Cento anni fa nasceva a Livorno il partito rivoluzionario della classe operaia italiana
di Eros Barone
Dedicato ad Antonio Montessoro 1
1. Una crisi postbellica oscillante tra rivoluzione e reazione
L’Italia venne a trovarsi, negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, in una posizione intermedia tra la relativa stabilità delle potenze vincitrici (Francia e Gran Bretagna) e la totale disgregazione degli imperi centrali. In effetti, la guerra aveva impoverito i popoli e ridotto la loro capacità di acquisto, il che si constatava in Italia anche meglio che altrove. La scena politica italiana vide pertanto un lungo succedersi di agitazioni sociali, che assunsero a volte un carattere prerivoluzionario. Le basi stesse dello Stato liberale furono colpite da un processo di erosione, che compromise la legittimità della vecchia classe dirigente sottoposta, da un lato, alla spinta rivoluzionaria delle masse proletarie radicalizzate e, dall’altro, alla mobilitazione nazionalista dei ceti medi e degli ex-combattenti. Di fronte all’esplodere del conflitto sociale sull’intero territorio nazionale (il numero degli scioperi nel 1919 fu superiore del 112% rispetto a quello del 1914, ma quello degli scioperanti risultò addirittura cresciuto del 500%), il padronato non riuscì a costruire una linea di resistenza e preferì cedere sul piano delle rivendicazioni salariali al fine di evitare una radicalizzazione politica dello scontro. La spina dorsale di questo possente movimento di massa era costituita dai settori della classe operaia maggiormente coinvolti nella ristrutturazione bellica: i metallurgici e i tessili. In questi settori, dove più radicate erano le avanguardie storiche del movimento sindacale, ma dove, nel contempo, maggiore era stata l’immissione di forza-lavoro nuova, proveniente dalle campagne, si compiva quel processo di unificazione della classe operaia che imprimeva il suo sigillo alla fase ascendente del ciclo.
Tra le cause strutturali di questa esplosione di lotte sociali occupava un posto centrale la crescita dell’apparato industriale, laddove interi settori (come quello chimico o quello elettrico) erano stati quasi improvvisati dal nulla e altri, come quello meccanico e siderurgico, si erano smisuratamente dilatati. Fondamentali in tal senso furono il sostegno e la committenza forniti dallo Stato, che aveva messo a disposizione del capitale privato tutta una legislazione di carattere monopolistico e protezionistico. Era quindi inevitabile che con la cessazione della guerra la forza crescente della classe operaia trovasse uno sbocco, tanto più che il periodo bellico aveva ulteriormente accentuato le disparità sociali rafforzando i centri di potere economico e finanziario e riducendo a livelli di sussistenza (e perfino di miseria) le condizioni di vita delle masse. I superprofitti di guerra della grande industria – in particolare di quella pesante, che rappresentava l’ala più reazionaria ed oltranzista del capitalismo italiano – avevano raggiunto livelli stratosferici e la grande proprietà agraria era stata premiata dall’aumento dei prezzi e dalla rivalutazione delle rendite, mentre il reddito medio dei lavoratori salariati si era quasi dimezzato in valori reali. A ciò si aggiungeva l’esplosione di un’inflazione selvaggia, che fece salire a livelli elevatissimi i prezzi, già quasi raddoppiati durante la guerra (in particolare, quelli dei generi alimentari e dell’abbigliamento), contribuendo a surriscaldare il clima sociale.
Questo insieme di fattori produsse, all’interno del movimento operaio, due importanti modificazioni: in primo luogo, una crescita molto rapida delle organizzazioni sindacali, entro cui affluì in massa un gran numero di lavoratori, appartenenti soprattutto a quei settori di classe operaia di recente formazione che esprimevano una carica rivendicativa non facilmente mediabile: il che comportò un allentamento del controllo della dirigenza riformista sull’azione delle strutture periferiche ed una radicalizzazione generale della politica sindacale. L’altra conseguenza politica della radicalizzazione sociale fu il rafforzamento del PSI che, nelle elezioni del 1919, diventò il partito di maggioranza relativa ottenendo il 31,8% dei voti e 156 deputati: il che determinò, a sua volta, il rafforzamento della sinistra interna ed una relativa emarginazione della corrente riformista (che nondimeno continuava a controllare il gruppo parlamentare), mentre la direzione del partito passava ai massimalisti guidati da Giacinto Menotti Serrati.
2. I due congressi del 1921
Fu in queste circostanze che ebbe inizio il 15 gennaio 1921 a Livorno, nel Teatro Goldoni, il XVII congresso del Partito Socialista Italiano: un congresso che durò sei giorni e che fu, data la natura profonda e insanabile dei contrasti esistenti fra le diverse e avverse correnti in cui era diviso il partito, assai tempestoso.
Delle tre correnti principali, la corrente riformista era la meno numerosa, ma contava pur sempre i parlamentari più prestigiosi del partito: Turati, Treves, Prampolini, Modigliani, e i più sperimentati dirigenti delle organizzazioni sindacali: D’Aragona, Baldesi, Buozzi. All’ala opposta si collocava la corrente dei comunisti rivoluzionari intransigenti, propugnatori della necessità della scissione, a cui appartenevano Bordiga, Gramsci, Gennari, Terracini, Bombacci. Ma la corrente più numerosa era la corrente intermedia dei “massimalisti unitari”, che ritenevano ancora possibile la convivenza entro lo stesso partito di rivoluzionari e riformisti, l’adozione del programma comunista per la conquista insurrezionale del potere e la permanenza nel partito degli uomini che predicavano il gradualismo e deprecavano la violenza. Sennonché la preoccupazione dell’unità impediva ai “massimalisti unitari”, variante italiana del centrismo kautskiano, 2 di capire che l’unità era ormai inesistente e non poteva più essere ricostituita. Fu questa la corrente che prevalse, determinando il rigetto dei Ventun Punti posti dal II congresso dell’Internazionale Comunista (1920) come condizione tassativa per l’ammissione di un partito operaio all’Internazionale stessa. 3 E tale epilogo si verificò, benché il rappresentante inviato dalla Terza Internazionale, il comunista bulgaro Christo Kabakčev, esprimesse chiaramente la sua condanna del compromesso centrista. Su circa 172000 voti, 98000 circa andarono al centro, circa 58000 alla sinistra comunista e circa 14000 alla destra riformista. I terzinternazionalisti intransigenti decisero allora di tradurre in atto la decisione già presa di uscire dal Partito Socialista Italiano e di fondare una nuova organizzazione che sarà denominata “Partito Comunista d’Italia (sezione della Internazionale Comunista)”. 4
Il 20 gennaio si chiuse il congresso del primo, il 21 fu nominato, in un altro teatro di Livorno, il primo Comitato centrale del secondo. Ne facevano parte alcuni giovani di notevole ingegno, che provenivano da un’intensa attività politica come Antonio Gramsci, Ruggero Grieco, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti; fra di loro figurava la classica mela marcia, il demagogo Nicola Bombacci, più tardi passato al fascismo. Ma la personalità più eminente, per altezza d’ingegno, vigore politico, granitica determinazione e ferrea capacità organizzativa, era quella dell’ingegnere Amadeo Bordiga, che con la rivista «Soviet» di Napoli aveva dato il primo e più energico impulso alla scissione. 5 Nel quadro della lotta contro il fascismo il P.C.d’I., seguendo la linea dello scontro “classe contro classe”, 6 fece dunque parte per se stesso dal momento che considerava i socialdemocratici rimasti nel partito e nel gruppo parlamentare socialista come nemici del socialismo non meno dei fascisti (secondo la distinzione che sarà formalizzata più tardi, i socialdemocratici rappresentavano non l’“ala destra” del movimento operaio, ma l’“ala sinistra” della borghesia). 7
3. “Quando si son verificate tutte le condizioni di una cosa, essa entra nell’esistenza” 8
Il XVII congresso del partito socialista non fu un modello di ordine e di compostezza. I delegati delle varie correnti erano sparsi e confusi tra di loro un po’ ovunque, in platea e nei palchi: quelli comunisti, di preferenza, alla sinistra guardando la presidenza; i massimalisti e i riformisti al centro e a destra. Nel palco di proscenio del primo piano, a sinistra, proprio sopra la presidenza, stavano i dirigenti della frazione comunista (Bordiga ed altri). Alla presidenza, Gennari, ancora segretario del partito, Bacci ed altri della direzione. Era un’assemblea nervosa e preoccupata, consapevole che si andava verso decisioni gravi e irrevocabili. Proprio per questo era a tratti tumultuosa e a tratti silenziosa, facile all’applauso e ai fischi, alle chiassate in segno di protesta o di approvazione, sempre pronta ad alzarsi in piedi e a gridare, a favore o contro qualcuno e qualcosa. Turati, ad esempio, fu ascoltato con rispetto nella maggior parte del suo discorso e su alcuni punti fu a lungo applaudito dai suoi sostenitori e dai massimalisti. Anche Bordiga e Terracini riuscirono a farsi ascoltare. Vi fu un vero e proprio boato di urla e di risate ironiche, quando Terracini rimproverò ai riformisti di non aver avuto nemmeno il coraggio di andare al governo, dato che la loro politica era di collaborazione con la borghesia. Serrati ebbe l’accoglienza più contrastata: applausi, fischi ed urla; appariva come il più odiato da tutti: “traditore” per gli uni e per gli altri; per i comunisti, perché ripudiava l’adesione alla Terza Internazionale; per i riformisti, perché non era coerente con la concezione evoluzionista che questi consideravano propria del socialismo. Una indegna cagnara di urla, di fischi, di invettive, accolse e punteggiò tutto il discorso di Kabakčev, delegato, insieme con l’ungherese Mátyás Rákosi, della Terza Internazionale, il cui nome veniva urlato e storpiato in Papacev. L’ingiunzione di separarsi dai riformisti, che egli rivolse al congresso a nome dell’Internazionale, venne paragonata ad una bolla pontificia.
In certo qual modo la posizione dei centristi e di Serrati era di per sé un tentativo di compromesso, nel senso che, pur accettando i Ventun Punti, chiedeva di lasciarne l’applicazione, il tempo e la modalità al partito stesso. Ma questa era solo formalmente una posizione di compromesso, perché si sapeva molto bene che il punto cruciale su cui bisognava pronunciarsi era se cacciare o non cacciare i riformisti dal partito socialista. Di fatto, i centristi rifiutavano di assolvere questo obbligo. D’altra parte, il punto di vista dei comunisti nasceva dalla convinzione della ineluttabilità dello sviluppo europeo della rivoluzione sovietica. Si trattava quindi di una scelta per la rivoluzione mondiale: questo era – e rimane ancor oggi – il significato storico della scissione.
Certamente Kabakčev redasse il suo rapporto e la sua risposta d’accordo con Bordiga e con Gramsci. Senonché non vi era bisogno di fare pressioni per spingere alla scissione in quanto essa era un punto irrinunciabile della posizione della frazione comunista. Contrariamente a ciò che è stato sostenuto da diversi storici, la scissione non avvenne in base ad una pressione esterna, ma come una risposta generale che, per iniziativa dei comunisti, il movimento di classe italiano del dopoguerra dètte al fallimento ed al tradimento della socialdemocrazia. Tuttavia, quando i comunisti abbandonarono il Teatro Goldoni e si recarono, cantando l’“Internazionale”, al Teatro San Marco, non potevano non considerare di essere assai meno numerosi di quanto potessero pensare di essere quando, con la costituzione della frazione comunista, avevano posto la questione della scissione. 9 In questo senso, solo Bordiga poteva considerarsi soddisfatto dell’esito ottenuto, perché egli non si era mai battuto veramente per avere la maggioranza al congresso e teneva assai di più alla qualità del nuovo partito che non al numero dei suoi iscritti. Il fatto che alla testa del corteo dei delegati comunisti vi fossero tre gobbi (uno dei quali era evidentemente Gramsci) fu oggetto di un faceto commento da parte di Grieco, un dirigente che, essendo un dissacratore patentato, amava scherzare anche sulle cose più serie e interpretò quell’aspetto particolare come un auspicio di successo per il nuovo partito.
Il San Marco era solo un lontano ricordo del teatro che era stato, poiché per tutto il periodo della guerra era stato adibito a deposito di materiale militare: palchi sbrecciati, finestre senza vetri, porte che non chiudevano, il vento che spirava in tutte le direzioni. Non vi erano né sedie né panche e i delegati dovettero stare in piedi: una vera tristezza, che avrebbe scoraggiato chiunque non fosse stato animato dalla coscienza del fatto storico che si stava compiendo. Comunque, i lavori dell’assemblea comunista al San Marco non durarono a lungo, giacché tutto era già stato preparato. Nella stessa giornata del 21 gennaio furono approvati la costituzione del partito e il suo statuto, fu eletto il Comitato centrale, fu fissata la sede centrale del partito a Milano e fu decisa anche la fondazione del settimanale «Il comunista», come organo centrale del nuovo partito, cui si affiancava «L’Ordine Nuovo», che dal primo gennaio già usciva come quotidiano comunista. Per quanto riguarda le reazioni esterne al congresso, mette conto sottolineare che i lavoratori di Livorno guardarono con manifesto interesse alla fondazione del partito comunista e che il governo vi aveva mandato abbondanti forze di polizia allo scopo di prevenire ogni incidente. Per strada i delegati erano facilmente riconoscibili dal loro modo di vestire, dal fatto che si muovevano in gruppo, spesso insieme a qualche dirigente largamente conosciuto. I fascisti, dal canto loro, non cercarono di disturbare né i delegati né lo svolgimento dei due congressi. In gruppetti, di fronte ai bar e nei luoghi abituali di incontro, si limitavano a guardare e a scambiarsi sorrisi ironici. 10
4. Tre interventi e un non intervento importanti: Bordiga, Serrati, Turati e Gramsci 11
Il 19 gennaio interviene Bordiga con un discorso lucido e serrato, richiamando il congresso alla sostanza politica della discussione. L’analisi di Bordiga parte da lontano, riprendendo tutti i punti fondamentali della polemica che egli sta portando avanti da due anni: il richiamo al pensiero di Marx e di Engels (ed al Capitale, oltre che al Manifesto); la critica della linea adottata dalla Seconda Internazionale; il rapporto che si viene a stabilire tra le posizioni che essa aveva assunto prima del 1914 e quelle di coloro che nel dopoguerra riaffermano la validità delle conquiste parziali. E, soprattutto, l’affermazione che l’elemento necessario della rivoluzione è la conquista del potere politico, la forza che può permettere di «prendere questo meccanismo giuridico, militare, poliziottesco e spazzarlo e buttarlo via in rottami». La storia delle recenti rivoluzioni dimostra il fallimento della socialdemocrazia. Non vi sono possibilità intermedie: le sole alternative sono «dittatura borghese o dittatura proletaria».
La parte più efficace del suo discorso è quella in cui Bordiga attacca il riformismo, mostrandone le incertezze e le contraddizioni: in particolare, quella di negare la possibilità di una rivoluzione nel 1914, perché c’era benessere, e di continuare a negarla nel dopoguerra, perché c’è miseria. Assai lucida è anche la parte riguardante l’autonomia ammessa dalla Seconda Internazionale. A questo proposito, Bordiga afferma di non avere mai negato le “differenze nazionali”, e che per esse la Terza Internazionale ha ammesso delle differenti tattiche; la rigidità non riguarda queste ultime, ma soltanto le condizioni di organizzazione, cioè l’organizzazione di tutti i comunisti in un solo partito. Quanto alla tesi serratiana «che il Partito socialista italiano è l’unico nel mondo che sarà passato attraverso la guerra, che andrà alla sua rivoluzione con tutta la sua struttura», Bordiga la capovolge nettamente. Proprio perché il partito italiano non si è spezzato di fronte alla guerra, proprio perché in esso non è avvenuto il processo di separazione che è avvenuto negli altri partiti, esso resta il miglior partito socialista della Seconda Internazionale, ma non è ancora un partito della Terza Internazionale: perché lo divenga è necessario che anche in esso si produca la frattura chiarificatrice. La divisione tra avversari e fautori della guerra, del resto, non è stata in nessun posto sufficiente; tra coloro che hanno avversato il conflitto è dovuta avvenire un’altra divisione: quella tra quanti sono stati contrari alla guerra solo perché essa ha sconvolto i loro vecchi schemi pacifisti e quanti, invece, hanno compreso che era venuta l’ora di passare alla guerra tra le classi: «In Italia della prima non vi fu bisogno, lo concedo, ma la seconda non si produsse. Il partito si svegliò all’indomani della guerra in una situazione che aveva delle caratteristiche rivoluzionarie, ma che non era certamente la situazione in cui si svegliò il movimento socialista russo o tedesco. È indubbio, è pacifico che, tra i paesi vincitori, era l’Italia quello che usciva dalla guerra con la situazione più tesa, più economicamente critica, ma d’altra parte non si delineò immediatamente il problema della conquista del potere da parte del proletariato, dinanzi al quale si sarebbe spezzato inevitabilmente l’antico Partito. Esso si delineò per riflesso di quella revisione universale dei valori socialisti che prendeva ammaestramento dalla rivoluzione russa e dalle rivoluzioni degli altri paesi».
Bordiga rivendica con forza l’autonomia della elaborazione rivoluzionaria in Italia: le posizioni che la sinistra comunista ha assunto nel 1920 possono essere collegate assai strettamente, a suo parere, con quelle che la sinistra socialista aveva assunto prima e nel corso della guerra. Ieri essere intransigenti significava respingere ogni politica bloccarda, oggi significa «qualche cosa di più»; ieri collaborazionismo significava dei ministri socialisti in un governo regio, oggi significa «un ministero socialista sovrapposto alla struttura statale dell’oppressione borghese». Questa è la discriminante di fondo. Bordiga respinge ogni ragionamento fatto in base alle generazioni, perché il punto di dissenso è soltanto ed esclusivamente politico. Ed è un dissenso sostanziale, che non riguarda certo questioni di terminologia, e non può ammettere nessun compromesso: per questo «il pericolo che altrove rappresenta il movimento di Destra per la Terza Internazionale, in questo Congresso va raffigurato nella tendenza del Centro». Non è possibile «sovrapporre un programma rivoluzionario ad un meccanismo non rivoluzionario», ed il partito socialista, così come è voluto dalla concezione serratiana, non è rivoluzionario: i «fortilizi», secondo Bordiga, possono servire alla rivoluzione se si trovano nelle mani di un partito proletario, ma possono servire alla controrivoluzione «nelle mani di un Partito socialdemocratico». Essi possono costituire proprio le «catene […] più tenaci». 12
È questa la netta e rigorosa linea di demarcazione che Bordiga traccia nel suo intervento. In una simile prospettiva la tesi secondo cui ad essere tagliata via dovrebbe essere soltanto la frazione riformista viene a perdere, di fatto, ogni significato politico. Né Bordiga si illude che possa averne. Ed è proprio la lucida consapevolezza della profondità della frattura che sta per avvenire nel proletariato italiano a fargli respingere ogni appello di carattere sentimentale, ed anche a fargli evitare ogni considerazione personalistica, sicché il suo discorso segna l’apice politico, teorico e ideologico del dibattito congressuale. La sinistra comunista non è soltanto l’erede della sinistra socialista, ma anche la forza intorno alla quale si riunirà, in futuro, la maggioranza del proletariato. Per coglierne il tono e il significato, basta leggerne uno dei passaggi più appassionati: «Noi ci sentiamo eredi di quell’insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni. […] Noi sappiamo di essere una forza collettiva che non sparirà come una piccola frazione, come una diserzione di pochi militi. Vi è un grande esercito che sarà invece il nucleo attorno a cui verrà domani il grande esercito della rivoluzione proletaria del mondo […]. La vostra previsione che noi falliremo al nostro compito non è un augurio. Se augurio può esserci… è quello che noi facciamo, è il nostro augurio, cioè, o compagni, quello di consacrare tutte le nostre forze e di consacrare tutta la nostra opera contro le mille difficoltà, numerosissime, che si frapporranno al raggiungimento della nostra meta e di essere insieme per combattere tutti, senza eccezione e senza esclusione di colpi, gli avversari della rivoluzione, nel cammino che ci attende verso i cimenti supremi, verso l’ultima lotta, verso la Repubblica dei Soviet in Italia!». 13
Singolarmente povero, dal punto di vista dottrinale e politico, è il discorso di Serrati, tutto rivolto a dimostrare quanto sia stato ingiusto il comportamento dell’Internazionale nei confronti del miglior partito socialista d’Europa, allineando a tal fine, soprattutto in polemica con l’atteggiamento a suo avviso più elastico assunto dall’Internazionale verso il partito socialista francese, una serie di minuti episodi, non collegati in un contesto critico. Quando per esempio, per bocca di Serrati, i socialisti italiani si lamenteranno con Lenin che l'Internazionale è stata molto dura con il Partito socialista italiano mentre è stata assai più tenera nei confronti dei francesi, i dirigenti del Comintern, da Lenin a Trotsky, a Zinov'ev, a Bucharin diranno che con i francesi bisognava andare più cauti proprio per la debolezza ideologica del partito. Ad ogni modo, anche per il partito francese valgono le stesse ragioni che per quello italiano: vi è, cioè, il bisogno di condurre una polemica forte, accesa, contro la socialdemocrazia per avere quella base di massa che era indispensabile. Lo stesso, anzi qualcosa di più, avverrà nel partito tedesco.
Se la precedente battaglia di Serrati, culminata nella polemica con Lenin, aveva avuto un suo potenziale valore come battaglia per l’autonomia nazionale dei partiti operai pur nel quadro di una direzione internazionale unitaria, e più ancora per l’autonomia della classe rispetto al partito nella costruzione dell’ordine nuovo, a Livorno questo sottofondo ideale e politico scompare e la polemica si degrada a fatto tattico, a strumento di una prova di forza nel corso di una trattativa il cui scopo è quello di ottenere dall’Internazionale condizioni pari alla dignità del partito socialista italiano: riconoscimento del diritto a non cambiar nome al partito e a non pagare il biglietto d’ingresso nell’Internazionale con la testa di Turati – così Scalarini rappresenta tale condizione in una delle sue memorabili vignette -, riservandosi peraltro di espellerlo alla prima occasione favorevole. 14
L’ordine del giorno sui rapporti con l’Internazionale, votato a conclusione dei lavori, dopo la scissione dei comunisti, lascerà pertanto le cose come stavano prima del congresso, ribadendo senza alcuna modificazione il consueto equivoco centrista. In questo ordine del giorno si protesta infatti contro l’esclusione del partito dall’Internazionale, si riafferma che il dissenso nasce solo da una divergenza di «valutazione contingente», superabile mediante un amichevole chiarimento, si riconferma l’adesione all’Internazionale, al cui congresso si rimette la ulteriore discussione sulla questione italiana, col preventivo impegno di accettarne e applicarne la decisione. Restano però immutate le colonne d’Ercole al di là delle quali è la revisione della politica fin lì seguita. La riconfermata adesione all’Internazionale comporta, al solito, che si persista nella predicazione rivoluzionaria senza far nulla di concreto per tradurla in atto, che si resti nella intransigenza sul piano dei rapporti con governi e formazioni politiche borghesi senza sfruttare le contraddizioni esistenti nel blocco avversario, e che si conservi nel partito la situazione di permanente disagio derivante dalla esistenza di una corrente, la riformista, chiaramente controrivoluzionaria. Infine, ad accrescere la confusione sta il fatto che l’ordine del giorno viene approvato all’unanimità, col voto quindi degli stessi riformisti, evidentemente convinti che non sia ancora giunto il momento di uscire dal ghetto in cui sono relegati, che sia ancora opportuno mimetizzarsi nella maggioranza, per non approfondire il solco su questioni che appaiono di secondaria importanza e destinate a sciogliersi da sole. 15
Quando prende la parola Turati il congresso è ormai virtualmente finito. Nel suo discorso il fondatore del Partito Socialista Italiano e ‘leader’ della destra socialdemocratica prende atto del successo riformista, sottolineando la «differenza tra l’avvenuta revisione e proclamazione di Bologna e i cauti e ponderati discorsi degli stessi estremisti e massimalisti di questo Congresso!». L’unità trionferà di nuovo, quando il «socialismo dei combattenti» sarà svanito e si tornerà al socialismo e comunismo dei testi sacri che Turati e gli uomini della sua corrente hanno da sempre insegnato. Turati fa un richiamo esplicito alla presunta revisione engelsiana del Manifesto e alla leggenda della sconfessione «del culto della violenza», anch’essa falsamente attribuita ad Engels dall’ala revisionista della Seconda Internazionale. Così, dopo la guerra, per Turati le classi dominanti hanno più paura della legalità che dell’insurrezione. Ne deriva il rifiuto della violenza, questa volta assoluto, e ne deriva che la sola azione valida è quella che viene svolta in parlamento. Turati si dice sicuro che nell’azione intesa come «abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacti, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura» potrà ricomporsi l’unità, e che anche i comunisti, dopo aver impiantata la repubblica dei soviet, dovranno percorrere la «via dei socialtraditori».
Di fronte alla scissione Turati riafferma dunque la validità piena e totale della politica riformistica, che costituisce la sola strada che può portare al socialismo. L’avvertimento che la violenza socialista genera la violenza reazionaria viene così a perdere ogni accento drammatico, diluendosi in una visione sostanzialmente ottimistica del futuro, ora che i “comunisti puri” se ne vanno, assai lontana dalla sofferta previsione serratiana delle conseguenze che potrà avere la scissione. 16
Perché Gramsci non prese la parola al congresso di Livorno? A questa domanda gli studiosi hanno dato varie risposte, nessuna delle quali in verità risulta soddisfacente. C’è chi ha detto che Gramsci non parlò per motivi del tutto secondari: perché non c’erano ancora gli altoparlanti e la sua voce era fievole; perché gli si era fatto capire che non aveva sufficienti doti oratorie per imporsi ad una assemblea così piena di avversari. Altri ancora fa risalire il silenzio di Gramsci a motivi psicologici, dovuti alla riservatezza, al fastidio per le dispute congressuali e alla ripugnanza per il pettegolezzo; a motivi di amarezza per le accuse di essere stato, sia pure per breve tempo, un interventista filomussoliniano e perfino un ardito di guerra (nelle sue condizioni fisiche!), accuse lanciate contro di lui durante lo stesso dibattito al Teatro Goldoni. Inoltre, al Teatro San Marco vi fu persino chi si oppose alla sua elezione nel Comitato centrale del nuovo partito. Sennonché va detto che nel suo silenzio, oltre alla ripugnanza a parlare da tribune solenni e a quella di difendersi da accuse così basse, vi fu una qualche esitazione ed incertezza politica rispetto sia ai Ventun Punti che alla scissione.
Del resto, vi sono nella vita di Gramsci in quel periodo altre manifestazioni di incertezza e di esitazione nelle prese di posizione sulle questioni politiche, come, ad esempio, non aver dato una solida base organizzativa nazionale al movimento per i Consigli di fabbrica, non aver creato, al momento dell’occupazione delle fabbriche, un centro organizzativo che dirigesse l’azione dei Consigli di fabbrica; avere, con ritardo, deciso di allearsi agli astensionisti della sinistra comunista capeggiata da Bordiga e non aver preso, a differenza di quest’ultimo, una netta posizione per la scissione. Anche durante le discussioni che si svolsero al IV Congresso dell’Internazionale Comunista (1922) nella commissione italiana per la riunificazione fra Partito comunista d’Italia e PSI, lo stesso Gramsci ebbe a confessare di avere “anguilleggiato”. 17 Non a caso il suo discorso, in quell’occasione, fu molto impacciato e poco chiaro. Togliatti, dal canto suo, riferendosi alla fondazione del Partito e al suo primo periodo di vita, ha ricordato che «tutti coloro che conoscevano Gramsci sapevano che esisteva un disaccordo profondo fra lui e Bordiga. Ma Gramsci per non confondersi con gli elementi di destra commise l’errore, pur marciando insieme a Bordiga, contro i riformisti ed i centristi, di non differenziarsi da lui pubblicamente sui problemi di strategia e di tattica su cui la differenziazione era pur necessaria. In buona sostanza, egli non seppe condurre, in quel momento e nei primi tempi della vita del partito comunista, una lotta su due fronti [corsivo dello scrivente]». 18
Appariva, comunque, chiaro e netto fin da allora, all’insegna del convincimento circa l’attualità della rivoluzione riassunto nella parola d’ordine “fare come in Russia”, il “legame di ferro” che era stato stretto tra il partito comunista italiano e la Terza Internazionale, da cui fu ufficialmente riconosciuto come sezione italiana al posto del partito socialista. D’altro canto, il partito socialista, pur essendosi alleggerito dell’ala comunista, non era diventato per questo più omogeneo e concorde: i massimalisti, che costituivano la maggioranza, pur rinnovando la loro professione di fede rivoluzionaria, non ritenevano giunta l’ora della conquista del potere, ma covavano in seno un elemento di scissione ulteriore nei “terzinternazionalisti” residui; dal canto loro, gli esponenti della destra riformista, pur essendo sollecitati a dare la loro partecipazione al governo del paese, non osavano compiere il passo decisivo per il timore di perdere la fiducia delle masse e di rompere definitivamente l’unità del partito.
5. Una scissione minoritaria, un partito rivoluzionario
Il Partito Comunista nasce così a Livorno come minoranza della classe operaia. I riformisti controllavano infatti la C.G.L., le cooperative, i municipi e il gruppo parlamentare, mentre i centristi avevano l’apparato del Partito e il giornale quotidiano. Tale posizione minoritaria sarà confermata dalle votazioni avvenute al Congresso della Confederazione Generale del Lavoro, che si svolgerà pure a Livorno tra il febbraio e il marzo del 1921 e che darà 1.435.000 voti ai socialisti e 432.000 voti ai comunisti. Per quanto concerne la composizione politica del Comitato Esecutivo del PCd’I evidente era l’egemonia bordighiana, giacché di esso facevano parte, oltre a Bordiga, considerato il ‘capo’ riconosciuto del partito (non esisteva ancora la carica di segretario generale), Fortichiari, Grieco e Repossi, ossia quattro ex astensionisti, e un solo ex ordinovista, Terracini.
Fu giusta la scissione di Livorno? Definendola una “scelta per la rivoluzione mondiale”, ho già espresso il mio giudizio sulla assoluta giustezza storica di tale scissione, che non può essere negata da chiunque consideri la situazione che si era venuta a creare con la rivoluzione d’Ottobre (1917) e con il “biennio rosso” (1919-1920). Nel clima odierno, caratterizzato dal predominio del riformismo imperialista e dall’opportunismo dei suoi fedeli ausiliari centristi, tutta la storiografia lo nega e la stessa storiografia di matrice revisionista avanza più di un dubbio, traendo giustificazione per tali perplessità da una frase di Gramsci che giunse a definire Livorno, solo due anni dopo, come “un trionfo della reazione”. 19 Esaminando oggi, da un punto di vista di classe, quel grande avvenimento, occorre invece riaffermare alto e forte che la fondazione del Partito Comunista d’Italia (sezione della Internazionale Comunista) fu il primo e vero tentativo compiuto dalla classe operaia italiana di darsi una direzione rivoluzionaria. Occorre, cioè, riconoscere che prima di Livorno non era mai esistito in Italia un partito rivoluzionario del proletariato. Fu semmai il modo come avvenne la rottura che deve essere criticato: perché avvenne in posizione minoritaria, e di questo la colpa va attribuita all’opportunismo centrista dei serratiani; perché avvenne su posizioni settarie, e di questo la colpa va attribuita alla corrente bordighiana, senza però dimenticare il merito storico che le va riconosciuto per aver intuito, prima di altre correnti, la necessità della scissione, e per averla preparata ed attuata; perché, dopo essersi separati da Turati, non si fece poi l’alleanza con lui, seguendo l’indicazione tattica che Lenin aveva dato a Serrati: «Separatevi dalla frazione di Turati e poi fate un’alleanza con essa», 20 e di questo la colpa va assegnata ai bordighiani e ai gramsciani, ancora in quegli anni perfettamente fusi e concordi con i primi. 21
Tutti questi errori fondamentali saranno pagati duramente dalla classe operaia, dalla classe contadina, dagli intellettuali e da tutti gli strati intermedi italiani, che verranno per venti anni schiacciati dal fascismo. Ma questo non cancella il fatto che con il 21 gennaio 1921 sia cessata nel nostro paese la preistoria e abbia avuto inizio la storia della classe operaia rivoluzionaria. 22 E siccome il passato determina il presente e vive in esso, il problema della necessità e della costruzione del partito comunista si pone anche oggi: identico nella sostanza, differente nei suoi termini e sempre arduo nella sua soluzione. 23