Print Friendly, PDF & Email

tempofertile

Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione globale”

di Alessandro Visalli

2560460298389 0 0 0 768 75Edito da Einaudi nel 1968 il libroLa controrivoluzione globale” include una raccolta di articoli dalle annate 1963-68 di Monthly Review, tutti firmati da Leo Huberman e da Paul Sweezy, intorno ad alcuni temi aggreganti: “la guerra coloniale interna”, ovvero gli scontri ed i disordini razziali; l’analisi di congiuntura dell’economia interna ed internazionale in una fase cruciale; la “guerra coloniale esterna”. Le due “guerre coloniali” sono tenute insieme dall’analisi dell’economia, o meglio delle esigenze interne del funzionamento economico.

 

La guerra coloniale interna

La prima parte prende avvio dalla “guerra alla povertà” lanciata da Johnson, che nel programma dell’Amministrazione avrebbe dovuto interessare 1/5 delle famiglie americane (mentre sarebbero dovute essere almeno il doppio), e destinava quindi una somma di un miliardo di dollari, nove volte insufficiente. Insomma, come capita, “l’intera faccenda è da cima a fondo una truffa politica”, che in realtà cercava di mettere un tampone ad un problema di eccesso di capacità dell’industria americana, rispetto al livello della domanda di beni e servizi che una società nella quale si estendono la povertà da una parte (per la maggioranza) e l’abbondanza dall’altra (per una stretta minoranza), esprimeva sempre di più.

Questo è l’ambiente nel quale, nell’articolo del 1964 “La guerra coloniale interna”, si dà conto della rottura tra Eliah Muhammad e Malcom X (che morirà l’anno dopo, ucciso da sicari probabilmente del primo), e della radicalizzazione del movimento dei neri. Il “vecchio movimento” (quello di Martin Luther King, ucciso a sua volta nel 1968) avanzava infatti delle tradizionali richieste di partecipazione. Secondo la loro analisi i neri erano semplicemente ed immoralmente privati dei loro diritti fondamentali, e non strutturalmente costretti in un sistema che ne richiedeva, per sua natura, l’oppressione, al fine di farne la classe-paria necessaria per il suo equilibrio.

Certo, anche il movimento dei Muslims soffriva delle sue contraddizioni; in particolare di una sorta di “nazionalismo nero”, una riedizione del capitalismo americano semplicemente purgato della gente bianca. Stava emergendo, però, un nuovo radicalismo, che “in contrasto con l’islamismo nero si viene spostando su posizioni del tutto rivoluzionarie non solo in rapporto al metodo, ma in rapporto agli stessi obiettivi” (p.57). Ovvero, “in favore di una concezione radicalmente nuova dei negri d’America come parte di una maggioranza internazionale di colore in lotta per un mondo nuovo”. Un esempio è la posizione di un tal Max Stanford, del Ram, che mostra una profonda comprensione della situazione internazionale e riesce a sfuggire a quello che gli autori chiamano, senza mezzi termini, “il razzismo di Malcom X”, che è “l’esatto opposto del razzismo bianco”.

Saranno poi eventi come la sollevazione di Detroit (descritta in “I neri e i rossi”) che nel 1967 vedranno avviarsi questa congiunzione. Infatti, nel classico saccheggio post insurrezione questa volta si uniranno anche i bianchi poveri, insieme a quelli neri, e compariranno pratiche di guerriglia urbana evoluta (come franchi tiratori contro la polizia). Nei quattro giorni di rivolta moriranno 43 persone e furono impiegate due famose divisioni di paracadutisti dell’esercito americano (la 82° e la 101°); seguirono oltre mille feriti e duemila edifici distrutti. Tutto ciò è promettente, dal punto di vista degli autori, ma richiede un allargamento della lotta, il ghetto da solo non ce la può fare.

In “riforme e rivoluzione”, del 1968, viene posta una questione generale: come fare a muoversi tra la Scilla e Cariddi dei risultati immediati e della determinazione a lungo termine. Ovvero riforme e rivoluzione, le prime sono necessarie per dare una concretezza alle lotte, ma se si ottengono possono spegnerle. In altre parole, “il problema più difficile per un movimento rivoluzionario sta nel conciliare i bisogni e le richieste di immediati miglioramenti delle masse oppresse con la necessità di trasformare dalle fondamenta tutto il sistema onde porre fine all’oppressione; in altri termini come conciliare riforme e rivoluzione” (p.114).

Il riformismo spegne infatti la volontà di lotta a lungo termine, ma il settarismo rivoluzionario rischia di “cadere nel vuoto perché apparentemente privo di legami con le effettive condizioni di vita degli oppressi”. La Scilla e Cariddi, ha perciò questa forma:

come portare avanti la lotta quotidiana in modo da rafforzare anziché indebolire la volontà e il potenziale rivoluzionario di un movimento di massa”.

Oggi, che movimenti di massa non ce ne sono da decenni, sembra una domanda strana, ma allora era il dilemma centrale per tutti coloro che non si volevano arrendere allo status quo.

Cerchiamo di capire meglio il punto: nelle opere teoriche sia in “Il surplus economico[1], sia negli interventi di Paul Baran negli anni cinquanta e sessanta[2] ed infine nel libro “Il capitale monopolistico”[3], del 1966 con Sweezy, viene formulato una sorta di “teorema di impossibilità” della rivoluzione sistemica nelle società del centro capitalistico (monopolista) maturo, il quale ha una immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e nella stessa logica[4] produce una capacità di mobilitazione alle periferie, che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema della rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene rovesciato: le condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo si danno nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua sopravvivenza, nel senso specifico che senza l’estrazione di ‘surplus potenziale’ da queste esso resta condannato alla tendenza alla stagnazione e quindi non è in grado di riprodurre il consenso al suo interno[5].

Nella prima parte del libro, si sottolinea che se è vero che lo stesso movimento per il quale le élite lavoratrici bianche sono soddisfatte e coinvolte produce ‘colonie interne’ supersfruttate che stabilizzano in molti sensi[6] il sistema. In queste condizioni il rischio resta sempre di andare alla ricerca solo di sollievi immediati ed a corto raggio e quindi dirottare sul riformismo. Del resto nel saggio “Riforme e rivoluzione”, del 2 giugno 1968, la questione è posta in modo diretto e lucido: i militanti di orientamento rivoluzionario bianchi, dato che manca un movimento di massa e i lavoratori “non riescono neppure a concepire una alternativa”, possono solo fare attività propagandistica ed educativa, anziché politica (ovvero “occuparsi della questione del potere”). l’obiettivo deve essere far convincere della corruzione del sistema e, insieme, della possibilità effettiva di un altro regime. Lo scopo di questa fase è però cruciale: far scaturire dalle condizioni (che di per sé non determinano nulla senza l’appropriata azione) il movimento di fuoriuscita dallo stato delle cose presenti.

Ma i militanti neri sono per gli autori, in quella metà degli anni sessanta, in condizione del tutto diversa: esiste un movimento di massa. Tuttavia la condizione di “colonia interna”, dominata e supersfruttata se rende attivo il movimento crea anche le condizioni militari e di forza per le quali questo da solo non può vincere. È necessaria quindi un’alleanza con i bianchi. Ovvero, si potrebbe dire, un’alleanza generale delle tante e diverse periferie sparpagliate che il sistema genera.

Il problema è che, in vista della formazione di questo ‘blocco sociale’ se, nel frattempo, si concentrano solo sugli obiettivi immediati “ricadono nella palude della politica capitalistica, dove non c’è posto per i principi e ogni cosa ha il suo prezzo. D’altro canto, persistendo nella purezza rivoluzionaria, si rischia l’isolamento e l’impotenza”.

Come si conclude?

sembrerebbe perciò necessario un programma centrato sopra un obiettivo intermedio che implichi il rifiuto del sistema sociale esistente, e sia al tempo stesso raggiungibile senza rovesciarlo”.

La domanda è se “è possibile un programma di questo tipo, oppure il solo pensarlo costituisce una contraddizione in termini?”

Il movimento delle Black Panther, che rappresentava allora la principale novità in campo si poneva degli obiettivi di sostegno della comunità nera e di sua liberazione che non erano realizzabili nel quadro dell’America di allora e mancava, in conseguenza, di “un valido obiettivo a lunga scadenza capace di fungere da punto di riferimento unitario delle azioni particolari”. Infatti, “un movimento rivoluzionario in una situazione coloniale deve darsi un obiettivo di questo tipo sia per mobilitare le masse sia, in ultimo, per negoziare con gli avversari” (p.117). Ovviamente il problema posto è che, volendo impostare la rivendicazione come istanza di separazione (ovvero secondo la linea del “nazionalismo nero”) la frazione sottoposta a oppressione “coloniale” dei neri è minoritaria nel paese, e quindi non può espellere le altre, rivendicandolo. La parola d’ordine unificante “fuori del nostro paese!”, delle lotte di liberazione nazionali (ad esempio Algerina) non può essere, insomma, pronunciata.

L’alternativa contemplata dagli autori è il separatismo (nelle sue varie forme), dal quale in effetti propongono di partire, ma in una forma diversa rispetto al modello della piena sovranità, poco realistico: la rivendicazione del controllo delle istituzioni che operano entro i ghetti (una sorta di autonomia rafforzata, anche se non indipendenza), e del programma di opere pubbliche sul modello della WPA (agenzia centrare del New Deal). Il vantaggio è che da simili richieste si avvantaggerebbero tutte le categorie a reddito basso e quindi potrebbe allargare l’alleanza sociale, andando verso la formazione di un ‘blocco sociale’ che nelle opportune condizioni potrebbe evolvere in direzione rivoluzionaria.

La speranza è che, nelle difficili condizioni date, “le conquiste parziali strappate lottando senza sosta [può darsi] servano a forgiare un movimento rivoluzionario più cosciente e risoluto. È questa la via che gli autori del Manifesto pensavano si dovesse perseguire, ed ai neri americani sempre presentarsi un’ottima occasione per provare che questa è anche nei fatti la via giusta” (p.124).

 

La struttura economica imperiale: 1964-68

Passando agli articoli di tenore economico, quelli centrali nella raccolta, viene descritta la parabola di avvio, da parte americana della crisi degli anni sessanta-settanta che apre le condizioni dalle quali è alla fine nato il nostro mondo. Il primo è l’articolo “Il boom Kennedy-Johnson” del 1965, che commenta l’improvviso entusiasmo ‘keynesiano’ del ceto dirigente americano per una ripresa della crescita che nei quattro anni delle amministrazioni democratiche è stata mediamente un, molto forte, 5,4 % (da 502 miliardi di dollari del 1960 a 624 miliardi del 1964). In un solo anno, dal 1963 al 1964 il Pnl Usa è cresciuto di una entità (40 Mld) pari all’intero prodotto del Canada.

L’anno dopo scrivono “Il boom continua”, nel quale la recessione che si pronosticava nel saggio precedente è registrata in ritardo. Ma nel 1966, con “L’oro, il dollaro e la crisi del sistema capitalistico”, inizia la crisi del deficit, e nel 1967 Sweezy si chiede se non si è alla “Fine del boom?”, i nodi vengono al pettine. Finalmente, nel 1968, in “Oro, dollari e impero” avviene la svalutazione della sterlina e inizia il risiko delle monete sovrane, la soluzione che si intravede è quella che si verificherà: passare dal gold standard al dollar standard.

Nell’arco di cinque anni, insomma: è stato implementato un modello, questo ha raggiunto i suoi limiti (causati dalle caratteristiche dell’assetto di potere entro il quale si è tenuta la implementazione delle politiche cosiddette “keynesiane”), e si è avviato al crack (che avverrà nel 1971 e del quale daranno conto le conferenze di Andre Gunder Frank del 1972-77 che abbiamo letto[7]).

Ma vediamo quale è il tragitto descritto in questi articoli: la prima cosa considerate è che la crescita robusta del Pnl aggregato ha una spiegazione di superficie facile, la politica finanziaria è stata portata in disavanzo, tra il 1960 ed il 1964, più o meno della stessa misura in cui si è avuta la crescita. E come afferma la teoria keynesiana, invariati gli altri fattori un disavanzo porta ad un’espansione. L’obiezione di parte conservatrice[8] si impernia su questo punto: se cresce il deficit prima o poi gli investitori si spaventeranno e ridurranno gli investimenti. Si tratta di una versione rudimentale della famosa teoria delle “aspettative razionali”[9], che però gli autori declinano in modo molto particolare: se pure gli uomini alla testa dei giganteschi monopoli che sono alla guida dell’economia e delle scelte di investimento private possono essere perplessi del deficit pubblico alto e persistente, non significa che lo siano per qualsiasi spesa. L’impedimento è, in altre parole, selettivo. Se all’inizio dell’amministrazione Kennedy il problema era il fiacco sviluppo, ne conseguiva che la spesa poteva essere una soluzione, ma solo se “chiaramente giustificabile in se stessa” (come dice un banchiere). Cioè che fosse effettivamente non qualsiasi spesa, ma una spesa capace di incontrare il consenso e l’approvazione di coloro ai quali spettano le decisioni sugli investimenti. Ovvero dei capitalisti monopolisti che hanno l’iniziativa[10]. Fortunatamente c’erano tre voci di spesa da espandere e dotate di ampio e robusto consenso: il programma militare, quello spaziale e l’interesse sul debito pubblico. Il deficit fu prodotto quindi espandendo energicamente tutti e tre. Andando a vedere c’è stata una robusta riduzione (nell’ordine del 50%, ca. 11 miliardi) delle tasse alle imprese, per spingere gli investimenti, ed una notevole espansione dei budget militari e della Nasa. Naturalmente gli operatori economici, lungi dall’essere diventati “keynesiani” sono entusiasti di questo genere di spesa: “ridotto all’osso si tratta semplicemente di impiegare il potere di indebitamento del governo federale per alimentare i profitti monopolistici” (p.154). Ovviamente se fosse stato espanso il deficit per fare i poveri, il lavoro di ultima istanza, i servizi medici, l’istruzione, le case, allora indubbiamente sarebbe crollata la fiducia. Queste spese sono tali da avvantaggiare troppi attori e spostano quindi i rapporti di forza nella società.

La conseguenza di questa politica accorta è che in tutto il periodo in esame la crescita del 5% del Pil annua ha portato anche ad una salita senza precedenti dei profitti delle corporation e (ca 12,5 Miliardi complessivi), mentre i salari sono rimasti sotto l’aumento della produttività. Il Pil è cresciuto del 24%, i salari del 11%, la produttività del 15% e anche la disoccupazione è salita mentre il tasso di utilizzazione degli impianti produttivi è sceso.

La conseguenza è semplice: il ristagno dell’economia non è cambiato, per la maggior parte, e solo i ricchi hanno tratto beneficio “da questo genere di boom”. Del resto questo genere di boom è anche l’unico che si può “promuovere con metodi ben accetti all’establishment politico-economico che attualmente governa questo paese”. In realtà durante tutto il periodo l’ineguaglianza è cresciuta e “questo paese sta avviandosi verso tempi di disordine, dai quali non c’è scampo alcuno entro la cornice del sistema capitalistico” (p.160). Pochi anni dopo questa profezia entreremo nel ’68 e poi negli anni settanta (ma lo “scampo” fu trovato durante gli anni ottanta).

Nell’articolo seguente il deliberato disavanzo fatto di spesa pubblica “non sostitutiva” e meno pressione fiscale (ai ricchi) è denunciato come la causa che determina un ulteriore aumento dei profitti monopolistici di ben il 57%, sempre calcolato dal 1960 al 1964. Addirittura si verifica che la crescita di questi accelera ancora, solo nell’ultimo anno aumenta del 20% (ben il triplo dell’incremento di Pil). Inoltre gli investimenti crescono del 12% mentre i salari solo del 3%. Ma non inizia la recessione.

Come mai? Secondo i parametri di una teoria marxista l’aumento del profitto e degli investimenti a danno del monte dei salari dovrebbe portare ad una “crisi da realizzo”, e questa ad una sovrapproduzione, arresto degli investimenti, ulteriore aumento della disoccupazione, ulteriore contrazione, etc…[11]

La ragione addotta dagli autori è che in effetti gli investimenti sono stati superiori alle attese e si è avuta, contemporaneamente, una violenta escalation in Vietnam. Nel 1965 la capacità produttiva è cresciuta ad un ritmo superiore alla domanda e si è ancora espansa la capacità di consumare a debito degli americani. Il rapporto tra indebitamento e reddito dei consumatori è arrivato ad una soglia, il 30%, che sembrava impossibile da sostenere (da allora lo abbiamo triplicato o quadruplicato, secondo alcune stime è arrivato al 125%).

Ma al contempo nell’anno in corso (1966) alla sensibile attenzione di Sweezy e Huberman appare evidente che qualcosa sta cambiando nella percezione dell’oligarchia sulla “grande società”, ovvero che “stia maturando un ripensamento” (p.170).

Con questa ulteriore profezia si chiude il saggio del 1966, lo stesso anno in cui viene pubblicato “Il capitale monopolistico”, mentre con la focalizzazione del “mosaico monetario”, nel quale le tensioni sottostanti l’economia americana, che si preparavano da tempo si sta per scaricare si apre quello del 1966. In “L’oro il dollaro e la crisi del sistema capitalistico” vengono messe infatti a tema le conseguenze complesse dello squilibrio di bilancia commerciale americana. Nelle condizioni del gold standard ciò comporta deflusso, reale o potenziale, delle riserve auree americane stesse. Quel che succede è che i paesi esteri sono in surplus, perché producono merci e le vendono in America grazie ad una rinnovata competitività (si tratta dei paesi europei, Italia inclusa, e del Giappone, a quel momento), e stanno accumulando riserve in dollari e auree. E’ chiaro a tutti che prima o poi la cosa andrà oltre i suoi limiti di sostenibilità. Insomma, “il deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti è una potente bomba ad orologeria che ticchetta da tempo all’interno del motore finanziario del sistema capitalistico mondiale”. Si, “mondiale”, perché si tratta di una potenziale crisi di fiducia che si ripercuoterebbe su tutti.

Ma quali appaiono a quel momento le alternative possibili? Essenzialmente come prima alternativa si potrebbe eliminare il deficit e quindi “vivere dei propri mezzi”. Ma si tratta di qualcosa che va avanti dal 1950 ed ha profondamente a che fare con l’egemonia mondiale, d’altra parte, secondo molti, non si tratterebbe neppure di vero deficit, le imprese americane hanno moltissimi investimenti all’estero e quindi il deficit è solo una faccia della capitalizzazione estera. Quindi frenarlo rallenterebbe anche la penetrazione del capitale americano all’estero e, indirettamente, il controllo sulle economie del centro imperiale.

Questa è però parte della preoccupazione, ma invertita, di uno come De Gaulle. Il Presidente francese in quegli anni sta tentando di costringere gli Usa ad eliminare il loro deficit e quindi la presenza americana nell’economia del paese, usando proprio la minaccia della conversione improvvisa delle ingenti riserve in dollari. Ciò, dal punto di vista francese, “arresterebbe la penetrazione americana nelle loro economie, e permetterebbe loro di evitare il destino che ora sembra minacciarle, di essere gradualmente trasformate in neocolonie completamente dipendenti dagli Stati Uniti” (p.172).

Insomma, come dicono molto opportunamente gli autori: “al di là delle complessità e dei misteri del sistema monetario, stanno i problemi reali dell’interesse e del potere”.

Da parte americana questo dilemma potrebbe tradursi, come reazione, nella creazione da parte americana, ed unilateralmente: di “un forte meccanismo monetario internazionale basato sul credito, in cui l’oro esplichi al più una funzione subordinata” (citando un articolo di parte finanziaria). Il punto centrale (e la profezia) è che “dato che il dollaro è in una posizione speciale nella sua qualità di moneta mondiale, gli Stati Uniti possono introdurre questo cambiamento mediante la sola loro azione”. Uno dei modi è semplicemente quel che accadrà nel 1971: “l’annullamento dell’attuale convertibilità dell’oro in dollari”. Insomma, i paesi del mondo hanno bisogno dei dollari, non dell’oro (magari “bisogno” non è il descrittore più preciso).

Nel 1967, viene l’articolo “Fine del boom?”, nel quale sono registrati diversi elementi critici, scorte eccedenti, discesa del saggio di utilizzazione, ma non ancora la partenza del processo ciclico autorafforzante della crisi. Ci sono, infatti, alcune forze in controtendenza che, per ora, sono riuscite a contrastare le tendenze di avvio del ristagno; tra queste: l’aumento ulteriore delle spese militari; la riduzione delle imposte ai soliti ben noti; lo stimolo ulteriore agli investimenti; l’aumento dell’indebitamento dei consumatori (che passa da 210 a 320 Mld in cinque anni, passando al 55% sul reddito). Ma comunque per gli autori i nodi stanno iniziando ad arrivare al pettine, se le controforze perdessero il braccio di ferro che hanno avviato da anni, allora cosa si avrebbe?

L’elenco di Sweezy è semplice, “una forte spinta per il movimento studentesco radicale”, con l’aumento dell’urgenza di qualcosa che, a tutta evidenza, non fu compiuta: “i compiti di chiarificazione teorica e ideologica avuti per ora solo a livello di tentativo dell’ala sinistra del SDS”. Inoltre, come ovvio, aumenterebbe la disoccupazione.

Nel 1968, finalmente, in “Oro, dollari ed impero” la parabola del ciclo di articoli si chiude e alcuni degli eventi temuti si verificano. La sterlina viene svalutata (il 16 novembre 1967) e parte una caccia all’oro che costa alla Fed 1,7 Mld di riserve. Si tratta solo di una piccola parte delle riserve sovrane estere detenute in moneta americana (ca. 31 Mld), ma avviene in un momento in cui il deficit americano è salito alla notevole cifra di 4 Mld di dollari all’anno (più o meno come 150 Mld di dollari attuali). Restano ormai solo due strade: svalutare il dollaro o uscire dal gold standard (faranno entrambe nel 1971).

Oppure è necessario eliminare il deficit, ma non è possibile farlo conservando il controllo imperiale del quale solo le spese dirette ammontano a 8 Mld all’anno. Qui bisogna però capire chi, in effetti, ha davvero bisogno dell’impero. Chi ne trae, ovvero, un effettivo beneficio? La risposta è ovvia: le imprese giganti plurinazionali le quali ricavano profitti per miliardi di dollari. Nel solo 1966 l’afflusso negli Usa come reddito, royalties ed entrate varie degli investimenti diretti all’estero delle società americane maggiori è infatti stato di 5,1 Mld di dollari, ovvero superiore al deficit. Lo scambio è interessante: i benefici vanno alle multinazionali, i costi sono divisi tra tutti i contribuenti. In un contesto nel quale l’espansione si produce anche riducendo le tasse a queste è ancora più paradossale.

Ma che succederebbe infine se gli Usa uscissero dallo standard? In effetti per Sweezy si realizzerebbe semplicemente un sistema di scambi flessibili e un “dollar standard” (p.202). Ovvero, “le unità subordinate dell’impero conserveranno presumibilmente le loro riserve in dollari, forse sotto forma alquanto mistificata di un castellino fornito dal Fmi e accetteranno ancora dollari perché gli Stati Uniti sceglieranno di pagare col deficit della bilancia dei pagamenti”. Insomma, queste si assumeranno il compito di neocolonia. Si tratta di quel che Todd (o Amin) chiamerà “il tributo”[12].

Se invece qualcuno, come il Mercato Comune, deciderà di combattere allora cercherà di formare un blocco monetario rivale (che è ciò che hanno cercato in qualche modo di fare con lo Sme e poi con l’euro).

 

La guerra coloniale esterna

La terza parte ospita interventi abbastanza d’occasione sulle principali lotte anticoloniali del periodo: Vietnam, Panama, l’America Latina. Si parte dal 1964, con “Vietnam: la crisi si avvicina”, lo stesso anno con “Gli Stati Uniti e Panama”, e con “La politica degli Stati Uniti in America Latina”.

Nel 1965 l’articolo “La strada della rovina”, sull’inasprimento della guerra in Vietnam, nel quale viene compiuta un’ampia retrospettiva delle ragioni dello scontro, ed enunciato quello che appariva a molti la posta in palio “può un paese aprirsi combattendo una via di uscita dal ‘mondo libero’ – cioè dal mondo della libera iniziativa, dal mondo soggetto allo sfruttamento del capitalismo americano – attraverso un confronto diretto con la più potente nazione imperialista? Cina e Cuba si aprirono la propria, ma combattendo soltanto con i luogotenenti locali della suprema potenza imperiale. Per il Vietnam è diverso. Qui la potenza imperiale s’è assunta in prima persona la responsabilità di impedire la fuga dal mondo libero alla metà di un piccolo e arretratissimo paese – e sta fallendo” (p.244).

Questa sorta di entusiasmo per quel che appariva, troppo presto, come l’avvio della “decadenza e caduta dell’impero americano”, viene articolato ulteriormente in “La necessità della rivoluzione”, articolo del dicembre 1965. La questione si pone in questo modo: le due potenze del campo socialista, Urss e Cina, e la potenza americana si confrontano sempre per interposta guerriglia e senza alcuna reale possibilità di scontro diretto (malgrado molti strumentalmente vi alludano continuamente). Del resto lo contro diretto costerebbe troppo e l’oligarchia americana vuole solo potersi garantire una zona di libero sfruttamento in cui le proprie aziende possano “fare affari alle proprie condizioni”. È chiaro che la potenza Usa “sarebbe naturalmente più che contenta di poter aggiungere Russia e Cina a tale zona di libero sfruttamento, ma sa che si tratta di un obiettivo tutt’altro che realistico, perseguendo il quale andrebbe incontro ad un sicuro disastro” (p.259). Ci riuscirà dopo il 1989, ma questa è una questione che dobbiamo rinviare. Per ora, scrivono Huberman e Sweezy, cerca di contenere la perdita di spazio.

Ma la vera questione non è militare, è, ovviamente, “se i problemi di fondo che hanno dato vita ai movimenti rivoluzionari e alle guerre di guerriglia possano eventualmente trovare soluzione nel quadro del sistema che gli Stati Uniti sono decisi a difendere”, se la risposta è no nessuna soluzione militare è sostenibile a lungo termine. In primo luogo la questione è alimentare, è in grado il mondo, nella sua parte più periferica di raggiungere una indipendenza alimentare che debelli la fame?

Nel 1966 scrivono “Vietnam: si apre una nuova fase”, nel quale si dà conto del dilemma finale dell’amministrazione Johnson, tra portare gli effettivi a 600.000 uomini e rischiare lo scontro frontale con la Cina, o avviare ritirata e disimpegno. Nello stesso anno “Il lungo cammino”, in cui viene descritta la controffensiva degli anni sessanta, accompagnata dalla potente espansione economica descritta in precedenza dell’era di Kennedy e successori. Di fronte a questa “violenta espansione dell’imperialismo americano” l’Unione Sovietica è scesa a patti, e alcuni anelli deboli hanno ceduto, in altri luoghi, come il Vietnam, la lotta è stata aspra. Ma in avvenire questa espansione, che non si può arrestare, comporterà crescenti costi, e quindi deficit pubblico accoppiato a profitto privato, e crescente deficit della bilancia dei pagamenti, quindi messa sotto pressione crescente del rapporto dollaro con oro. Quindi “grandi crisi vanno maturando, crisi senza precedenti per ampiezza e gravità” (p.294). Nell’estate viene quindi pubblicato l’articolo che dà il titolo al libro “Controrivoluzione globale”, in cui dopo aver richiamato le rivolte nei ghetti americani della prima parte del libro, e aver chiarito che si verificano in una società opulenta semplicemente perché questa non ha mai varcato le soglie delle case dei ghetti stessi, ribadisce il nesso tra la più grande espansione dal tempo della guerra mondiale (quella che in seguito si chiamerà il “trentennio glorioso”) con la povertà ai due capi, le colonie interne ed esterne. Ma la lotta contro le colonie è ciò che ispira il tentativo di ‘controrivoluzione’ che le amministrazioni progressiste, da anni, stavano portando avanti con crescente dispendio di risorse (e di vite). La cosiddetta “crociata globale”, come ebbe a dire un critico come Walter Lippman (sul “New York Times” del 31 agosto 1966), dovrebbe cessare e fare spazio, per questi, ad una strategia ‘riformista’ che preveda il governo del capitalismo monopolistico e l’abbandono dell’impero. Con le risorse risparmiate fare gli investimenti necessari a ridurre le “colonie interne” e quindi la loro conflittualità. Si tratta di un piano di pacificazione sociale. Lo scontro con il socialismo sarebbe affidato al progressivo allentamento della tensione e quindi al “dolce commercio” anziché alla spada. L’idea è che con il tempo le teste calde saranno sostituite e, come temono anche i leader cinesi la rivoluzione socialista sia reversibile. Il passo è significativo e merita di essere riportato:

“paradossalmente a pensarla così non sono soltanto alcuni accorti difensori del capitalismo: le stesse vedute sono implicite nella concezione dei suoi peggiori nemici, i teorici del marxismo cinese, i quali, in maniera decisamente più decisa dei marxisti del passato, hanno posto l’accento sulla reversibilità della rivoluzione socialista. se infatti è vero, come sostengono i cinesi, che perfino in Unione Sovietica è in corso un processo di pacifica restaurazione del capitalismo, le probabilità che tale sistema sopravviva sono molto maggiori di quanto non fossero soliti ammettere i marxisti. In effetti la condizione fondamentale della sopravvivenza del capitalismo sarebbe in questo caso che esso evitasse le avventure che potrebbero condurlo al suicidio” (p.302)

Il problema è che per gli autori del Monthly Review il capitalismo, essendo diretto da forze autointeressate solo al proprio stretto profitto, tende al suicidio. La strategia “controrivoluzionaria”, con i suoi immani costi, in prospettiva insostenibili, sia umani sia economici, salvaguarda il sistema del profitto monopolistico, come lo fanno la presenza di “colonie”, sia interne sia esterne. Sulla base di questo schiacciante consenso, cieco alle conseguenze, il sistema sociale capitalista va verso il suo esito.

Dopo questa profezia, ancora non adempiuta, questa tesi è rinforzata dall’articolo “Perché il Vietnam?”, ancora nel 1966, nel quale vengono ancora una volta ripercorsi i passi della guerra.

 

Tentativo di conclusione: guardando avanti

Perché tutto questo movimento è rifluito? Non si può certamente rispondere a questa domanda nel breve spazio che manca. Alcuni dei testimoni più connessi con questa impostazione che abbiamo descritto, penseranno che l’esito delle tensioni, economiche e finanziarie, e più profondamente sociali e financo militari, che sono state attive in questo passaggio dal 1963 al 1968, sia una “crisi sistemica” che si apre definitivamente nel 1971 (quando gli Usa cedono e interrompono la convertibilità del dollaro in oro).

Ad esempio Samir Amin, in “La crisi[13] individua in questo passaggio il crollo dei tassi di profitto, fino ad allora crescenti, dei tassi di investimento (che erano tendenzialmente calanti da tempo) e quindi della crescita. La crescita non tornerà più al livello del periodo 1945-75. Ma il capitalismo, lungi dall’arrendersi, reagirà con un ulteriore livello di concentrazione e di espansione, e di finanziarizzazione in grado di mettere al sicuro le rendite monopolistiche. Ma reagirà anche con una imponente offensiva ideologica, esemplificata dal libro di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo uomo”[14]. Questa offensiva è naturalmente punteggiata da guerre coloniali appena mascherate da operazioni di “polizia internazionale”, e si è costituita nel quadro che Amin chiama di “imperialismo collettivo” di una “triade” fatta da Usa, Europa e Giappone. Insomma, gli scontri dei capitali e commerciali degli anni sessanta, ben descritti dai Monthly Review, sarebbero esitati in una sorta di compromesso egemonico con parziale divisione del lavoro. Una nuova mondializzazione capitalistica che non passa per il monopolio industriale ma tramite il controllo delle tecnologie di punta, dei mercati finanziari in grado spesso di sostituire gli eserciti, e delle informazioni.

Di parere simile, sotto certi aspetti, è Giovanni Arrighi, che in “Caos e governo del mondo[15] interpreta il passaggio come segnale del possibile declino dell’egemonia americana, ma fuori di ogni semplice logica causale lineare. Si tratta qui della crescente difficoltà a creare ordine e alla superficie di riassorbire fenomeni di sovraccumulazione e conseguente creazione di capitali mobili, con i relativi ambienti sociali “densi” dediti alla loro gestione e di cui parla la Sassen, in “Territorio, autorità, diritti[16] per i quali si attiva una feroce competizione da parte delle forze territoriali e statali. Sono in sostanza le organizzazioni territoriali che competono tra di loro per attrarre e trattenere il capitale mobile, avviando con ciò processi imponenti di redistribuzione verso l’alto. Chi vince in modo visibile rispetto a tutti gli attori questa contesa ha la base per affermare una nuova egemonia. La presenza di questa, che non è un effetto automatico dell’esistenza della base di potere, in qualche modo ricrea l’ordine nell’anarchica dinamica del mobile e riorganizza il mondo. Riesce quindi, intorno alla parte condivisa dei propri obiettivi, valori e funzionamenti, a creare la cooperazione. Una cooperazione sempre ‘dominata’. Dall’altra parte il crollo di un ordine egemonico esistente è dovuto al fatto che la “densità dinamica del sistema” sta eccedendo le capacità organizzative espresse dal blocco sociale e tecnico centrale, e cresce il caos, per contingenza storica e non per necessità sistemica.

Sarebbe, in altre parole, quel che stava accadendo negli anni sessanta: una crescita non governata della competizione ed un indebolimento relativo americano a partire dal doppio deficit degli anni sessanta e dalla sconfitta del Vietnam. Una situazione che fu riorganizzata ad un livello più alto nei settanta-novanta[17]. Ma questo livello di densità dinamica è giunto ai suoi limiti interni nel 2008 e ora attraversa un’altra crisi di ristrutturazione (che potrebbe preludere ad una nuova egemonia).

Quando comincia quella che Fred Halliday chiama “la seconda guerra fredda”, il governo americano inizia a competere in modo molto più aggressivo con l’Unione Sovietica, e ad attrarre il capitale mobile per finanziare i deficit commerciali (necessaria al consenso interno nell’intreccio degli scontri di classe degli anni sessanta e settanta, per garantire il “sogno americano” e insieme i margini dell’industria) e quello pubblico (alimentato sia dalla spesa sociale sia, e soprattutto, dalla ancora crescente spesa militare). Crescono enormemente i profitti sui capitali e l’espansione finanziaria esplode, insieme alla percezione del potere americano nel mondo. Dal 1980 al 1990 le multinazionali che seguono alla finanziarizzazione esplodono da 10.000 circa a oltre 30.000 e con esse la crescita della concorrenza e la migrazione dei capitali nei paradisi fiscali. Ma soprattutto si ha un cambiamento essenziale nel rapporto tra governo ed imprese.

In questo periodo i capitali in giro per il mondo e le aperture commerciali, orientate agli interessi “capitalistici”, ovvero del sistema di potere delle multinazionali (uno dei fattori di forza da sempre degli USA e del loro sistema di potere, ma in precedenza funzionalizzato anche alla logica di lungo periodo del sistema Stato), provocano ancora con massivi Investimenti Diretti all’Estero e flussi di capitali mobili attraverso la “finanza ombra”, la crescita industriale dell’Asia Orientale. Cioè, ai margini del sistema cresce una nuova base di potere, che tende ad essere indipendente, secondo l’autore, dalla dominazione egemonica occidentale. Quindi potenzialmente portatrice di una nuova egemonia. Mentre questo avviene e diventa visibile, negli anni ottanta, si ha anche il repentino crollo del sistema sovietico e quindi la fine dell’”invenzione della guerra fredda”. Al converso, la capacità militare si concentra sempre più e sembra avviare una biforcazione che è l’elemento di maggiore differenza rispetto alle precedenti crisi egemoniche.

Questa strana situazione in una prima fase, a ridosso del 1989 e nel decennio successivo provoca un clima euforico nel quale l’unilateralismo imperiale sembra affermarsi, fino al fallimento dell’Iraq che rappresenta il punto di massimo sviluppo di tale autoinganno.

Ma questa crisi interrompe anche una caratteristica propria di tutte le fasi espansive di un sistema egemonico per Arrighi: il patto sociale tra gruppi dominanti e subordinati. Dalla pace sociale, in cui si ha espansione del commercio, creazione di surplus e sempre maggiore capacità produttiva, si passa ad un “circolo vizioso”, in cui cresce la conflittualità e la competizione indebolisce i patti sociali e la finanziarizzazione va di pari passo con la polarizzazione economica. In conseguenza in tutte queste fasi si ha una relativa distruzione delle classi medie.

Un altro testimone è Andre Gunder Frank, che vive in prima fila il turning poit e prova generale di richiamo del mondo sotto egemonia liberale nel golpe dell’11 settembre 1973 in Cile, un evento dalle vaste conseguenze[18], e in esilio in Europa, assiste al processo di brutale ri-disciplinamento delle forze popolari tramite il potenziamento di alcuni meccanismi di interconnessione subalterna[19]. La mobilitazione globale del capitale produttivo, che cerca ovunque “forza-lavoro” a basso costo fa transitare il modello “fordista” in quello della “accumulazione flessibile” (Harvey). Le “tigri asiatiche”, per alcuni anni modello di riferimento in una specie di staffetta che mette sotto pressione il mondo del lavoro occidentale (travolgendo con prodotti a basso costo moltissime filiere industriali consolidate, ponendo sotto rischio di delocalizzazione o esternalizzazione i settori indisponibili ad accettare la flessibilizzazione del lavoro), si sviluppano attraverso un mix di autoritarismo, investimento pubblico massiccio, sostegno ai campioni nazionali e apertura selettiva, con un modello “orientato verso l’esterno” che per molti versi è l’esatto opposto di quello immaginato dalla “teoria dello sviluppo”.

Ma a ben vedere la “teoria” non presumeva che fosse “centro” l’occidente e “periferia” l’Asia. In effetti la catena dei “centri-periferia” è funzionale, non geografica, e nuove tecnologie (come quelle implementate tra gli anni sessanta e ottanta) possono ben estenderla e renderla porosa. La dominazione è una dialettica tra classi dominanti/dominate e relativi snodi che si indentificano per la loro posizione nei flussi internazionali di risorse (capitali, merci, forza-lavoro). I centri dominanti interconnessi a quelli dominati (che possono essere contigui come dall’altra parte del mondo), e le borghesie “compradore” sono sempre un effetto della totalità. Il nuovo assetto quindi non confuta la “teoria della dipendenza”, ma passa piuttosto dal disegno di un mondo a grandi campiture sfumate, ad un mondo a pelle di leopardo dai contorni netti. Un mondo nel quale tanti centri interconnessi sfruttano insieme delle periferie distribuite, a volte vicinissime.

Per l’ultimo Gunder Frank, tornando alla crisi degli anni settanta, la crisi prende avvio nel 1965, con le recessioni in Germania e in Usa, a partire dalle quali si registrò un declino del tasso di profitto che portò ad un drastico calo degli investimenti. L’opinione di Frank è che si è trattato di una crisi da sovrapproduzione che innescò una crisi da accumulazione, con conseguente abbassamento dei prezzi ed avvio di bolle speculative[20]. Contribuì anche la lotta della classe operaia, che nella misura in cui riuscì ad interferire nel processo produttivo[21], determinò come risposta da parte del capitale l’innovazione ed automazione, o la delocalizzazione. Ma naturalmente altrettanta importanza l’ha avuta la lotta tra capitalisti, che è, anzi, stato il fattore più importante nella riduzione del tasso di profitto. Naturalmente in queste analisi il problema è sempre di capire quale sia la causa e quale l’effetto, e per Frank l’ipotesi è che non sia la finanza, ma l’economia ‘reale’ che continua a guidare l’economia.

Più specificamente il racconto di Frank parte dall’inclusione, malgrado la sua opinione precedente[22], anche dei paesi socialisti nell’economia-mondo; per cui anche in Urss partì negli anni ottanta una profonda recessione che alla fine conduce al crollo, dato che non riesce a superarla. La ragione viene fatta risalire alla ‘lunga durata’ e ad un ritardo storico che affonda almeno in cinque secoli, dell’Europa orientale da quella occidentale. Una differenza che si è protratta interamente durante l’intero arco del socialismo storico che è in definitiva il tentativo di industrializzarsi e di svilupparsi, superando il gap con l’occidente[23]: “i Soviet più l’elettricità” di Lenin.

Mentre però fino agli anni sessanta sembrava che il gap fosse stato superato, e che il mondo socialista fosse in vista del sorpasso, nei settanta la crisi mondiale lo colpisce. Essa passa attraverso quattro recessioni successive (1967, 1969-70, 1973-75, 1979-82) inframmezzate da piccole riprese cicliche che non recuperano interamente i livelli economici precedenti. Questa situazione induce politiche supply-side di smantellamento dello schema keynesiano (peraltro reintrodotto come spesa militare da Reagan), ottenendo però l’effetto non voluto di approfondire le recessioni successive perché disattivano gli strumenti per gestire le congiunture. L’ultima crisi costringe allora, terminata ogni arma, a drastiche politiche restrittive (fiscali e monetarie), per ridurre ancora i costi di produzione e aumentare i profitti. Questa manovra induce la stagnazione della domanda, e cerca di compensarla aumentando le esportazioni (ovvero ‘rubando’ la già asfittica domanda estera). Inizia in questo modo il programma di smantellamento del welfare state che si diceva “non più economicamente sostenibile” da parte in particolare della sinistra (Challagan, Mitterrand[24], Carter).

Ma quel che è importante e spesso poco notato è che la stessa cosa avviene anche nei paesi socialisti: negli anni settanta i paesi del blocco abbandonano le politiche ISI (‘Industrializzazione per Sostituzione delle Importazioni’) e cercano di avviare una strategia di ‘crescita guidata dalle importazioni’ (di tecnologia occidentale) ed esportazioni. In America Latina, questa idea viene imposta dagli Usa e forze alleate a forza di colpi militari (Bolivia, Cile, Argentina), ma lo stesso avviene in Asia nelle Filippine, ed in Africa. In un modo o nell’altro la strategia della crescita trainata dalle esportazioni di prodotti e importazione di beni di investimento è adottata da tutti i paesi del mondo, anche poco adatti. Si tratta di una politica disperata (cosiddetta del “Washington Consensus”), che ebbe successo solo per pochi paesi, “le poche economie del sud-est asiatico che riuscirono a penetrare i mercati recessionari dell’Occidente, per lo più difesi da politiche protezionistiche”. Gli altri aumentarono solo il debito estero e la fragilità strutturale, venendo sfruttati a tal fine nella fase di espansione della finanza occidentale, che doveva riciclare gli ingenti ‘eurodollari’ ed i ‘petrodollari’. Il denaro, infatti, che non poteva più essere investito in occidente, in crisi da sovrapproduzione (o sottoconsumo), si riversò nei paesi “in via di sviluppo”, che erano alle prese con il fallimento delle loro politiche. La successiva svolta restrittiva fu il compito che si assunse Volker, e fu promossa per migliorare la posizione degli Usa (indebolitasi sotto la presidenza Nixon che aveva distrutto nel 1971 il sistema di Bretton Woods e aveva fermato le importazioni giapponesi, provocandone la lunga stagnazione).

Il monetarismo implementato tra gli ultimi anni settanta ed i primi ottanta è, per Frank, la risposta a questa situazione che tende a peggiorare sempre di più. Il tasso di interesse viene portato dal 5-6% improvvisamente al 20-21%, innescando una forte crisi del debito nei paesi del terzo mondo esposti. I paesi che attraversano questa spirale del debito sono la Polonia nel 1981, il Messico e l’Argentina nel 1982, che rispondono con manovre di “stabilizzazione strutturale”. Ma queste politiche, a servizio del debito, sono implementate anche dai partiti comunisti (Polonia, Ungheria, Romania, Yugoslavia, che al termine del decennio o poco dopo subiscono un cambio di regime per l’erosione del consenso, sono le famose “rivoluzioni colorate” del 1989) e da governi militari, o non, sudamericani (Argentina, Brasile, Messico). Di fatto anche il Nicaragua, che non faceva parte del Fmi, e non era obbligato adottò una politica di “condicionalidad sin fondo”.

In sostanza, come dice Frank:

“il costo della crisi, e soprattutto la recessione del 79-82, fu scaricato [da Volker che aspirò i capitali con gli alti tassi] sui paesi dell’est e del sud. Si poneva però un problema: fino ad ora queste aree avevano rappresentato regioni verso cui dirigere i prestiti per sostenere la domanda nelle economie occidentali. Ma, a causa della crisi del debito che esse attraversavano, ciò non era più possibile. Era allora necessario trovare altre strade: fu l’America del Nord a diventare, dal 1986, il più importante paese debitore del mondo”[25].

Ma nel frattempo la spesa militare in via di continuo aumento, e la competizione alla quale l’Urss fu costretta su questo terreno, costrinsero questa ultima a drenare risorse dall’industrializzazione e dai servizi pubblici ed infine al collasso.

Questo si verificò perché al contempo la politica ‘keynesiana’, sia pure ‘bastarda’ e non dichiarata, stava tenendo a galla l’economia occidentale, ma aveva portato Africa, America latina e paesi dell’est ad una depressione economica più profonda di quella degli anni trenta. Contemporaneamente nel 1981 ci fu anche il crollo dei prezzi di alcune materie prime di cui l’Urss era particolarmente ricca (petrolio e oro, in particolare) mentre i paesi della sua area erano tutti in grave crisi.

La bancarotta colpì per l’insieme di queste ragioni l’Est prima che l’Ovest, che potevano aspirare risorse dal Giappone e dall’Europa, e che riuscì a sostenere il “doppio deficit” americano grazie ai capitali attratti da tutto il mondo e all’acquisto dei suoi buoni del Tesoro.

Insomma, l’Unione Sovietica non crollò per colpa di Gorbaciov, che non aveva alternative, ma fece solo l’errore di non investire abbastanza sull’agricoltura, perdendo il consenso di gran parte del paese, e dunque non trovò nel momento cruciale il capitale politico sufficiente per superare una dura fase di ristrutturazione[26].

Volendo sintetizzare, come dice in modo efficace Emmanuel Todd in “Dopo l’impero[27], quando nel 1989-91 si produce il secondo punto di svolta del sentiero, dopo quello del 1971-73 (svolta monetaria, e conseguenze geopolitiche), e l’Unione Sovietica collassa, insieme ad essa viene meno anche l’invenzione della guerra fredda (come dice Arrighi) che aveva consentito nel dopoguerra a diversi tipi di capitalismo[28] di convivere calibrando l’accettazione delle regole liberali. Emerge l’egemonia neoliberale, anzi la sua dittatura, sotto il segno della quale nel 1991-93 viene negoziato anche il Trattato di Maastricht[29]. A quel momento si iniziò a concepire un mondo in equilibrio e ci fu una breve fase di smobilitazione militare. Ma nel primo quinquennio l’economia e la società russa continuò a disgregarsi, nel 1995 la produzione si dimezza, l’Ucraina, la Bielorussia ed il Kazakistan diventano indipendenti, 75 milioni di persone. Dai 268 milioni di abitanti dell’Unione Sovietica del 1981 (contro 230 degli Stati Uniti) ai 144 milioni del 1995 (mentre gli USA sono saliti a 285. Una completa inversione demografica.

Nel 1996 sembra ad alcuni allora che il vecchio avversario sia sul punto di disintegrarsi. È questo il momento in cui alle élite americane si presenta “l’opzione imperiale”, e il sogno di vincere definitivamente la “partita di scacchi”[30]. La globalizzazione finanziaria, che riduce anche la pluralità di capitalismi all’unico modello anglosassone (e sottoversione tedesca), accelera negli stessi anni, e i flussi puramente finanziari verso gli USA esplodono da 60 a 271 Mld. Ciò consente di distribuire consumi senza produzione, ovvero di “comprare tempo” (Streeck) garantendosi insieme il consenso del sistema industriale (che vuole pagare poco il lavoro, esternalizzando quando può e ricattando comunque), dei lavoratori e delle classi medie (alle quali il sistema finanziario offre l’alternativa al reddito del facile indebitamento).

Ma non è un progetto. Si tratta di un abbandono al corso naturale delle cose, i decisori americani sono “privi di volontà”, interamente catturati dal gioco miope e ravvicinato delle lobby, come spiegavano Sweezy e Huberman. Ovvero interamente piegati alla logica autoaccrescitiva del capitale. Questa non-scelta univa il vantaggio di accontentare gli spiriti animali del capitale (con cospicui vantaggi anche personali) e di garantirsi comunque il consenso. È la famosa “terza via” degli anni novanta.

Dunque questa “classe dirigente priva di volontà” porta il mondo e gli stessi Stati Uniti su un sentiero pericoloso, mentre “un’opzione nazionale a lungo termine sarebbe stata infinitamente più sicura”. La massa continentale del paese e la concentrazione del suo sistema finanziario (alla fine limitato a poche unità aziendali, sia pure enormi, e poche decine di migliaia di persone), lo rendevano possibile e più stabile, ma bisognava concentrarsi sulla regolazione della finanza, la protezione dell’industria, ed una politica multilaterale basata su un riconoscimento reciproco.

Come spiegava Sweezy il capitalismo questo non lo sa fare, riesce solo ad abbandonarsi al corso degli eventi e trarne beneficio immediato, quindi prende sempre la “china infinita” del deficit commerciale e l’opzione imperiale che vi è strutturalmente legata. Ma questa non scelta, direttamente scaturita dai dilemmi delle crisi esplose negli anni settanta ed incubate nei sessanta, comportava un rischio: che i rivali (in particolare sistemici, in primis russi e cinesi) si riprendessero, lasciando l’America esposta in condizioni di debolezza strutturale (ovvero impoverita e dipendente dai flussi finanziari che sono volatili per loro natura).

Come dice Todd, è quel che è successo, alla fine del ciclo dei Bush, non corretto dal ciclo obamiano, l’America ha scoperto di essere passata “da una posizione semi-imperiale ad una pseudo-imperiale”.

L’esito è Trump[31].


Note
[1] - Paul Baran, “Il surplus economico”, 1957. Il capitalismo nella fase monopolista tende alla stagnazione per la rottura del rapporto di formazione del prezzo ancorato alla concorrenza (per quanto si trattasse di un modello ideale), e la tendenza sistematica al sottoinvestimento ed ai sovraprofitti (per cui alla crisi da realizzo ed al sottoconsumo). Questa tendenza è contrastata da alcuni fattori che cercano di dissipare il surplus, o di impiegarlo fuori del processo strettamente produttivo (che innalzerebbe la concorrenza aggravando la crisi), tra i mezzi c’è ovviamente la spesa all’estero (in particolare le spese imperiali e quindi, ma non solo, militari) e c’è la moltiplicazione dei lavori improduttivi e dei relativi ceti. “Parlando in maniera generalissima, questa parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico, e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (p.44). Ma questo movimento economico ha un risvolto potentissimo nelle forme di interiorizzazione e controllo sociale. Ci torneranno nei libri ed interventi degli anni sessanta.
[2] - Paul Baran “Saggi marxisti”, in particolare in un saggio del 1958 spiega la stabilità della società americana con i seguenti fattori: il tenore di vita della popolazione lavoratrice è cresciuto in modo considerevole, e, se pur del tutto inadeguato, appare un netto miglioramento a chi non comprende le potenzialità che non sono sfruttate ma vede solo il relativo progresso concreto intorno a sé. Riguardando dietro sé ognuno infatti ricorda la povertà maggiore della propria infanzia, o dei propri nonni, e pensa di essere in un mondo che avanza. Inoltre, chi subisce gli effetti delle perturbazioni cicliche, ad esempio, viene a trovarsi arruolato nell’esercito di riserva, sente ciò come una avversità personale invece che come l’effetto del destino di una classe sfruttata in un ordine sociale ingiusto. Infine la mentalità dominante, che è quella propria della borghesia, vede nel capitalismo l’ordine naturale ed ovvio delle cose. Ora l’ineguaglianza, lo sfruttamento e l’ingiustizia sono sentiti come aspetti dell’ordine naturale delle cose, e quindi non si pensa neppure di lottare contro di essi, ma di sottrarsi individualmente ai loro effetti. Nelle società a capitalismo avanzato: “i desideri stessi degli uomini sono determinati da impulsi aggressivi, sono diretti al conseguimento di privilegi individuali e allo sfruttamento degli altri, al consumo frivolo ed al divertimento vuoto. Avendo introiettato i tabù e gli imperativi della morale borghese, le persone immerse nella civiltà del capitalismo monopolistico non desiderano ciò di cui hanno bisogno e non hanno bisogno di ciò che desiderano”.
[3] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1966. Vi si formula sia un “teorema di impossibilità” sia la direzione di una possibile soluzione sistemica: se il capitalismo nella forma monopolista tende a soggiacere alla “legge della crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi, finendo per essere soffocato dalla sua stessa avidità, e se in questa capacità di creare e distribuire tra pochi ricchezza riposa la sua stabilità sociale, al contempo esso per garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessita di estendere lo sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale alle periferie dell’impero (periferie sia esterne, le colonie, sia interne, le classi-paria). Questa forma di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.
[4] - la caratteristica principale del capitalismo è di essere, da sempre, un sistema internazionale e gerarchico, costituito da uno o più metropoli e da una catena di periferie sfruttate (“Il capitale monopolistico”, p.151). “La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero possibile di paesi che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori. Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un dato impero, portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente” (p.152).
Il capitalismo, in altre parole, genera ovunque da un lato ricchezza e dall’altro miseria.
[5] - Si vedano le conclusioni del “Il capitale monopolistico”.
[6] - Storicamente il capitalismo, non solo ma in particolare negli Usa, ha avuto a che fare con rapporti di sfruttamento e segregazione razziale. L’esperienza traumatica della guerra civile, per Sweezy e Baran, (cfr. “il capitalismo monopolistico”) “non fu combattuta dalla classe dominante del nord per liberare gli schiavi, come molti erroneamente credono, ma per contrastare le ambizioni dell’oligarchia del sud proprietaria di schiavi che voleva sottrarsi al rapporto sostanzialmente coloniale che la legava con il capitale del nord”. Sarà l’enorme espansione della domanda di lavoro industriale che mosse la situazione. “i gradini più bassi della scala economica erano occupati da successive ondate di emigranti provenienti prevalentemente dall’Europa, ma tra i quali non mancavano quelli provenienti dall’Asia, dal Messico e dal Canada. Via via che i nuovi arrivati venivano a prendere il loro posto in fondo alla scala, i figli e i nipoti degli emigranti ‘più anziani’ salivano la scala per soddisfare il bisogno di lavoratori semispecializzati e specializzati e di impiegati, mentre il sistema della pubblica istruzione assolveva la funzione decisiva di prepararli a queste occupazioni socialmente più qualificate e più remunerative. Mette conto di rilevare che il modello inferiorità-pregiudizio-discriminazione operò anche nel caso dei nuovi emigranti. La reazione dei lavoratori locali fu quasi sempre ostile e talvolta estremamente cattiva. Anne Braden, una valorosa combattente per i diritti dei negri dei nostri tempi, ha descritto quello che nella sua città natale è diventato noto con il nome di ‘lunedì di sangue’: ‘a Louisville, nel Kentucy, il lunedì 6 agosto 1855, una folla di rivoltosi entrò nei quartieri cittadini abitati da immigrati tedeschi e irlandesi, incendiò botteghe e case di abitazione e quando i loro occupanti cercarono di fuggire aprirono il fuoco e li uccisero. Si sparò anche alle donne che fuggivano con i bambini in braccio dalle case incendiate. I rivoltosi erano incitati dalle grida delle mogli e figlie contegnose che sollecitavano a ‘uccidere ogni tedesco e irlandese con i loro discendenti’”.
Chiaramente questo atteggiamento si rovesciava, come una scala, man mano sugli ultimi venuti, di modo che i penultimi potessero, ad ogni conto, sentire almeno di essergli superiori.
Dopo la guerra la rivoluzione agricola e la forte natalità nelle campagne interne misero a disposizione delle città industriali flussi continui e quindi l’immigrazione esterna non serviva più. Come scrivono “in tali circostanze era del tutto naturale ricorrere alle limitazioni legali dell’immigrazione. L’opposizione all’immigrazione aveva cominciato a farsi sentire fin dal 1880, ma prima della guerra non era riuscita mai a vincere i potenti gruppi capitalistici interessati ad avere abbondante disponibilità di lavoro a buon mercato. Ora che tale disponibilità era assicurata da fonti interne, gli stessi capitalisti si unirono all’opposizione, soprattutto per timore che gli operai immigrati potessero infettare gli Stati Uniti con il virus rivoluzionario, che, dopo aver abbattuto il sistema capitalistico in Russia, sembrava minacciare il resto dell’Europa” (p.216). Furono lasciati entrare, dal 1924, solo lavoratori qualificati e da aree non pericolose.
I flussi interni, che avevano sostituito quelli esterni, implicarono l’urbanizzazione dei negri; dal 1870 al 1950 l’emigrazione dagli stati del sud si moltiplicò da 47.000 a 1.170.000 ogni decennio. Anche più in generale, il rapporto tra la popolazione delle campagne e delle città si rovesciò nell’arco di un cinquantennio (da ¾ nelle campagne a ¾ nelle città).
Attraverso questi imponenti flussi i negri entrarono nella vita centrale del paese, nelle grandi città e nel settore produttivo della nazione dal gradino più basso e la maggior parte vi restò. Ci restarono perché diffusi interessi privati si giovano dell’esistenza di un sottoproletariato non integrato, e nel senso più diretto perché ne possono usufruire per servizi, lavoretti occasionali, stagionali, … ma anche gli imprenditori deviano l’attenzione della forza lavoro sfruttata, mettendola l’una contro l’altra. Le piccole imprese marginali sopravvivono solo con un lavoro debolissimo da sfruttare.
Tutti questi gruppi nel loro insieme sono la grande maggioranza della popolazione bianca che è impegnata in un complesso gioco di status, nella società altamente articolata e complessa dei ceti medi. La paura e l’ambizione (di scendere e salire di status) muove allora un profondo desiderio, in ogni gruppo sociale “di compensare il senso invidia e di inferiorità che sente verso i gruppi superiori con il senso di superiorità e di disprezzo verso i gruppi inferiori” (p.224). Il “gruppo-paria” in un certo senso, svolge una funzione essenziale: stabilizza l’intera piramide sociale, soprattutto se questo interiorizza la presunta inferiorità e spontaneamente “sta al suo posto”. La cosa è rilevante:
“la soddisfazione che i bianchi ricavano dal sentimento di superiorità socio-economica che provano nei confronti dei negri trova la sua contropartita nella paura, nella rabbia e persino nel panico che essi provano davanti alla prospettiva che i negri possano conseguire l’eguaglianza. Poiché lo status sociale è una questione relativa, i bianchi sono inevitabilmente portati a interpretare il movimento di elevazione dei negri come un movimento che declassa loro stessi. Questo insieme di atteggiamenti, prodotto da stratificazioni e pregiudizi sociali della società del capitalismo monopolistico, contribuisce a spiegare perché i bianchi non soltanto si rifiutano di aiutare i negri ad elevarsi socialmente, ma si oppongono decisamente ai tentativi di elevazione fatti dai negri”.
Il terzo ordine di fattori è la scomparsa di molti lavori a bassissima qualificazione a causa della evoluzione tecnologica, in particolare dopo il 1950.
[7] - Ovvero Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale”.
[8] - Abbiamo, per esempio, letto il libro di Milton Friedman, caposcuola dei detti conservatori, “Capitalismo e libertà”, che è del 1962.+
[9] - Già anticipata dalla scuola austriaca di Von Mises e Hayek, ma poi formalizzata negli anni settanta da Robert Lucas e Thomas Sargent che l’applicano in campo macroeconomico, seguiti da Milton Friedman.
[10] - Si veda su questo punto “Il capitalismo monopolistico”.
[11] - Si può vedere la ricostruzione dello stesso Sweezy del 1942 in “La teoria dello sviluppo capitalistico
[12] - Cfr. Emmanuel Todd, “Dopo l’impero”, 2002.
[13] - Samir Amin, “La crisi”, 2009.
[14] - Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, 1989. In esso la “teoria della dipendenza” è identificata come la dottrina centrale che “ha tenuto in vita” il marxismo negli anni sessanta e settanta, a suo parere “fornendo una coerenza intellettuale alle rivendicazioni del sud povero del mondo nei confronti del nord ricco e industrializzato”. Il legame funzionale proposto tra la povertà del sud e la ricchezza del nord è contrastato dal politologo americano tramite controesempi tratti dalle esperienze recenti: Corea del Sud negli anni cinquanta, Taiwan, Singapore, Hong Kong Singapore, Malayasa e Thailandia. Tutti paesi che sarebbero sfuggiti al sottosviluppo grazie al libero mercato ed alla connessione con i mercati di sbocco occidentali ed i relativi capitali. Si tratta di una tesi parziale, molti si sono sviluppati, al contrario, grazie ad una calibrata disconnessione e una forte guida politica, altri hanno sviluppato dipendenze che hanno pagato nelle crisi della fine degli anni novanta con una lunga stagnazione.
[15] - Giovanni Arrighi, “Caos e governo del mondo”, 1999
[16] - Saskia Sassen “Territorio, autorità, diritti
[17] - La crisi egemonica che si apre nel 1970 ha del resto, per Arrighi, molte somiglianze con quelle precedenti:
- l’intensificazione delle rivalità tra grandi potenze,
- l’emergere di un nuovo centro di potere ai margini del raggio di azione dello stato egemonico in declino,
una espansione del sistema finanziario che è imperniato sulle strutture di questo.
[18] - Si veda “11 settembre 1973, Allende e le sue conseguenze
[19] - Si veda Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi mondiale”, una raccolta di conferenze del 1972-77.
[20] - “Il funzionamento generale del meccanismo della crisi è il seguente. Le aziende innovatrici, introducendo nuova tecnologia, riescono a tagliare i costi del capitale fisso obsoleto. Ma ciò determina una sovra-capacità produttiva e quindi una sovrapproduzione, vale a dire un volume di produzione eccessivo rispetto alla possibilità di assorbimento del mercato. Di qui un abbassamento dei prezzi e, come conseguenza, la diminuzione del tasso di profitto. Questo processo, a sua volta, ha come effetto quello di ridurre gli investimenti e di provocare, nel settore monetario, quella che si chiama bolla speculativa” (P.46).
[21] - Si veda, ad esempio, “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: la questione del potere”, e “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza del lavoro e tecnologia”.
[22] - Nei suoi libri degli anni sessanta che abbiamo letto, nei quali i paesi socialisti erano individuati come contro-sistema.
[23] - Si veda Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, 2017.
[24] - Si veda “Francois Mitterrand e le svolte degli anni ottanta
[25] - E’ quello che Varoufakis, con bella immagine, chiama l’inversione de “il Minotauro mondiale”, si veda Yanis Varoufakis, “Il Minotauro Globale”, 2011.
[26] - Insomma, da questa analisi allargata (ed “orizzontale”) Gunder Frank ne ricava l’opinione che “la vera ragione della caduta dell’Unione Sovietica è il posto che questa regione occupava nel sistema economico mondiale”.
[27] - Emmanuel Todd, “Dopo l’impero
[28] - Giapponese, tedesco, svedese e coreano è l’elenco di un libro influente come “Il vantaggio competitivo delle nazioni”, del 1990 del guru del marketing Michael Porter
[29] - Vedi “Dicembre 1991.novembre 1993. Il Trattato di Maastricht
[30] - l’anno in cui appare “La grande scacchiera” di Brzezinski è il 1997
[31] - In molti sensi diversi, sia come risultato della “Rivolta degli elettori”, sia come impossibilità di continuare a non giocare politicamente e quindi come urgenza di riprendere la “Grande partita”.

Add comment

Submit