conflitto, quindi sua contraddizione fondamentale e causa primaria della lotta di classe. Nella società capitalista tale contraddizione, unita alla contrapposizione tra valore di scambio e valore d’uso, sono le contraddizioni oggettive che portano al superamento del capitalismo e alla instaurazione del comunismo come abolizione del profitto e del valore.

 

3. - IL MODELLO MODERNO

Sulla base della critica al modello marxiano e tenendo conto della forma cui è pervenuto il capitalismo attuale si può proporre un modello più completo di conflitto sociale. Tale modello viene qui descritto in rapporto al modo di produzione capitalistico, in quanto forma più evoluta della società di classe.

1. Equilibrio: periodo di latenza (E)

I rapporti di produzione sono adeguati al pieno utilizzo delle forze produttive esistenti e allo sviluppo di altre nuove. Ciò significa che le forme di controllo sul lavoro sono efficaci, sia quelle repressive ed organizzative sul luogo di lavoro (IIC), poi quelle repressive e ideologiche nella società (IIIC): politiche, giuridiche, religiose, oltre a quelle in generale puramente ideologiche. Queste ultime costituiscono il dominio ideologico, che prende la forma dell’adesione in misura variabile delle classi subalterne al pensiero delle classi dominanti. Due i caratteri essenziali:

– Lotta di tipo moderato (sindacale). Le lotte sono assenti o sporadiche, hanno carattere di rivendicazioni su questioni specifiche e all’interno dei principi che reggono il sistema, che sono implicitamente accettati. Si tratta cioè essenzialmente di lotte salariali e normative. Le organizzazioni politiche e sindacali delle classi subalterne costituiscono specifiche istituzioni, in sedi e con prerogative specifiche, che rendono tali classi parte della società pur mantenendole al di fuori dalla realtà effettiva, cioè dall’economia. Situazione che corrisponde alla loro posizione nella divisione del lavoro: ruolo esecutivo, cooperazione forzata, ripartizione iniqua.

– Coscienza ideologica. Non vi è traccia di una percezione del sociale come qualcosa di transitorio, che quindi può e deve essere trasformato. Al contrario esso viene considerato certamente come qualcosa di oppressivo ma oggettivo, cioè naturale e quindi immutabile. In questo quadro della realtà sociale hanno libero corso le mistificazioni che ne mascherano i lati negativi, e le spiegazioni che li giustificano, che nel complesso costituiscono quell’apologia della società esistente che è il nerbo del pensiero dominante. Quindi ogni critica si mostra come critica interna al sistema economico-sociale, investendone solo aspetti particolari separati.

La lotta di classe risulta dunque assente, ma la situazione è in evoluzione. La dinamica della struttura materiale è una dialettica tra lotta di classe e forze produttive, che trova un equilibrio tramite l’instaurazione di un rapporti di produzione adeguato, in quanto in grado di assicurare il controllo sulla forza lavoro e quindi sul processo produttivo.
Periodicamente tale controllo viene assicurato, dopo di che si ha una fase di latenza delle lotte nel quale lo sviluppo delle forze produttive non produce lotta di classe. Ma ciò significa che le forze produttive che possono svilupparsi sono quelle esistenti, i mezzi di produzione in senso estensivo, e i produttori stessi in senso intensivo, cioè imponendo una intensificazione del lavoro a forze produttive costanti. Ciò in quanto per il IIIC è la lotta di classe che può stimolare lo sviluppo qualitativo e questa in tale fase è assente. Ciò determina di conseguenza lo sviluppo della figura di produttore adeguata alle forze produttive esistenti, che diviene la figura egemone. Contemporaneamente mentre la nuova figura si espande la figura precedente, espulsa dalla produzione dallo sviluppo quantitativo delle forze produttive esistenti tende ad essere emarginata e decade.

Ma tale sviluppo quantitativo determina una accumulazione di conflittualità repressa, che non tarda ad esplodere[9].  Qui la sorgente della conflittualità è semplicemente quella originaria, cioè la contraddizione fondamentale, quella tra socializzazione della produzione e privatizzazione del prodotto. Ma non bisogna trascurare come concausa della crisi la riduzione del saggio di profitto dovuta alla concorrenza tra capitalisti suscitata dal diffondersi di una determinato tipo di forze produttive.
Quindi a causa della contraddizione fondamentale e dell’apparizione di una nuova figura della classe subordinata l’equilibrio nei rapporti fra le classi entra progressivamente in crisi. L’evento viene percepito diversamente dalle classi.

- dal punto di vista dei produttori: da una parte l’espansione quantitativa delle forze produttive ha significato una intensificazione dello sfruttamento; dall’altra la vecchia figura si vede minacciata di estinzione, mentre quella nuova vede nel rapporto di produzione esistente un ostacolo alla realizzazione dei propri interessi e dei nuovi caratteri maturati nella sua coscienza. Così le lotte delle due componenti della classe subalterna si saldano fra di loro, compensando i rispettivi limiti e potenziandosi così a vicenda. I vecchi produttori portano le loro esperienze e organizzazioni di lotta, i nuovi i loro contenuti progressivi e potenzialmente eversivi. Viene così generata una coscienza critica prossima al punto di rottura e lotte corrispondenti[10]. Tuttavia tale coscienza, come anche le sue lotte, non sono ancora al livello della rottura rivoluzionaria, in quanto in condizioni di equilibrio, permane in loro un carattere fondamentalmente ideologico, in quanto il pensiero dominante permane quello delle classi dominanti.
- dal punto di vista della classe dominante: la nuova figura della classe subalterna generata dalle nuove forze produttive ha per la classe dominante una doppia valenza. Da una parte rappresenta una forza produttiva che deve essere messa in produzione. Dall’altra la sua coscienza critica non solo rappresenta un ostacolo allo sfruttamento di queste nuove risorse ma costituisce un pericolo per l’ordine esistente. Quindi la classe dominante di fronte alla minaccia che la sovrasta rimane incerta tra il recupero, cioè l’accoglimento parziale delle rivendicazioni, e la repressione.

2. La crisi: la ristrutturazione (RS)

Tutti i fattori precedenti portano all’introduzione di nuove forze produttive, cioè ad un salto qualitativo tecnologico e quindi anche a una nuova divisione sociale del lavoro. Cioè il capitale fa un uso politico delle forze produttive, prima ancora che economico (IIC). Tale reazione provoca (1) l’ascesa della figura successiva, con caratteri e interessi specifici; (2) la decadenza di quella attualmente egemone; (3) una contraddizione tra rapporti di produzione esistenti e nuove forze produttive.
L’adozione di nuove forze produttive inizia già nel periodo di latenza in modo sporadico, nel clima teso creato dai primi segni dell’esplosione imminente, per cui compaiono i primi rappresentanti della figura successiva alla principale. In realtà non è la figura egemone a produrre la crisi, figura che dopo aver raggiunto l’apogeo decade a sua volta, contemporaneamente ai primi segni di esistenza della successiva. La decadenza inizia proprio all’apogeo e la causa principale è l’introduzione delle nuove forze produttive, la cui maggiore produttività relega in secondo piano quelle vecchie e la frazione di forza lavoro che ne è l’espressione. Ma la decadenza è dovuta anche alla istituzionalizzazione cui essa va incontro nella fase dell’equilibrio. La figura sucessiva è già presente sulla scena prima della crisi, ma non è percepita come tale e si confonde con la figura egemone. E’ la crisi stessa che ne rende evidente l’esistenza e il fatto che è proprio tale frazione, per quanto minoritaria, il sintomo più evidente della crisi stessa, che ne determina una crescita rapidissima, come anche il collasso della precedente figura apparentemente egemone ma in realtà già in declino.

Dal punto di vista politico il comportamento delle due frazioni è contradditorio. Da una parte la frazione già avviata al tramonto, forte dei diritti acquisiti, tende ad assumere una posizione sostanzialmente conservatrice ed ha nei confronti dell’altra frazione un atteggiamento di esclusione (ad esempio, l’aristocrazia operaia). Mentre il fatto di perdere continuamente potere effettivo la porta a resistere alla sua dequalificazione e a manifestare reazioni improvvise che possono assumere i contorni di episodi rivoluzionari. Ma si tratta in realtà di aspirazioni a recuperare un passato ormai definitivamente tramontato. Il contrario accade per la frazione più recente. Il fatto di essere nata dalla repressione delle lotte della figura anteriore la pone inizialmente in una condizione illusoria di relativo privilegio che la porta a credere di poter migliorare la sua posizione sociale e ad integrarsi, quindi la spinge ad una collaborazione di classe. Ma in realtà lo sviluppo delle forze produttive implica una dequalificazione per la quasi totalità della forza lavoro, quindi pone ogni nuova figura in una condizione di debolezza e di alienazione. Mentre lo sviluppo stesso della sua consistenza numerica da una parte relativizza la condizione di privilegio e dall’altra accresce la sua forza contrattuale. Al contempo la maggiore consapevolezza della sua condizione, derivante dal suo miglior adattamento alla società esistente, la induce a considerare con realismo la sua condizione di crescente alienazione e a produrre prospettive di superamento dell’esistente.

La crisi: la radicalizzazione (RD)

L’introduzione delle nuove forze produttive mette in crisi i vecchi rapporti di produzione. Quindi dopo i primi tentativi, quando le nuove forze produttive sono introdotte in massa il risultato controproducente è quello di far esplodere la lotta di classe, sia per l’inadeguatezza di rapporti di produzione che per lo squilibrio tra rapporti di produzione nuove ed rapporti di produzione vecchio, che provoca il crollo anche del controllo ideologico. Infatti la marea montante delle lotte, sebbene fossero lotte meramente rivendicative, ha costretto la classe dominante a intervenire con la massima energia per riprendere il controllo della classe subalterna. Ciò avviene su due fronti: nella produzione sul processo di lavoro, nella società per la tutela della proprietà. E utilizzando nei due ambiti due strumenti: prevalentemente la tecnica nel primo, le riforme istituzionali (e solo come “ultima ratio regis” la repressione) nel secondo. Decisivo è il mutamento del processo di produzione che vede un incremento e uno sviluppo dei mezzi di produzione in generale e della divisione del lavoro in particolare. Trasformazioni queste che accrescono la dipendenza del processo di lavoro dalle macchine, poiché i produttori vengono espropriati della loro competenza lavorativa e immessi nel lavoro sociale, dominato dai proprietari dei mezzi di produzione che ivi compaiono come direttori del processo. Ma in realtà il lavoro sociale, che essi dominano in quanto ne posseggono gli strumenti, è per loro innanzitutto uno strumento di dominio e quindi di appropriazione del plusvalore. Ma qui emerge una contraddizione. Il fine prioritario della ristrutturazione è il cambiamento del processo di lavoro, inefficiente e minato dall’indisciplina. Ciò implica la restaurazione del rapporto di produzione esistente, che però è quello negato dai produttori in agitazione, in quanto costituito dalle vecchie forme di controllo, incompatibili con le nuove forze produttive ora introdotte (macchine e organizzazione). Infatti per questo le rivendicazioni avanzate dal movimento di lotta vengono accolte in forma insufficiente o inizialmente respinte. Quindi questo sviluppo di nuove forze produttive avviene nel quadro di un rapporti di produzione appartenente al passato, alle vecchie forze produttive ormai superate. Ciò crea una contraddizione tra forze produttive e rapporto di produzione, che apre una crisi nel pensiero dominante, che non può più presentarsi quale suprema istanza del pensiero della società, come suo criterio ordinatore. Il risultato è una crisi dell’ideologia e quindi della coscienza ideologica fino a quel momento prevalente nelle classi subalterne, che infine possono attingere a una percezione chiara e distinta della loro posizione sociale e della relazione che intercorre tra essa e i rapporti sociali correnti. Cioè la coscienza dei subalterni si fa teorica e la critica da frammentaria e incoerente si fa unitaria e conseguente, da interna diviene esterna e investe il sistema come totalità. Le lotte si radicalizzazno nelle forme e soprattutto nei contenuti, cioè viene posta la questione del superamento della società esistente.

La crisi: adeguamento (A)

In tale crisi sono possibili due esiti:
- Adeguamento dei rapporti di produzione alle forze produttive di recente introdotte, ciò che determina una nuova situazione di equilibrio. Ciò avviene in quanto vengono accolte le rivendicazioni dei nuovi produttori, sebbene solo in forma depotenziata, in modo che esse possano produrre maggior plusvalore, e quindi rivolte contro di loro. Ciò significa che il rapporti di produzione viene adeguato alle nuove forze produttive e alla forza lavoro che gli corrisponde, ripristinando l’equilibrio. Quindi la ristrutturazione avviene, fin dove possibile, nella forma non della repressione ma in quella del recupero.
Dal nuovo equilibrio può iniziare un nuovo ciclo.
Qui compare un principio fondamentale del conflitto sociale, il principio dell’adeguamento, per cui nella lotta di classe ciascuna classe usa contro l’altra gli stessi mezzi, sia materiali che intellettuali[11].
- L’adeguamento fallisce. Allora si ha necessariamente un rilancio della ristrutturazione in un nuovo tentativo di arginare la crisi. Si può innescare quindi una retroazione esplosiva che può portare il sistema a deflagrare.

 

4. CONSEGUENZE

LA CONTRADDIZIONE FONDAMENTALE

Come si è visto (v. il materialismo storico) dai tre principi fondamentali conseguono i due corollari CII e CIII. Riassumendo essi possono così essere enunciati:

IIC. - Lo sviluppo delle forze produttive (FP) è determinato dalla lotta di classe (LC), quindi dalla coscienza teorica (CT), che ne è la condizione.

Cioè: CT > LC > FP. Infatti, poiché la forma delle forze produttive è determinato dalla necessità di preservare il potere della classe dominante, cioè il suo controllo sulla forza lavoro, la lotta di classe radicale quindi la coscienza teorica determinano lo sviluppo delle forze produttive.
IIIC. – La coscienza (teorica), quindi la lotta di classe, sono determinate dallo sviluppo delle forze produttive.

Cioè: FP > CT > LC. Infatti, lo sviluppo delle forze produttive va oltre il limite consentito da rapporti di produzione quando questo diviene inadeguato al controllo della forza lavoro, sia nella produzione (come organizzazione del lavoro) che nella società (come ideologia). Allora la coscienza di classe dei subordinati cessa di essere ideologica e può divenire teorica, consentendo una lotta di classe radicale.

Di conseguenza perché ci siano lotte di classe radicali occorre la coscienza teorica, quindi lo sviluppo delle forze produttive, ma perché ci sia lo sviluppo delle forze produttive occorre la lotta di classe radicale, quindi la coscienza teorica. Pertanto CII e CIII se da un punto di vista logico sembrano contraddirsi, in realtà dal punto di vista dialettico LC e FP si implicano a vicenda, cioè dinamicamente formano un anello di retroazione positiva in cui ciascuna alimenta lo sviluppo dell’altra. Ma perché abbia inizio un ciclo di lotte è necessario un elemento indipendente sia da LC che da forze produttive, e questa non può essere che un fattore extra sociale, cioè naturale, in quanto ogni elemento sociale dipende da forze produttive, compresa la coscienza.12
Nel capitalismo la contraddizione naturale è quella che contrappone una distribuzione naturale, cioè individuale a una produzione sociale. Si tratta quindi della contraddizione fondamentale.13


LO SVILUPPO DEL PROLETARIATO

Come si è visto il precedente modello di conflitto sociale implica che le classi non siano statiche ma si modifichino nel tempo in quanto successione di figure sociali legate allo sviluppo delle forze produttive, figure che d’altra parte rappresentano una forza produttiva potenziale che deve essere oggettivata.
Il diagramma rappresenta schematicamente lo sviluppo dei cicli della lotta di classe e il corrispondente sviluppo di una classe attravarso la successione di figure. Per fissare le idee il diagramma è riferito al modo di produzione capitalistico.



I tratti essenziali di questo sviluppo sono i seguenti:

- Lo sviluppo avviene come successione di figure le quali realizzano la posizione della classe nella divisione del lavoro in modi differenti, dipendenti dallo sviluppo delle forze produttive, sempre però all’interno di un modo di produzione che conserva i suoi caratteri fondamentali.
- Ogni figura si sviluppa in un intervallo tempo di due cicli, ma che si estende su tre cicli successivi.
- Ogni figura nasce al culmine del ciclo, cioè nel punto medio tra due crisi, raggiunge il massimo sviluppo al culmine del ciclo successivo per estinguersi al culmine di quello seguente
- Il massimo sviluppo di una figura coincide con l’estinzione delle precedente e la nascita della successiva.

L’intero modello è fondato su alcune ipotesi e sulle deduzioni qualitative che se ne possono trarre, ma anche su alcune constatazioni empiriche. Esso necessita di essere confrontato con i fatti storici, di quelle che si possono chiamare verifiche ed applicazioni empiriche.

 

5. CICLO DELLA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

La teoria va considerata essenzialmente come strumento di analisi. D’altra parte essa nasce essenzialmente come sintesi di fatti concreti. Quindi nasce dal concreto per ritornare al concreto. Quindi un discorso teorico non può considerarsi concluso se non viene utilizzato per interpretare i dati della realtà concreta, in questo caso la realtà storica.

Il proletariato ha finora generato tre figure, corrispondenti ad altrettanti cicli del capitale: operaio professionale o di mestiere (proletariato classico nato con la prima rivoluzione industriale C0); operaio comune (proletariato moderno, corrispondente alla seconda rivoluzione industriale C1); operatore dei servizi (proletariato postmoderno, prodotto dalla terza rivoluzione industriale C2).
Sulla base di tale modello storico interpretiamo il ciclo della seconda rivoluzione industriale.

Crisi della seconda rivoluzione industriale (C1)

- RI: sotto la spinta delle lotte del proletariato classico, culminate con la Comune (1871) sono introdotte nuove tecnologie (elettricità, chimica) e soprattutto viene sviluppata l’applicazione della scienza alla tecnica e l’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo).
Qui ha origine il proletariato moderno, le cui lotte si intrecciano con quelle del proletariato classico. Ma sono più radicali, perché le prime producono i sindacati di mestiere, chiusi agli operai senza qualificazione, le seconde danno origine ai sindacati d’industria, che unificano il proletariato, sulla base del lavoro astratto. Così per i partiti. Il partito classico socialdemocratico è rivoluzionario nella teoria ma riformista nella pratica, mentre quello moderno è rivoluzionario nelle forme di lotta e riformista nella teoria. Il caso esemplare è dato dalle lotte di classe negli Stati Uniti, che va dalla contrapposizione tra IWW ed AFL, fino alla costituzione del sindacato d’industria AFL-CIO. La nuova figura, l’operaio comune, emerge inizialmente in modo impercettibile da quella vecchia, dagli strati meno qualificati, per erosione del mestiere, patrimonio del proletariato classico. In questa fase (E1) l’origine della lotta di classe va ricercata nella contraddizione fondamentale.
- RD1: l’introduzione di nuove forze produttive crea uno squilibrio con rapporti di produzione, che determina una radicalizzazione dello scontro di classe. Questo vede la lotta dell’operaio di mestiere contro le nuove tecnologie e l’assetto sociale corrispondente, che determina conseguenze epocali, cioè la crisi del “secolo breve”: le due guerre mondiali, la rivoluzione russa, la decolonizzazione
- A1 : il proletariato classico viene sconfitto con l’istituzione dello stato sociale e dove è necessario con il fascismo. L’operaio di mestiere viene sostituito dall’operaio comune e dalla burocrazia impiegatizia.

Taylorismo (E1): vede lo sviluppo della figura dell’operaio comune e dell’impiegato, cioè del proletariato moderno, come conseguenza dello sviluppo delle nuove forze produttive. Così, tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 60 (decolonizzazione), giunge all’apogeo il ciclo della seconda rivoluzione industriale e dell’operaio comune che include inizialmente anche il ceto impiegatizio. Dopo inizia il suo declino che coincide con l’inizio di un nuovo ciclo. Si può tentare di descriverlo sulla base della conoscenza ormai completa del ciclo precedente già terminato.

Lo sviluppo delle forze produttive che segue C1 dà origine al moderno proletariato taylorista, dequalificato ma numeroso e ben organizzato, che domina la scena soprattutto nel dopoguerra. Ma la produzione stessa di tale proletariato richiede la creazione di una nuova struttura, quella dei servizi, cui deve essere destinata una forza lavoro che si aggiunge a quella in produzione per formare il proletariato taylorista. Esso si sviluppa durante il periodo di latenza con lotte rivendicative che lo portano ad essere parte della società capitalista che si è sviluppata sulla base delle forze produttive introdotte in precedenza. Ma si tratta per il proletariato taylorista di vittorie che lo ingabbiano sempre più in uno stato di collaborazione istituzionalizzata, garantita da potenti organizzazioni sindacali e partitiche. Si accumula una conflittualità repressa che esplode con le lotte degli anni 70. Ma nell’ambito di queste lotte si distacca una nuova figura generata dai primi tentativi di controllare le lotte del proletariato taylorista attraverso le tecniche dell’automazione e dell’informatica. Si tratta di un ceto di tecnici che, se inizialmente si confonde con la forza lavoro dequalificata taylorista, lentamente trapassa in una nuova figura di proletario, il proletariato postmoderno, caratterizzato dalla perdita totale della specializzazione residua in favore di una base di competenze generiche che permettono l’adattamento a mansioni variabili, con la conseguente acquisizione del carattere di forza lavoro flessibile, mutamento che si riflette sul rapporto di produzione implicando la lenta decadenza del rapporti di produzione definito dalla garanzia del posto di lavoro fisso, che aveva caratterizzato il rapporto di lavoro del proletariato taylorista.

Le lotte del proletariato moderno e postmoderno si sovrappongono. Queste ultime, pur essendo di gran lunga quantitativamente inferiori alle prime si dimostrano più radicali ed innovative nei contenuti, in quanto vede studenti, impiegati, tecnici lottare contro l’autoritarismo, criticare il lavoro e rivendicare uno stile di vita qualitativo. Ma sono lotte radicali anche nelle forme, in quanto vengono intraprese occupazioni, costituite comuni, creati nuovi stili di vita, cioè tentativi di prassi autogestionaria. Caratteri questi che si trasmettono alle lotte operaie del proletariato classico, lotte che giungono al culmine nel Maggio francese del 1968, arrivando a sfiorare il rovesciamento dello stato borghese.

La crisi degli anni 70 (C2)


- RS2 : la risposta immediata del capitale è la ristrutturazione, che prende la forma dell’attuale rivoluzione informatica, ma anche dei trasporti, dalla quale scaturisce la globalizzazione, evento che assume le sembianze di una nuova rivoluzione industriale e di una generalizzazione del proletariato postmoderno. Esso vede accolte le sue rivendicazioni, ciò che realizza la sua egemonia, ma in una forma tale, tecnocratica e tecnologica, da determinare un aggravamento della sua subordinazione al capitale. Al contempo si determina la fine del vecchio proletariato, espulso dalla produzione o costretto a dequalificarsi in bracciantato intellettuale.
- RD2 : la ristrutturazione crea uno squilibrio tra forze produttive ed rapporti di produzione che determina una coscienza teorica nel proletariato postmoderno. Esso si trova così a condurre la sua lotta in una prospettiva potenzialmente rivoluzionaria. La lotta, iniziata negli anni 70, è ancora in corso e già vi sono sconfitti e vincitori. Tra i primi il capitalismo burocratico, cioè l’Unione Sovietica e quello occidentale, che vede gli Stati Uniti in declino; fra i secondi i paesi ex-coloniali, in primo luogo la Cina, l’India, il Brasile.
Quanto al proletariato esso è al bivio: o costituire una forza lavoro complementare e funzionale al nuovo modo di produrre (capitalismo transnazionale) o tentare l’avventura di una trasformazione sociale radicale, facendo leva sulla crisi del capitalismo.
- A2 : con la rivoluzione informatica il capitale tenta di adeguare il rapporti di produzione allo sviluppo delle forze produttive cioè di completare la terza rivoluzione industriale. La strumento è come sempre lo stato, che viene trasformato per trasformare la società. Come in C1 vengono usati la repressione e il recupero, però ora non più separatamente secondo le situazioni, ma in una mistura accuratamente dosata, dove repressione e recupero sono fuse in un’unica forma statuale, la democrazia autoritaria, una commistione di fascismo e democrazia formale. Formula resa possibile dal totale controllo della sovrastruttura grazie alla potenza smisurata deille tecnologie dell’informazione, che rendono il pensiero delle classi dominanti prossimo al dominio assoluto.

 

Note:

1. Infatti l’economia politica dei classici viene da essi denominata come “aritmetica politica”
2.  Nella società la produzione ha luogo come produzione sociale, quindi nella forma della divisione del lavoro, divisione che appare come estensione di quella spontanea che appare nella famiglia naturale. La divisione del lavoro come cooperazione segna l’inizio della storia in quanto con essa viene a costituirsi la più potente delle forze produttive, il lavoro sociale. Ma segna anche la nascita della società di classe perché in essa la divisione del lavoro si fonda sulla costrizione, che nel capitalismo è ottenuta separando il lavoro dai mezzi di produzione, creando così due classi, quella del lavoro (lavoratori espropriati e ridotti a semplici esecutori) e quella del comando (proprietari e direttori del processo di produzione). L’altra forma della divisione del lavoro è quella sociale, fondata sullo scambio, che origina dallo scambio di eccedenze tra comunità primitive autosufficenti. Qui le classi nascono dalla specializzazione (corporazioni, caste, ceti).
3. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riunuti,1974, Introduzione, p.5,6
4. Marx, Capitale, Editori Riuniti, 1989, I, 13, p.480.
5. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1983, p.21.
6. Marx, Introduzione, cit., p.5.
7. “lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” (Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1973, p.30).
8. “lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” (Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1973, p.30).
9. Hobsbawm individua nelle lotte operaie inglesi un modello di sviluppo del conflitto sociale che ben si adatta al modello operaista (Hobsbawm, studi di storia del movimento operaio, Einaudi, 1978, p.184). Il modello ha le seguenti caratteristiche:
1. Inizialmente la tecnologia rimane immutata, cioè non vi è sviluppo qualitativo delle forze produttive, ma solo un aumento del carico di lavoro. Quindi lo sviluppo delle forze produttive sta tutto nell’imposizione alla forza lavoro di cadenze accelerate, nella riduzione dei tempi morti, nel peggioramento delle condizioni di lavoro. Questo è possibile in quanto il rapporto di produzione permette un forte controllo e disciplinamento della forza lavoro.
2. Poichè i produttori stessi sono la maggiore delle forze produttive, questa va considerata una espansione delle forze produttive, per quanto al suo livello più basso. Tale sviluppo quantitativo delle forze produttive determina un aumento dello sfruttamento, cioè della produzione di plusvalore, con un conseguente alto tasso di accumulazione. In tale situazione entra in azione la contraddizione fondamentale, che inizia a corrodere la condizione di equilibrio creata dalla omogeneità tra forze produttive e rapporti di produzione, cioè accade che cominci a diffondersi insofferenza rispetto alle condizioni di lavoro.
3. Ma non per questo ciò conduce ad una critica sociale generale. Infatti tale malcontento non determina un inasprimento delle lotte, ma al contrario vi è una assenza di lotte o tutt’al più lotte isolate di tipo rivendicativo moderato.
4. Tuttavia, questo è solo quanto accade in superficie. Al di sotto di essa questa condizione di sfruttamento sempre più intenso produce una accumulazione dei motivi di scontento, alla loro compressione che porta la tensione sempre più vicina al punto critico, nel quale basta un un semplice attrito che fino a quel momento era apparso perfettamente tollerabile, per provocare una reazione a catena ed una violenta esplosione di lotte, cui segue una crisi generale.
5. Nella crisi si ha da parte della forza lavoro la nascita di organizzazioni radicali, da parte del capitale, che fino a quel momento aveva ridotto gli investimenti al semplice ammortamento degli impianti esistenti, o al loro ampliamento, si dà inizio ad un programma accelerato di investimenti, attuando una ristruttutazione, cioè il rinnovamento qualitativo degli impianti. Segue lo scontro risolutivo per la determinazione della nuova organizzazione del lavoro, cioè del nuovo rapporti di produzione.
10. I nuovi caratteri della figura emergente hanno la forma di una dequalificazione complessiva ma al contempo di un maggior sviluppo delle forze produttive intellettuali. Come quelle materiali anche queste nuove forze produttive incontrano nel rapporti di produzione un ostacolo al loro sviluppo. Nella produzione come rapporto gerarchico e dispotico, nel consumo come pensiero e pratiche repressive: moralismo censure, visioni retrive, ecc., cioè nei riflessi sovrastrutturali dei rapporti di produzione. Così anche la vecchia figura, cioè le vecchie e superate forze produttive, vedono nel rapporti di produzione vigente la causa della loro sconfitta. Del resto per entrambi il risultato finale è il medesimo: appropriazione da parte della classe dominante delle forze produttive della classe subalterna mediante la sua oggettivazione in mezzi di produzione (materiali e relazionali). Per la vecchia figura ciò è già avvenuto, portandola alla rovina, per la nuova è la sorte che gli si prospetta.
11. Ad esempio, la borghesia usa il linguaggio religioso contro la feudalità, gli operai l’organizzazione del lavoro e le macchine contro il capitale.
12. Analogamente Marx fonda lo sviluppo storico su quello delle forze produttive, e questo sullo sviluppo storico. Così deve operare una scelta, privilegiando le forze produttive.
13. Più esattamente si tratta dell’opposizione tra il principio naturale dell’istinto di sopravvivenza individuale, che si risolve nell’evoluzione della specie attraverso la sopravvivenza dei meglio adattati all’ambiente (qui si ritrova la mano invisibile di Smith), e il principio sociale della divisione del lavoro, speculare al precedente, dove la rinuncia all’egoismo determina un maggior vantaggio collettivo.

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