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osservatorioglobalizzazione

Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega

Dibattito sull’Iri

di Andrea Muratore

Ilva TarantoNelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.

Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.

L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente.

Riteniamo necessario contestualizzare nel migliore dei modi la questione per evitare che il dibattito si riduca a prese di posizioni fini a sé stesse e che non contribuiscono al tema cruciale del dibattito su un’evoluzione dell’attuale sistema di gestione degli asset cruciali del Paese: come può tornare l’Italia ad avere una politica industriale degna di questo nome? Come possono essere bilanciati equamente gli interessi del governo e del Paese nella gestione degli asset chiave dell’economia e le prospettive di sviluppo di un’impresa privata capace di produrre sviluppo e occupazione?

 

Un passato glorioso che non tornerà

Se una forma di intervento pubblico nell’economia, diverso da quello già veicolato attraverso il vettore di Cassa Depositi e Prestiti, troppo spesso retrocessa a “bancomat” della politica, riemergerà non potrà essere la fotocopia dell’Iri smantellato nella transizione tra Prima e Seconda Repubblica. L’economia di un Paese è figlia della sua classe dirigente, dagli equilibri produttivi e finanziari, del contesto internazionale. Invertire l’ordine degli addendi e riavvolgere il nastro della storia non dà la garanzia di una riedizione degli esiti del passato. Come ha giustamente fatto notare il professor Giuseppe Berta“bisogna guardare in avanti, definendo una sorta di carta che dica quali sono gli elementi strategici del nostro apparato produttivo di cui non possiamo e non vogliamo fare a meno, per poi favorire una politica di crescita delle nostre imprese medio-grandi”.

Rievocare l’Iri in maniera nostalgica senza considerare il sopraggiunto intervento della globalizzazione, l’avvenuta penetrazione di elevate masse di capitale finanziario straniero nel tessuto produttivo italiano, il cambio della regolamentazione europea significa dunque parlare di un futuro che non esisterà mai ipotizzato come calco di un passato che è, piaccia o meno, esperienza conclusa.

Questo deve tuttavia valere, al tempo stesso, per i paladini del destino manifesto del libero mercato che evocano lo spauracchio dell’intervento pubblico dello Stato come inevitabile causa di nuovi disastri. Il Foglio e Linkiesta, rimasti tra gli ultimi paladini del liberismo duro e puro nel panorama informativo italiano, hanno in questo contesto prodotto analisi che spiccano per la limitatezza di vedute paragonando l’ipotesi di un nuovo apparato di partecipazioni statali, rispettivamente, a uno “Stato-rigattiere” e a un “carrozzone pubblico”.

In entrambi i casi manca la capacità di approfondimento e di analisi della complessità del fenomeno. Che in materia di politica industriale è vitale riscoprire. Riflettendo se la priorità sia guardare il dito, ovvero la struttura proprietaria dei conglomerati a partecipazione pubblica, o la Luna: l’inserimento dello Stato-imprenditore nel contesto di un progetto funzionale all’interesse nazionale.

Così fu, prima dell’incancrenimento finale, il progetto Iri nei primi decenni della sua storia. Sotto l’ombrello Iri operava l’Italstat, controllata dedita alla costruzione di infrastrutture che seppe progettare e realizzare l’Autostrada del Sole in anticipo sui tempi e con un esborso, in proporzione, pari a un terzo da quello previsto per l’incompiuto Mose di Venezia. Ma non solo.

Era tra i fiori all’occhiello dell’Iri il visionario “impero romano” della Stet, “costruttrice di cavi e reti che hanno garantito all’Italia”, scrive il direttore del Quotidiano del Sud Roberto Napoletano, “il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale”, prima che Telecom-Tim venisse privatizzata.

E, per collegarci al caso Ilva, sarebbe impossibile non parlare della Finsider di Oscar Sinigaglia, antenata dell’impresa privatizzata e finita nel circolo vizioso della mala gestio, che seppe risultare capace di realizzare gli impianti in grado di permettere a tutti i Paesi europei la conquista dell’indipendenza nella produzione della materia più strategica per l’industria moderna, l’acciaio.

 

La necessità di un nuovo progetto nazionale

Queste realizzazioni furono funzionali al progetto nazionale di rafforzamento del sistema economico nazionale i cui ulteriori perni furono l’azione del settore energetico capitanato dall’Eni di Enrico Mattei e una classe imprenditoriale privata che ebbe in Adriano Olivetti il suo esponente di punta. Personalità come Sinigaglia, Mattei, Olivetti, fa notare Berta “erano convinti della necessità di un “telaio” di grande impresa pubblica avanzata senza negare le differenze del territorio che dovevano, principalmente secondo Olivetti, rimanere un carattere distintivo e un elemento di vitalità del nostro sistema economico”.

Ammettere queste evidenze non esclude ammettere le problematiche con cui l’Iri, nella fase terminale della sua esperienza, si trovò a convivere. Prima fra tutte l’amplificazione della sua dipendenza dalla politica dei partiti, al cui progressivo ingessarsi seguì l’emersione di profonde rigidità nell’ente. Tale spinta provocò la contrapposta e altrettanto dannosa pressione privatizzatrice che tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio degli Anni Duemila condusse lo Stato a dismettere gradualmente partecipazioni e enti di rilevanza economica, in un processo confuso e torbido che, per ammissione della Corte dei Conti, non ha prodotto significativi miglioramenti in materia di redditività per le imprese messe sul mercato.

Di fronte all’insorgere delle problematiche industriali del Paese, all’emergere di una competizione economica mondiale in cui la guerra economica, palese o coperta, diventa strumento della proiezione geopolitica e in cui la costruzione di “campioni nazionali” indipendenti risulta determinante come fattore di potenza è dunque lecito individuare quali siano le domande da cui partire prima di capire l’eventualità, o meno, di un ritorno in forze dello Stato nell’economia. Quali sono le lacune che tale intervento dovrebbe sanare? Si tratterebbe di operazioni meramente “emergenziali”, come sembrano avere in mente i governi italiani da Monte dei Paschi a Ilva, o del frutto di una autentica visione strategica? Con quale capacità un “nuovo Iri” (ci si passi il paragone) agirebbe nel contesto della competizione economica globale?

 

Iri si, Iri no. Due opinioni a confronto

Con queste premesse il dibattito è alzato di livello e inserito in un’ottica sistemica. In questa direzione vanno numerose pubblicazioni che nelle ultime settimane non sono mancate e hanno portato aria fresca alla discussione sul tema. Sul fronte degli scettici si è distinto un interessante articolo pubblicato da Francesco Bruno su Econopoly de Il Sole 24 Ore, mentre tra coloro che non hanno chiuso alla possibilità di uno “Stato-imprenditore” di ritorno è stato rilevante il contributo di Alessandro Aresu.

Bruno, in maniera pragmatica, critica l’intervento sul tema “nuovo Iri” del ministro Patuanelli in un post pubblicato su Facebook, ritenuto dal commentatore confusionario. “Non sono riuscito a comprendere quali dovrebbero essere le funzioni del soggetto pubblico evocato. In un primo momento il post menziona politiche di innovazione, facendo pensare ad investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Poi però si passa al desiderio di evitare shock al sistema produttivo e occupazionale, al green new deal ed infine ad una banca pubblica”. Scarsa chiarezza nella definizione degli obiettivi e tentativi acrobatici di un soggetto “pigliatutto” in cui far convergere la risposta a problematiche e esigenze diverse del sistema-Paese. Tale concezione, secondo Bruno, rischierebbe di accentuare la già esistenza tendenza del Mise a trasformarsi in un “comitato fallimentare” permanente per tutelare imprese in perdita. Più nebulosa è la parte dell’intervento in cui Bruno sottolinea la sostanziale convergenza tra impresa pubblica e privata: “si fa fatica a comprendere che non è dirimente il tipo di proprietà, pubblica o privata. Ciò che conta veramente è se l’impresa svolga la sua attività con criteri di governance societaria moderni e in un regime di mercato concorrenziale oppure se sia favorita (o danneggiata) dall’intervento pubblico”.

Ma lo “Stato-imprenditore” dovrebbe, in linea teorica, superare questa dicotomia basata unicamente sulla proprietà e supplire a esigenze strategiche capaci di trascendere i meri fini di profitto di breve termine. La Stet con le telecomunicazioni, l’Italstat in ambito infrastrutturale e la Finsider con l’acciaio sono esempi, in tal senso illuminanti. E su questo pensiero-cardine si innesta il ragionamento di Aresu.

In un’analisi pubblicata su Atlante,rivista di approfondimento della Treccani, Aresu ricorda come il fenomeno dello “Stato-imprenditore” descritto nell’analogo saggio di Marianna Mazzucato sia la norma nell’era contemporanea.

E, anzi, a ben vedere l’Italia si trova oggi nel mirino di tre tipologie di Stati di questo tipo: quello francese, primeggiante in Europa per “la vicenda di lungo corso della costruzione dello Stato francese attraverso corpi che prevedono una forte relazione tra pubblico e privato, tra le imprese e lo Stato; il ruolo militare della Francia, che è ben superiore rispetto a quello degli altri Paesi europei; il modo con cui la Francia ha razionalizzato i suoi strumenti di partecipazione nelle imprese”; quello cinese, la cui manifestazione è l’utilizzo dell’intervento pubblico e delle imprese di Stato da parte del Partito comunista come braccio armato per l’espansione geostrategica del Paese; infine, quello statunitense, la cui proiezione è sotto gli occhi di tutti con l’apparato mondiale del Pentagono e la ramificazione dellarete a stelle e strisce e delle imprese del big tech, che hanno avuto a Washington il loro incubatore politico ed economico.

“In ogni caso, “piani” e “programmi” economici fanno pienamente parte della realtà internazionale. La differenza sta sempre nel modo con cui vengono attuati”, sottolinea Aresu. In che modo un Paese come l’Italia potrebbe dare seguito alle necessità della sua economia e rispondere alle domande che precedentemente ci eravamo posti? L’analista sardo ha provato a proporre una sua ipotesi in un’ulteriore pubblicazione per StartMag.

“All’Iri non è stato consentito di sopravvivere, snellito e ristrutturato, per custodire un grande patrimonio culturale e svolgere due compiti essenziali: la promozione e la connessione di una scuola di manager industriali; l’investimento in ricerca e trasferimento tecnologico”. Metaforicamente, di nuovi Iri ne servirebbero…tre, a certificare le principali funzioni che secondo Aresu l’intervento pubblico in economia dovrebbe espletare. Servirebbe un Istituto per il Rilancio dell’Innovazione, un Istituto per la Realizzazione delle Infrastrutture, un Istituto per il Rafforzamento delle Imprese. In altre parole, l’Italia potrebbe conoscere una nuova stagione di fioritura dell’economia a gestione pubblica ricostruendo un progetto nazionale ben definito.

 

Uno Stato artigiano e stratega

Le priorità del Paese sono fortemente mutate rispetto a quelle dei tempi del boom economico. Quell’Italia necessitava di infrastrutture di base, di costruire un tessuto produttivo funzionale allo sviluppo di un settore manifatturiero di livello mondiale, di procacciarsi conoscenze e materie prime necessarie al decollo del Paese. Ora serve padroneggiare la rivoluzione tecnologica e metterla al servizio del rilancio dell’Italia come grande Paese industriale, far fronte al deperimento delle infrastrutture per connettere con nuovo slancio l’Italia e evolvere i paradigmi dell’industria manifatturiera, promuovendo come punta di lancia le medie imprese e le multinazionali leggere. “Dovrebbero essere loro, con ogni mezzo, a essere sostenute per rafforzarsi, patrimonializzarsi, aggregarsi, crescere e comprare all’estero”. A questi temi andrebbe aggiunta la necessità di sfruttare la transizione energetica e ambientale, sostenendola con l’innovazione per inserirla con gradualità e rigore nel tessuto produttivo italiano. Funzioni chiare, precise e ben definite: non il partito pigliatutto di Patuanelli (che pure individua nell’innovazione una sfida chiave), non il semplice prolungamento della Cassa Depositi e Prestiti (con la quale concordare sinergie e perimetri di competenze) ma nemmeno il buco nero divoratore di fondi pubblici temuto dai liberisti più accesi. Uno Stato-imprenditore capace di farsi “Stato-artigiano” e “Stato stratega” dandosi strumenti per promuovere questi obiettivi ben precisi.

Il caso Ilva, ad esempio, difficilmente sarebbe risolto da un semplice cambio dell’assetto azionario a favore di una cordata avente al suo interno un investitore controllato dallo Stato. Esiste la necessità di pensare a livello sistemico e programmare il futuro: le funzioni sopra citate potrebbero tornare utili se lo Stato, per citare un esempio di iniziativa concreta, ipotizzasse il rilancio del polo produttivo di Taranto nel contesto del promettente settore dell’economia circolare.

“La sfida è quella di iniziare un’operazione di riconversione articolata che punti a recuperare una produzione efficiente di acciaio ma ridimensionando il sito (e bonificandolo), costruendo una nuova catena a monte. L’obiettivo è trasformare l’Ilva nella piattaforma italiana (e del sud Europa) di economia circolare per alcuni ambiti oggi non affrontati che richiedono interventi di scala”, ha scritto l’analista e consigliere regionale dell’Emilia Romagna Gianni Bessi, ponendo in evidenza una possibile discontinuità in cui un soggetto con le caratteristiche tratteggiate da Aresu avrebbe buon gioco a intervenire concretamente. Senza la necessità e gli esborsi richiesti per un intervento di nazionalizzazione, senza la totale occupazione delle quote azionarie ma con un vero e proprio golden power operativo l’Italia potrebbe ottenere dividendi proficui dal problematico e potenzialmente rovinoso caso tarantino.

Innovazione, cultura manageriale adatta alle nuove sfide e cura delle infrastrutture sensibili (produttive e logistiche) sarebbero in questo contesto i capisaldi a cui prestare attenzione. Così come in analogo modo contribuirebbero ad ampliare la visione sul settore sensibile delle telecomunicazioni. Così come Ilva, anche su Telecom Italia si è scatenata una gara geoeconomica coinvolgente Paesi stranieri interessati ad aumentare la propria proiezione nell’economia italiana. La Francia, attraverso Vincent Bolloré e Vivendi, è in questo caso intenta in un braccio di ferro con gli Stati Uniti impegnati attraverso il Fondo Elliott. Nonostante tutto, attraverso Sparkle, la Telecom gestisce e costruisce ancora una rete significativa e strategica di cavi sottomarini di telecomunicazione. Con il piccolo dettaglio della perdita del controllo strategico sul sistema Tlc. Compattare Telecom Italia e Open Fiber, come recentemente proposto in Parlamento da Fabio Rampelli (Fdi) sarebbe il primo, necessario passo per far tornare competitiva Roma in un settore cruciale per gli scenari futuri dell’economia mondiale. Con l’incipiente rivoluzione del 5G, con l’apertissima partita dei cavi sottomarini e lo scontro Usa-Cina sullo sfondo, avere un vettore capace di permettere al Paese di giocare da entità sovrana la partita delle Tlc è interesse nazionale non secondario.

Per entrambi questi i casi, l’intervento di un agile e dinamico ente pubblico capace di coordinare la politica industriale, fungere da camera di compensazione tra interessi privati e priorità pubbliche e rafforzare l’innovazione di filiera risulterebbe potenzialmente risolutore. Al termine della nostra analisi, andando oltre slogan e pregiudizi, abbiamo dunque cercato di proporre soluzioni realistiche e cambi di paradigma, ora più che mai vitali per un Italia poco attenta a recepire le evoluzioni geoeconomiche del contesto politico internazionale. A credere al dogma della libertà e della razionalità dei mercati con maggior entusiasmo dei Paesi di taglia comparabile, dimenticando al contempo come siano i rapporti di forza a determinare le capacità di proiezione economica di un sistema nazionale. Serve dunque tornare a fare vera politica. A pensarsi parte di una costruzione politica, economica e sociale con interessi comuni da preservare. Tra cui va annoverato il mantenimento dell’Italia nel club dei grandi Paesi industriali. Messa a repentaglio da errori palesi, mancanza di lungimiranza e da una crescente, e pericolosa, indifferenza verso i beni comuni di primaria importanza.

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Franco Trondoli
Sunday, 12 January 2020 00:02
[quote name="Francesco Zucconi"]"Questo articolo rappresenta una speranza". Con tutto il rispetto, su quali basi si può realisticamente coltivare una "speranza" ?. Sognare non è vietato, ma la realtà è clamorosamente diversa. La stessa analisi del Sig. Zucconi la conferma. No, non mi pare che ci possano essere fondate speranze per nulla. Non si vede nessun "segno", neanche minimo, di una qualche presa d'atto realistica ,a livello di "senso comune", della necessità di un ripensamento della storia italiana almeno dalla fine della seconda guerra mondiale. L'Italia è un paese ormai totalmente colonizzato. La relativa autonomizzazione del "regime demo-social-comunista" è potuta avvenire in circostanze storiche particolari ed irripetibili. Un periodo storico di quelli che si leggeranno ,forse, sui manuali di storia , come inizio, durata e fine di certe composizioni sociali ed economiche che si attualizzano solo una volta e poi basta. Come puro "lancio di dadi". La regione italica non esisterà più come l'abbiamo vista. Diventerà un'altra cosa, che non si può prevedere. L'Italia è in mezzo al Mediterraneo, sarà occupata volenti o nolenti da popoli migranti da regioni disperate e povere. Probabilmente l'Europa tutta diventerà un'altra cosa. Non si ragiona abbastanza sugli effetti della crescita demografica, sarà il principale fatto di turbolenti cambiamenti geopolitici. Sui quali, almeno apparentemente e pubblicamente, quasi nessuno dichiara esplicitamente le "sue" posizioni. La realtà cammina più velocemente della fantasia. Anche se a volte non sembra. Ma posso anche sbagliarmi clamorosamente. Cordialmente
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Francesco Zucconi
Saturday, 11 January 2020 19:14
Questo articolo rappresenta una speranza.
Non è facile ricostruire una classe dirigente
quale quella ricordata; forse non a caso
formata, almeno in parte, nella scuola ideata
da uno dei più grande filosofi mai esistiti...
Tuttavia le necessità inderogabili
per mantenere l'Italia a un livello di progresso
in linea con le potenzialità in essa presenti,
riproporranno questioni analoghe a quelle
che, negli anni trenta del secolo passato,
dovemmo affrontare; se le sapremo risolvere
con meno corruzione e più finezza
intellettuale di allora, avremo ancora
un futuro e, stavolta, come uomini e donne libere.
Quello della razionalità dei mercati è un concetto
accettabile se applicato a
mercati con migliaia di migliaia di operatori, e
la cui azione globale non impatta direttamente
su questioni geostrategiche, esempio:
la produzione e la vendita di brioches.
In questo caso la somma del "sapere" dei singoli
operatori è superiore a quella di un qualsiasi
operatore centralizzato, il quale allocherebbe
le risorse in modo meno ottimale di quanto
non facciano i molteplici agenti dispersi
e in concorrenza tra loro.
Quindi lasciamo le brioches ai self made men capitalisti!
Sulle industrie che contano in termini geostrategici, sappiamo benissimo, lo abbiamo sempre saputo,
basti pensare all'economia di guerra, che lo Stato Nazionale è l'unico operatore in grado di farle veramente
funzionare per un sistema economico
collocato sulla semiperiferia del centro
del sistema capitalista globale,
quale è quello italiano.
È un ovvia stima quantitativa!
I cugini francesi, non senza problemi e con molta cattiveria,
non hanno certo smobilitato
il loro cuore tecnologico
produttivo (forse non lo hanno mai affidato
a gente che va a delle sedute spiritiche, o meglio,
forse lo hanno affidato a gente che
suggerisce durante tali sedute...)
Padroneggiare la sfida tecnologica sarebbe
per l'Italia un compito assai superabile a patto
di valorizzare e integrare i processi formativi,
Università
e Scuola, con il rafforzamento e
la ricreazione di campioni nazionali
produttivi nei settori tecnologici in questione.
Vi sembra casuale che,invece, con
l'attuale classe dirigente
si vada nella direzione opposta?
È o non è noto che, ad esempio
nella scuola media
italiana la matematica è insegnata da personale
non in possesso, in generale, di
una laurea in matematica o fisica? È possibile
accedere a importanti cariche governative
senza essere in possesso,
come condizione necessaria,
di un dottorato di ricerca?
Sono inderogabili, oggi più che mai,
dei cambiamenti importanti
nella composizione stessa della classe politica
e dirigente.
Com"è possibile, in un paese che sta
sulla semiperiferia, questo è il punto chiave e
che tutti fan finta di non vedere,
affrontare una nuova fase
di industrializzazione nei campi che contano, e quindi avere un futuro da paese di uomini e donne libere,
senza
A) una fede assoluta circa una missione
storica del paese medesimo;
B) un'adesione assoluta,
da parte dei vertici deputati a tale impresa,
a quei principi di tolleranza e
libertà che caratterizzano l'attività della
ricerca di base, quella dura e pura?
Solo uomini e donne di tal genere possono
staccarsi dalle sudditanza "imperiali";
gli abili esecutori, i "traffichini",
"gli unanimemente accettati", "le persone svelte"
non possono che
servire solo gli interessi imperiali anche se
divergenti dall'interesse reale del paese.
Inoltre quante sono al vertice del sistema paese
le persone in possesso di
una solida preparazione scientifica?
Sono stati mai messi insieme i
curricula dei segretari dei partiti nazionali?
È importante notare non solo l'assenza
di un minimo percorso all'interno
delle scienze dure,
ma neppure in quelle a loro vicine.
Al massimo abbiamo degli economisti-teologhi,
che parlano bene in inglese,
che mai ne hanno azzeccata una in grado di far
progredire il paese, e che, da come hanmo agito,
risultano
impreparatissimi circa i fondamentali
della Storia italiana, e, preparatissimi a
favorire gli interessi tedeschi o statunitensi..
Finché non capiremo che la selezione feroce di
una classe dirigente che sia
sinceramente innamorata dell'Italia,
indipendente, per la sua formazione profonda,
da componenti esterofile
rappresenta l'unica
garanzia di reale progresso per un paese
che "non conta" e che è stato militarmene dissolto
come fu il nostro,
sarà meglio farci sculacciare ben bene
da tedeschi in apparenza riluttanti e
che parlano un buon inglese...
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