Il mito antifascista degli Arditi del Popolo e del settarismo «bordighista»
Considerazioni in/attuali
di F. B.
«Ogni volta che al posto di "proletariato" leggo "popolo", mi domando quale brutto tiro si stia preparando ai danni del proletariato.»
(G. D.)
La «leggenda» degli Arditi del Popolo nasce all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorché – dopo che per quasi cinquant’anni quell’esperienza di opposizione armata al fascismo in ascesa era caduta nell’oblio – un fiorire di studi ad opera di giovani storici «militanti» la riportò improvvisamente in auge. Questo rinnovato interesse per una vicenda lontana e ormai da tempo dimenticata, come sempre accade, non fu casuale: esso rispondeva, infatti, all’esigenza di dotare la pratica dell’«antifascismo militante» delle formazioni della sinistra extraparlamentare di un proprio mito fondativo, da affiancare a quello ormai sbiadito e sin troppo «istituzionale» della Resistenza. L’antifascismo militante era nato per contrastare il neo-squadrismo di fascisti vecchi e nuovi, che lo stato democratico utilizzava come manovalanza cui delegare il «lavoro sporco» nella repressione delle lotte operaie e studentesche, oltre che nel quadro della cosiddetta strategia della tensione. Ma i suoi riferimenti storici, nonché l’appellativo stesso di «antifascismo», rivelano come la sua funzione, sul piano tanto pratico che ideologico, andasse oltre il terreno della semplice «difesa proletaria», e si collocasse su un piano politico ben preciso: quello della difesa della democrazia (democrazia che peraltro in quegli anni, in Italia, non fu mai seriamente in pericolo). Inoltre, esso assolse a una funzione di polizia interna al movimento, volgendosi soprattutto contro le sue correnti più radicali (i cui aderenti erano invariabilmente bollati come «provocatori fascisti» e spesso oggetto di aggressioni fisiche da parte dei «servizi d’ordine» gauchiste). Ciò non stupisce se si pensa che, seppure con sfumature diverse, la matrice di pressoché tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare era più o meno apertamente marxista-leninista.
Un ruolo di rilievo, nella suddetta operazione di mitopoiesi, ebbe Lotta Continua, che con la tesi della «fascistizzazione dello Stato» cercava di offrire una base «teorica» alla tattica riformista del frontismo democratico, che la spinse – insieme ad altri gruppi dell’estrema sinistra, entrati in crisi dopo il 1973 (anno della quasi-occupazione della FIAT e, soprattutto, dell’inizio della crisi economica e del riflusso delle lotte dell’operaio-massa) – ad avvicinarsi sempre di più al PCI (fino all’indicazione di voto per i candidati «piccisti» alle elezioni amministrative del 1975). Inutile dire che il revival della vicenda degli Arditi del Popolo, in virtù della presenza al loro interno di consistenti nuclei anarchici, riscosse grande successo anche nell’ambito del movimento libertario, dove salvo poche meritevoli eccezioni, il dogma antifascista non è mai stato messo in questione.
Come mette in luce Dino Erba, nel suo opuscolo La leggenda nera degli Arditi del Popolo. Un messa a punto storiografica (All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2008) – al quale questo articolo è largamente debitore e di cui qui di seguito riporteremo ampi stralci – la letteratura sull’argomento, inclusa quella di matrice libertaria, è fortemente condizionata dai giudizi espressi dalla corrente «centrista« del Partito Comunista d’Italia (Gramsci-Togliatti) alla metà degli anni Venti, e tende a «privilegiare fonti storiografiche ispirate alla vulgata nazionalcomunista», ovverosia stalino-togliattiana:
«la corrente centrista del PCd’I [...], dopo avere assunto la direzione del Partito (1924), dovette poi giustificare la propria incapacità a fronteggiare il fascismo, divenuta fin troppo evidente con gli arresti di massa dell’8-9 novembre 1926. Dal momento che le sue fallimentari scelte politiche erano state dettate da Mosca, il nuovo gruppo dirigente del Partito non trovò di meglio che accusare di settarismo l’originaria direzione di sinistra [Bordiga, Fortichiari, Repossi etc., ndr], prendendo a pretesto, tra l’altro, l’atteggiamento da questa tenuto nei confronti degli Arditi del Popolo. L’accusa, più volte ripetuta, ha finito per diventare articolo di fede anche per tendenze politiche, come gli anarchici, che con il trasformismo togliattiano non vorrebbero avere nulla in comune.» (Dino Erba, op. cit., p. 3).
Per ristabilire un minimo di verità storica, lasciamo ancora la parola all’autore del succitato opuscolo:
«Fuori della mitologia (e delle calunnie), la formazione degli Arditi del Popolo assume contorni circoscritti nel tempo e di limitato spessore organizzativo. Fu un’esperienza che si concluse nel giro di pochi mesi, dal giugno al novembre del ’21; dopo l’iniziale exploit, anche se affrontò dure e apprezzabili battaglie contro lo squadrismo, l’Associazione ebbe una vita travagliata: gli aderenti, che nell’estate 1921 erano 19.567, nel 1922 erano scesi a 6.467, mentre gli iscritti ai Fasci toccavano il mezzo milione. Al tempo stesso, il movimento aveva perso l’iniziale carattere accentrato e nazionale, spezzettandosi in gruppi locali ed eterogenei. La causa del declino risiedeva negli stessi presupposti politici dell’iniziativa, rivolta al puro ripristino delle garanzie democratiche, in un momento in cui la borghesia italiana le abbandonava.» (Ibid., corsivi nostri).
Nelle file degli Arditi del Popolo, confluirono elementi delle più svariate tendenze politiche: socialisti, anarchici, repubblicani, antifascisti generici etc., non necessariamente legati al movimento operaio. Il loro orizzonte, malgrado la presenza di numerosi militanti libertari, e al di là delle motivazioni ideali e delle illusioni degli aderenti, rimase sempre quello della restaurazione della legalità e dell’ordine democratici. Non a caso, il principale sponsor politico dell’iniziativa fu, sin dagli inizi, il liberal-democratico ed ex Presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti. Troviamo dunque già qui riuniti i tre caratteri di fondo che definiscono storicamente l’antifascismo: frontismo, interclassismo e difesa della democrazia.
Non solo: restando prigionieri di una concezione legalitaria, gli Arditi del Popolo furono «incapaci di opporre una valida resistenza agli attacchi del governo, presieduto dal vecchio socialista riformista Ivanoe Bonomi», che nel frattempo foraggiava e sosteneva, anche militarmente, gli squadristi; «di conseguenza, con l’avvento del fascismo, non furono in grado di dotarsi si un’adeguata struttura clandestina» (Ivi, p. 4) e scomparvero quasi istantaneamente dalla scena.
Al momento della costituzione degli Arditi del Popolo (giugno 1921), il PCd’I, nato appena sei mesi prima, aveva già costituito una propria organizzazione militare (l’Ufficio I, diretto da Bruno Fortichiari), nella quale erano confluiti numerosi giovani proletari che avevano partecipato alle lotte e ai movimenti sociali di quegli anni: le lotte contro la guerra e il carovita, gli scioperi e le occupazioni del «biennio rosso» etc.
«[Questi militanti] avevano affrontato lo squadrismo fascista sul nascere, scontrandosi spesso con il legalitarismo dei dirigenti socialisti. […] I comunisti, tutte le volte che la situazione lo richiese, collaborarono con gli Arditi del Popolo; un esempio tra i tanti è la battaglia d’Oltretorrente, avvenuta a Parma all’inizio dell’agosto 1922. A distanza di quasi mezzo secolo, Bordiga evocava l’episodio in termini assai encomiastici [cfr. A. Bordiga, La classe dominante italiana e il suo stato nazionale, ndr].» (Ivi, pp. 4-5).
«[Il PCd’I] guardò sempre con favore gli episodi di ribellione, cercando, quando possibile, di parteciparvi e dar loro un orientamento politico, come avvenne nelle citate giornate di Parma, Ancona e Bari. Ma anche a Milano, Civitavecchia, Genova, Gorizia e in molte altre località minori, i giovani militanti del PCd’I furono in prima fila nella lotta allo squadrismo. Proletari tra i proletari, tutte le volte che la situazione lo richiedeva, parteciparono agli scontri, in cui erano inevitabilmente coinvolti militanti di altre formazioni politiche del movimento operaio: in primis gli anarchici, poi i socialisti, i repubblicani, gli antifascisti generici e perfino i popolari.» (Ivi, p. 7).
Riportiamo ancora, a titolo di esempio, la testimonianza di un militante comunista della prima ora, citata da Dino Erba:
«Turiddu Candoli (un “bordighista inossidabile”), rievocando la collaborazione con gli Arditi del Popolo in Romagna, afferma: “Quando venivano e avevano bisogno eravamo lì con loro. E loro venivano quando avevamo bisogno noi [...]» (Ivi p. 10).
A conferma di come il PCd’I sia stato in prima linea nella lotta contro il fascismo, basterebbe confrontare il numero di arresti, uccisioni e ferimenti di militanti comunisti nel periodo che precede e segue immediatamente la Marcia su Roma. Solo con la grande ondata di arresti del febbraio 1923, finirono dietro alle sbarre 5.000 comunisti, tra i quali lo stesso Bordiga.
D’altra parte, sul piano politico, il PCd’I vedeva nella lotta contro il fascismo – così come in quella contro lo Stato liberale – nient’altro che un aspetto della lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, piuttosto che un mezzo per difendere o restaurare la democrazia borghese in crisi. Il fascismo era inoltre considerato non già come un fenomeno regressivo e reazionario, ma piuttosto come la forma più avanzata in cui si andava incarnando il capitalismo moderno. Si deve tenere conto, inoltre, che tali posizioni trovavano riscontro in un clima sociale e politico caratterizzato, nel quadriennio aperto dalla Rivoluzione d’Ottobre (1917-1921), da intense lotte di classe e da tentativi rivoluzionari che avevano sconvolto mezza Europa, destabilizzandone in profondità gli assetti sociali ed economici (Germania 1918-1920, Ungheria 1919, Italia 1919-1920 etc.). Certo, con il senno di poi, possiamo affermare che, alla metà del 1921, il vento stava già cambiando, e che di lì a poco si sarebbe inaugurata una lunga fase controrivoluzionaria e di ristrutturazione del modo di produzione capitalistico, che avrebbe visto trionfare il fascismo in Italia e in Germania, il capitalismo di stato in salsa staliniana in Russia, il New Deal negli Stati Uniti etc. Ma, come si sa, del senno di poi son piene le fosse.
Coerentemente con questa impostazione, il PCd’I, contro le indicazioni della stessa Internazionale Comunista, rifiutò allora ogni sorta di «fronte unico politico», cioè a dire la riunificazione con i socialisti – dai quali si era appena separato – in funzione antifascista. Questi ultimi, dal canto loro, avevano firmato, il 3 agosto 1921, il famigerato «patto di pacificazione» con i fascisti, proprio nel momento in cui le violenze delle squadracce mussoliniane colpivano con maggiore durezza le sedi politiche e sindacali del movimento operaio, i comizi di piazza e i singoli militanti (per lo più comunisti e anarchici). Naturalmente, le violenze non cessarono.
Quanto ai partiti borghesi (popolari inclusi), votando compattamente in parlamento per il primo governo Mussolini (31 ottobre 1922), resero evidente come pressoché l’intera borghesia italiana avesse puntato sulla «soluzione fascista». Se pure, tradendo la sua stessa natura, il PCd’I diretto dalla sinistra avesse voluto in quel frangente praticare una «politica delle alleanze» con presunte forze antifasciste, non avrebbe trovato orecchie pronte ad ascoltare.
A far cadere definitivamente ogni accusa di «settarismo», se è vero che il PCd’I «bordighista» rifiutò sempre qualsivoglia forma di frontismo politico, promosse d’altro canto il cosiddetto fronte unico dal basso, cioè l’unità dei proletari sul terreno degli scioperi e delle lotte sindacali, per opporsi alla controffensiva condotta dalla borghesia. Un abbozzo di «fronte unico dal basso» fu rappresentato dall’Alleanza del Lavoro, costituitasi nel gennaio 1922, che riuniva la Confederazione Generale del Lavoro (CGL), l’anarco-sindacalista Unione Sindacale Italiana (USI), il Sindacato dei Ferrovieri e altri organismi. Il fallimento dello sciopero generale a oltranza indetto dall’Alleanza il 31 luglio dello stesso anno – frutto dell’azione repressiva congiunta dello Stato e delle squadre fasciste, e di una condizione di oggettiva debolezza del proletariato italiano – segnò, a detta dello stesso Mussolini, la definitiva affermazione del fascismo, «giacché la pagliaccesca marcia su Roma in vagone letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi» (Bordiga). D’altro canto, i dirigenti social-riformisti della CGL, che avevano nei fatti boicottato lo sciopero, si affrettarono, all’indomani della presa del potere da parte dei fascisti, a dichiarare la propria neutralità rispetto alle «due fazioni in lotta» (fascisti e comunisti). Questo non li salvò dallo scioglimento della loro organizzazione (gennaio 1927).
Infine, citiamo un ultimo e significativo episodio. Nel 1924, durante la crisi politica seguita al delitto Matteotti, il gruppo parlamentare del PCd’I, ormai guidato dalla corrente centrista gramsciana (dopo gli arresti del 1923, con Bordiga e molti altri dirigenti della sinistra in prigione o latitanti, Mosca aveva colto l’occasione per imporre un cambio ai vertici del partito e avviarne la «bolscevizzazione»), propose al Comitato delle Opposizioni riunito sull’Aventino, di cui inizialmente faceva parte, di dare vita a un «antiparlamento», e di sostenerlo con uno sciopero generale. Gli altri partiti – che, ricordiamolo ancora una volta, eccezion fatta per i socialisti avevano sostenuto compattamente il primo governo Mussolini – spaventati dalla possibilità che una mobilitazione dei lavoratori potesse loro sfuggire di mano, rifiutarono la proposta1. Questo episodio segna la nascita ufficiale dell’antifascismo democratico e, allo stesso tempo, ne ratifica l’impotenza. Che discende inevitabilmente da quello che è uno dei suoi tratti fondamentali: la rinuncia, da parte dei proletari, ai loro specifici metodi di lotta.
Ecco come si esprimono, al riguardo, alcuni degli eredi della corrente di sinistra del PCd’I:
«Di fronte alla vittoria del fascismo, il Partito comunista doveva, nell'illegalità come nella legalità, continuare il suo lavoro di preparazione rivoluzionaria. Non doveva lasciarsi deviare e scoraggiare nel momento della sconfitta, ma soprattutto − ed è questo uno dei nodi centrali − non si doveva prendere pretesto dalla sconfitta per modificare e cambiare il programma e abbracciare quello che oppone la legge all'illegalità, la democrazia al totalitarismo, l'antiparlamento antifascista [...] al parlamento spazzato via dal fascismo. […] Per ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che non ci fu proprio nessun misconoscimento del fascismo (a chi ci accusa di averlo reputato un fenomeno transitorio e passeggero) ci basti citare quanto si scriveva nel novembre 1922 […]: “Non vi è alcuna probabilità che il fenomeno fascista abbia a cessare per dar luogo a un regime di liberalismo pratico e di neutralità dello Stato nelle lotte tra classi e partiti, nemmeno nella misura in cui si simulava in altri periodi meno critici l'apparenza giuridica di tutto questo. La situazione tende a due ben distinti sbocchi: o allo schiacciamento del proletariato e dei suoi sindacati e a un regime di sfruttamento negriero, o a una risposta rivoluzionaria delle masse che in tal caso contro di sé troveranno la coalizione del fascismo, dello Stato e di tutte le forze che difendono il fondamento democratico delle presenti istituzioni”.» (N+1, Premessa a Comunismo e fascismo, disponibile sul web).
Alla luce di quanto precede, la scelta del PCd’I di rivendicare la propria autonomia politica e militare in rapporto agli Arditi del Popolo (così come rispetto a qualunque altra forza politica) fu non solo perfettamente coerente con i presupposti politici della sua azione, ma fu l’unica possibile. Sul piano politico, come si è visto, la linea democratico-legalitaria degli Arditi del Popolo non era all’altezza di una situazione in cui l’aut-aut era non già quello tra democrazia e fascismo, bensì quello tra rivoluzione e controrivoluzione. Sul piano militare, d’altro canto, sarebbe grottesco pretendere che un partito rivoluzionario ceda il comando delle proprie milizie a uno stato maggiore a esso estraneo:
«Nulla impedì ai comunisti di battersi, insieme agli "Arditi" per le strade e per le piazze; tutto vietava al Partito Comunista di cedere la sua organizzazione militare ad un organismo completamente estraneo ai suoi fini. […] Una volta realizzato l'obiettivo degli Arditi del Popolo, cosa avrebbero fatto quelle forze a cui il Partito si sarebbe dovuto subordinare se non rivolgere le armi contro i comunisti, nemici di quell'ordine borghese? Il Partito rifiutò quindi, giustamente, di fondere il suo inquadramento militare in quello di un movimento politicamente equivoco e la cui direzione si poneva sul terreno della legalità democratica.» (Ibid.).
Per quel che riguarda gli anarchici, citiamo ancora una volta Dino Erba:
«Gli anarchici, rispetto ai comunisti, manifestarono una disponibilità decisamente più ampia, se non assoluta, nei confronti degli Arditi del Popolo. Questa disponibilità, a parte le ben note divergenze teoriche con i marxisti, nasceva dal fatto che, quando si manifestò lo squadrismo, gli anarchici, a differenza dei comunisti, non disponevano, se non in misura limitata (ma non disprezzabile), di adeguate strutture di autodifesa militare. Di conseguenza, essi colsero giustamente l’opportunità offerta dagli Arditi del Popolo, mantenendo comunque nette, come i comunisti, le proprie prerogative politiche. Ciò malgrado, non riuscirono a superare la deriva democratica, destinata a prevalere tra gli Arditi del Popolo e, quando l’organizzazione si disgregò, non esitarono a collaborare con le squadre comuniste, che disponevano di una discreta dotazione militare.» (Dino erba, op. cit., p. 11; corsivo nostro).
Non possiamo qui esimerci da un’annotazione critica: è difficile parlare di «deriva democratica» allorché, come abbiamo visto (e come evidenza lo stesso autore) gli Arditi del Popolo ebbero fin dall’inizio come unico orizzonte quello del «ripristino delle garanzie democratiche». Le ragioni della convergenza tra anarchici e Arditi – oltre alle motivazioni di ordine pratico chiamate in causa da Dino Erba – vanno a nostro avviso ricondotte alla natura stessa dell’anarchismo. Mettendo al centro della propria critica dell’esistente i concetti di «autorità» e «libertà», e facendo perno su un volontarismo che ignora o comunque sottovaluta il determinismo dei rapporti e delle forze sociali, il pensiero e la pratica anarchiche sono quasi naturalmente esposti al rischio di cadere nella trappola del frontismo democratico: di fronte al dilemma «democrazia o fascismo», storicamente gli anarchici – o perlomeno la maggior parte di essi – hanno finito per scegliere, nei fatti, la difesa della prima (la meno «autoritaria», e perciò capace di garantire maggiori «spazi di libertà»). L’esperienza della Guerra di Spagna ce lo mostra chiaramente: accettazione della guerra per fronti, prima, e dell’inquadramento militare delle milizie, poi; nessun reale attacco condotto contro lo stato democratico; partecipazione di ministri anarchici al governo; appello della FAI-CNT (congiuntamente al POUM) alla «pacificazione» con le forze statali stalino-repubblicane, all’epoca dei fatti del maggio 1937 a Barcellona etc. Tutto in nome della priorità della lotta contro il fascismo. Lo stesso Durruti, nel novembre 1936, fece appello alle organizzazioni sindacali e politiche della Spagna repubblicana, affinché cessassero le ostilità sul terreno della lotta di classe, per «formare un blocco granitico» contro la «tirannia fascista». Vittime della trappola frontista, furono innanzitutto i tanti militanti (anarchici, poumisti, trotzkisti) che si illusero circa il carattere rivoluzionario della lotta antifascista in Spagna, uccisi o imprigionati dai loro stessi «compagni di strada».
Va sottolineato, infine, come quasi ovunque, durante la Seconda Guerra Mondiale – guerra imperialista tanto quanto la Prima! – gli anarchici abbiano partecipato alle rispettive resistenze nazionali, seppure in maniera autonoma rispetto ai vari «comitati di liberazione nazionale». D’altro canto, i primi sbandamenti in ambito libertario si erano verificati già nel 1916, in pieno primo conflitto mondiale, con il Manifesto dei Sedici2, che pur propugnando posizioni condivise soltanto da una minoranza del movimento, si esprimeva in favore della guerra condotta dalle democrazie occidentali (e dalla Russia zarista!) contro gli «autoritari» imperi centrali, identificati come gli «aggressori», e perciò come gli unici veri responsabili del conflitto. Su un altro versante, quello dell’interventismo socialista, troviamo d’altro canto, tra i tanti, il futuro «centrista» e «nazional-comunista» Antonio Gramsci (il cui pensiero è allo stesso modo intriso di idealismo e volontarismo), anch’egli favorevole all’ingresso dello Stato italiano nel conflitto al fianco delle potenze dell’Intesa. Oggi la tragedia si ripete in forma di farsa, con molti epigoni dell’uno e degli altri a fare il tifo, chi per la «resistenza ucraina» – che si opporrebbe legittimamente all’«autoritarismo fascista» dell’«aggressore» russo – chi per l’«antifascista» Putin, che sarebbe impegnato a sgominare la banda di «nazisti» manovrati dalla NATO, che detengono il potere a Kiev. I primi, come i secondi, ugualmente in nome dell’antifascismo, dell’antimperialismo, della «libertà» e della difesa delle «popolazioni oppresse»; i primi, come i secondi, obliterando completamente la naturale tendenza del capitalismo alla guerra, e individuandone la causa nelle colpe del «cattivo» di turno… A dimostrare che, se è vero da un lato che l’antifascismo è uno zombie sopravvissuto al suo antagonista storico – il fascismo, forma della controrivoluzione connessa a una specifica configurazione della contraddizione capitale/lavoro, quella che si strutturava nel movimento operaio inteso come «controsocietà» all’interno della società capitalistica, e perciò fenomeno circoscritto nel tempo –, almeno dal punto di vista dei dispositivi ideologici in gioco, e soprattutto in rapporto agli ambienti «militanti», la sua critica resta quanto mai attuale. Quando i riferimenti di classe sfumano, l’internazionalismo si trasforma nel suo contrario: non più sabotaggio della guerra su entrambi i fronti, fraternizzazione tra i proletari «in divisa» degli opposti eserciti, trasformazione della guerra imperialista in guerra civile contro i rispettivi stati, ma sostegno più o meno esplicito a uno dei due contendenti. Altra cosa è valutare, nella situazione concreta, le reali condizioni di possibilità di un internazionalismo che non sia solo astratta petizione di principio3. Senza con ciò dimenticare che la concorrenza tra capitali, e soprattutto la sua espressione più virulenta, quella dello scontro militare tra potenze più o meno imperialiste, concorrono a definire il quadro e le condizioni in cui si sviluppa la lotta delle classi; e che il loro esito, rispetto a quest’ultima, non è affatto indifferente4. Scrive, ad esempio, Raffaele Sciortino, a proposito dell’incapacità della mobilitazione antirazzista dell’estate 2020, seguita all’assassinio di George Floyd negli Stati Uniti, di portare il conflitto su un terreno di classe:
«Ha prevalso, ancora, il nesso, sul quale si è basata da sempre la politica imperialista di Washington, tra il benessere interno e il dominio mondiale. […] Per i movimenti di lotta è, questo, un elemento inaggirabile e al tempo stesso non risolvibile all’immediato. E non solo perché il concetto di imperialismo è ormai sparito dall’orizzonte mentale dalla sinistra ma perché quel nesso è effettivo, da più di un secolo ripaga i proletari statunitensi della loro sostanziale nullità politica. Solo una serie di colpi inferti dall’esterno al dominio yankee potrà iniziare a intaccarlo e, eventualmente, portare a un punto di fusione le crescenti tensioni interne, di cui il trumpismo dei white poors e il riemergere della questione nera sono comunque sintomo.»5
Concludiamo con alcune considerazioni di carattere generale. In primo luogo, va ricordato come la critica dell’antifascismo sia patrimonio di tutti i «comunisti di sinistra»: dalla Sinistra comunista «italiana» a quella consiliare, fino alle loro successive filiazioni (ad esempio, la «teoria della comunizzazione»). L'antifascismo è per definizione – come si è visto – opposizione generica e interclassista al fascismo: generica in quanto il suo contenuto, al di là di ogni fraseologia «rivoluzionaria» o giustificazione pseudo-teorica (la democrazia come «tappa» verso il socialismo etc.), non è la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, ma la difesa dello stato democratico. Da un punto di vista di classe, l'antifascismo – sul piano tanto pratico che ideologico – è il prodotto e il prolungamento di una sconfitta: quella del proletariato rivoluzionario a opera dello stato democratico-liberale e delle sue propaggini politiche e sindacali, ivi inclusa la componente riformista e socialdemocratica del movimento operaio. È solo dopo la sconfitta della rivoluzione, infatti, che la classe dominante può imboccare la strada della dittatura fascista. L'antifascismo fonda dunque la sua prospettiva su una condizione di intrinseca debolezza dei proletari e – come si è visto – sulla rinuncia, da parte di questi, ai metodi di lotta che sono loro propri.
Certo, è del tutto naturale – e non frutto di una macchinazione della classe dominante e/o di una qualche manipolazione ideologica delle coscienze (siamo materialisti!) – che una parte del proletariato dei paesi coinvolti, pur nella sconfitta, abbia strenuamente cercato di difendere i propri residui margini di agibilità politica e sindacale, facendo propria la prospettiva antifascista. Ma è altrettanto naturale che, essendo ormai i rapporti di forza nella società totalmente sbilanciati in favore della classe dominante (o, più precisamente, della frazione di essa che si poneva alla testa del «blocco sociale» di cui il fascismo era emanazione) tale difesa dovesse risultare vana.
Non è dunque un caso che, alla prova dei fatti, dallo scontro col fascismo, il frontismo antifascista sia sempre uscito sconfitto: storicamente, mai e in nessun caso, esso è riuscito a impedire il passaggio dalla democrazia alla dittatura, né a imporre la restaurazione della prima. È la borghesia, o meglio le sue frazioni dominanti, a decidere quale forma dare al proprio stato: il proletariato non è chiamato a partecipare alla scelta!
È quanto avvenne anche in Italia, nel 1943, dove fu il voltafaccia della classe dominante – preoccupata dall’andamento fallimentare della guerra e dalla ripresa delle lotte operaie nelle fabbriche del Nord, e memore di quanto era accaduto durante e dopo la Prima Guerra Mondiale – a porre termine al regime fascista. Mussolini fu destituito dal voto del Gran Consiglio del Fascismo (25 luglio), e non da una qualsivoglia lotta antifascista. La Resistenza, quanto a essa, ebbe inizio solo dopo l’armistizio dell’8 settembre, che segnò il cambio di campo della borghesia italiana nel quadro dello scontro inter-imperialista (seppur sotto forma di «cobelligeranza»): essa non fu, in fin dei conti, che un’appendice di tale scontro. Allo stesso modo, sul piano internazionale, l’antifascismo fu l’ideologia che accompagnò l’arruolamento dei proletari sotto le bandiere del fronte imperialista anglo-russo-americano e delle rispettive borghesie nazionali, e la loro trasformazione in carne da cannone. Nella specifica situazione italiana, saranno l’azione congiunta dell’efficiente apparato repressivo nazista – con la militarizzazione dei territori e della produzione industriale da parte dell’esercito tedesco –, dei bombardamenti deliberati degli Alleati sui quartieri proletari delle grandi città, in base alla strategia del «bombing area», e della funzione repressiva assunta all’occorrenza dalle stesse squadre partigiane togliattiane nei confronti delle lotte operaie (che pure furono relativamente numerose nel biennio 1943-’45)6 – il tutto condito, sul piano ideologico, dallo sciovinismo e dal razzismo anti-tedesco del PCI – a scoraggiare ogni ripresa su vasta scala della lotta di classe, ogni fraternizzazione con i «proletari in divisa» tedeschi e ogni possibile disfattismo e movimento di massa contro la guerra.