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lacausadellecose

La lotta al razzismo negli Usa nel complicato rapporto col proletariato bianco

di Michele Castaldo

104332897 10158324127079105 1649804656588745197 nPrendiamo spunto da un corposo documento pubblicato da Ill Will Editions negli Usa, tradotto e pubblicato dai blog Noi non abbiamo patria e Il pungolo rosso, a seguito della lotta dei neri negli Usa provocata dall’assassinio di George Floyd, per tentare di mettere a fuoco la complicata storia del rapporto tra proletariato di colore e bianco negli Usa e in tutto l’Occidente in un momento cruciale di passaggio da una fase all’altra del modo di produzione capitalistico.

Lo scritto ospitato cerca di focalizzare la questione delle questioni che è emersa nel corso di mesi di scontri del proletariato di colore: il rapporto con i bianchi e più precisamente col proletariato bianco.

Gli autori scrivono: «Se la rivoluzione è all’orizzonte, la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi». Perché e in che modo?

«La prima e più ovvia ragione è che essi», cioè i bianchi, «costituiscono una parte gigantesca della popolazione. Secondo lo US Census, questo paese è per il 60,1% composta da bianchi europei. Rendiamocene conto. Il secondo gruppo più numeroso è quello dei latinos, che costituiscono il 18,5%, seguiti dai neri e dagli afroamericani con il 13,4%. Seguono gli asiatici al 5,9% e gli indigeni all’1,3%. Per quanto l’idea che i bianchi siano immutabilmente razzisti sia comprensibile, rimane però senza risposta il problema di come fare i conti con questo enorme segmento della società – a meno che la risposta non sia quella delle guerre razziali o della balcanizzazione razziale che finirebbero solo per rafforzare il dominio bianco e il genocidio dei neri, degli indigeni e delle altre persone di colore».

In queste righe viene riassunto il problema che hanno di fronte i neri negli Usa dopo le rivolte dei mesi scorsi e che per certi aspetti ancora continuano perché ancora prosegue la caccia all’uomo sia da parte della polizia che da parte delle formazioni bianche in difesa della proprietà e dei loro privilegi.

In queste poche note vorremmo richiamare l’attenzione su qualche aspetto teorico, politico e storico che l’insieme della questione pone. Per farlo bisogna per forza di cose mettere entrambi i piedi nel piatto senza girare troppo intorno ai problemi.

Leggiamo: «Il proletariato nero ha bisogno di sviluppare una strategia che includa il proletariato bianco. Per sfruttare opportunità simili e conquistare una posizione migliore per sé stesso nella lotta di classe».

La storia, pur non ripetendosi mai uguale a sé stessa, ci fornisce comunque materiale sufficiente per interpretare correttamente i fatti. Citiamo al riguardo la sconfitta delle rivolte operaie iniziate con la famosa domenica di sangue che diede vita a quella che è stata poi definita come la rivoluzione del 1905 in Russia, dove i maggiori dirigenti bolscevichi concordarono nell’individuare la causa di quella sconfitta nell’isolamento del proletariato industriale che fu guardato con sospetto dai contadini che pure avevano intrapreso da alcuni decenni la lotta per la terra in quel paese. E, giusto per onestà storica, va detto che mai le due classi si trovarono a lottare all’unisono per gli stessi obiettivi. In realtà le due classi, i servi della gleba (o mugichi) aspiravano a ottenere la terra per costituire in proprio aziende agricole, anche a carattere familiare e sviluppare l’accumulazione capitalistica, mentre il proletariato industriale, fatto in gran parte da ex mugichi “liberati” dalla servitù della gleba, era costretto a puntare all’integrazione nel processo di accumulazione del capitale e contrattare quota-parte sempre più significativa, ovvero migliori condizioni di lavoro, salariali e normative nel processo di sviluppo che si espandeva.

Perché citiamo la questione dei contadini e il suo rapporto distaccato, autonomo e in netto contrasto con la lotta del proletariato russo in quegli anni, mentre cerchiamo di affrontare un nodo storico cruciale in questo passaggio da una fase all’altra dell’accumulazione capitalistica nel più importante paese capitalistico al mondo? Che c’entrerà mai con il rapporto del proletariato nero negli Usa di questi mesi con il proletariato bianco? C’entra e cerchiamo di spiegare perché.

Le proteste operaie del 1905 in Russia erano dirette contro gli investitori stranieri che sfruttavano in modo bestiale il nuovo proletariato “liberato” dall’abolizione della servitù della gleba. Si passava così da una schiavitù all’altra, ma i lavoratori vedevano nel nuovo corso storico la possibilità di una vita migliore, mentre dovevano sperimentare quanto amaro fosse quel pane.

Ricordiamo, solo di sfuggita, che la servitù della gleba viene “abolita” in Russia nel 1861 mentre viene abolita quasi negli stessi anni, nel 1865, la schiavitù nera negli Usa. Erano due schiavitù diverse, ma con la medesima caratteristica: entrambe legate alla terra: ai coloni, negli Usa, ai pomesciki, alla nobiltà e al clero, cioè i possessori di feudi, in Russia.

Entrambe le servitù vengono superate non per la magnanimità dell’uomo, no, ma perché maturano nuovi rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, ovvero la rivoluzione industriale avanzava in modo impetuoso e si aveva bisogno di trasferire ingenti quantità di braccia dalla lavorazione della terra all’industria. Due erano le differenze sostanziali della schiavitù: una era, che in Russia, essa era costituita dagli schiavi autoctoni, mentre in America gli schiavi erano stati importati dagli europei dall’Africa; l’altra, era che nel 1917 in Russia ci fu la Rivoluzione che sottrasse la terra alla nobiltà e la distribuì per bocche ai contadini poveri; mentre negli Usa i coloni potevano continuare a sfruttare in agricoltura gli schiavi neri ritenuti di razza inferiore. Un aspetto, questo, che determina la differenza e sancisce sul piano storico la stratificazione razzista negli Usa, mentre non si sedimenta lo stesso sentimento in Russia prima e a maggior ragione nell’Urss dopo. Si tratta di un aspetto che riveste un ruolo centrale nello sviluppo del colonialismo e dell’imperialismo americano, mentre la Russia deve fare di necessità virtù e sfruttare il proletariato indigeno in condizioni diverse rispetto a quello americano. Questo aspetto viene quasi sempre rimosso o passato in secondo piano dagli storici (per lo più occidentali).

Sicché mentre in Russia si devono fare i salti mortali per avviare il processo industriale e mettersi al passo con i paesi occidentali, gli Usa utilizzando in modo razzista gli immigrati, possono accumulare sovraprofitti e investire nell’industria e magari garantirsi una certa compiacenza del proletariato bianco fatto arrivare dall’Europa, distribuendo ad esso quote di quei sovraprofitti.

È da questo processo materiale che nasce, cresce e si sviluppa il razzismo fra il proletariato bianco negli Usa nei confronti dei neri. Un razzismo sociale, materiale, fatto di condizioni diverse, e dunque di atteggiamenti diversi, di cultura diversa, da parte di proletari nei confronti di altri proletari: della serie tu sei inferiore dunque io ho più diritti di te, devo avere migliori condizioni di vita di te e posso aspirare a un ruolo superiore a quello che tu puoi avere; il famoso ascensore sociale che si è ormai definitivamente bloccato.

Se non si fissa bene questo concetto sulla storia del proletariato americano non si riesce poi a capire come può evolvere la situazione in questa fase, che è completamente diversa da quella precedente, ovvero degli ultimi duecento anni almeno dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.

Ora, la lotta per l’ottenimento di uguali diritti da parte dei neri era un passaggio fondamentale per quella che possiamo definire come la fase borghese del modo di produzione capitalistico negli Usa. Si trattava di un ritardo storico che il moto-modo di produzione doveva colmare e che le lotte dei neri nel corso dell’ultimo secolo hanno colmato, fino ad eleggere Barack Obama, cioè un afroamericano, a presidente dello Stato.

 

La “cecità” del nuovo corso della lotta degli afroamericani negli Usa

Poniamo all’attenzione di quanti fossero interessati a comprendere cosa sta realmente accadendo negli Usa l’affermazione di G. Antonio Stella sul Corriere della sera di mercoledì 9 settembre in memoria del pianista Tom, nero e cieco comprato e sfruttato dai bianchi insieme alla famiglia: «Thomas Green Wiggins, che a lungo portò il marchio del cognome del suo padrone schiavista, è la prova di quanto avesse ragione giorni fa Joe Biden a dire agli americani che “finalmente” è ora di fare i conti con “il peccato originale di questo paese, vecchio di 400 anni: la schiavitù e tutte le sue vestigia” ».

E Rosa Luxemburg giustamente diceva: quando le masse insorgono le loro voci riescono a infrangere le spesse mura delle régie.

Altrimenti detto: gli uomini di potere, che solo per comodità chiamiamo borghesia, sono ben consapevoli di avere alle spalle oltre 400 anni di razzismo, proprio come dice Biden, ma il punto in questione è: proprio perché è congenito al modo di produzione capitalistico, il razzismo ha permeato l’animo di milioni e decine di milioni di persone, per secoli, fra questi anche la gran parte degli operai bianchi, e addirittura una piccola percentuale di bruni e di neri integrati. Non molto diversamente stanno le cose in Europa occidentale (ma ce ne occuperemo in altra sede).

Sicché la dichiarazione di Biden suona come un pericoloso campanello d’allarme per tutto l’establishment, un campanello d’allarme che – invece – per Trump suona come un guanto di sfida da accettare a ogni costo per imporre ordine e disciplina perché è in gioco il ruolo degli Usa nel mondo e non si può affrontare una fase complicata della storia con le armi della complicità terroristica dei neri. E non ha torto Trump, perché la rivolta dei neri di questi mesi, per la crisi che sta investendo l’insieme del modo di produzione capitalistico incute realmente terrore al sistema. Non a caso il Corriere della sera attraverso la autorevole voce di A. Panebianco scrive: «[…] chi apprezza l’ordine liberale (la democrazia rappresentativa, l’economia di mercato, le libertà civili) che vige nel mondo occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale è tenuto anche a sapere che quell’ordine può perpetuarsi soltanto se sono presenti certe condizioni culturali, sociali, economiche».

La questione del razzismo e dell’antirazzismo si pone solo negli Usa? Certamente che no, in Europa è allo stato latente e destinata prima o poi a scoppiare, ma negli Usa c’è una specificità storica, dunque si presenta come la punta dell’iceberg di una feroce oppressione cui tutto il mondo degli oppressi e sfruttati guarda, compresa gran parte del mondo asiatico nei confronti del quale lo sfruttamento più bieco di centinaia di milioni di persone viene perpetrato attraverso quelle infernali maglie del mercato e in molti casi con la compiacenza di governi locali prezzolati ad arte per garantire profitti che in una crisi dell’accumulazione, come quella attuale, rischierebbero altrimenti di saltare. Quindi tutto il castello dell’accumulazione mondiale rischia di venire giù con un effetto domino partendo dal punto più alto raggiunto.

Tornando al documento pubblicato da Ill Will Editions di cui ci stiamo occupando, a un certo punto leggiamo: «Se la rivoluzione è all’orizzonte, la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi».

È, come accennato sopra, la questione delle questioni, ma va affrontata in modo capovolto da come l’affronta il suddetto documento, perché delle due l’una: o il modo di produzione capitalistico ha dinanzi a sé ancora un lungo respiro, e con esso gli Usa possono perpetuare il proprio dominio sul mondo come è successo per oltre un secolo, per cui la questione del razzismo deve essere superata nel suo alveo, oppure – come il documento accenna ma non approfondisce – il modo di produzione capitalistico è a tal punto in crisi, e gli Usa con esso, da non potersi permettere di alleggerire la pressione sui neri, ma anzi è costretto ad accrescere la precarietà del proletariato di nuova generazione e infoltire in questo modo l’antirazzismo anticapitalistico che va assumendo aspetti e dimensioni rivoluzionarie, come molti fatti degli ultimi mesi stanno lì a dimostrare e che lo stesso documento descrive.

In questo senso ci sentiamo di affermare che il movimento antirazzista esploso a seguito dell’assassinio di George Floyd è “cieco”, nel senso che non ha, perché non può avere, una rivendicazione che possa essere soddisfatta dal modo di produzione, come quella dei diritti uguali, perché si sta passando in una nuova fase della lotta antirazzista che ha alle spalle quella dei diritti e pone una rivendicazione “cieca”, nel senso che non riesce a definire con una sola rivendicazione unitaria per i soli neri, ma che la crisi è talmente profonda che la lotta al razzismo si va radicalizzando come una lotta di classe che vede nei neri l’avamposto della rivolta contro il sistema che esprime l’attuale modo di produzione. Il riscontro oggettivo lo possiamo verificare nel fatto che non si assottiglia la lotta contro il razzismo da parte dei soli neri, ma si estende coinvolgendo masse di proletari di nuova generazione e obbliga il proletariato bianco, che ancora si illude di poter guardare al capitale per la sua salvezza, a doverci fare i conti.

Ci appare perciò molto debole la posizione che esprime il documento che abbiamo sotto gli occhi, e siccome non amiamo fare dietrologia non ci avventuriamo in supposizioni che non aiuterebbero a riflettere su cosa sta realmente succedendo e cosa si delinea come linea di tendenza negli Usa e non solo.

Veniamo perciò al dunque citando passi del loro stesso documento quando scrivono: «Franz Fanon ha mostrato come il fronte di liberazione nazionale (algerino) avesse accolto nelle sue file gli algerini bianchi come militanti che stavano prendendo parte alla lotta contro il colonialismo francese dietro le linee nemiche». Giustissimo, esattamente come, ad esempio, hanno fatto i neri in questi mesi a seguito della morte di G. Floyd che hanno accolto nelle loro file i giovani proletari bianchi che, precarizzati e umiliati da un sistema feroce in crisi, si sono schierati con la loro rabbia.

Vien da chiedersi: in che senso « la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi »? Il BLM (Black Lives Matter), per quello che ci è dato sapere, ha tenuto conto sia dei bianchi che sono scesi a manifestare con la loro causa, sia dei bianchi contro cui hanno dovuto prendere misure diverse. Non esiste in astratto un unico metro. Tanto è vero che nello stesso documento si dice: «Seguendo la guida del proletariato nero nella rivolta di George Floyd, il proletariato bianco è tornato di nuovo potentemente sulla scena della storia. Mentre il proletariato bianco in gran parte non ha partecipato alle ribellioni urbane nere degli anni ’60, oggi c’è una nuova generazione di millennial bianchi e proletari della Generazione Z che combatte e muore insieme ai proletari neri nelle strade ».

Quali le ragioni di questo atteggiamento diverso da parte delle nuove generazioni di proletari bianchi? La risposta viene fornita, ancora una volta, dallo stesso documento: « l’attuale proletariato bianco ha subito decenni di deindustrializzazione, austerità, crisi degli oppioidi, crisi del 2007/2008 e ora la pandemia ».

Dunque non lo devono decidere i neri in che modo si devono comportare i bianchi e in modo particolare i proletari bianchi, ma sono i bianchi a dover decidere in che modo comportarsi in una fase che comincia a sconvolgere tutti gli equilibri fin qui consolidati. E sono chiamati a decidere non sulla base della libera volontà, ma perché attaccati in modo violento da un sistema in crisi. Sicché nessuna “strategia rivoluzionaria” preventiva potrebbe modificare il comportamento dei bianchi in un senso piuttosto che in un altro.

A maggior ragione va detto che chi dovesse cercare nelle rivendicazioni del nuovo movimento antirazzista americano la “strategia rivoluzionaria” rimarrebbe deluso, perché esso va valutato innanzitutto per la sua portata oggettiva, mentre l’aspetto della soggettività, che dovrebbe contenere la strategia rivoluzionaria, diviene un processo nel suo incedere. Ecco perché non ha senso parlare di “strategia rivoluzionaria”, e peggio ancora, del rapporto coi bianchi da tenere in debito conto. Tanto per fare un esempio: se il movimento dei neri di questi ultimi mesi avesse dovuto tener conto delle percentuali che nel documento vengono indicate, cioè di essere appena il 13,1% della popolazione americana, includendo in essi anche quelli integrati per cui la percentuale scenderebbe ulteriormente, questo movimento avrebbe dovuto tener conto di essere una estrema minoranza, dunque non avrebbe neppure dovuto prendere in considerazione di scendere in piazza. Ma la storia non procede per sociologici compartimenti stagni e spesso ribalta gli schemi prefissati. Pertanto la lotta antirazzista di questa fase negli Usa non si caratterizza come una lotta di una minoranza, no, ma di un potenziale dirompente dovuto alla crisi, che rimescola quei numeri in modo dinamico, separa quel che prima era unito, e propone nuovi poli aggregati. Altrimenti detto, in modo atomistico: scompone e ricompone i campi che prima si presentavano per compartimenti stagni. È la legge fisica della natura. Non a caso ci sono bianchi che si organizzano con le armi contro il movimento, e bianchi che vengono attratti dal movimento “antirazzista” che sempre di più si va caratterizzando – seppure in modo “cieco” – come antisistema. In questo senso salta anche lo schema che per comodità chiamiamo marxista, ovvero di classe contro classe, perché la crisi falcidia anche il ceto medio che diventa così una variabile impazzita. Lo diciamo perché sul piano storico certe strati sociali subiscono metamorfosi in virtù delle modificazioni che avvengono nei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione. A riguardo apriamo una breve parentesi ancora sui contadini e su due aspetti politici che il documento richiama: la rivolta di Kronstadt per un verso e la sconfitta del movimento anarchico di Makno da parte dei bolscevichi.

Abbiamo in precedenza accennato al fatto che in Russia le due classi proletariato e contadini non vissero mai in simbiosi e che Lenin e i bolscevichi furono costretti a cambiare il loro programma e sostenere la lotta dei contadini fino alle estreme conseguenze, che si materializzò con la fuga dal fronte e l’occupazione delle terre, la devastazione di stalle, l’uccisione di animali e ogni tipo di violenza nei confronti della nobiltà. Qualche storico definisce quelle giornate autunnali del 1917 come l’apocalisse per le campagne.

I contadini volevano la terra, insorsero e la ottennero, per bocche, cioè secondo il nucleo familiare. La prospettiva che si apriva per loro era chiara: aziende agricole, anche se a carattere familiare per gran parte di essi. Questo accadeva in una fase di straordinaria ascesa del modo di produzione capitalistico che permeava anche la Russia.

All’indomani della rivoluzione i bolscevichi furono costretti a creare squadre annonarie per requisire i prodotti agricoli, e centralizzarli per una ordinata distribuzione alla popolazione affamata dalla guerra. Questo atto politico fu definito Comunismo di guerra. Un’azione che fu duramente attaccata dagli occidentali perché ledeva i diritti di libertà dei contadini. Nel 1921 i marinai di stanza a Kronstadt insorsero ponendo come prima rivendicazione la libertà dei contadini di commercializzare i prodotti agricoli piuttosto che consegnarli alle squadre annonarie, dunque allo Stato. Il governo bolscevico represse duramente la rivolta e una volta ripristinato l’ordine il governo si orientò per i piani quinquennali scendendo a compromesso con i contadini lasciando loro una quota per la libera commercializzazione.

Sicché gli estensori del documento che stiamo esaminando farebbero bene a capire le cause di quella repressione piuttosto che ergersi a giudici storici a posteriori. E dovrebbero però anche chiedersi come mai e perché tutto il mondo capitalistico occidentale si scagliò violentemente contro i bolscevichi sia per la distribuzione della terra che per la repressione della rivolta di Kronstadt. Ma le due cose non possono essere disgiunte.

Stesso atteggiamento dovrebbe essere assunto nei confronti del movimento maknovista, che prende nome dal giovane anarchico, Nestor Makno, che predicava autonomia e armonia fra i contadini, in modo particolare per alcune zone dell’Ucraina rispetto al governo centrale dell’Urss. Qui entriamo in un campo minato, perché anche in Francia con la Comune di Parigi c’era chi propendeva per la stessa impostazione, ma si tratterebbe di affrontare più questioni che ci distoglierebbero dal tema che vogliamo focalizzare.

Purtroppo dobbiamo prendere atto che la gran parte delle tendenze di sinistra espresse dal ‘900 non riuscirono ad afferrare il senso storico del modo di produzione capitalistico che si caratterizzava come moto di rapporti degli uomini con i mezzi di produzione il cui cardine è la concorrenza fra le merci. Questo significava sin da allora che non c’era nessuna possibilità di sovranità di zona, di città, di nazione o di categoria, ma tutti venivano attratti nel vortice infernale della concorrenza. Al riguardo basta leggere quello che succedeva in Francia all’indomani della rivoluzione del 1789 contro la legge maximum. Solo oggi possiamo incominciare a toccare con mano i disastri che le leggi infernali di quel moto hanno provocato.

Fermare perciò l’attenzione sulla differenza dei due specifici contesti nei quali il ceto medio, unitamente a quella che definiamo aristocrazia operaia, è destinato a crescere per tutto un periodo in certe aree e essere messo in crisi dagli stessi meccanismi che lo hanno fatto crescere, ovvero il rapporto degli uomini con i mezzi di produzione.

Quanto al proletariato, essendo figlio legittimo e parte complementare dell’attuale movimento storico, esso è tenuto in vita finché le leggi del moto tengono in vita l’insieme del movimento storico del capitalismo e entra in crisi con l’acuirsi della sua crisi.

La “particolarità” del movimento che si è sviluppato a seguito dell’assassinio di George Floyd consiste in questa semplice verità: la lotta contro il razzismo da parte dei neri sta diventando, ben oltre la volontà degli artefici che sono scesi in piazza in questi mesi, lotta contro il sistema capitalistico e il proletariato bianco, che è posto in una spietata concorrenza col proletariato asiatico ma anche africano, e, sempre più impoverito, vien messo con le spalle al muro e chiamato a schierarsi, anche suo malgrado, dalla parte, almeno lo speriamo, della rivoluzione.

Si schiererà in tutto, in parte e/o in che percentuale? Non lo sappiamo, di certo non sarà nessuna strategia rivoluzionaria che lo farà schierare con la rivoluzione, ma solo l’accelerazione della crisi che è avviata ormai verso un caos catastrofico.

Comments

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merlino
Monday, 28 September 2020 20:47
Non credo sia un caso che i bianchi che appoggiano questo nuovo antirazzismo siano borghesi.

Nella definizione di classe si fa riferimento al rapporto con i mezzi di produzione, ovvero laloro proprietà.
I proletari, bianchi neri gialli verdi o che so io, sono della stessa classe sociale in quanto sopravvivono vendendo la propria forza lavoro, non per il colore della pelle

Ora, un modo per togliere spazio a qualsiasi rivendicazione di classe è mettere gli uni contro gli altri, i bianchi contro i neri, i locali con i migranti. Dividi et impera. Ha sempre funzionato.

E i giovani rampolli borghesi , guarda caso, con le loro manifestazioni accendono la miccia del (finto) razzismo, schierandosi apparentemente dalla parte dei più deboli.
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vincenzo pagano
Wednesday, 23 September 2020 19:03
Buon articolo. Pero' c'e' da chiarire che la stragrande maggioranza dei bianchi sono indifferenti e i bianchi che partecipano ai movimenti BLM e ANTIFA sono quasi tutti figli della borghesia.
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vincenzo pagano
Wednesday, 23 September 2020 19:03
Buon articolo. Pero' c'e' da chiarire che la stragrande maggioranza dei bianchi sono indifferenti e i bianchi che partecipano ai movimenti BLM e ANTIFA sono quasi tutti figli della borghesia.
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