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palermograd

Capitalismo concreto, femonazionalismo, femocrazia

George Souvlis intervista Sara R. Farris*

AAA Dalmata cercasGeorge Souvlis: Potresti presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche e politiche) che più ti hanno influenzato?

Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale.

Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese. È lì che ho iniziato a politicizzarmi ed è lì che ho scoperto il mio interesse per la sociologia. All’età di 14 anni fui avvicinata da un amico – un anarchico con simpatie marxiste – che mi chiese di entrare nel gruppo politico formato da lui ed altri/e per scuotere la noiosa vita culturale del nostro paese e per richiedere al sindaco maggiori investimenti per la cultura. Era un gruppo molto particolare, composto principalmente da trotskisti e anarchici (ovviamente abbiamo litigato spesso su Kronstadt!) ma anche da giovani che non si identificavano in alcuna particolare tradizione politica pur essendo attratti/e dai discorsi della sinistra radicale. I trotskisti del gruppo appartenevano alla quarta Internazionale; organizzavano discussioni teoriche sulla congiuntura politica invitando i più giovani tra noi a leggere Marx e Lenin. Ero particolarmente affascinata da loro, perché mi sembrava che fornissero le risposte più coerenti ai problemi che discutevamo; ma ero anche allergica, in qualche modo, a ciò che percepivo come un certo comunitarismo e settarismo da parte loro.

Qualche anno dopo, quando mi iscrissi all’Università La Sapienza di Roma, divenni prima membro di Rifondazione Comunista e poi della quarta Internazionale. I compagni e le compagne trotskisti/e a Roma erano molto più aperti/e di quelli del mio paese ed ero d’accordo con le loro idee politiche, in particolare con la loro enfasi sull’importanza del femminismo. Durante quegli anni a Roma fui anche molto affascinata dal multiculturalismo della città e mi interessai molto alle lotte dei migranti e alla condizione specifica delle donne migranti nei cosiddetti Paesi di destinazione. Penso che sia stata questa combinazione di fattori a plasmare il femminismo marxista e antirazzista che probabilmente meglio descrive il mio approccio.

 

Parliamo di Max Weber, la cui opera è argomento della tua prima monografia, Max Weber’s Theory of Personality. Weber fu uno dei primi osservatori a riconoscere che il cambiamento strutturale della moderna politica di massa minacciava i principi basilari del parlamentarismo liberale del diciannovesimo secolo. L’avvento dei partiti di massa nelle prime due decadi del Novecento ha radicalmente messo in discussione le convinzioni e le pratiche dello status quo politico del tempo. Una delle audaci risposte intellettuali di Weber a questa crisi in corso fu la teoria della democrazia carismatico-plebiscitaria. Pensi che ci siano delle affinità dirette o elettive tra questa concettualizzazione e la teoria di Carl Schmitt sulla legittimità plebiscitaria dell’Imperatore del Reich? Si può dire che Weber abbia preparato – insieme ad altri liberali disillusi – il background intellettuale per l’avvento di teorie autoritarie come quelle di Carl Schmitt?

La questione dell’affinità tra Weber e Schmitt sulla democrazia carismatico-plebiscitaria è una delle più dibattute, da Mommsen (che fu il primo a proporla) ad Habermas e altri. Mommsen non sosteneva che le posizioni teoriche e politiche dei due pensatori fossero generalmente compatibili – dal momento che erano assai distanti su molte questioni – bensì che le loro idee convergessero in un caso particolare: l’idea di Weber circa la necessità di una democrazia carismatico-plebiscitaria dopo la rivoluzione tedesca e l’opposizione di Schmitt alla democrazia parlamentare negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.

A dire il vero, il pensiero politico e le posizioni di Weber oscillavano tra il liberalismo e tendenze più autoritarie. Da un lato Weber invocava un “accordo” tra le forze liberali della Germania e l’aristocrazia operaia del partito social-democratico al fine di consolidare la transizione del Paese al capitalismo e alla “modernizzazione”. E dobbiamo ricordare che per Weber il leader carismatico non è qualcuno che usa il suo appeal per cercare consenso, bensì qualcuno il cui potere è già legittimo in sé per via del dono carismatico che egli (perché Weber pensa implicitamente ad un uomo) possiede.

C’è qualcosa di molto aristocratico nella nozione weberiana di potere carismatico. Penso che l’idea di un’affinità tra Weber e Schmitt, tra l’idolo della democrazia liberale tedesca agli albori del Novecento (Weber) ed il nemico del liberalismo alla vigilia del nazismo (Schmitt), sia ancora interessante e ricca di spunti, anche perché fondamentalmente ci ricorda il legame storico-teorico tra liberalismo e autoritarismo.

 

In uno dei tuoi articoli utilizzi il dibattito tra Marx e Bauer sulla questione ebraica per spiegare la legge francese sui simboli religiosi cospicui. Come può questa discussione passata aiutarci a comprendere meglio la nostra realtà attuale? Vedi delle analogie tra i due dibattiti? In quell’articolo critichi anche i valori universali dell’Illuminismo che influenzano in una certa misura il sistema giuridico francese. Come pensi che si possano dimostrare – in questo contesto e in merito a questo dibattito – le antinomie della modernità senza ricorrere a un relativismo culturale postmoderno?

In quell’articolo volevo dimostrare che il dibattito circa la possibilità di assegnare pieni diritti politici agli ebrei nel 1840 in Prussia presenta alcune somiglianze sorprendenti con il dibattito sull’integrazione dei musulmani nella società francese di oggi. Più precisamente, il mio punto è che la richiesta del governo francese alle minoranze religiose (in particolare ai musulmani) di rispettare il principio della laicità nello spazio pubblico ricorda la posizione di Bruno Bauer sulla questione ebraica. Bruno Bauer credeva che gli ebrei meritassero la concessione dei diritti politici solo se avessero smesso di essere ebrei e avessero abbracciato il pensiero illuministico. In altre parole, Bauer concepiva l’emancipazione politica come una sorta di premio che gli individui ricevono solo se rinunciano alla propria identità religiosa e abbracciano l’identità che lo Stato laico ritiene appropriata. Allo stesso modo, lo stato francese richiede che i musulmani si liberino delle pratiche religiose e culturali per dimostrare la loro volontà di integrarsi nella società francese.

La nozione di laicità, avanzata sia da Bauer che dallo stato francese è tale che individualizza il laicismo, lo concepisce quasi come un tratto della personalità dell’individuo piuttosto che come una questione istituzionale. In altre parole – sebbene io sia d’accordo sul fatto che gli spazi pubblici non debbano privilegiare una religione a scapito di un’altra, e quindi, per esempio, nelle classi non dovrebbero essere esposti crocifissi alle pareti, come avviene in Italia – non ritengo giusto che gli individui non possano esprimere le proprie credenze religiose negli spazi pubblici. Questa è una visione molto gretta e problematica del laicismo. Ma soprattutto, l’idea per cui le persone appartenenti a una minoranza religiosa stigmatizzata debbano negare la loro religione per dimostrare che meritano lo status di cittadini è profondamente razzista. Proprio come Bauer era fondamentalmente un antisemita che si nascondeva dietro l’idea di un Illuminismo laico, così lo Stato francese sta rafforzando l’islamofobia in nome della laïcité.

Sottolineando alcune analogie tra la discussione sull’emancipazione degli ebrei in Germania nella prima metà dell’Ottocento e la discussione sull’integrazione dei musulmani in Francia oggi, voglio anche sostenere che oggi i musulmani ricoprono il ruolo degli ebrei di ieri. Dopo l’Olocausto siamo stati abituati all’idea che le atrocità commesse contro gli ebrei non abbiano paragone. Ma quello che dobbiamo ricordare è che in Europa c’è una lunga storia di razzismo anti-ebraico che ha assunto forme diverse e che ha preceduto la tragedia dell’Olocausto. Dobbiamo essere consapevoli di quella storia proprio per evitare di ripeterla, non solo contro gli ebrei ma contro qualsiasi altro gruppo di persone. La mia seconda idea in quell’articolo è che la posizione di Marx sulla questione ebraica era molto più avanzata di alcuni marxisti contemporanei rispetto al pericolo di mettere in discussione il diritto delle minoranze religiose alla loro libertà di espressione, e qui penso in particolare ad alcuni marxisti francesi o ad altri esponenti di sinistra. Durante il dibattito che ha portato a vietare il velo nelle scuole pubbliche, alcuni di loro ritenevano che le donne musulmane non avrebbero dovuto indossarlo negli spazi pubblici, rifacendosi alla laicità, all’ateismo e ai diritti delle donne per giustificare la loro posizione. Non c’è assolutamente niente di marxista in tutto ciò. Quando Bruno Bauer accusò gli ebrei di esser rimasti ebrei e quindi di non meritare i diritti politici, Marx gli rispose che i diritti politici possono tranquillamente coesistere con le identità religiose. Il problema per Marx, piuttosto, era lo Stato borghese in sé e la sua pretesa di rappresentare uno spazio di inclusione universale, mentre in realtà era solo l’espressione dell’esclusione e delle disuguaglianze della società civile.

 

Considerando i recenti sviluppi degli attacchi terroristici in Francia, a Bruxelles e nel Regno Unito, e considerando l'emergere in questi e in altri Paesi di una retorica razzista incentrata sulla paura e sullo stato di emergenza, quali pensi dovrebbero essere le basi per una contro-critica egemonica alla loro appropriazione ideologica da parte dell’estrema destra?

Penso che sia essenziale dire molto, molto chiaramente che questi attacchi non hanno nulla a che fare con l’Islam. I giovani terroristi che hanno commesso queste atrocità sono nati e cresciuti in Francia o in Belgio o nel Regno Unito, alcuni di loro erano soliti bere alcolici o fare uso di droghe e non frequentavano la moschea. Molti di loro erano noti alla polizia per reati minori e alcuni di loro hanno aderito alle idee dell’ISIS mentre erano in carcere, dove incontrarono altri estremisti islamici che li introdussero all’abominio del Daesh. Ciò mi ricorda il film francese A Prophet, in cui un giovane di origine algerina, analfabeta e senza credenze religiose, viene mandato in carcere per un piccolo reato. In prigione impara ad uccidere e l’“arte” dello spaccio. Il film naturalmente parla della violenza e dell’inefficacia del cosiddetto sistema di correzione e punizione, nonché del suo razzismo, dato che la maggioranza dei detenuti mostrati nel film è di origine immigrata.

Ma penso che nel film la prigione possa anche essere intesa come metafora della banlieue francese o belga, dove la seconda e la terza generazione di immigrati provenienti dalle ex colonie francesi sono state ghettizzate, fatte sentire diverse, sgradite, ridotte alla disoccupazione e costantemente bersagliate dal razzismo e dall’islamofobia dello Stato e della polizia, come dimostrano parecchi studi. In questi ambienti, in queste prigioni sociali, i giovani, soprattutto se senza lavoro e senza una chiara prospettiva per il futuro, possono sviluppare un grande senso di alienazione e alcuni di loro possono sentirsi attratti dal facile manicheismo dell’estremismo islamista e dalla sua promessa di vendetta.

La seconda cosa da ricordare con forza è che i musulmani sono le prime vittime del cosiddetto terrorismo islamista. Più di un terzo delle persone uccise dal conducente del camion a Nizza nel luglio 2016 erano musulmani, senza parlare del fatto che la grande maggioranza delle vittime dell’ISIS in Siria e in Iraq è musulmana. La sinistra deve ricordare questo fatto tanto semplice quanto atroce ogni volta che la destra strumentalizza il terrorismo per istigare l’islamofobia.

Ma la sinistra francese dovrebbe anche affrontare molto seriamente le sue responsabilità nell’esasperazione del clima islamofobo che in Francia è già intollerabile. E qui penso a Mélenchon, per esempio, che ha criticato la candidata del NPA nel 2010, Ilham Moussaid, per non essersi tolta il velo; più recentemente, nel caso del comportamento scandaloso della polizia che ha costretto una donna musulmana a svestirsi su una spiaggia a Nizza, Mélenchon ha sostenuto la polizia. Dice di assumere queste posizioni in nome dei diritti delle donne e in nome della laïcité. Ma queste posizioni in realtà negano alle donne musulmane il diritto di indossare quel che vogliono. Queste idee interpretano la laicità attraverso le lenti di un rigorismo repubblicano che è fondamentalmente intollerante alla differenza ed esclusivo nei confronti di coloro che non incarnano l’ideale di cittadino francese (cioè bianco, cristiano, ecc.). Questo dissenso repubblicano verso il velo in Francia, da destra a sinistra, è vergognoso e irresponsabile di fronte al moltiplicarsi degli attacchi terroristici che coinvolgono giovani uomini e donne francesi che si identificano come musulmani.

Ovviamente non c’è dubbio che si debba condannare strenuamente qualsiasi forma di terrorismo, e in effetti ritengo che non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo se non fosse per il fatto che viviamo tempi folli ed egemonizzati dal discorso razzista della destra. Ma soprattutto, dobbiamo affermare che la nostra politica contro il terrorismo è diametralmente opposta a quella della destra e che, in effetti, è più efficace perché la destra non ha nulla da dire su come risolvere il problema. L’unica cosa che propone è di chiudere i confini, di fermare l’immigrazione e di intensificare le misure islamofobiche. Ma che scemenza è questa, considerando che i terroristi non sono immigrati ma cittadini francesi, belgi o britannici? E quanto è irresponsabile tutto ciò, visto che è proprio l’islamofobia a creare un clima in cui il terrorismo prospera?

Penso che la lotta contro l’islamofobia ed il razzismo sia una questione politica cruciale per il futuro della sinistra. Abbiamo visto come la resa della socialdemocrazia europea di fronte ai discorsi anti-immigrazione degli ultimi quindici anni non abbia portato più voti alla sinistra socialdemocratica. Al contrario, ha aiutato l’estrema destra a crescere e consolidare la sua base di potere, almeno fino ad ora.

 

In un volume che hai curato insieme ad altri autori, hai scritto un pezzo incentrato sulle concezioni teoriche di Althusser e su quelle di Tronti riguardo la questione marxista del rapporto tra politica e economia. Durante l’ultimo anno la crisi finanziaria globale ha dato l’opportunità alle forze di sinistra di avvicinarsi a vincere le elezioni o addirittura – nel caso di Syriza – di andare al potere – sebbene senza riuscire effettivamente a produrre grandi cambiamenti nel sistema. Pensi che una possibile spiegazione a queste sconfitte possa essere un implicito “politicismo” adottato dai partiti della sinistra europea?

In quell’articolo definisco ‘politicismo’ l’idea per cui lo Stato sia autonomo rispetto alle determinanti economiche e che il partito sia indipendente dalla sua base di classe. Da un lato, è l’idea che lo Stato segua la propria logica e il proprio ‘ritmo’ e che non sia semplicemente il “comitato per la gestione degli affari comuni di tutta la borghesia” – come scrisse Marx nel Manifesto del Partito Comunista. Questa concezione dello Stato e di una politica autonoma dalla sfera economica ha portato Tronti a sostenere che il partito che rappresenta le classi lavoratrici deve assumere il potere statale per cambiare il sistema stesso dello sfruttamento economico. D’altra parte, Tronti ha esplicitamente sostenuto che il partito dei lavoratori (e intendeva chiaramente il PCI) doveva essere autonomo dalla sua base di classe nei momenti in cui la logica politica del potere statale lo richiedeva. Ecco un paradosso importante: da un lato, considerando la politica e l’economia come autonome l’una dall’altra, si sostiene che una non può determinare l’altra; ma dall’altro lato si propone un argomento determinista – che quindi nega l’autonomia della politica in sé – nel momento in cui si afferma che un cambiamento politico determinerà automaticamente un cambiamento socio-economico. In questo senso il «politicismo» è l’immagine speculare del determinismo economico. Nessuna di queste prospettive riesce a cogliere le complessità dei rapporti tra lo Stato e gli interessi capitalistici, o la sfera economica più in generale.

La prospettiva “politicista” è stata presentata da Tronti negli anni ’70 durante gli anni del compromesso storico per sostenere la partecipazione del Partito Comunista Italiano al governo. Tronti ha criticato la tradizione marxista per la sua presunta mancanza di una teoria coerente e sistematica dello Stato, ma ciò che lui propone invece è il vecchio adagio socialdemocratico, cioè l’idea che il partito che rappresenta gli interessi dei lavoratori debba assumere il potere statale per promuovere l’attuazione delle politiche socialiste, prima che il comunismo possa finalmente instaurarsi.

I casi contemporanei che hai citato sono certamente esempi di “politicismo” nel senso che si tratta di partiti o di forme politiche che hanno portato avanti – in molti modi differenti – un ordine del giorno socialdemocratico e un approccio generale alla politica sulla base della classe operaia. Ma nessuno di loro mira ad abolire lo Stato, per così dire.

Tuttavia, non credo che possiamo parlare di sconfitte pure e semplici qui. Syriza ha vinto le elezioni, anche se ha completamente tradito le speranze di porre fine all’austerità. Più recentemente La France Insoumise ha ottenuto il 20% del voto nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi e in Gran Bretagna Jeremy Corbyn ha aumentato il numero di seggi e la percentuale di voto del partito laburista come mai prima. Naturalmente, questi partiti e i contesti in cui operano sono molto diversi e non possiamo ignorare le differenze nazionali. Quello che sto cercando di dire è che la sinistra socialdemocratica che punta al potere statale per cambiare le regole dell’economia dall’alto, sembra effettivamente registrare notevoli progressi in termini elettorali quando avanza un programma esplicitamente socialista e anti-austerità. Tuttavia, l’affidarsi al “politicismo”, ovvero all’idea che il partito possa dimenticare la sua base di classe operaia in nome dell’“eleggibilità” e per restare al governo, come nel caso di Syriza, porterà molto probabilmente alla sconfitta elettorale – oltre a produrre smobilitazione e demoralizzazione.

 

Hai anche curato insieme ad altre un numero della rivista Historical Materialism incentrato sui recenti sviluppi teorici all’interno della tradizione marxista-femminista. Nell’introduzione appoggi il femminismo della riproduzione sociale. Potresti spiegare le origini di questa tendenza teorica e che cosa implica? In che modo può aiutarci a comprendere la complessità dell’oppressione di genere in questa congiuntura storica?

Il femminismo della riproduzione sociale si riferisce a quel filone teorico sviluppato dalle femministe marxiste negli anni ’60 e ’70 che cercavano di capire il ruolo del lavoro domestico e dei compiti riproduttivi all’interno della famiglia rispetto all’accumulazione di capitale. Il femminismo della riproduzione sociale si chiede: qual è il nesso tra la riproduzione della forza lavoro e della vita stessa che avviene tra le quattro mura domestiche e l’accumulazione di capitale? E perché sono principalmente le donne a farsi carico della riproduzione sociale? C’è un legame tra la femminilizzazione della riproduzione sociale e l’oppressione di genere nel capitalismo? Focalizzandosi sulla natura marcatamente femminile del lavoro riproduttivo, il femminismo della riproduzione sociale mira ad analizzare una delle debolezze del femminismo marxista, e cioè la tendenza a considerare lo sfruttamento di classe e l’oppressione di genere come separati l’uno dall’altra. La sfida del femminismo della riproduzione sociale è di comprendere l’oppressione di genere in maniera non isolata dallo sfruttamento di classe, dall’oppressione razziale, dalla sessualità e da altre relazioni sociali costitutive. Questo non è un compito facile, poiché i nostri modi di pensare il sociale sono frammentati o intersezionali, per così dire. Ecco perché penso che l’intersezionalità sia diventata un paradigma così importante per il femminismo. Perché concepisce diverse esperienze di oppressione e di sfruttamento provenienti da sistemi diversi e separati e cerca di ricombinare i frammenti dell’oppressione senza negare la loro singolarità. Penso che il femminismo della riproduzione sociale cerchi di includere e di andare oltre l’intersezionalità, dicendo sia che dobbiamo considerare il capitalismo come un sistema socioeconomico molto specifico in cui queste forme di oppressione vengono generate e pasciute, ma anche che non ci sono sistemi “separati” di oppressione e sfruttamento sotto il capitalismo che possano essere compresi isolandoli uno dall’altro.

Il femminismo della riproduzione sociale avanza anche una critica a quelle posizioni marxiste che sostengono che il capitalismo sia indifferente al genere o alla razza di coloro che sfrutta finché il profitto e l’accumulazione sono garantiti. Questo è un modo molto limitato e problematico di esaminare come il capitalismo funzioni e cosa sia. Come scriviamo nella nostra introduzione, lo sfruttamento e l’espropriazione esistono concretamente “solo nel e attraverso il controllo generalizzato, sistematico e differenziato, nonché nella degradazione della stessa vita umana. E il controllo e la degradazione sono garantiti concretamente in, e attraverso l’oppressione di razza, genere, sessualità e di altre relazioni sociali intrecciate.” Sono queste le relazioni che assicurano che il lavoro arrivi dinanzi al capitale pronto ad essere ulteriormente disumanizzato e sfruttato.

 

Nel tuo ultimo libro analizzi la strumentalizzazione delle idee femministe da parte dell’estrema destra contemporanea e dei partiti “liberali” attraverso il termine “femonazionalismo”. Potresti spiegare cosa significa e come possa essere utile un esame critico di questo fenomeno?

Il femonazionalismo è un termine che ho introdotto per descrivere sia lo sfruttamento delle idee femministe da parte dei partiti nazionalisti di destra nelle campagne islamofobe, sia il sostegno da parte di alcune femministe e “femocrate” (burocrati donne che lavorano per istituzioni statali adibite alle pari opportunità, NdT) ad un ordine del giorno anti-islam a difesa dei diritti delle donne. Nel libro analizzo come e perché partiti quali la Lega Nord in Italia, il Fronte Nazionale in Francia e il Partito per la Libertà nei Paesi Bassi abbiano mostrato “preoccupazione” per le donne musulmane descrivendole come “vittime da salvare”, stigmatizzando al contempo musulmani e altri immigrati maschi non occidentali come i peggiori nemici delle donne. Ho scritto questo libro principalmente perché volevo introdurre una prospettiva politico-economica nel dibattito accademico e militante sui nuovi volti dell’islamofobia. La convergenza tra alcune femministe e correnti nazionaliste su programmi anti-islam è ovviamente stata notata e analizzata da diversi studiosi e studiose, ma credo che la maggior parte di loro – almeno nel contesto europeo – non abbia prestato sufficiente attenzione agli interessi materiali e ai calcoli economici dietro tale convergenza.

Nel libro ho scritto che dovremmo prestare attenzione al doppio standard di genere applicato agli uomini e alle donne migranti (musulmani e non musulmani) nei media mainstream, e che dobbiamo decifrarne la logica economica insieme alle sue espressioni “culturali”. Gli uomini musulmani e gli uomini immigrati del Sud del mondo sono di solito descritti non solo come potenziali stupratori e oppressori delle donne, ma anche come ladri di “posti di lavoro”. Sono i “cattivi irrecuperabili” in tutti i sensi. D’altra parte le donne migranti musulmane e non occidentali sono rappresentate come vittime di culture patriarcali e arretrate, ma anche come quelle che possono essere assimilate ai valori occidentali (perché, in quanto “donne,” non hanno una propria personalità) e che possono contribuire positivamente alle economie occidentali lavorando nel settore della riproduzione sociale (in particolare nell’assistenza sociale agli anziani e ai bambini) per salari molto bassi. Loro sono quelle “recuperabili”.

Penso che questa rappresentazione razzista dicotomica di genere, o doppio standard, che i media mainstream e la destra utilizzano per riferirsi alle popolazioni migranti, sia fondamentale per rivelare la razionalità politico-economica del femonazionalismo. In altre parole, nel mio libro sostengo che le offerte di salvazione che i nazionalisti di destra propongono alle donne musulmane (ma anche alle donne migranti non occidentali in generale), sono legate al ruolo molto importante che queste donne giocano (o potrebbero giocare) nell’economia della riproduzione sociale. Ma sono anche legate alla volontà di questi partiti politici di mantenere il settore del lavoro domestico e di cura esattamente come è: femminilizzato, super-sfruttato, anti-sociale e a bassissimo salario.

D’altra parte, il libro esamina attentamente le femministe e le “femocrate” che sostengono politiche anti-islamiche in nome dei diritti delle donne, e ciò che propongono alle donne musulmane in particolare per liberarle dai musulmani “cattivi”.

Quello che ho notato qui è che, in primo luogo, queste femministe coprono l’intero spettro politico; non sono solo femministe di destra (o femministe auto-proclamate come Ayan Hirsi Ali nei Paesi Bassi o Souad Sbai in Italia) che hanno sostenuto discorsi e politiche anti-islamiche come il divieto del velo, ma anche femministe di sinistra come Giuliana Sgrena in Italia, o Najat Vallaud-Belkacem in Francia. In secondo luogo, sottolineo le profonde contraddizioni di questo fronte femminista anti-Islam. Da un lato, queste femministe e “femocrate” considerano l’Islam come una religione misogina e trattano le donne musulmane che portano il velo come individui auto-schiavizzati che non capiscono cosa sia veramente la libertà e l’emancipazione. D’altra parte, queste stesse femministe dimenticano di menzionare che molte donne migranti e musulmane oggi in Europa sono obbligate a sottoporsi a programmi di integrazione, talvolta ideati e implementati dalle stesse femocrate, che le spingono verso i settori della riproduzione sociale per diventare addette alle pulizie, assistenti sociali, o babysitter. Ma in che senso questa sarebbe emancipazione per le donne? Non erano esattamente queste le attività e le occupazioni contro cui il movimento femminista ha combattuto la sue battaglie più dure per denunciare i ruoli fissi di genere e la mancanza di riconoscimento economico del lavoro riproduttivo e di cura?


[Traduzione di Stefano Oricchio]

* Sara Farris è Senior Lecturer alla Goldsmith University di Londra e autrice di In the Name of Women’s Rights: The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017).

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