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machina

Politica e Destino

di Mario Tronti

Il 6 dicembre 2001 Mario Tronti teneva la lectio magistralis con cui lasciava l’Università di Siena. Un’ultima, straordinaria lezione, su un grande tema. Politica e Destino: «due maiuscole, due sostantivi, un rapporto alla pari, un conflitto sul campo, e non c’è soluzione, né definitiva né provvisoria». La lezione è stata successivamente rielaborata in forma scritta, pubblicata nel volume Politica e Destino (Luca Sossella, 2006), che raccoglie anche altri contributi. La riproponiamo per la sua inattualità, cioè per la sua capacità di un’azione sul tempo, contro il tempo e per un tempo a venire. Da qui, da questi problemi e riflessioni, bisogna passare per pensare e ripensare l’agire politico

0e99dc 362da89672f048d59159390f21d0902amv2Noi moderni preferiamo dire con Napoleone: il destino è la politica...
Johann Wolfgang Goethe

Il destino è solo il nemico e l’uomo gli sta ben di contro come forza che lo combatte.
il giovane Hegel

Hölderlin chiama «senza destino» gli dei beati.
Walter Benjamin

L’idea di destino richiede un’esperienza vissuta e non quella dello scienziato, richiede una forza di visione e non un calcolare, profondità non intellettualismo.
Oswald Spengler

[…] quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori.
Rainer Maria Rilke

Chi esce dal proprio destino senza farvi ritorno vedrà morta la propria anima.
Chuang-tzû

Queste sono parole dette, che poi sono state scritte. Rimane come una esitazione nella forma, che si scioglie leggendo-ascoltando. Adoro scrivere quasi quanto odio parlare. E tuttavia la frase di Max Weber: io sono nato per la tribuna e per i giornali, mi ha sempre intrigato. Ogni pensatore politico è stretto dentro questo paradosso. Il suo scrivere è un parlare per l’agire. Due occhi aperti sul proprio tempo: uno che bada alla logica del discorso, l’altro attento alle conseguenze delle parole. Convinzione e responsabilità in divergente accordo.

Tutto sta nel trovare subito dall’inizio la tonalità adatta al tema. I primi accordi sono quelli decisivi. Emerge il tema, che poi guida la composizione. Politica e Destino: due maiuscole, due sostantivi, un rapporto alla pari, un conflitto sul campo, e non c’è soluzione, né definitiva né provvisoria. Un tema tra cielo e terra: così lo vedo, così lo svolgo. Rach 3, come si dice nel film Shine, terzo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, in re minore, 1909, il manoscritto simbolicamente terminato nella traversata dall’Europa all’America. La parte del solista è la politica, il destino è l’orchestra. Come il piano dirige l’orchestra, così la politica guida la storia. Nel finale, alla breve, l’ultima parola spetta al piano, la politica ha conquistato la storia, l’ha trascinata al compimento, non di lei ma di sé. Esecuzione ardua, partitura complessa. Inizi del Novecento: non ci sono più soltanto armonie. Anzi, solo contrasti. Avverto. Il nostro tema sta dentro un contenitore più vasto: crisi e critica della politica moderna, il leitmotiv della lunga permanenza senese. Stabilitas loci – stabilitas rei.

Anche «politica e destino» si declina in termini di politica e storia moderna. Ma con un dubbio, che voglio esplicitare qui, in una sorta di ironico annuncio. La scelta dei confini della modernità, la decisione per noi antica di abitare con il pensiero nel moderno, risulta a questo punto consumata. Si tratta piuttosto adesso, per contingenze necessitate, di sfuggire alla trappola della Jetztzeit, con una predisposizione alla lunga durata. Non perché questa abbia un valore in più, ma perché in essa c’è, in questo nostro che è il tempo della damnatio memoriae, una convenienza in più. Le leggi di movimento della politica risultano più eterne che moderne. La politica risulta costitutiva della grande filosofia, da Platone a Hegel, e per questa via oltre, per dire la Stimming di una ricerca. La politica non si aggiunge come una parte al sistema, ma, questo, o comincia da lì, o lì si aggruma il resto del pensiero. Come si tengono insieme gli esseri umani in società, «come» non tanto «perché»: questo è il problema: da Tucidide a Hobbes, dalla Bhagavadgita all’Antico Testamento, da Paolo a Lutero, da Kant a Weber. E tuttavia ci ha travolti la passione per il moderno: innamorati, fin dalla melanconica giovinezza, dei versi di Rimbaud: «il faut être absolument moderne». Qui era il campo di guerra. Qui bisognava armarsi di pensiero. Nell’urto con il proprio tempo va fondata, sempre, la ragione delle proprie idee.

La categoria di destino interviene a complicare il quadro. Una parola, in me, ritornante, evocante. Ho cercato di capire perché. Si potrebbe dire, invece che politica e destino, politica come destino. Titolo, quest’ultimo, di un caro libro, fine anni Settanta, che raccoglieva due testi «schmittiani», di Karl Löwith e Salvatore Valitutti[1]. Vocazione alla politica, una chiamata originaria. In questo senso, fatum, μοιρα. Ma il discorso assumerebbe una piega biografica. Dico in fretta di no. Mantengo «politica e destino». E questo, non come αυαγκαια τύχη (Sofocle, Elettra, 48), fato ineluttabile, sorte necessitata, ma come Schicksal, un concetto hegeliano, anzi giovane-hegeliano, del Hegel romantico e mistico, secondo Della Volpe, rivoluzionario e teologo, secondo Dilthey, che veniva fuori dalle Jugendschriften, tra 1790 e 1800, come le abbiamo conosciute nelle edizioni di Nohl (1907) e di Hoffmeister (1936). Teologia storica, dirà Troeltsch. Definizione confermata, se solo prendiamo, alla conclusione del periodo, il frammento Freiheit und Schicksal, dal titolo dell’edizione Lasson e che oggi si preferisce citare con l’incipit «Der immer sich vergrössernde Widerspruch», La contraddizione sempre crescente..., tra Francoforte e Jena, 1799, secondo Rosenzweig, 1800, secondo Haering. Politica e destino qui diventano la stessa cosa che libertà e destino. Donde la declinazione della politica come libertà dalla storia, che pure dalla storia è condizionata, determinata, necessitata, ma che non si rimette e non si arrende a questa determinatezza e condizionatezza. Politica non rispecchia, ma produce, non descrive ma crea, e produce e crea dentro la gabbia d’acciaio della storia, che è e che è stata. Questa è la grandezza, direi, la bellezza della politica, quando sale, quando è costretta a salire, alla grande storia.

Hyppolite ha letto il «destino» in Hegel come un concetto irrazionale, desunto da una concezione tragica, che era di Hölderlin e sarà di Nietzsche. È il fondo oscuro che sta dietro la luce della Grecia. Inverando il pensiero di Dilthey, secondo cui Hegel è penetrato nel mondo storico dalla parte della religione, preferisco andare a cogliere l’origine del concetto di destino nello Hegel teologo politico. Prendiamo quell’opera che si colloca al centro della «crisi» di Francoforte, elaborata, secondo Nohl, tra inverno 1798 ed estate 1799, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Pagine splendide.

«Il destino di Gesù fu di patire per il destino della sua nazione: o farlo suo e sopportare la necessità, condividere il godimento e unificare il suo spirito con quello della sua nazione, ma sacrificare così la propria bellezza e la propria unione con il divino; oppure respingere da sé il destino del suo popolo ma conservare in sé la propria vita non sviluppata e non goduta [...]. Gesù scelse il secondo destino, la separazione tra la sua natura e il mondo [...]. Ma quanto più profondamente sentì questa separazione, tanto meno potè sopportarla tranquillamente, e la sua attività fu la coraggiosa reazione della sua natura al mondo: la sua battaglia fu pura ed elevata poiché egli conobbe il destino in tutta la sua ampiezza e vi si contrappose [...]. L’esistenza di Gesù fu dunque una separazione dal mondo e una fuga da esso verso il cielo [...]; ma in parte fu anche attuazione del divino e perciò battaglia contro il destino».

Con un’aggiunta, sapida di conseguenze teorico-storiche, che qui non possiamo inseguire, perché ci porterebbe lontano: «ausser gegen den Teil des Schicksals, der unmittelbar als Staat erschien... [eccetto quella parte di destino che appariva immediatamente come Stato]»[2]. La politica, come forma residuata nella dura destinalità del potere, è difficile separarla da sé, senza ingenuamente affidarsi all’inefficacia dell’agire. Ma di questo, altrove.

Qui, invece, un punto, essenziale. Entweder... oder: O... oppure: la logica dicotomica che è di Hegel teologo, che era di Machiavelli politico. Quest’ultima l’ha richiamata Althusser. Il giovane Hegel legge Machiavelli: «La Germania non è più uno Stato...», de La costituzione della Germania, come l’Italia non lo era ancora. Ancora una volta, la politica come fondamento del moderno, come genealogia della filosofia, come logica del pensiero, Organon dell’essere nel mondo in quanto soggetto. Lettura attiva della condizione sociale moderna, cioè di una oggettività come destino. Senza subalternità, ma senza rassegnazione. Nel rifiuto dell’et-et, nell’assunzione dell’aut-aut, sta la grandezza e la bellezza dell’agire e del pensare politico: costi quello che costi, e dunque in un sentire tragico sempre iscritto però nel confine invalicabile della Kultur, civiltà umana superiore all’attuale stato barbarico delle cose. Dialettica di positivo e negativo, del sì e del no, con postazioni che si scambiano tra l’amico e il nemico, senza postazioni fisse, essendo noi, o l’uno o l’altro, o il sì o il no, a seconda dei bisogni dell’epoca, visti da una sola parte. Senza sintesi, senza Versöhnung. Può esserci mediazione, tattica, non conciliazione, strategica. È la cifra, lo stile, del nostro agire/pensare, felicità, agio, si direbbe al femminile, di stare così al mondo, pur nel disagio di stare in questo mondo.

Ma torniamo a Freiheit und Schicksal, nella traduzione di Luporini:

«Lo stato dell’uomo, che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere o soltanto una morte perpetua, oppure, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un anelito (Bestreben) a superare il negativo del mondo sussistente [...]. La sua sofferenza è legata con la coscienza dei limiti, a causa dei quali egli disprezza la vita così come essa gli sarebbe permessa; egli vuole il proprio soffrire; mentre invece il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo…»[3]

«L’uomo, che non ha riflessione sul proprio destino»: negli ultimi tempi, nuovi tempi oscuri, tra una cerchia ristretta di vecchi amici, abbiamo preso a dire homo democraticus, per segnare l’ultimo grado di spoliticizzazione dell’homo oeconomicus. Abbiamo preso a dire senza ascolto, tanto risulta ostico per il senso comune intellettuale di massa l’accorgersi che il glorioso abitante dell’Occidente è rimasto di fatto, «senza volontà», a onorare democraticamente il negativo. Poiché i limiti (die Schranken), nella forma della loro esistenza giuridica e istituzionale, economica e tecnologica, vengono considerati invincibili, e su questa base le proprie determinatezze e le proprie contraddizioni vengono considerate assolute, dunque a essi e a esse si tratta di sacrificare sé e gli altri. L’oppure qui è l’assunzione di tutta intera la dialettica come conflitto irrisolto e irresolubile: da una parte il destino, ciò che è, la determinatezza, il limite, dall’altra che cosa? Ecco che interviene allora una parola poetica, che è anche un concetto filosofico, una disposizione dello spirito libero caratteristica di quell’età rivoluzionaria che va dallo Sturm und Drang al primo romanticismo: Begeisterung. Entusiasmo? Mi pare poco come traduzione. Manca, appunto il Geist. Dov’è il salire, l’innalzarsi, e dunque l’anelito dello spirito a liberarsi dalla condizionatezza della contingenza? Dov’è quella che i greci chiamavano «ispirazione divina» o divinazione e che Platone[4] vedeva realizzarsi, consumarsi, e comunque trascorrere, solo nel sogno o nella follia? Hyperions Schicksalslied, 1799, Hölderlin: «Ma a noi non è dato riposare in un luogo / dileguano precipitano i mortali dolenti / da una all’altra delle ore / ciecamente / come acqua di scoglio in scoglio / negli anni / giù nell’Ignoto». L’op. 54 di Brahms, Schicksalslied, ci accompagna in questa lettura. Ma già nello Stift (1793) – la speranza del sovvertimento ancora aperta – troviamo Das Schicksal, con l’esergo da Eschilo «adoranti il fato i saggi», smentito dalla vittoria di Eracle sul fato stesso, e tuttavia die Not, la necessità, die grosse Meisterin, e nello stesso tempo «tempesta sacra», che «scende come il fulmine di Dio», fermato dalla lotta dei giganti: «Nella tempesta fra tutte più sacra / cada in rovina il muro del mio carcere / e avanzi il mio spirito / sovrano / libero / nella terra sconosciuta»[5]. Perché, come in Die Titanen: «Muss unter Sterblichen auch das Hohe sich fühlen» [Deve fra mortali anche l’Alto sentirsi][6].

Delirio y destino, dirà poi in tempi più ravvicinati, nel nostro amato Novecento, María Zambrano. Deliri, come «l’inganno di un sogno menzognero», su cui pure però poggia quell’Adsum, quel «sì, sono qui, sì, sono qui».

«E ciò che vedeva erano nuvole bianche e immobili, gigantesca scrittura nel cielo di una vita che si progettava da sé, che tutti gli esseri umani progettavano ma che poi, vedendola al di sopra delle loro teste scaricarsi in pioggia, chiamavano destino e perfino storia»[7].

Nel Seicento, un secolo per certi versi così vicino al Novecento, Baltasar Graciàn aveva misteriosamente così declamato l’oracolo della ragion di Stato: «il corpo della storia», «l’anima della politica»[8].

Luporini commenta la Begeisterung: «vuol dire comunque sempre qualcosa che appartiene al carattere dell’uomo libero, dell’uomo vero, ossia dell’uomo della natura, non mortificato e piegato e falsato dai tempi infelici [...] Indica sempre, in qualche modo, un celebrarsi della libertà dello spirito». Cassirer l’aveva messa, alla sua maniera, in un modo oggettivo-simbolico. In un discorso, 1929, L’idea della Costituzione repubblicana, citava il detto di Goethe: «Il meglio che abbiamo dalla storia è l’entusiasmo che essa accende»[9]. È il Goethe che aveva davanti agli occhi le cannonate di Valmy. Ma qui c’è un passaggio importante. Hegel dice: «die Begeisterung eines Gebundenen», di un individuo legato. «Legato – chiarisce Luporini –, evidentemente, al destino stesso, e alla propria, determinata, storica, situazione: a quella situazione a cui non si sfugge; dinanzi alla quale è vano e illusorio cercare un oblìo; rispetto alla quale è mortale chiudersi e separarsi». «Situazione» è termine novecentesco per «destino». Una delle riscoperte degli ultimi anni senesi è stata la lettura, insieme ai ragazzi e alle ragazze di oggi, di quel discorso di cultura della crisi che il giovane Luporini porta dalla Germania in Italia[10]. Ma continuava così il commento al testo hegeliano: «“L’entusiasmo di uno legato” è come una formidabile ubriacatura con la quale ci si illude di far violenza al proprio destino [...] “Momento pauroso”, dice Hegel, per colui che opera questa violenza, “nel quale egli si perde”»[11]. È in questo caso che il destino non sono rimane quello che è, ma diviene quello che tu sei. E così vincono quelle che Hegel chiama «le determinatezze non dimenticate, non divenute morte». Ecco il passaggio: è il vivo della determinatezza, il contrasto che ti lega e il confronto che ti obbliga. Devi misurarti. È il destino che ti tiene vivo, e tuttavia devi farlo morire: se vuoi agire/pensare da spirito libero. La «situazione» è da attraversare e da dimenticare, da buttare dietro le spalle, per poter innalzarsi al di là e al di sopra di ciò che c’è. Mi viene in mente un pensiero profetico di Simone Weil, in La pesanteur et la grâce: «Il grande errore dei marxisti e di tutto il secolo XIX è stato quello di credere che camminando diritti dinanzi a sé si salga in alto»[12]. Il Novecento ha corretto l’errore: non, come tutti pensano, con eccesso, piuttosto con difetto. C’è sempre un’aura di mistero intorno al senso dei grandi eventi. Ci orientino le stupende parole che quasi concludono Lo spirito del cristianesimo e il suo destino: «Ad ogni visionario che fantastica solo di sé, la morte è benvenuta; ma colui che sogna la realizzazione di un grande piano, solo con dolore può lasciare la scena dove quello doveva realizzarsi. Gesù morì con la fiducia che il suo piano non sarebbe andato perduto»[13]. Nella miseria del linguaggio politico contemporaneo, cerco altri modi di dire le grandi cose. E allora leggo così passione e morte, e anche attesa, speranza, volontà di resurrezione di uno spirito rivoluzionario.

Il discorso, a questo punto, prevede un innesto, logico, di affronto filosofico del Novecento. Ne accenno in superficie, e tralascio il fondo, perché la tecnicalità del merito prenderebbe il sopravvento e verrebbe a sovraccaricare un’attenzione, che vorrei rimanesse vigile sul percorso a me più congeniale, quello di una sorta di «classicità moderna». Sto parlando del passaggio attraverso l’arduo concetto di Geschick in Heidegger, come corrispondente/contrastante con lo Schicksal hegeliano. L’heideggeriano «destino» come decisione autentica dell’uomo investe l’intero «nostro» secolo, quello appena trascorso. Tutte le domande – che cos’è filosofia, che cos’è storia, che significa pensare, che significa fare – passano di lì. Solo qualche riferimento. Ecco l’Esserci di fronte alla nudità del suo destino. «Con questo termine designiamo lo storicizzarsi originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica, storicizzarsi in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta»[14]. Può essere la possibilità, contemporaneamente, ereditata e scelta? Sì, può esserlo. Nel Novecento lo è stata, per le singolarità e per le collettività, donne e uomini, classi e Stati. Felice, pur nella tragedia, chi ha potuto viverla quella possibilità, chi ha potuto misurarsi, alla pari, con il proprio destino. A chi non ha vissuto il Novecento, rimane poco o nulla da fare nel mondo, per cambiarlo. Di qui, la quotidiana raccomandazione ai miei allievi: quella storia che non avete potuto vivere, fate in modo di pensarla, se volete essere liberi nel e dal presente.

«Noi chiamiamo destino l’autotramandamento anticipante e deciso nel Ci dell’attimo. Qui trova il suo fondamento anche il destino-comune, cioè lo storicizzarsi dell’Esserci nel con-essere con gli altri. Il destino-comune, carico di destino individuale, può, nella ripetizione, disgelarsi nella sua connessione con l’eredità ricevuta»[15].

L’idea di «destino comune» poteva pensarsi e viversi solo nella grandezza del secolo appena trascorso, e poteva essere spenta prima e criminalizzata poi, ben prima della sua fine, solo dai suoi piccoli epigoni. Heidegger poteva scrivere infatti nel 1946, alla conclusione del secondo atto delle guerre civili europee e mondiali, la parola forse decisiva sul punto: «L’uomo è piuttosto gettato, dall’essere stesso, nella verità dell’essere, in modo che, così e-sistendo, custodisca la verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è. Se e come esso appaia, se e come Dio e gli dei, la storia e la natura, entrino nella radura (Lichtung) dell’essere, si presentino e si assentino, non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’ente riposa nel destino dell’essere. All’uomo resta il problema di trovare la destinazione conveniente (schicklicke) alla sua essenza, che corrisponda a questo destino (Geschick)...»[16]. Tra Bestimmung e Geschick, tra destinazione e destino, c’è il campo, libero, della decisione politica, perché la politica è decisione, tra ciò che ti è dato e ciò che puoi fare, tra quello a cui sei chiamato e quello che tu sai di dovere con-rispondere. Questo almeno per chi ha la machiavelliana «fortuna» di agire nello stato d’eccezione, perché nello stato normale, pur con tutte le tue coltivate «virtù», la politica è altro e niente nello stesso tempo, come dal basso dei nostri tempi si vuole dimostrare.

Ragioniamo allora su quella misterica frase hegeliana: «riflessione sul proprio destino». La vera dicotomia, il vero entweder/oder, alla fine, in politica, non è tra Schicksal e Begeisterung, tra corso della storia e destinazione dello spirito. È piuttosto esattamente tra chi ha e chi non ha riflessione sul proprio destino. «Proprio destino»: che cosa vuol dire? Qual è il mio proprio destino? Ecco la domanda originaria. Ed ecco l’abbozzo di una risposta non provvisoria. «Proprio destino», per me, è quello della mia parte, quello della parte cui appartengo, la sua determinatezza storica, la sua situazione nel mondo, e quindi il suo tempo-ora, con cui quotidianamente mi misuro, le sue ragioni che sono anche le mie, i suoi bisogni che sono anche i miei. Adsum, appunto. Io lì sto, quello io sono. E tuttavia – ecco la cosa difficile da capire – li, in questa decisione di appartenenza, c’è uno straordinario esercizio di libertà. Libertà maggiore, rispetto a quelle libertà minori concesse dai sistemi politici illuminati. Perché trascende, è la parola giusta, il limite imposto da quella figura principe della modernità borghese, che è l’individuo così-detto sovrano ma così-fatto subalterno. Semmai, c’è qui da riconoscere il carattere, «la forza del carattere», di cui parla Hillman.

Ecco. Arriviamo al punto. La mia condizione non è quella del pensatore politico. È quella del politico pensante. Un rovesciamento, senza riconoscimento. È infatti, vi assicuro, una postura scomodissima, niente affatto naturale, e quindi bisognosa di continui radicali esercizi di mantenimento. Che cosa pensate che siano i miei viaggi nel metapolitico se non questo? Perché, quando «il tempo caccia in un mondo interiore» un filosofo, possono venirne anche cose buone: vedi dal giovane al vecchio Hegel. Ma quando il tempo caccia in un mondo interiore un politico, è solo un gran pasticcio. Negli anni, nei decenni, ci è capitato, come per lo Schmitt di Ex captivitate salus, di praticare una politica pensata, salvo qualche ora d’aria, «nell’immensa vastità di un’angusta cella». E tuttavia, senza mai voler fare storia, e tanto meno teoria, «scritta dai vinti». Questo, perché il punto di vista di cui si è data rappresentazione non è stato mai subalterno. E perché questo è ciò che abbiamo avuto la fortuna di imparare fin dall’inizio. Dietro di noi stava la lunga, eterna storia delle classi subalterne. Ma, appunto, dietro le spalle. In avanti, c’era il compito di organizzarci come classe dirigente, egemonicamente dominante. È quanto ci diceva la grande scuola della classe operaia.

La parte di cui dicevo, possiamo dunque adesso nominarla. E qui c’è lo specifico di una posizione: non l’appartenenza a una corrente di pensiero, neppure il marxismo. Il marxismo viene dopo. Piuttosto, l’appartenenza a un pezzo di mondo sociale. Movimento operaio: ecco il nome. Classe più organizzazione, anche qui nella sua storia lunga e nella sua pratica determinata. Un referente quotidiano per l’esistenza, è la parola giusta, di un lavoro intellettuale. Credo di non aver mai scritto una riga senza avere in mente, lì e ora, i bisogni, gli interessi, le motivazioni, le aspirazioni di quel mondo del lavoro moderno, come universo di civiltà, alternativo a tutto ciò che è. Mi guardavo intorno e indietro, a ogni strappo di pensiero, a ogni allungo in salita, per vedere se stavo ben dentro quel territorio, se non perdevo il contatto col gruppo, per capire se stavo rispondendo a quella domanda, non di liberazione ma di rivoluzione, o di liberazione attraverso le forme della rivoluzione. Non istanza etica ma azione politica: non protesta, non contestazione, non rivolta, ma rovesciamento dei rapporti di potenza, rivolgimento, intellettualmente posseduto e controllato, praticamente organizzato e costruito, élites che muovono masse, usando «la golpe et il lione», l’abilità e la forza. Questo è stato – ecco l’ulteriore specificazione – il movimento operaio nella declinazione, cioè nell’organizzazione, che esso ha avuto nel comunismo del Novecento. Non il comunismo dei filosofi, ma il comunismo dei lavoratori: con tanto di forma di partito. È difficile dire, e so che è difficile capire – oggi, poi! – quanta sicurezza, fatta di convinzione e di responsabilità, quanta tranquillità e al tempo stesso inquieta serenità, ti dava quel sentire, profonde, sotto i piedi queste radici. Talmente forte questo approccio che accade il miracolo. Anche quando quel referente è sembrato tragicamente cadere, ti è rimasta questa disposizione dell’animo, che sempre ti capita di confrontare con le nevrosi del mondo intellettuale, che purtroppo ti circonda. Ecco: «io sono quello», un filtro, attraverso cui passa un punto di vista di parte, anche dopo l’arretramento, dopo il ritorno a una storia antica delle classi subalterne, in seguito al fallimento del progetto moderno di farsi classi dominanti. Il tuo compito, quotidiano, la tua coltivazione spirituale, è di mantenere pulito il filtro. Perché si possa dire, come in Die fröhliche Wissenschaft (§ 378): malgrado il dato di fatto che, anche se lo volessimo, non possiamo impedire in alcun modo «che l’epoca in cui viviamo getti in noi la sua “attualità”..., faremo come sempre abbiamo fatto: quel che in noi è stato gettato, lo accoglieremo giù nelle nostre profondità... e diventeremo di nuovo limpidi».

Qui, un intermezzo, al modo di quell’uso mahleriano del kitsch, quando inseriva nelle pieghe dei suoi complicati intrecci sinfonici, tra un disperante adagio e un maestoso presto, motivetti popolari, canzonette contadine morave, marcette per banda. In realtà, c’è un passaggio che non sono stato in grado di dire a voce, malgrado fosse in programma. Il pudore oscura il parlare laddove si tocca il sacro della propria esistenza. Solo l’ombra solitaria della scrittura riesce a esprimere il nascosto dell’autentico. C’è una frase di Operai e capitale (1966), che non ho voglia adesso di andare a vedere in che pagina sta. Non so come è stata letta. So che conteneva, in metafora, un rarissimo accenno autobiografico. Diceva: «noi non abbiamo bisogno di andare verso il popolo, perché noi veniamo dal popolo». Quando dico «radici», quelle politico-teoriche stanno negli operai torinesi, quelle storico-umane stanno nei lavoratori romani. Il senso era questo: le lotte operaie presenti vengono da lontano della tradizione popolare, e io con loro. Poi, c’è stata da questa un passaggio di emancipazione. Ma il segno rimane, nel fondo dell’anima. Perché quella tradizione è modernità di popolo. Non è l’arcaico pasoliniano delle periferie metropolitane. È la bellissima ironia sapienziale di un popolare centro urbano. La mia vera Università: di pensiero e di vita. Ho cercato di trasmetterla, culturalmente mediandola, nell’insegnamento, o meglio, nella sua negazione. Quando i miei figli andavano alle elementari, li accompagnavo qualche volta a piedi alla Nicolò Tommaseo, poco prima della Basilica di San Paolo. Percorrevamo, al mattino, la via Ostiense, passavamo davanti ai Mercati generali, brulicanti di lavoro, grida, commerci e fatica. Qualcuno, da sopra una carriola, apostrofava i bambini: ahò, saluteme a’ maestra. E io ero felice, perché mi dicevo: se entrano in questa scuola con questo viatico, non si perderanno... Non si sono persi... Dicevo loro: ecco, questi sono i «nostri». Adesso che i «nostri» quasi non ci sono più, la semplice memoria familiare mi conforta, e ci conferma, di essere nel giusto per il solo fatto di venire da lì. Una citazione di rimando. Purtroppo certi rinvii può farli chi li ha pensati e nessun altro. In Con le spalle al futuro (1992), subito all’inizio, si può leggere: ma come, non ve ne siete accorti, non avete ascoltato nel nuovo grido di Zarathushtra l’annuncio: «il popolo è morto»? Questo è il novum sub sole. E, questo, anche questo, è il tragico nel politico di oggi. La gente, gli individui, i cittadini, le moltitudini, sono ciò che resta dopo il passaggio vincente, a livello mondo, dei processi di neutralizzazione e spoliticizzazione. Perché credete che ci sia populismo? Ma, perché non c’è più popolo.

Su questo punto si è innestato, ed è venuto a coscienza, lentamente ma anche qui profondamente, un problema teorico, di grande intensità e di grande difficoltà. Un problema che include il tema storico dell’incontro tra movimento operaio e politica moderna. Il movimento operaio ha declinato nei termini di strategia e tattica il rapporto rigorosamente moderno tra politica e contingenza. Rapporto da ri-pensare adesso, dopo il Novecento. La politica al tramonto soffre crepuscolarmente di questa malattia: la contingenza dal di dentro la consuma. La politica ha perso la sua relativa libertà dalla congiuntura, che pur sempre era un suo elemento costitutivo. La contingenza in politica ha una sua permanenza nella lunga durata della storia moderna: da Machiavelli a Weber, e poi, di qui, tutta dispiegata, nell’età delle guerre civili europee e mondiali. Machiavelli e Weber, tra Cinquecento e Novecento, «sono» la politica moderna, con a fronte, mai avere paura di ricordarlo, Hobbes e Schmitt. Perché è così difficile comprendere Machiavelli, si chiedeva Merleau-Ponty? Perché Machiavelli – rispondeva – unisce la contingenza del mondo e la coscienza dell’uomo: quindi, qualcosa di finito e di determinato con qualcosa di infinito e di assoluto. Due cose che non stanno insieme, o stanno insieme solo conflittualmente. Come in Marx: la contingenza storica del capitalismo e la coscienza di classe del proletariato. Finché c’è stata la lotta fra queste due dimensioni, c’è stata politica. Senza questa lotta, c’è crisi della politica. Machiavelli – è un’idea di Althusser – «è il primo teorico della congiuntura». Non perché pensa «sulla» congiuntura, ma perché pensa «nella» congiuntura, cioè nel concetto del caso singolo aleatorio. Pensare, nella congiuntura, strategicamente, la politica; pensare, nel caso aleatorio, quelle che Miglio chiamava «le regolarità della politica»: ecco il senso, «absolument moderne» dell’agire politico.

Alla politica – diceva Nietzsche – si addice «il grande stile». È qui che la politica urta con il tempo storico, portato, vocato, a riprodurre, a volte con Miserabilismus, il sempre eguale, e che gira, viziosamente, dal punto di vista antropologico, nel circolo dell’eterno ritorno. Il contingente non è soltanto la situazione del momento, non soltanto il compito che ti dai, che sei costretto a darti, in quella situazione. È anche l’irruzione dell’imprevedibile, l’evento eccedente rispetto sia al dato sia all’obiettivo. L’eccedenza più che l’eccezione: ciò che resta, libero, al di là del maledetto stato normale, la condizione, questa, la più sfavorevole, sempre, per chi vuole cambiare le cose. Chi decide nello stato d’eccedenza? Come si esercita qui la sovranità della decisione? Il fascino oscuro della politica è che non puoi mai razionalizzare tutto. Mai, essa, è scienza esatta. Piuttosto è gioco di congetture. E nello stesso tempo, non arte, né tecnica. Simile all’arte della guerra, vicina alle tecniche di governo, non la stessa cosa, c’è un di più che volta a volta inspiegabilmente si aggiunge. Ciò che eccede non è solo fuori, nella storia, è dentro, nella motivazione, nell’articolazione, nella decisione, dell’agire politico. Progettualità e pragmatismo, l’una e l’altro, vengono sconvolti dal peso misterioso di un inconscio che non si lascia rimuovere. Non sto commentando la frase weberiana: realizzare il possibile si può solo tentando sempre l’impossibile. Frase non banale, ma banalizzata dal consumo vistoso che se ne fa, dai pulpiti più improbabili. Viviamo l’epoca terribile di dittatura della comunicazione, dove diventa idea di senso comune anche il colpo di genio. In politica, l’impossibile sta nella possibilità stessa. L’anima dell’impossibile sta nel corpo della possibilità. Perché non tutto, mai, dipende da te. Quando agisci politicamente, devi sapere che il destino non sta nelle tue mani. Di nuovo, qui, senza nessun estetismo, la bellezza tragica della politica. Ma qui, anche, il problema della forma di pensiero adatta al «grande stile» della politica.

Nel mio studio, a Ferentillo, accanto a una vecchia riproduzione, ormai ingiallita, del quadro di El Lissitzky, Col cuneo rosso colpisci i bianchi, ho messo recentemente la grande foto di un’opera di Rodin, Le Penseur. Ci lavorò, con varie versioni, a partire dal 1882 fino a quella del 1904, di cui scrisse: «Concepii un altro Pensatore, un uomo nudo, accovacciato su un masso su cui i suoi piedi si contraggono. I pugni chiusi ai denti, pensa. Il pensiero fecondo si elabora lentamente nel suo cervello. Non è un sognatore. È un creatore»[17]. È vero. Guardo e vedo non solo il pugno chiuso che regge il mento, ma anche l’altro pugno chiuso che poggia sul ginocchio. Sono stato sempre convinto che pensare in grande politicamente si può solo a pugni chiusi e che agire bene si deve solo a mani aperte. È esattamente così per il pensiero politico: che non sogna, ma crea. Elabora lentamente. Nel senso in cui Rilke poteva dire che non si capisce niente da giovani, si capisce tutto più tardi, a poco a poco, lentissimamente. La politica vuole uno stile maturo, direi senile, del pensiero. Avere a che fare, alla pari, con il destino, chiede un accumulo della propria forza, alto, una sapienza del proprio carattere, fine, se si vuole sostenere il contrasto, senza subire, senza arretrare. Ma se il Pensatore è questo vigoroso corpo d’uomo, ecco che La Pensée, il Pensiero, sempre in Rodin, 1895, mostra un sognante volto di donna. In L’uomo e il suo Pensiero, 1896[18], si vede una grande roccia – un amico vi scorse un pensiero che emergeva dalla materia – e su questa roccia, dietro, una piccola figura femminile, davanti, un uomo, che quasi ne dipende. Mi ha sempre attraversato l’idea di un pensiero – maschile – della politica – come femminile. Sì, perché la politica è madre, crea nel senso che genera. La politica è nascita, dell’inatteso, e quindi del non riconosciuto. Il disordine simbolico della politica è l’unico strappo in grado di lacerare il tessuto dell’essere per la morte lavorato dalla storia. Anche qui, Novecento docet. Non credo proprio di essere riuscito a realizzare questa idea. Fin qui, forse, solo una relazione di differenza, che tenta di esprimersi al meglio nella scrittura politica. Ma..., non è finita.

Pensiero forte, dunque, per il «grande stile» della politica. Una frontiera difficile, anch’essa scomoda, in questi tempi, divisi, a volte e per lo più inconsapevolmente, tra violenza della ragione e pappa del cuore. Occorre scegliersi una postazione da presenziare, pur in solitudine, con lucidità riguardo al metodo e con passione riguardo alle idee: portandola fino alle ultime conseguenze, costi quello che costi. Quel personaggio oggi dannato nella memoria, che si chiamava Bertolt Brecht, un vero e proprio amore intellettuale di gioventù, scriveva: «Dal fatto che noi combattiamo, nessuno ha il diritto di concludere che non siamo obiettivi...». E i nostri avversari, «non è vero che abbiano “ragione dal loro punto di vista”: il torto sta nel loro punto di vista. Forse è inevitabile che siano così come sono. Ma non è necessario che siano»[19]. In tempo di guerre umanitarie – che, come diceva Schmitt, sono le guerre più disumane – ritorna puntualmente la richiesta di consenso intorno all’idea borghese-liberale, illuministica, della tolleranza. Siccome questo è il pensiero di tutti, lo lascio volentieri, rispettandolo, a tutti quelli che lo coltivano. Io invece mi faccio carico di un altro bisogno, che sento non raccolto, anzi che sento abbandonato. È il lavoro ingrato di critica della ragione dominante. Dietro di essa, un lungo percorso di presa di distanza dalla lockiana ragionevolezza del cristianesimo e dalla kantiana ragionevolezza del socialismo. Il comunismo del Novecento – la nostra Heimat – è stato anche questo. Lo è stato forse in forme rozze che vanno raffinate, in forme tragiche che vanno, se si può dire così, catartizzate: e qui sta il nostro compito. Ma è stato anche questo: autocritica della ragione alternativa, democratico-progressista, e assunzione dell’irriducibile, organizzazione dell’irrecuperabile, nei modi e nei tempi del presente che ci è dato.

All’inizio del saggio lungo, in La politica al tramonto, trovate due esergo, uno di Machiavelli e uno di Taubes. Ce n’era un terzo, che è inspiegabilmente saltato nella stampa. Mi serve riprenderlo adesso. Era un verso di Hölderlin, da An die jungen Dichter: «lehrt und beschreibet nicht», «non descrivete, non insegnate»[20]. In coerenza con la forma pensiero di cui discorrevamo sopra, c’è stata sempre la ricerca di un modo proprio di trasmetterla. Romano Guardini invitava a essere non «docente» ma «maestro». Improponibile, nella modernità secolarizzata, la figura pre-moderna, quasi sacra, espressa nella parola «Meister». Eppure forse non è un caso che Eckhart, il maestro per eccellenza, per cui Meister ha assunto il ruolo di nome proprio, è stato un filo rosso, che ha attraversato vari passaggi della ricerca. Il rifiuto, istintivo, era quello dell’acribia dell’insegnante. Gli studenti di Siena hanno conosciuto un maestro non esigente, che durante gli esami non domandava ma ascoltava. È già una fatica seguire un corso e sottoporsi a un esame, per aggravare la situazione facendo pesare una disparità tra chi sa di più e chi sa di meno. Durante la discussione delle tesi di laurea, venivano lasciati al correlatore gli opportuni appunti metodologici, filologici, bibliografici. Mentre si andavano a valorizzare le tracce di una sia pur piccola scoperta. Per le ragazze e i ragazzi, era questo il messaggio: non m’importa quello che sai, mi interessa quello che sei. Ecco il maestro: aiutare, guidare, orientare, correggere se necessario, il nietzcheano «divieni quello che sei». Perché io penso questo: che, o si è qualcosa, o non si diventa niente. E francamente non ho mai pensato che si possa insegnare qualcosa a qualcuno. Importante, essenziale, è quel «non descrivete». Parlo di pensiero politico: che ha sempre da fuggire due pericoli. Il primo: prendere il fatto e trattarlo empiricamente come tale, assumere i fatti passivamente come dati, sovrani, legittimati da se stessi, fonte di legale obbligazione. Una subalternità alla realtà, per me letteralmente impossibile. Tra una saggezza, diciamo così, keynesiana «i fatti hanno la testa dura» e una follia, che possiamo chiamare, blochiana «tanto peggio per i fatti», scelgo la seconda. L’altro pericolo: iscriversi nell’orizzonte del mondo della cultura, considerarsi un anello nella storia degli intellettuali, quale trasmettitore di sapere, scrivendo libro da libro, discendendo per li rami da pensiero a pensiero: un’altra forma di subalternità, questa volta alla scienza e al sapere di pochi. Per me la scrittura, e questa forma di pensiero-scrittura che amorevolmente coltivo, è un corpo a corpo diretto con la storia, dove la cultura è mediazione tra parola e idea, e i libri sono armi, armi della critica, che devi imparare a usare bene, chiaro il bersaglio, precisa la mira, freddo l’occhio, calda la mano.

Non sottovaluto i rischi di questa esposizione del discorso. A esso non basta l’autonomia da, tende a essere dominante su. Qui si pone il grande problema che il Novecento ci ha lasciato irrisolto e che va sotto il nome di cultura operaia. Problema teorico che sopravvive alla morte della centralità politica operaia. Cultura nel senso di Kultur, civiltà, non civilizzazione. Preferisco questa espressione oggi a quella, che fece scandalo, di «scienza operaia», o anche di «punto di vista operaio». C’era in quelle espressioni un nucleo di verità, molto anni Sessanta. E non si trattava di qualcosa di eccessivo, semmai di insufficiente. La classe operaia, che non ce l’ha fatta, mancava di uno strumento effettivamente offensivo. C’era, in qualche modo, una Weltanschauung. Non c’era, in alcun modo, una teologia politica, altra, alternativa, capace di interagire, oltre che di confliggere, con la Kultur dell’avversario. È mancato, in senso assoluto, nei confronti della grande tradizione borghese, un complesso lavoro di critica delle parti efficientistiche, e disciplinanti – umanesimo, razionalismo, illuminismo, idealismo, storicismo, positivismo. È mancata una disincantata operazione di appropriazione delle parti eccedenti e disordinanti – libertinismo, romanticismo, irrazionalismo, nichilismo, culture della crisi, avanguardie storiche. Dirò altrove della felicità di quell’incontro stellare, che avvenne all’interno dell’operaismo, con questa costellazione autocritica dello spirito grande-borghese. Dirò qui il fatto che, ufficialmente, nella rappresentanza, e nella rappresentazione dell’interesse operaio, avvenne l’esatto contrario. Ci si è iscritti nella continuità di una modernità, che faceva apologia di se stessa, si è acquisito, senza critica, tutto il suo apparato ideologico, si è privilegiato il carattere ordinamentale e la funzione disciplinante delle istituzioni borghesi, si è, in una parola, rimasti subalterni all’interesse capitalistico, declinato nelle forme della modernizzazione, come neutralizzazione e spoliticizzazione dei conflitti. Quello a cui assistiamo oggi è niente altro che la conclusione, per di più inconsapevole, di questo cattivo percorso. Il movimento operaio si è estinto, senza produrre un orizzonte di mondo, e un futuro di uomo e di donna, «altri» da quello che miserabilmente c’è. L’incontro tra classe operaia e politica moderna, l’unica figura escatologica in grado di realizzare un moderno principio-speranza, è caduto, prematuramente, senza lasciare continuatori, senza nemmeno fare cenno di eredi. È un’immane tragedia, un vero e proprio Actus tragicus: un dolore politico, che risuona dentro con il bachiano «Es ist der alte Bund: Mensch, du musst sterben» (BWV 106). Evento tragico, non solo per la parte che così voleva liberarsi, ma per tutto il resto dell’umanità che così doveva essere liberata. Questa cruda presa d’atto di una sconfitta storica spiega la tonalità dell’ultima fase di pensiero. La trovo espressa al meglio, questa tonalità, nella unendliche Melodie, ossessivamente ripetuta, fino a una interiorizzazione assoluta, di composizioni come Verklärte Nacht, del giovane Schönberg, e come Metamorphosen, del vecchio Richard Strauss, due opere che simbolicamente aprono e chiudono la prima parte, la parte grande, del Novecento. O forse la forma all’altezza della cosa sta in quell’espressione tutta novecentesca che è la composizione per voce e orchestra. La colonna sonora quotidiana, che accompagna la scrittura, è data dai Vier Letzte Lieder e dal quarto o quinto, a seconda dell’esecuzione, ma qui ci vuole Elisabeth Schwarzkopf, dei Fünf Lieder nach Rückert, quello che canta: «Ich bin der Welt abhanden gekommen...». Quei Rückert-Lieder che, insieme ai due Wunderhornlieder del 1899-1901, furono chiamati, dopo la morte di Mahler, Lieder aus letzter Zeit[21]. Strauss e Mahler, il «grande attuale» e il «grande inattuale» si danno la mano. E questo spiega anche il perché e il come di quell’arco «virtuoso» disegnato nei corsi universitari senesi: dal Machiavelli, del primo anno dei Settanta al Nietzsche, dell’ultimo anno dei Novanta. Sempre alla ricerca, disperata, di quell’unaussprechlich, di quell’impronunziabile, di quel non dicibile, del politico moderno.

A questo punto, due pensieri portatori di tale dubbio da diventare potenziali creatori di nuovo pensiero. Primo: forse la classe operaia ha avuto un tempo di esistenza storica troppo breve per produrre tutto quello che abbiamo caricato, volontaristicamente, sulle sue spalle. No, il dubbio non è se fosse quello il soggetto su cui puntare. Lo era. Ma è accaduto qualcosa di, appunto, imprevisto. La classe operaia, facendosi movimento operaio, ha scelto la politica, e cioè, prima un tempo medio, poi, con un’accelerazione imposta dalle cose, addirittura un tempo breve. Il tempo lungo della storia, con la sua implacabile potenza, ha steso il suo braccio e l’ha abbattuta. Come ogni rivoluzionario, al modo del matematico Galois, morto giovanissimo in un duello subíto più che voluto, Lenin aveva capito che «non aveva tempo». Secondo: forse la classe operaia non aveva bisogno di un Marx, ma di un altro Hegel. Marx giovane accennava a questo. O forse aveva bisogno di quel Gesù di Hegel, che dava una Parola alta alla voce di quelli che stanno in basso. Non butto via l’analisi scientifica – la critica dell’economia politica – quando essa serve, come in Marx, a dare armi al proletariato in lotta. Ma accanto, ci voleva una visione profetica, non tanto sul dopo, e sull’oltre, del capitalismo, quanto sul suo proprio destino, che non era di crollo catastrofico ma di sviluppo disumano, non di proletarizzazione ma di imborghesimento, non di miseria crescente ma di benessere alienante, di libertà assoluta per i pochi e di servitù democratica per i molti.

Qui, tutte le nostre insufficienze e inadeguatezze e incapacità a capire e ad agire, i limiti invalicabili di un percorso intellettuale come quello descritto. Non abbiamo dato quanto era necessario. E con la mia parte mi sento ancora in debito. Le ragioni sono per gran parte in noi. Ma fuori di noi, è vero che c’è stato il «tempo della povertà», intellettuale, morale, esistenziale. È sopraggiunta alla fine quella che il genio alto-borghese di Goethe vedeva nel lontano orizzonte del suo mondo, «l’epoca della facilità e della volgarità». Oggi la viviamo nel suo pieno luccicante svolgimento. Ma, alti e bassi, apparenti cadute e finte uscite, ci ha accompagnato dall’esordio e fin qui. La grande storia è stata sempre tutta alle nostre spalle, già tramontata. Pensare politicamente è stato il gesto di tirarsi su per i capelli come il barone di Münchhausen. Strappare grandi pensieri a un’epoca minore è più che una vana fatica di Sisifo. Abbiamo cercato, con Camus, di immaginare «Sisifo felice». E, ridendo dell’epoca e di noi stessi, non ci siamo così immalinconiti. Ma il paradosso che brucia ancora nella carne dell’anima dice così: che questo era un pensiero per lo stato d’eccezione, e invece ci è toccato di vivere il processo della normalizzazione. Quel qualcosa che non ha funzionato, va cercato nei dintorni del problema così formulato.

Oggi accade un’altra cosa. L’accadimento, nella vita del pensiero, va accettato con un disponibile segno di ospitalità interiore. Più avanza la normalità ordinante del mondo, più si esaspera l’eccezionalità, l’eccedenza, del pensiero. Questa singolare vicenda intellettuale sembra a questo punto approdare, non so più se provvisoriamente, a una irreconciliabilità del pensiero con il mondo. Più ci penso e più mi convinco che solo nell’età geopolitica delle guerre civili e mondiali era possibile il compromesso sociale e istituzionale socialdemocratico. Più guardo e più vedo che quest’ultimo capitalismo, così come è accaduto per l’ultimo socialismo, risulta irriformabile. Il secondo Novecento ha operato una svolta sottile e profonda nella gestione della storia in atto. Anche qui, devo dire che solo la rivoluzione femminile ne ha colto la portata, al punto da rideclinarla, così come si deve fare, a proprio favore. Su altri fronti nulla si è compreso e quindi a tutto ci si è adattati. C’è stata di fatto, silenziosa, non fragorosa, la fine della Versöhnung: non la morte della filosofia, tanto meno la fine della storia, ma l’estinguersi della dialettica come metodo della ragione conciliativa. Sintesi degli opposti non si dà più. Non si capisce che la figura della «grande guerra» era proprio la forma di questa sintesi. Le guerre locali di oggi sono contraddizioni interne al Sovrano. No, il confronto ideologico non ha lasciato il posto a uno scontro di civiltà, ma solo a un regolamento di conti dentro il campo dei vincitori. Lo jus publicum europaeum – al contrario di quanto pensava Schmitt – era stato restaurato, dopo le due grandi guerre, e aveva funzionato per tutto il tempo della divisione del mondo in due blocchi di potenza: la «guerre» tra capitalismo e socialismo è stata tenuta «en forme». È caduto di nuovo dopo, con la riunificazione del globo sotto un solo potere assoluto, che ha ancora bisogno dello justum bellum e non ha più bisogno di Nomos della terra.

Comunque, mi interessa dire qui soprattutto un’altra cosa. Quel superamento della sintesi, quell’operazione di distruzione della ragione conciliativa aveva dietro una tradizione teologico-politica che, dall’interno del movimento operaio, abbiamo avuto la colpa di frequentare troppo poco. Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, e di qui tutto il Novecento della crisi, sono patrimonio di tutte le forze che confliggono con il «ciò che è» nella struttura attuale del mondo. Il marxismo di stampo storicistico ha scontato una colpa ben più grande, quella di iscriversi nella forma di un agire conciliante, che pure non ha portato ad alcuna trasformazione soggettiva delle cose. Questa piega del discorso mi permette di arrivare a porre il problema vero. Come è irreconciliabile il conflitto, così è inconciliabile il pensiero con il fare. Qui, ho riflettuto a lungo: sul perché di questa immane difficoltà, di questa letterale impossibilità del pensiero, politico, a farsi storia, del pensare la politica a farsi azione concreta. Non è un errore, solo non serve a niente considerarlo come problema eterno. Conviene metterlo nella contingenza della storia. Il problema lo abbiamo sperimentato, negli anni, nei decenni, come «pensiero vissuto». E chi sa leggere lo ritrova, espresso, nel corpo della scrittura. Sta tutto qui dentro il «cercare politico».

Il fatto, questo sì dalla testa dura, con cui dobbiamo fare i conti, è che il Novecento, tutto, ha nichilisticamente decostruito qualsiasi forma di filosofia della prassi. Qui il fondo originario della crisi del marxismo militante, del movimento operaio pensante e, con loro, della politica moderna. Crisi complessiva, che ci impegna a un compito impossibile: una ricostruzione dei fondamenti. Centrale la direzione di ricerca di una nuova antropologia: il grande vuoto teorico che c’è nella tradizione della Kultur operaia. Residuo non assimilato, e non assimilabile, dalla storia del moderno, che di questo aveva detto e su questo si era fondato, dagli economisti del mercato ai politici dello Stato, e poi, con concezioni diverse e diverse soluzioni, dai liberalismi ai totalitarismi. La stessa critica della democrazia politica va oggi fondata su una critica dell’idea e della pratica di uomo che essa presuppone. Qui, ancora una volta, ha detto di più, molto di più, la ricerca femminile, che di questo problema si è fatta carico e che questo vuoto ha, in parte, solo in parte, fin qui riempito. Il pensiero della differenza è il solo che è intervenuto nella crisi della politica con categorie sostitutive. Mi pare si possa dire che, per quanto riguarda la critica dell’ideologia borghese dominante, se c’è stato un processo di decostruzione maschile, c’è in atto, anche se con esiti incerti, un lavoro di costruzione femminile. Occorre insieme riflettere sul che cosa vogliamo che ne consegua. I miei problemi stanno lì, stretti fra tradizione e rivoluzione: ma stretti, ecco la novità, con legami nuovi, con obbligazioni inedite e in condizioni di non voluta minorità. Quale posto per la libertà della decisione politica dentro la gabbia d’acciaio dell’«eterno ritorno»? Come si può decidere la rottura della storia se il sempre eguale è destinato a tornare? Che fare della politica dentro una concezione non progressiva della storia? Accelerare, contenere, ritardare? Opporsi con la forza, all’occidentale, per respingere quello che non accetti? O all’orientale, cedere per far cadere chi ti è contro sul suo stesso empito? Mi guardo indietro e vedo nella fase dell’operaismo forse un di più di «eschaton», corretto nella fase dell’autonomia del politico con un di più di «katechon». Ma conosco l’incomunicabilità della cifra di questi discorsi, e lascio qui la cosa. Oggi sento, in parte subisco, senza fare granché per scansarla, la tentazione, che riconosco maschile, di un esito apocalittico. Non paura ma speranza dell’Apocalisse. Mi conforta una linea di amicizia, personale o intellettuale, con anomali personaggi scomparsi, Sergio Quinzio, Jacob Taubes. Mi piace parafrasare una frase di quest’ultimo: chi crede di pensare politicamente facendo a meno del senso della fine, è debole di mente. Confesso che, a questo punto, di fronte all’attuale andamento del mondo, mi interessa più la profezia della fine che l’utopia di un inizio. Piuttosto che essere nevroticamente precursori, si può scegliere di essere serenamente epigoni. È stato già detto, ed è stata anche questa una mossa vincente del destino contro la scelta di essere totus politicus: non Prometeo ma Epimeteo. Non importa: sta bene così.

È ora di chiudere un discorso, che potrebbe continuare a vagabondare all’infinito, al modo del flâneur benjaminiano. Del resto, l’amato Benjamin diceva, più o meno, che perdersi in una città è un’arte. Lo è anche il perdersi nella polis, nella res publica, nello Staat, nel Partei. Lo abbiamo abbondantemente fatto, per tutta la nostra vita. In finale, non voglio dire: ho un sogno. Perché la frase non mi piace. Non per chi l’ha detta, ma per chi l’ha ripetuta. Piuttosto: ho un desiderio. Desiderio è parola più bella che sogno. Ecco, vorrei non diventare un vecchio saggio. La saggezza senile è come la moderazione giovanile: una cosa odiosa. Se, dopo averne viste tante, e averne pensate tante, si finisce per diventare, buoni, giusti, equanimi, e tolleranti e ragionevoli, e giù con la fanfara dei buoni sentimenti, cioè se si finisce per diventare benpensanti, francamente mi cade il sorriso e mi sale la tristezza. Nei trent’anni di lavoro, da emigrante in terra straniera, che ho passato nell’istituzione universitaria, mi ha confortato il dialogo quotidiano con le generazioni successive di ragazze e ragazzi. C’era un filo che legava lo scambio di esperienze, di saperi, di sentimenti, di ragionamenti. Mai proclamato, piuttosto argomentato, a volte con «l’assalto al cielo» proprio del pensare, a volte con la «dissimulazione onesta» propria dell’agire. Mi piace di leggere così quello spazio di «pensiero accorto», regno della libertà spirituale, cui anelava Warburg, secondo quanto ci dice Cassirer. Il filo diceva: «ribellarsi è giusto». Ho sempre raccomandato di tessere questo filo sottilmente, cioè realisticamente, nutrendolo di abilità oltre che di forza. Perché non bisogna mai lasciarsi sconfiggere una volta per tutte. Si può essere generosi alla sola condizione di non essere ingenui. Ribellarsi è giusto: ma bisogna farlo bene, saperlo fare bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita. E dunque: armati di memoria, padroni del passato, dominatori del presente e... disincantati sull’avvenire.

Chiudo con un incipit: l’inizio, del, non so se il più grande, certo il più bello, per me, tra i libri del Novecento, L’uomo senza qualità. È il paragrafo primo «Dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla». Musil racconta: sull’Atlantico c’era un minimo barometrico, il massimo era sulla Russia, le isoterme e le isòtere si intrecciavano, la temperatura era nella media annua, il vapore acqueo nell’aria era alto, ma l’umidità scarsa. Insomma, «era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913»[22]. E dunque, dopo questo discorso accidentato, dopo questo discorso complicato, in questa bella giornata d’inverno di inizio millennio, insomma, care compagne e cari compagni, care sorelle e cari fratelli, faccio scorrere una scena da quel miracolo simbolico novecentesco che è il cinema. C’era una volta in America: Robert De Niro ritorna sui luoghi della propria infanzia/giovinezza, dopo un lungo esilio; ritrova un amico, solo e fedele, parlano, si ascoltano in un bar deserto. Quando sta per uscire da una porta, l’amico gli rivolge la domanda: che hai fatto in tutti questi anni? De Niro si volta, con la sua splendida faccia scavata dall’ironia della sconfitta: sono andato a letto presto. Ecco la scena. Voi che mi richiamate al dunque: Mario, che farai nei prossimi anni? Io che mi volto e: ... andrò a letto presto.


Note
[1] La politica come destino, scritti di Karl Löwith, Salvatore Valitutti, Bulzoni editore, Roma s.a.
[2] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti teologici giovanili, Guida Editori, Napoli 1972, pp. 442-443.
[3] Vedi in Cesare Luporini, Filosofi vecchi e nuovi, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 57-116, testo e commento e p. 59.
[4] Platone, Timeo, XXXII, 71-72.
[5] Friedrich Hölderlin, Le liriche, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977.
[6] Id., Poesie, a cura di Giorgio Virgolo, Einaudi, Torino 1958.
[7] María Zambrano, Delirio e destino, Cortina, Milano 2000, p. 27.
[8] Baltasar Graciàn, Il politico don Ferdinando il cattolico, Bibliopolis, Napoli 2003, p. 47.
[9] Aby Warburg ed Ernst Cassirer, Il mondo di ieri. Lettere, Aragno, Torino 2002, p. 189.
[10] Cesare Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Le Monnier, Firenze 1942.
[11] Id., Filosofi, cit., pp. 100, 99.
[12] Simone Weil, L’ombra e la grazia, trad. it. di Franco Fortini, Rusconi, Milano 1985, pp. 177-178.
[13] Hegel, Scritti, cit., p. 445.
[14] Martin Heidegger, Essere e tempo, § 74, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 460.
[15] Ibidem, p. 462.
[16] Id., Brief über den Humanismus, in id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 283-284.
[17] M. Adam, Le Penseur, Gil Blas, 7 luglio 1904, cit. da Claudie Judrin, Dante e Rodin, in Rodin e l’Italia, Catalogo mostra, Edizioni De Luca, 2001, p. 89.
[18] Vedi Rodin e l’Italia, cit., pp. 44-45.
[19] Bertolt Brecht, Osservazioni sul dramma «La madre», in Id., Teatro, vol. I, Einaudi, Torino 1960, pp. 402, 403.
[20] Friedrich Hölderlin, Le liriche, cit., pp. 406, 407.
[21] Quirino Principe, Mahler. La musica tra Eros e Thanatos, Bompiani, Milano 2002, p. 871.
[22] Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957, vol. I, p. 9.

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