Macchinismo, programma minimo di classe e riduzione dell'orario di lavoro
di Marco Beccari
Per opporsi con efficacia alle conseguenze del macchinismo (riduzione del salario e disoccupazione) i comunisti devono realizzare l'obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad una serie di seminari “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuti presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
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I capitalisti introducono le macchine nella produzione con lo scopo di ridurre il numero di lavoratori necessari per fabbricare lo stesso numero di merci, oppure per produrre più merci con lo stesso numero di ore di lavoro e di lavoratori [1]. Ciò avviene al fine di diminuire il costo del lavoro e, quindi, aumentare il plusvalore relativo per singolo addetto [2]. La missione storica del capitalismo, che determina lo sviluppo delle forze produttive, è proprio la produzione massima di plusvalore dal lavoro umano. A tal proposito la macchina agisce come alleato del capitale nella lotta di classe che si sviluppa tra capitale e lavoro. La macchina “diventa l'arma più potente per reprimere le insurrezioni...degli operai...contro l'autocrazia del capitale” [3]. I capitalisti, infatti, possono sfruttare meglio i salariati con l’aumento del numero di disoccupati.
L'uso della macchina è, tuttavia, un'arma a doppio taglio. Essa non è in grado di creare valore aggiunto (neo-valore), e quindi, plusvalore. “Le macchine non creano valore...non aggiungono mai più valore di quanto non ne perdano in media per il loro logorio” [4]. Il plusvalore non può crescere oltre ogni limite, di conseguenza l'aumento del capitale costante, dovuto all’introduzione di nuove macchine, si traduce, alla fine, in una caduta del saggio del profitto [5]. Marx afferma: "la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili, la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata" [6]. La macchina è alleata e, allo stesso tempo, nemica del capitale nell'accumulare plusvalore. Ora, siccome il saggio del profitto “costituisce la forza motrice della produzione capitalistica (viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto)” [4], allora l’accumulazione si inceppa e ha inizio un processo di crisi, che il capitale prova temporaneamente a contrastare. Tale caduta non può essere arrestata nel lungo periodo perché la tendenza immanente del capitalismo è quella di accrescere, oltre ogni limite, la forza produttiva del lavoro sociale mediante il macchinismo. “Lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali viene...in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente” [7]. Uno dei rimedi temporanei introdotto dai capitalisti per opporsi a questa caduta è l’aumento di plusvalore assoluto mediante l’allungamento della giornata lavorativa normale o l’estensione degli straordinari. Un altro, è incrementare l'intensità del lavoro per mezzo della diminuzione delle pause o della riduzione dei tempi morti (come alla Fiat di Pomigliano).
Cosa può fare la classe lavoratrice per opporsi con efficacia alla lotta di classe del capitale? Quale parola d’ordine i comunisti devono agitare? Nell’agosto del 1866 i lavoratori americani avevano rivendicato nel Congresso di Baltimora la giornata lavorativa di otto ore. Nel Congresso Operaio Internazionale, riunito a Ginevra nel settembre dello stesso anno, su proposta del Consiglio Generale di Londra, presieduto da Marx, fu approvata la seguente risoluzione: “Dichiariamo che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione” [8]. La parola d’ordine delle otto ore di lavoro fu accolta da tutta l’Internazionale dei lavoratori, in quanto la “lotta per i limiti della giornata lavorativa” è la “lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia” [9]. Non a caso ogni programma minimo di classe [10], preso in considerazione da Engels e Marx è caratterizzato dall’obiettivo della riduzione della giornata lavorativa [11]. Per contrastare gli effetti dell’introduzione delle macchine, la classe dei salariati deve lottare per la diminuzione dell’orario di lavoro, in quanto ogni lavoratore è reso, prima o poi, obsoleto dalla macchina. Come osservava Paul Lafargue, genero di Marx, “gli operai non hanno saputo capire che per avere lavoro per tutti occorreva razionarlo come l’acqua su una nave in difficoltà” [12].
La riduzione dell’orario di lavoro deve avvenire, però, a parità di salario e non nella forma di “patteggiamento solidaristico” come nei contratti di solidarietà, firmati dal sindacato tedesco Ig Metall, dove nei fatti la riduzione dell’orario di lavoro è una forma di cassa integrazione non retribuita. Quando gli affari vanno male, si riduce l'orario di lavoro e il salario. Nel 1987 nel settore tessile, in Italia, fu introdotto il contratto “weekend” che, rispetto al contratto nazionale di sei ore al giorno per sei giorni per un totale di trentasei ore settimanali, ripartiva le trentasei ore in dodici ore di sabato, dodici ore di domenica e dodici ore nella settimana. Questo era un modo per i capitalisti di far funzionare le fabbriche in modo continuo, senza interrompere la produzione. Contro questo tipo di contratto si opponeva solo il cardinal Ersilio Tonini di Ravenna-Cervia, perché per la Chiesa i lavoratori dovevano andare a messa la domenica, e pertanto tale contratto calpestava la loro dignità di “buoni cristiani”.
Per motivi ben diversi dalle esigenze di preghiera, pensiamo che i lavoratori per emanciparsi dall’autocrazia del capitale, devono necessariamente lottare per il controllo delle condizioni d’uso della forza-lavoro. Solo in questo modo potranno riappropriarsi della loro dignità umana. Questa lotta deve incidere sulla durata del lavoro, ovvero su orario di lavoro, straordinari, pause, tempi morti, ferie, ecc.; ma anche sull’intensità e sull’organizzazione del lavoro: ritmi, cottimo, premi di produzione, ecc.. La lotta per il controllo delle condizioni d’uso della forza-lavoro è la migliore strategia di risposta che la classe operaia possa dare agli effetti “perversi” della robotizzazione.
Si noti che, in termini politici, tale rivendicazione non è equivalente ad una semplice richiesta di aumento del salario, dove non è messo in discussione il comando del capitalista nei luoghi del lavoro, e nella società. La riduzione della giornata lavorativa implica un aumento del salario orario, ma non è solo una lotta salariale, è molto di più, poiché politicamente implica la riappropriazione da parte della forza-lavoro del proprio lavoro e il rifiuto del lavoro salariato capitalistico. Per questo Marx sosteneva che: “Invece della parola d’ordine conservatrice: «Un equo salario per un’equa giornata lavorativa»”, caratteristica dei socialdemocratici, “gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: «Soppressione del sistema del lavoro salariato»” [13]. E questa parola d’ordine, in una fase di programma minimo, richiede, in primo luogo, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.