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La ragionevole inefficacia della scienza di base (per la spiegazione della natura umana)

Alessandro Della Corte conversa con John Dupré

12342271 154111641615095 3557705396792975315 nJohn Dupré si è principalmente occupato della filosofia delle scienze della vita. Un aspetto molto interessante del suo lavoro riguarda le ricadute dello studio degli organismi viventi su problemi classici dell’epistemologia come quelli riguardanti riduzionismo, determinismo e libero arbitrio. Spero che i lettori di Anticitera apprezzeranno l’intervista che Dupré ha gentilmente accettato di concederci.

* * * *

Nei suoi scritti lei ha criticato il riduzionismo, e in particolare la possibilità teorica di spiegare tutti i fenomeni naturali (inclusi comportamenti e abilità complessi tipici dell’uomo) utilizzando la fisica fondamentale. Oggi il riduzionismo è probabilmente meno popolare tra i filosofi rispetto a qualche anno fa, ma spesso continua a essere il modello epistemologico di riferimento (esplicito o implicito) per molti scienziati. Come mai, e che c’è di sbagliato in esso?

Penso che scienziati e filosofi diano alla parola riduzionismo significati leggermente diversi. Per gli scienziati, spesso è poco più che la convinzione metodologica che sia tipicamente una buona idea analizzare le varie parti di un sistema e descrivere le loro interazioni se si vuole spiegare il suo comportamento. I filosofi di solito intendono qualcosa di molto più forte, che ogni cosa è spiegabile, in linea di principio, in base alle proprietà e alle interazioni delle sue parti. Dal momento che le spiegazioni sono di solito supposte transitive, questo potrebbe implicare che tutto, in linea di principio, è spiegabile con la fisica fondamentale. L’espressione “in linea di principio” gioca un grande ruolo qui; vista la complessità dei calcoli richiesti, potrebbe essere necessario Dio per avere una vera spiegazione.

In passato ho chiamato questa posizione “riduzionismo teologico”. In ogni caso, i filosofi hanno spesso supposto che tutto ciò che accade è per lo meno determinato da ciò che avviene al livello della fisica fondamentale. La visione che ho attribuito agli scienziati è ovviamente molto più debole, e opportunamente sostenuta dal fatto che le spiegazioni riduzionistiche, nel senso là inteso, sono spesso state fruttuose e illuminanti. L’ambiziosa tesi filosofica invece è stata sottoposta, giustamente a mio parere, a critiche sempre più pressanti.

Menzionerò due seri problemi della tesi filosofica. Primo, le spiegazioni scientifiche quasi sempre comportano astrazioni e idealizzazioni. Poiché queste astrazioni sono specifiche del problema affrontato, l’assunzione che la spiegazione sia transitiva si mostra falsa. Le astrazioni impiegate per spiegare un fenomeno a un certo livello strutturale non possono essere identificate con gli enti reali il cui comportamento vorremmo spiegare. Questa obiezione centrale al riduzionismo è stata elaborata nel mio libro del 1993, The Disorder of Things.

Secondo, la visione riduzionista assume l’esistenza di sistemi chiusi. Quando si spera di descrivere un organismo puramente in termini di cellule o molecole che lo compongono, si sta assumendo che queste ultime sono sufficienti a spiegarne il comportamento, il che è equivalente ad assumere che si tratta di un sistema chiuso; se invece il suo comportamento è spiegato in parte da enti al di fuori di esso vuol dire che non è completamente chiuso. Sono sempre più propenso a pensare che in natura non esistano sistemi davvero chiusi; certamente non ce ne sono in biologia. I sistemi biologici, siano essi organismi, cellule o perfino molecole complesse, persistono attraverso un’interazione costante col loro ambiente. Questo loro essere “aperti” è connesso all’ontologia processuale per la biologia che ho promosso negli ultimi dieci anni. Dubito fortemente che ci siano processi chiusi, e ritengo che gli organismi siano meglio compresi se considerati appunto “processi” invece che “cose”.

 

In un libro recente [1], Henry Stapp, seguendo e spingendo alle estreme conseguenze idee (fra gli altri) di von Neumann, propone di “salvare” il libero arbitrio riconoscendo un potere causale all’osservatore, e più precisamente alla sua mente, che si manifesterebbe in ogni collasso della funzione d’onda. Cosa ne pensa di questo tentativo?

Non credo che i tentativi di difendere il libero arbitrio utilizzando la meccanica quantistica abbiano una storia incoraggiante, anche se forse devo precisare che non mi considero un esperto di fisica teorica, e dunque non cercherò di rispondere in dettaglio. Comunque, dato il mio anti-riduzionismo, per prima cosa penso che la fisica sia semplicemente il livello sbagliato di organizzazione per cercare di spiegare il libero arbitrio e, secondo e più importante, ritengo che il tentativo non sia necessario. Il mio punto di vista è che la causalità è locale: è qualcosa che evolve negli organismi, è costruita artificialmente nelle macchine, e si ritrova in natura solo in sistemi che sono estremamente semplici e ben isolati da ogni altra cosa. Ecco una delle mie citazioni preferite, da una lezione inaugurale di Elizabeth Anscombe:

Il grande successo dell’astronomia di Newton è stato in un certo senso un disastro intellettuale: ha prodotto un’illusione della quale tendiamo ancora a soffrire […]. Perché ha dato l’impressione che avessimo in quel caso la spiegazione scientifica ideale; mentre la verità è che è stata una pura cortesia da parte del sistema solare, avendo avuto una storia nota così pacifica, fornire un tale modello.

Non c’è bisogno di assumere il determinismo e io sono persuaso che non dovremmo. Ma non voglio negarlo in base alla capacità in qualche modo soprannaturale di alcuni organismi di sfuggire alla rete causale, quanto piuttosto negare l’idea stessa della causalità come qualcosa di onnipresente. Come suggerisce la citazione di Anscombe, siamo condotti da alcuni potenti esempi verso generalizzazioni eccessive e improprie. È ugualmente plausibile – direi anzi più plausibile – supporre che in generale lo stato di cose è caotico e disordinato, e solo in speciali circostanze l’ordine causale di fatto si manifesti. Questo modo di vedere le cose ci consente di riconoscere l’eccezionale densità di ordine causale in esseri quali noi siamo. Il mio punto di vista è che la cosa peculiare negli esseri umani è che essi incarnano la più alta concentrazione di capacità causale nell’universo conosciuto. Gli organismi in generale, a loro volta, e specialmente gli esseri umani, sono eccezionali sorgenti di ordine e non, come alcuni sostenitori del libero arbitrio [libertarians] hanno voluto suggerire, eccezioni a un’altrimenti inesorabile rete di necessità causale.

 

Certo, e quest’ultimo è esattamente il tipo di tentativo che Henry Stapp ha compiuto. Si potrebbe aggiungere all’intrigante citazione di Anscomb che è stata anche una pura cortesia, da parte dei pianeti, del sole e della luna, quella di essere così lontani. Ciò ha comportato che gli scienziati del XVII secolo avessero un accesso molto limitato alle caratteristiche dettagliate del loro moto. Se, ad esempio, le complicate anomalie nel moto di Urano che hanno condotto alla scoperta di Nettuno fossero state osservate prima dello sviluppo di una teoria efficace per il problema dei due corpi, probabilmente avremmo faticato molto di più ad ottenerla.

Ma quando lei afferma che la causalità è locale e che gli esseri umani sono potenti sorgenti di potere causale, intende anche sostenere che la causalità è, strettamente parlando, un concetto antropomorfico? Si può dare ad essa una qualche oggettività?

No, non voglio dire che la causalità è del tutto antropomorfica. Credo che le “cose” (intendo con ciò i processi sufficientemente stabilizzati) abbiano un potere causale, e che questo potere causale è ciò che fa emergere le regolarità ritrovate dalla scienza. Ma le regolarità, credo, sono più costruite che scoperte. Ovvero: nella maggior parte dei casi il fatto che le cose interagiscono, in ciò esercitando il loro potere causale, non conduce a grande regolarità. La regolarità proviene dall’evoluzione e secondariamente dallo sforzo deliberato di organismi altamente evoluti, più che altro uomini, nel costruire macchine. Di particolare interesse tra i sistemi simili a macchine sono gli esperimenti scientifici. Sia nelle macchine, sia negli esperimenti scientifici, ci si sforza di isolare gli oggetti che interessano dal flusso di interazioni, largamente casuali, con il contesto.

A conti fatti, quindi, un potere causale grezzo è una caratteristica oggettiva dell’universo. La regolarità causale, invece, è una caratteristica di alcuni semplici sistemi fisici, ma ancora più importante una caratteristica che si sviluppa nelle forme di vita, non solo umane. Ma gli esseri umani sono particolarmente efficaci in questo senso.

 

“Come può esistere il libero arbitrio” è in effetti un problema centrale per la filosofia da lunghissimo tempo. Lei pensa che una risposta soddisfacente sia possibile o piuttosto che nella domanda stessa ci sia qualcosa di sbagliato?

Come accennavo in una precedente risposta, penso che la domanda sia legittima e che il problema possa essere risolto. E come dicevo non credo che sia necessario chiedere ai fisici per risolvere questo problema, anche se così facendo mi impegno a resistere alle pretese di completezza della fisica [2], che causerebbe problemi al mio punto di vista. Non trovo ciò molto preoccupante. In assenza di una soluzione del problema dei tre corpi (almeno stando alle ultime notizie che ho), la pretesa dei fisici di essere in grado (in linea di principio?) di spiegare ogni cosa non dovrebbe essere presa seriamente da chiunque abbia anche solo una modesta inclinazione empirista. In fondo credo ancora nella mia posizione di 25 anni fa, quando per la prima volta studiai questo problema, e in quello che ho scritto nell’ultimo capitolo del mio libro Natura umana [3]. Ma l’argomentazione oggi come oggi mi sembra molto più forte nel contesto dell’ontologia processuale che ora sostengo. Oggi parlerei più in termini di processi altamente stabilizzati in un universo fatto di mutamenti largamente caotici, processi che hanno sviluppato la capacità di rispondere adattivamente ai cambiamenti dell’ambiente. Questa è una caratteristica di tutti o quasi tutti gli organismi, che è stata portata a un livello eccezionale dagli esseri umani attraverso lo sviluppo del linguaggio, della cultura, e così via.

 

Parliamo ora un po’ di scienze della vita. Noi siamo i nostri genotipi è un’assunzione comune tra i ricercatori (è più o meno obbligatoria, ad esempio, per la psicologia evoluzionistica) e perfino nel ragionamento quotidiano della maggioranza delle persone. Che ne pensa di quest’identificazione? C’è una connessione con l’enorme crescita di popolarità della terapia genica in medicina?

Purtroppo sono in effetti in molti ad affermare – senza sapere esattamente cosa dicono – cose del genere, che rischiano di diventare “senso comune”. Il mio primo commento, in ogni caso, è che si tratta di una totale sciocchezza. Ovviamente è falso in senso letterale: noi siamo molto più grandi di un genoma, o perfino dei molti trilioni di genomi nei nostri corpi, non più di metà dei quali, incidentalmente, sono umani. Probabilmente chi dice cose di questo tipo (come gli psicologi evoluzionisti) intende qualcosa come “tutto ciò che siamo o facciamo è causato dal nostro genotipo”. Curiosamente, la maggior parte degli psicologi evoluzionisti sa che ciò è falso. Lo sviluppo fisico, e di certo il comportamento, è sempre il risultato di un’interazione causale tra il nostro corpo materiale, che include geni e cervello, e il nostro ambiente. A causa di quest’indiscutibile interazione, l’unico modo di mantenere un qualche interesse per la psicologia evoluzionistica è cercare di sostenere, in qualche modo, che le caratteristiche del cervello che si sono evolute sono quelle più utili per spiegare il comportamento, anche se si deve ammettere che un insieme di variabili ambientali fa la sua parte. Purtroppo per loro, tutte le evidenze vanno nella direzione opposta. Ci sono senza dubbio dei vincoli per il comportamento che sono determinati dalla nostra biologia, ma la plasticità comportamentale è probabilmente il risultato più caratteristico di tutta l’evoluzione umana.

Io credo che la psicologia evoluzionistica sia una scienza tragicamente e paradigmaticamente disastrosa. Sfortunatamente ha la capacità di narrare storie persuasive che danno l’impressione di fornire profonde rivelazioni sulla natura umana. E per questo motivo ha rafforzato molto l’idea sui geni come essenza della nostra umanità. Un altro fattore credo siano state le iperboli usate talvolta da genetisti rispettabili, ad esempio nel promuovere il finanziamento del programma di ricerca sul genoma umano. Si tratta di un programma meravigliosamente produttivo, ma non perché abbia fornito il “progetto” per l’essere umano, l’essenza dell’umanità o simili colorite fantasie che ancora spesso si incontrano negli scritti di entusiasti della genetica.

La domanda sulla terapia genica è interessante. Visioni mistiche dei geni e dei genomi hanno certamente incoraggiato un eccessivo entusiasmo sulle sue possibilità, anche se forse, ironicamente, hanno anche promosso eccessivi scrupoli di natura etica. Certamente la terapia genica ha diritto di esistere e, specialmente grazie allo sviluppo di tecnologie per l’editing genetico (un caso notevole è il CRISPS-Cas9), ci sono buone ragioni per un cauto ottimismo rispetto a terapie per problematiche che riguardano singoli geni. Se invece la genetica contribuirà alla soluzione di malattie multifattoriali come la sindrome metabolica o il cancro è invece molto meno chiaro, anche se è possibile che essa fornirà almeno un’importante classificazione per i vari tipi di cancro.

 

Parlando di medicina: lei pensa che la medicina di oggi dia il giusto peso o sottostimi l’importanza dell’interazione tra soggetto e ambiente?

È una domanda interessante, ma non ho idee particolarmente forti in proposito. Forse il problema ha più a che fare con l’integrazione delle conoscenze mediche. I messaggi sulla salute pubblica sono dappertutto: tutti sappiamo che l’alcool, le sigarette, i particolati dei motori diesel, i raggi solari, lo zucchero nella dieta, i grassi, il rumore, la cattiva qualità del sonno, eccetera, ci fanno male, quindi non si può dire che non si dia il giusto peso all’impatto dell’ambiente sulla salute. Non sono molto sicuro su quanto queste conoscenze siano integrate nella pratica medica nelle cliniche e negli ospedali. Ma non è una questione su cui ho un punto di vista particolarmente forte.

 

La scienza “ufficiale” spesso assume posizioni rigide, non sempre è aperta al pubblico dibattito e non è del tutto trasparente nei suoi rapporti con l’industria e il mercato (quando non integrata del tutto con essi). Allo stesso tempo, le posizioni antiscientifiche sono oggi molto popolari – in Italia, ad esempio, un numero crescente di persone è tout court contro i vaccini e in generale la diffusione delle cosiddette pseudoscienze è molto ampia. E.A. Poe ha scritto: “non bisogna sottovalutare l’opinione pubblica. Quando l’opinione diffusa nasce da sé, manifestandosi in modo totalmente spontaneo, la dovremmo considerare alla stregua dell’intuizione, che è la caratteristica del genio”. In che misura secondo lei ciò si può applicare all’odierna crescente perdita di fiducia verso la scienza?

Una domanda molto complessa! Per cominciare da Poe – se aveva ragione oppure no – non credo che molta intuizione antiscientifica di oggi possa davvero essere descritta come “totalmente spontanea”. Viviamo in un mondo che brulica di informazione, molta della quale è indubbiamente disinformazione, e la diffusione deliberata di disinformazione in contrasto con specifiche scoperte scientifiche da parte di alcuni soggetti è ben documentata (si veda per esempio il libro di Naomi Oreskes, Merchants of Doubt). Il movimento anti-vaccini rappresenta un caso più difficile rispetto, ad esempio, ai danni da uso di tabacco o ai cambiamenti climatici, perché i beneficiari non sono altrettanto chiari. In ogni caso, c’è una dinamica nel flusso di informazioni su internet che ha forse una sua logicità – o illogicità.

C’è anche, ovviamente, una notevole mancanza di trasparenza nei rapporti tra scienza e altri interessi. Senza dubbio la medicina è il caso più inquietante. Ci sono problemi ben noti riguardo alla distorsione della scienza attraverso il finanziamento industriale nella ricerca farmaceutica, e perfino i criteri scientificamente accettati per giudicare valido un prodotto farmaceutico sono problematici. Molto più seria, probabilmente, è la distorsione causata dal mercato nella ripartizione della spesa per le diverse patologie. Le grandi somme spese per affrontare le malattie di ricchi e anziani occidentali sono fuori da ogni ragionevole proporzione rispetto ai mali che affliggono il mondo in via di sviluppo.

Senza dubbio fattori di questo tipo contribuiscono al pubblico scetticismo rispetto alla conoscenza scientifica. Ma sfortunatamente non sembra che lo facciano in modo molto razionale. Coloro che ne hanno accesso, sembrano generalmente molto felici di ingurgitare i costosi farmaci, spesso di dubbio valore medico, che sono la linfa vitale delle grandi compagnie farmaceutiche, mentre spesso rifiutano i vaccini che sono sicuramente uno dei grandi trionfi della medicina moderna.

Scrivendo nel Regno Unito durante l’atto finale di quel circo di stupidità, mendacia e incompetenza che è la Brexit ho forse qualche pregiudizio contro l’idea di una saggezza intuitiva delle masse. Sfortunatamente, anche se qualcosa del genere esiste nelle condizioni alle quali si riferisce Poe, temo che nel caos di bugie e disinformazione, deliberata o no, che circola intorno a noi oggi, tali condizioni non esistano.

 

Lei ha scritto che alcune cose che passano per scienza non sono “una buona cosa”. In che modo si potrebbe incoraggiare un dialogo rinnovato tra le scienze e il resto della cultura umana?

Temo che alcune di queste domande facciano venire fuori più pessimismo di quanto io generalmente ami ammettere. Non ho molte speranze in un dialogo rinnovato. Temo che la deriva spesso rimarcata della cultura contemporanea in una serie di bolle mutuamente incomprensibili sia rispecchiato sia all’interno della scienza che tra la scienza e il resto della cultura. Poiché non credo che ci sia una Scienza, monolitica e unitaria, mi sembra che la questione sia meglio posta in termini di riconoscimento e di rispetto per la competenza [expertise]. Quando il ministro e demagogo britannico Michael Gove ha dichiarato pubblicamente nell’ambito del dibattito sulla Brexit che “la gente di questo paese ne ha abbastanza degli esperti”, temo che abbia davvero sentito il polso della pubblica opinione, ostile all’idea che alcune persone sanno più di altre su questioni importanti.

Mi rendo conto che c’è il rischio che attacchi da parte di persone come me ad alcuni contenuti scientifici particolari – come la psicologia evoluzionistica – che non meritano molto credito, possono forse alimentare tale sentimento. Ma di certo l’idea vitale che la scienza sia sempre aperta a critiche e cambiamenti non ha nulla a che vedere con l’idea che l’opinione di ciascuno sia ugualmente valida di quella di chiunque altro. La cosa buffa del dibattito americano tra evoluzionisti e creazionisti è che il fatto che i primi siano aperti a critiche sostanziali è spesso usato dai creazionisti per mostrare le debolezze della teoria evoluzionistica. Laddove in effetti è precisamente questo che rende l’evoluzione una scienza e il creazionismo un dogma non scientifico.

Ma tornando alla domanda, io credo che esistano progetti scientifici estremamente discutibili, e che criticarli è parte del lavoro del filosofo della scienza. Ma non intendo con questo alimentare nessuna generale ostilità verso la scienza. Credo ci siano molte più ragioni per esaltare la maggior parte della ricerca scientifica. Forse la necessità di fronteggiare disastri, probabilmente i cambiamenti climatici, ricondurranno a un ruolo generalmente positivo della scienza nella discussione pubblica. O si può supporre che un virus sufficientemente aggressivo e la selezione naturale potranno incidere in modo consistente sul movimento anti-vaccini.

 

Lei ha affermato di non credere alla scienza come a qualcosa di monolitico e unitario, e nei suoi scritti ha anche affermato che la medicina non è una scienza ma un’arte. È chiaro che il livello di “astrazione e idealizzazione” (per usare le sue parole) accettabile nella costruzione delle teorie fisiche è molto più rilevante di quello concesso nelle scienze della vita.

D’altra parte, perfino la stessa fisica è oggi divisa in migliaia di differenti specializzazioni di solito scarsamente comunicanti, per non menzionare la frattura tra fisica e matematica – pesantemente criticata, tra gli altri, da Vladimir Arnold nel suo famoso articolo “Sull’insegnamento della matematica” [4]. Studiare una teoria matematica senza conoscere le sue motivazioni (di solito provenienti dalla fisica) può essere paragonato a studiare la Critica della ragion pura senza sapere nulla della meccanica newtoniana. Si sentirebbe di incoraggiare programmi di ricerca e didattici più unificanti per lo meno nell’ambito delle cosiddette “scienze dure”?

Certamente! Sospetto che la didattica della scienza sia diventata molto più specializzata di quanto sia necessario o ragionevole. Ironicamente, forse, la specializzazione sopra menzionata implica che una buona fetta di ciò che gli scienziati in formazione devono imparare ha poco o niente a che fare con ciò su cui finiranno per lavorare. Temo che molto del contenuto dei corsi universitari abbia più a che fare col tenere le tasse d’iscrizione entro certi limiti istituzionali che col massimizzare la probabilità che uno scienziato produca a un certo punto qualcosa di significativo. Parlando a nome del mio settore, devo dire che credo che i giovani scienziati avrebbero benefici molto maggiori da una certa conoscenza della storia della filosofia e della scienza che da molte delle cose che vengono loro insegnate, molte delle quali saranno obsolete e irrilevanti in breve tempo. Ma quando tali proposte sono avanzate quasi invariabilmente ci si sente rispondere che ci sono semplicemente troppi contenuti specifici da imparare.

Se dunque io dovessi organizzare l’istruzione scientifica, svilupperei programmi molto ampi, che prevedono di studiare almeno un po’ un insieme di discipline scientifiche e anche di imparare qualcosa della storia, filosofia e sociologia della scienza. Alla fine molti scienziati senza dubbio finiranno all’interno di una ristretta area specialistica, ma l’acquisizione di un respiro più ampio e di una certa disposizione a riflettere sul loro lavoro prima di sparire all’interno di una qualche misteriosa specializzazione farebbe meraviglie dal punto di vista dello sviluppo della creatività scientifica, a mio parere. (La conclusione di tutto ciò è, ovviamente, che non c’è alcun pericolo che io abbia mai a che fare con l’organizzazione di una qualunque parte dell’istruzione scientifica…).

 

Dal momento che abbiamo toccato l’argomento, cerchiamo di approfondirlo un po’: quanto è importante secondo lei una cultura filosofica per gli scienziati? E in particolare, la conoscenza della storia della filosofia può conferire profondità e migliorare i risultati di coloro che devono produrre nuova scienza?

Penso in effetti che la scienza richieda una filosofia, che gli scienziati lo riconoscano o meno, e che usino in tal proposito il termine “filosofia” oppure no. Un’altra delle mie citazioni preferite è del biologo e filosofo del ventesimo secolo Joseph Henry Woodger: ‘i fisiologi [che] credono di essere al di sopra della metafisica … sono solo appena un po’ al di sopra – essendo immersi in essa fino al collo’. Il punto è che ogni programma di ricerca parte da assunzioni generali su come è fatto il mondo e come è possibile indagarlo. La maggioranza degli scienziati, come è naturale, ereditano queste cose dalla loro tradizione senza pensarci troppo su, piuttosto che rielaborarle in prima persona. Sono certo che per molti scienziati l’immersione nello studio dei fondamenti filosofici della propria disciplina non sarebbe un buon utilizzo del proprio tempo. Ma questi fondamenti esistono, e quando le cose vanno male potrebbero richiedere una seria attenzione. Gli scienziati stessi hanno fatto spesso questo tipo di indagine filosofica, con successo variabile. E alcuni scienziati contemporanei si sono resi conto che affrontare seriamente i problemi filosofici può essere di grande aiuto al loro lavoro.

La domanda specifica a proposito della storia della filosofia solleva un’importante questione più interna alla filosofia, ovvero quanto sia essenziale la comprensione storica per la stessa filosofia. Può la filosofia, come la maggior parte delle scienze, accettare come dato lo stato corrente della conoscenza e lavorare a partire da quello? Credo che la risposta sia no, o almeno non sempre, ma in che modo esattamente la filosofia dipenda da una più o meno profonda conoscenza della sua storia è materia di continuo dibattito filosofico. E di sicuro gli scienziati potrebbero spesso trarre grandi benefici dalla comprensione dei punti di svolta nella storia della loro disciplina ed esaminando i possibili percorsi alternativi che non sono stati intrapresi.

 

E infine, cosa la incuriosisce in questo momento? Qual è il suo principale filone di ricerca?

Come ho detto, il mio principale interesse è nell’articolazione di una filosofia pienamente processuale della biologia e in ultima analisi, credo, della natura. Ho da poco terminato un progetto della durata di cinque anni, generosamente finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche [ERC], sulle implicazioni di un’ontologia processuale per la biologia contemporanea. (I principali risultati del progetto possono essere trovati nel libro curato insieme al mio collega Dan Nicholson, Everything Flows, Oxford University Press, disponibile con accesso libero). Il progetto che segue naturalmente da questo è un’indagine più seria su come l’adozione di una tale ontologia possa influire sulle pratiche della scienza, ovvero il passaggio da un’ontologia processuale a un’epistemologia processuale.

Un progetto di questo tipo, in cui sono coinvolto, riguarda il tentativo di sviluppare rappresentazioni dei sistemi biologici che spingano meno verso una visione statica, orientata verso le “cose” [thing-like], dei sistemi. Il progetto coinvolge un’artista, Gemma Anderson, che ha collaborato con gli scienziati per molti anni, e molti scienziati tra cui un biologo cellulare e un fisico che studia le proteine.

In una direzione diversa, ho appena iniziato discussioni con studiosi dei suoli che sono interessati a importare una prospettiva processuale nel loro campo. Mi sembra un esempio ideale per esplorare le implicazioni di un approccio processuale. È molto facile pensare al suolo semplicemente come a una miscela di particelle provenienti dalle rocce più alcune sostanze chimiche e piccoli organismi più o meno casualmente mescolati, o come un substrato utile a mantenere in vita le piante, fornendo loro le sostanze necessarie. Ma in effetti il suolo è un sistema altamente dinamico, che mantiene alcuni aspetti essenziali della sua struttura attraverso le attività dei microorganismi e delle piante. Si può supporre che assumere il punto di vista statico abbia giustificato sistemi agronomici che stanno lentamente ma inesorabilmente degradando il suolo in modi che minacciano pesantemente la sicurezza del cibo del futuro.

Credo si possa dire che sono in uno di quegli interessanti momenti nella mia ricerca nei quali non sono del tutto sicuro di cosa farò. Ma credo che le direzioni prima menzionate siano tra le più probabili.

 

Grazie mille per la conversazione, anche a nome dei lettori di Anticitera.


 

Note
[1] H. (2017). Quantum Theory and Free Will: How Mental Intentions Translate into Bodily Actions. Springer.
[2] Per “completezza della fisica” si intende la tesi filosofica secondo la quale le cause di ogni evento sono necessariamente di un tipo che può essere descritto dalla fisica.
[3] Natura umana. Perché la scienza non basta. Laterza, 2007. (Ed. originale 2001).
[4] https://www.uni-muenster.de/Physik.TP/~munsteg/arnold.html
[Leggi l’intervista in originale]

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