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L’unità della sinistra negli anni '90 e i problemi strategici dei comunisti oggi
di Luca Colamini
Uno dei traumi originari e dei fattori di crisi del movimento comunista italiano degli ultimi decenni è senza dubbio la partecipazione ai governi del centrosinistra. La travagliata esperienza e i risultati deludenti di quella fase hanno rappresentato un elemento decisivo nella progressiva erosione della base di consenso dei comunisti, e uno dei punti – se non il punto – di radicali divergenze strategiche e conseguenti scissioni.
Tracciare un bilancio di quegli anni e del decennio successivo è un’operazione complessa, che non può essere esaurita da un singolo intervento e richiede al contrario un lavoro di comprensione collettiva, necessario affinché coloro che sono impegnati nella riedificazione del movimento comunista in Italia siano partecipi di una ricostruzione condivisa della storia e delle alternative in campo – le quali, si vedrà, rappresentano ancora oggi opzioni tattiche e strategiche che esercitano una seduzione sull’area comunista. Per determinare una via diversa, di non facile individuazione e di impervia percorribilità, occorre necessariamente passare attraverso una conoscenza esatta delle vie dalle quali ci si vuole distanziare.
Si deve soprattutto evitare che nuove generazioni di comunisti familiarizzino con la teoria e la prassi comunista attraverso schemi ossificati – di destra, di sinistra, di centro – che hanno già clamorosamente fallito e sono corresponsabili della condizione di massimo arretramento storico in cui versa il movimento comunista italiano.
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It’s the capitalism, stupid!
di Maurizio Lazzarato
«L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace
Il capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.
Il blocco totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari, il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti (ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.
Non vi contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.
La crisi del capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine degli anni Settanta.
Crisi che è diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.
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Huntington, le guerre di faglia
di Salvatore Bravo
Globalizzazione e mito
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dal perenne giubilo per la globalizzazione, la si presentava come il farmaco1 che avrebbe dovuto curare la conflittualità tra i popoli liberi di sciamare da un orizzonte ad all’altro del globo. Si sarebbero conosciuti e dunque ogni pregiudizio sarebbe caduto in nome della fratellanza ritrovata. Tutti uguali, tutti vicini e senza frontiere. Lo spazio ed il tempo si sarebbero disintegrati dinanzi alla velocità dei mezzi di trasporto e dei voli a basso costo che avrebbe trasportato le folle liberate dagli angusti spazi delle nazioni in ogni luogo. Le pubblicità osannavano la vicinanza ritrovata vestendo bimbi di diverse etnie nello stesso modo, le differenze, fardello contro il progresso dei popoli in marcia sarebbero state trascese in nome di una uguaglianza imprecisa, nebulosa a livello concettuale, ma molto spendibile a livello di immagine. Uguaglianza epidermica, poiché eliminate le differenze, non restavano che i corpi da soddisfare nello stesso modo. Dietro la commedia della globalizzazione che si concretizza nell’intercultura, nell’Erasmus, nel globo pronto all’uso della finanza, nel mercato del lavoro per cittadini sempre più precari invitati a cogliere le opportunità mondiali in un corale delirio di onnipotenza, non vi è che conflittualità. L’interconnessione ha aumentato in modo esponenziale i conflitti. La pace a cui inchinarsi ha il volto dei lavoratori sradicati dalla loro patria, dalla loro cultura, dai loro affetti. La loro lingua è ora l’inglese nuovo passaporto per la precarietà mondiale ed imperitura. La torre di Babele della globalizzazione si curva pericolosamente, e dalle sue “faglie” è possibile scorgere la verità che un numero incalcolabile di immagini hanno cercato di occultare.
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L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus
di Andrea Zhok
Un recente articolo dell’Economist (“A Grim Calculus” 02/04/2020) ha sollevato una questione cruciale, questione che circola in forma inesplicita in numerose discussioni politiche in epoca di Covid-19. La domanda che muove l’articolo è sostanzialmente la seguente: “Per quanto tempo saremo in grado di considerare la vita di ogni singolo essere umano, di qualunque età e condizione fisica, al di sopra di ogni considerazione economica?” Possiamo permetterci l’atteggiamento morale di “non dare un prezzo ad una vita?” Dopo tutto “ogni scelta ha un costo” e “il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici”.
Gli interrogativi esplicitati dall’Economist sono con noi dall’inizio della crisi. Li abbiamo visti incarnati nelle prese di posizione iniziali di diversi paesi (Usa, UK, Olanda, Svezia) e li continuiamo a sentire come minoranza rumorosa nelle discussioni sui social media.
La forma dell’argomento dell’Economist è caratteristica, e merita un’attenta riflessione. Essa contrappone due tesi, che appartengono a due grandi tradizioni della filosofia morale. Da un lato abbiamo la tesi di origine kantiana per cui nel mondo si devono distinguere le cose che hanno un prezzo da quelle che hanno una dignità. Gli esseri umani, in quanto dotati di ragione hanno una dignità, non un prezzo: essi appartengono per Kant ad una dimensione a sé stante, il cui valore non può essere espresso in maniera comparativa. Gli esseri umani sarebbero ‘fini in sé’ e non dovrebbero essere mai considerati mezzi per fini ulteriori. Questo sottrarrebbe la dignità umana ad ogni considerazione in termini di costi-benefici.
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Lo sviluppo capitalistico e la diffusione delle epidemie
di Militant
Da qualche giorno è online l’Ordine Nuovo, una nuova rivista comunista a cui collaboriamo e che nasce con l’ambizione di rappresentare uno strumento di formazione, di dibattito e di radicamento nella classe. Invitando chi ci segue a farla girare e, soprattutto, a leggerla e discuterla, pubblichiamo di seguito il nostro contributo al primo “numero”
Nel giro di alcune settimane un patogeno microscopico ha messo in crisi le lunghe catene del valore dell’economia capitalista. Un microrganismo che la scienza fatica perfino a classificare tra gli esseri viventi si è così trasformato nel fatidico granello di sabbia capace di inceppare i meccanismi della globalizzazione, riuscendo a rallentare o, in alcuni casi, addirittura a fermare la produzione. In questo momento milioni di salariati sono confinati nell’isolamento, mentre ad altri viene imposto, nonostante il rischio di contagio, di andare a lavorare e sacrificarsi in nome del profitto. Una pandemia che sta progressivamente investendo tutti i paesi del mondo, a partire da quelli a capitalismo avanzato, ma in cui anche la capacità di risposta della sanità pubblica e la tenuta dei rispettivi sistemi di welfare si stanno trasformando in fattori decisivi nella competizione inter-imperialistica.
Sarebbe però riduttivo provare a interpretare quanto sta avvenendo esclusivamente attraverso la lente della crisi sanitaria o, al più, della incipiente crisi economica. E non perché questi aspetti non siano entrambi drammaticamente reali, ma perché così rischieremmo di non cogliere alcuni delle contraddizioni sistemiche che proprio l’epidemia sta facendo emergere.
Partiamo ponendoci una prima domanda: questa pandemia, così come le altre epidemie che pure l’hanno preceduta, era davvero imprevedibile? Si è trattato realmente di un evento “straordinario”? Il sistema informativo mainstream e le classi dirigenti continuano a raccontarla come una sorta di “calamità imponderabile”, uno di quei disastri naturali che, al pari dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche o dei meteoriti, rimangono inevitabili per quanto ci si possa poi adoperare per minimizzarne le conseguenze.
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Economie di guerra e conflitti post-pandemici
di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Il martellante richiamo alla guerra utilizzato per descrivere gli effetti dell’emergenza sanitaria sembra segnalare un mutamento all’interno del dibattito economico mainstream. Dentro questo interregno, le lotte in corso e quelle a venire potrebbero giocare un ruolo decisivo
Nel pieno dell’emergenza Covid niente sembra essere più pervasivo del richiamo alla guerra. La retorica bellica accomuna economisti e leader politici di differenti orientamenti: è addirittura arduo trovare qualcuno che non l’abbia almeno implicitamente evocata, prima per presentare le misure di distanziamento sociale e successivamente per preparare le popolazioni alle amare conseguenze della recessione economica che queste stanno già innescando. Per rendere conto della vastità e della profondità della situazione emergenziale presente e futura, è indubbio che le due guerre mondiali costituiscano gli unici “fatti totali” che è possibile reperire nel serbatoio della memoria collettiva. Bisognerà vagliare con attenzione le implicazioni di questo riferimento continuo e martellante alla guerra da parte di chi muove le leve del potere economico e politico: a prima vista, l’impressione è che serva a modellare le aspettative sociali verso un orizzonte segnato da una pesantissima compressione dei livelli di vita, da una rarefazione delle risorse e da una militarizzazione dello spazio sociale. Inoltre, la metafora bellica – specie se riferita a un “nemico invisibile” – spinge a rappresentare il corpo sociale come un qualcosa di omogeneo e indifferente alle sue interne striature.
Ma c’è forse qualcosa di più. La mobilitazione dell’immaginario della guerra sembra voler rompere con quel senso di familiarità a cui ci aveva abituato, per più di dieci anni, la parola “crisi”: e questo perché quella che stiamo vivendo non segue semplicemente quelle precedenti, ma si innesta su di esse, radicalizzandole e facendole mutare di natura. La crisi come forma di regolazione permanente della società che differisce all’infinito il momento della sua risoluzione, lascia ora il campo all’immaginario della catastrofe: il dischiudersi di una percezione collettiva legata alla minaccia della sopravvivenza delle comunità, non la temporanea interruzione nella continuità di un sistema, ma la sua stessa riproducibilità e sostenibilità globale.
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Come si vede il mondo1
di Eros Barone
Il rapporto fra astrazione e realtà in alcune correnti filosofico-scientifiche dell’età contemporanea
«...all’analisi delle forme economiche non possono servire – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione.»
K. Marx, Prefazione al I libro del Capitale.
«Veritas est adaequatio rei et intellectus» 2
S. Tommaso d’Aquino, De veritate.
1. L’importanza dell’astrazionee il modo corretto di concepirla
Nella storia della cultura l’astrazione è stata spesso svalutata quale ‘nome’ o ‘fantasma’, come se coincidesse con l’astrattezza e come se astrarre significasse di per sé isolarsi dal mondo. In realtà, l’astrarre è, in quanto negazione delle determinazioni del particolare, un processo che genera la categoria: in quanto tale, è per Hegel «l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare». 3 Quindi, il concetto è, quale espressione dell’astratto, il frutto specifico del pensiero, che condensa nell’universale i tratti salienti di un enorme numero di concreti. Come suggerisce il riferimento a Hegel, nella storia della filosofia è necessario distinguere due fondamentali concezioni dell’astrazione: una come nome e l’altra come essenza. Sennonché, sia che si tratti della corrente filosofica del nominalismo sia che si tratti della corrente del realismo, sarebbe improprio un rinvio esclusivo alla medievale “disputa sugli universali”, poiché ciò che qui conta è il concepire l’astratto come fondativo, oppure no, della comprensione reale del concreto.
Di conseguenza, sul versante nominalista si situano gli indirizzi di pensiero che negano la conoscibilità reale del mondo, dei suoi processi e dei suoi eventi, svuotando le astrazioni, cioè i concetti, le categorie e le leggi, del loro effettivo contenuto, giacché questi indirizzi ritengono che vi sia una barriera gnoseologica invalicabile tra la conoscenza e la realtà, fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica.
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Scenari della “grande frattura”
di Andrea Zhok
Assistere ad un evento di portata storica, sapendo che è tale, è un privilegio raro. Spesso gli eventi storici si celano sotto spoglie oscure e solo a posteriori si scopre che una soglia decisiva è stata passata. Nel caso dell’epidemia di Covid-19 possiamo dire con ragionevole certezza che si tratta di una soglia storica decisiva, che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi.
Il privilegio di questa nostra posizione è che di principio potremmo esercitare qualche influenza sul percorso: oggi si fa la storia.
Nell’analisi storica, anche della storia corrente, previsioni e profezie sono roba da scommettitori, ma ciò che si può esaminare razionalmente sono le tendenze di fondo. E dunque, quali tendenze possiamo rintracciare negli eventi cui stiamo assistendo?
1) Il mondo di ieri
L’irruzione dell’epidemia sul palcoscenico mondiale ha creato le condizioni per una planetaria rottura dell’inerzia, un brusco risveglio. Le coscienze occidentali hanno vissuto nell’ultimo mezzo secolo in una dimensione di artificio crescente, con l’opprimente impressione di abitare un vortice in perenne accelerazione e senza via d’uscita. Il processo noto come “globalizzazione” (o più correttamente, “seconda globalizzazione”, dopo quella che precede la prima guerra mondiale) è stato presentato con i caratteri di un ‘destino ineluttabile’. È stato così presentato costantemente e ricorrentemente dall’intellighentsia progressista, liberale, neoliberale, ma anche dalla maggior parte dei sedicenti ‘conservatori’.
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L’umanità tra paura, stupidità e follia
di Michele Castaldo
Chi si occupa di questioni sociali dovrebbe essere sempre grato a chi esplicita con chiarezza le proprie intenzioni e la prospettiva per la quale lavora senza nasconderla in una foresta di chiacchiere; altrimenti detto: andare al cuore del problema e farsi intendere da tutti. Bisogna però ammettere che in una fase come quella attuale è molto complicato riuscire a rintracciare linee di tendenza chiare, perché molti “professoroni“ sono in preda al panico; per non parlare degli uomini di Stato che sbandano paurosamente come l’ubriaco che fa ritorno a casa barcollando a zig zag. Cerchiamo perciò, senza ululare alla luna, di rimanere lucidi nel tentativo innanzitutto di capire cosa abbiamo di fronte, di riuscire a rintracciare linee oggettive e soggettive per cercare poi di delineare un punto di vista in questo inizio di caos generale, perché non siamo ancora arrivati in fondo all’abisso.
Prendiamo in esame come campionatura della “classe” borghese, cioè della classe al “potere” dell’attuale modo di produzione.
A fine febbraio un nome altisonante come Carlo Rovelli, un fisico, dunque uno scienziato, sul Corriere della sera scriveva: «Il valore del Green Deal europeo è centrato sull’idea di trasformare la sfida ambientale in opportunità anche economica. Non è presentato come limite alla crescita ma come una nuova strategia di crescita». Eravamo allora prime notizie che giungevano da Wuhan e l’emerito scienziato si avventurava in una nuova proposta per una nuova crescita dell’economia.
Dopo poco più di un mese lo stesso scienziato pubblica sempre sul Corriere della sera (del 2 aprile) un articolo al cui cospetto l’urlo di Munch ci fa la figura dell’oca giuliva.
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Pechino, il virus e lo sviluppo di internet
di Vincenzo Comito
La Cina si sta riprendendo dall’epidemia. La Banca Mondiale ne prevede una crescita nel 2020 del 2,3%. Negli Usa e a Londra c’è chi chiede il suo soccorso all’economia mondiale. Pechino punta sull’Europa e lancia un nuovo standard per le tecnologie dell’informazione
Da quando è scoppiata l’epidemia del coronavirus, la Cina è stata costantemente sotto i riflettori del resto del mondo e pensiamo che lo resterà ancora a lungo, anche se le ragioni di tale interesse per il paese asiatico sono cambiate nel tempo e dovrebbero cambiare ancora.
La direzione dell’attenzione cambia nel tempo
L’arrivo dell’epidemia nel paese asiatico è stata dapprima osservata con un certo distacco, come un affare lontano, solo con un poco di timore, semmai con scoppi qua e là di razzismo e di dicerie assurde (“i cinesi mangiano i topi vivi”; “quelli che in Cina non rispettano le regole vengono fucilati sul posto”). Successivamente, invece, il paese è stato guardato sempre più con rispetto e meraviglia, prima per come è riuscito a costruire degli ospedali dal nulla a tempo di record, poi soprattutto per la sua abilità nel domare pressoché totalmente il morbo, almeno sino a questo momento.
Questo anche se i commenti, sui media occidentali, si sono concentrati contemporaneamente sul come trovare i punti deboli, veri o presunti, di tutta la faccenda; si è così sottolineato il forte ritardo del paese nell’attaccare il problema, si è suggerito che i dati ufficiali non erano veritieri, si è persino parlato, su testate molto autorevoli, di uno stato di quasi rivolta della popolazione contro il governo, con possibilità di rovesciamento del “regime”.
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Emergenza coronavirus e crisi economica: come uscirne
Ai cittadini italiani
di Comitato Direttivo del FSI-Riconquistare l'Italia
1. Sulla necessità di un dibattito sul fine, sui mezzi e sugli scenari ipotizzabili
Cari giornalisti e cari direttori delle testate di informazione nazionali, che ci auguriamo vogliate apprezzare queste riflessioni e soprattutto i dubbi e gli interrogativi che esse intendono sollevare;
cari direttori delle testate di informazione online diffuse nelle contrade italiane, che speriamo darete spazio a questo nostro studio;
cari stimati intellettuali, che speriamo apprezzerete queste riflessioni, eventualmente dando ad esse qualche risalto;
soprattutto cari cittadini, che apprezzerete, condividerete e diffonderete il documento;
un evento straordinario ed imprevedibile si è abbattuto sull’Italia e si sta abbattendo sul mondo: la diffusione di un virus che si è rivelato per ora – e sottolineiamo per ora – a moderata letalità (numero di morti sul totale degli infettati) e a scarsa morbilità (numero di malati seri sul numero degli infettati).
Tuttavia, a causa dell’alta percentuale di soggetti infettati ma asintomatici o estremamente paucisintomatici, nonché a causa del non breve periodo di incubazione, il virus è ad alta contagiosità e, se lasciato liberamente circolare, da un lato provocherebbe un alto numero di morti in termini assoluti tra i cittadini più deboli – anziani con alcune gravi patologie croniche e soggetti immunodepressi per ragioni varie -, dall’altro farebbe collassare i Sistemi Sanitari Nazionali, provocando la morte anche delle persone altrimenti curabili.
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Il controllo al tempo della paura. Cronache del crollo
di Alessandro Visalli
L’età moderna nasce dalla paura, c’è paura sempre ed ovunque[1]. È questa la enorme forza dalla quale scaturisce la soluzione liberale del “male minore”[2]. E dalla quale scaturisce l’affidamento al sistema della tecnoscienza, la cui prima e più essenziale incarnazione è il sanitario.
Dal clima di paura del XVI secolo scaturisce anche la ragione d’essere dello Stato nazionale, che esiste e pretende di avere il monopolio della forza in quanto e per quanto protegge dalle minacce che turbano l’esistenza delle persone. Dei sudditi, in una prima fase, dei cittadini, dopo. Viceversa, la scomparsa della centralità dello Stato, o la narrazione di tale scomparsa (dato che questo al massimo si ritira lontano dallo sguardo e dalle mani dei cittadini, divenuti troppo esigenti, da retrocedere per questa via a sudditi[3]) fa venire meno questa promessa.
Si tratta di una minaccia esistenziale quindi, per l’ordine sociale e per la vita organizzata. Una minaccia per qualunque ordine sociale, sia esso capitalista o no, occidentale o orientale, del nord e del sud. Per riferirsi ad un esempio storico, anche durante i processi di state-building del periodo della decolonizzazione (1945-75) è attraverso l’estensione di servizi sanitari che è stata spesso cementata la proposta di legittimazione del nuovo stato. Nell'attuale crisi mondiale derivante dalla pandemia da SARS-CoV-2 accade qualcosa di simile. Non è un caso che tutti i paesi del mondo, in pratica, abbiano avuto, con maggiore o minore reattività, lo stesso ciclo di risposta: scoperta-minimizzazione-attesa-allarme-misure di lock down. La ragione è che la vera minaccia non è solo alla vita di migliaia di cittadini, quanto alla funzione stessa dello stato di proteggerli.
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La lotta di classe dietro la pandemia
di Luca De Crescenzo
Diversi esperti e Istituzioni sanitarie avevano previsto il rischio in cui siamo finiti. La realtà che stiamo vivendo non è allora un disastro naturale ma è frutto di precisi interessi di produzione e di governi che ne scaricano i rischi su chi lavora
L'Organizzazione Mondiale della Sanità l’aveva definita «inevitabile». Bill Gates, in una conferenza ora divenuta celebre, «il più grande rischio di catastrofe globale». Libri come Spillover di David Quamenn o Pandemics di Sonia Shah avevano documentato questo rischio approfonditamente. L’emergere di una pandemia globale dovuta a un «virus aereo simil-influenzale» (come recitava il documento dell’Oms) non stupisce quindi gli addetti ai lavori. Eppure ha colto impreparati quasi tutti i governi.
Il New York Times ha da poco pubblicato un reportage su una simulazione avvenuta a Novembre dell’anno scorso presso il Dipartimento della Salute statunitense. Lo scenario, chiamato «Crimson contagion», ipotizzava l’emergere di un virus respiratorio nato in Cina capace di diffondersi presto in giro per il mondo e ne misurava il probabile impatto in suolo americano. Il risultato catastrofico – 110 milioni di infetti e più di mezzo milione di morti – mostrava quanto «sottofinanziato, impreparato e scoordinato sarebbe il governo federale in una battaglia di vita o di morte contro un virus per cui non c’è un farmaco».
Non solo quindi avremmo dovuto sapere che una pandemia sarebbe emersa, ma anche che non eravamo preparati ad affrontarla. Lo scopriamo adesso guardando quanto sta avvenendo proprio nel paese più ricco del mondo, oggi al primo posto anche per numero di contagi dopo le minimizzazioni di Trump, gli errori clamorosi nello sviluppo di un proprio test dopo aver rifiutato quello predisposto dall’Oms, la mancanza di controllo centralizzato delle risorse con rincorsa dei diversi Stati per accaparrarsene, i costi esorbitanti di diagnosi e trattamenti (solo ora parzialmente corretti) che impediscono l’accesso alle cure, le protezioni sociali pressoché inesistenti per milioni di lavoratori che li costringono a lavorare anche se malati.
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Sull’epidemia delle emergenze/ Fase 5: i movimenti sociali al tempo della quarantena
di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso
“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)
“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)
Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).
Abbiamo proceduto ad analizzare, allora, come questa crisi metta in discussione e demolisca molti degli assunti e delle posizioni consolidate fino a ieri; una catastrofe che non ha risparmiato alcuno spazio dell’agire umano e politico: dalle relazioni internazionali, al controllo sociale, alle relazioni, alla geopolitica, alla guerra o all’accumulazione di capitale. Tutto viene tritato a grande velocità e tutto, altrettanto velocemente, si rinnova buttando via ciò che è obsoleto.
Crediamo che i movimenti sociali non siano estranei a questo processo e che, certamente, non possano esserlo (chi ne rimane al di fuori, d’altronde, è più cera da museo che essere vivente). È all’analisi di questo altro elemento che vorremmo concentrarci adesso.
Nell’ultima settimana abbiamo assistito ad un rapidissimo espandersi del contagio a livello europeo e internazionale, con una forte accelerazione di processi geopolitici ed economici che sembravano premere ormai da un po’(qui).
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Piccolo Manifesto in tempi di pandemia
di M. Benasayag, B. Cany, A. Del Rey, T. Cohen, R. Padovano, M. Nicotra
Il Collettivo Malgré Tout (“Malgrado tutto”, Francia: Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angélique Del Rey, Teodoro Cohen; Italia: Roberta Padovano, Mary Nicotra) propone questo breve Manifesto composto da quattro punti, quattro spunti di riflessione e ipotesi pratiche da condividere con chi fosse interessata/o. Speriamo sia un contributo utile per pensare e agire all’interno dell’oscurità della complessità
1. Il ritorno dei corpi
Negli ultimi quarant’anni almeno, siamo stati testimoni del trionfo e del dominio incontrastato del sistema neo-liberista in ogni angolo del pianeta. Tra le diverse tendenze che attraversano questo tipo di sistema, una in particolare sembra costituire la forma mentis dell’epoca. Si tratta della tendenza a considerare i corpi come il rumore di fondo che disturba la “recita” del potere, poiché i corpi reali, sempre troppo “pesanti” e troppo opachi, desideranti e viventi sfuggono alle logiche lineari di previsione. Da sempre l’obiettivo perseguito dalle pratiche e dalle politiche proprie del neoliberismo consiste nel deterritorializzare i corpi, virtualizzarli, facendone una materia prima manipolabile, un “capitale umano” da utilizzare a proprio piacimento nei circuiti del mercato. Si richiede che i corpi siano disciplinati, dislocabili senza criterio, flessibili, pronti ad adattarsi (leitmotiv del nostro tempo) alle necessità determinate dalla struttura macro-economica. Nella loro astrazione estrema, i corpi dei migranti senza documenti, dei disoccupati, i corpi non conformi, i corpi annegati nel Mediterraneo o ammassati nei centri di detenzione, in breve, i corpi considerati in esubero diventano semplici numeri, senza valore, senza alcuna corporeità e quindi, in fine, senza umanità.
In ambito tecnico-scientifico questa tendenza si esprime nella formula del “tutto è possibile”, che non riconosce alcun limite biologico o culturale al desiderio patologico di deregolazione organica. E’ ormai una questione di aumentare i meccanismi del vivente, la possibilità di vivere mille anni, se non addirittura di diventare immortali!
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“Se pur c’era di questi untori”. Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari
di Luigi Cavallaro
Ciò che vien proposto con il nome di «paradigma immunitario», punto d’annodamento delle semantiche del diritto come della politica, della tecnologia come della medicina, altro non è che il vestimento ideologico dell'alienarsi della sovranità politica nel mercato concorrenziale: il quale ultimo concepisce il legame sociale soltanto nella forma di una indifferenza fra individui che poi rimangono soggiogati dall'interesse economico
Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende.
(Leonardo Sciascia, La strega e il capitano, 1986.)
In tempi di pandemia, conviene tornare ai classici. Alla Storia della colonna infame, precisamente, e più ancora a quel magnifico prologo che ne sono il XXXI e il XXXII capitolo dei Promessi Sposi. Perché se aveva ragione Sciascia, quasi cinquant’anni fa, a dolersi che la Storia manzoniana fosse rimasto «un piccolo grande libro tra i meno conosciuti della letteratura italiana»[1], è possibile (e diremmo anche probabile) che questo misconoscimento, che non abbiamo motivo di dubitare perduri, non sia casuale.
La Storia, senz’altro questo si saprà, narra del processo che fu intentato a Milano, durante la tremenda pestilenza del 1630, nei confronti di due presunti “untori”, accusati di aver diffuso la peste «con venefizi e malefizi» e, per ciò, incredibilmente condannati a morte atroce. La credenza che la diffusione delle epidemie si dovesse a malfattori che le spargevano ad arte tra le popolazioni è in effetti antica, ma si prolunga alla nostra modernità: lo stesso Sciascia, chiosando la Storia manzoniana, la attesta almeno fino alla pandemia di “spagnola”, che funestò particolarmente l’Europa alla fine del primo conflitto mondiale, e ne ascrive il periodico, virulento risorgere alla tendenza dei «cattivi governi» di far ricorso al «nemico esterno» quando si trovano ad affrontare situazioni che non sanno o non possono risolvere[2].
Ma più vicini che all’illuminista Sciascia noi ci sentiamo oggi al cattolico Manzoni: e Sciascia non ce ne vorrà se, per dirlo, abbiamo deliberatamente parafrasato parole sue[3].
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Tra emergenza e coronopticon. Tendenze e contraddizioni del capitalismo in crisi
G. Molinari e S. Cominu intervistano Christian Marazzi
La contingenza attuale è uno snodo importante della storia: mentre accelerano i processi di ristrutturazione, l’emergenza sanitaria fa emergere con forza le fragilità dell’impalcatura sui cui si basa il dominio capitalistico e lascerà impressi profondi segni nel tessuto sociale e nelle soggettività. Consci del fatto che probabilmente è prematuro delineare tendenze di lungo corso, abbiamo approfondito alcune questioni con Christian Marazzi.
Se in una prima fase dell’epidemia abbiamo visto fronteggiarsi due differenti modelli di gestione dell’emergenza sanitaria, successivamente tutti i paesi, stretti dalla necessità di contenere l’incedere del virus, si sono adattati alla «via statalista». Oggi, se leggiamo gli editoriali della stampa sulle prospettive e sul rilancio dell’accumulazione, ci rendiamo conto che si insiste molto sulla necessità di determinati investimenti: infrastrutturali (compresi quelli sul digitale) che consentano di rendere efficiente questa forma di produzione, sui settori riproduttivi, come ad esempio la sanità, e via discorrendo. Sono investimenti che richiedono necessariamente un ruolo dello Stato come finanziatore. Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, pensi che oggi si possa intravedere un ritorno forte dello Stato? Con che modalità esso si ripresenta?
«Al momento non darei per scontata la svolta verso uno Stato sociale attivo, che negli anni precedenti è stato fortemente ridimensionato e delegittimato con le conseguenze che oggi si vedono ad esempio in ambito sanitario. Siamo in una situazione nella quale certamente c’è una possibilità di rilancio; lo Stato sociale storicamente ha avuto un importante ruolo negli anni della crisi e della depressione, basti pensare agli anni Trenta o al periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Ad esempio in Inghilterra il piano di rilancio del dopoguerra, pensato anche come forma di riparazione ai sacrifici della seconda guerra mondiale, ha determinato grandi investimenti nella sanità pubblica e le nazionalizzazioni dell’energia e ha permesso al Partito Laburista di uscire vincitore su Churchill, colui che sembrava l’eroe della vittoria contro il nazifascismo.
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Il capitale mette in circolo tutto, a cominciare dai virus
di Rob Wallace, A. Liebman, L. Fernando Chaves, Rodrik Wallace
Uno studio che dovete leggere per forza. Nessuna ideologia, nessuna formulazione astratta. Solo un’analisi – quasi un documentario – di come ha funzionato fin qui il nostro mondo neoliberista. Una serie di immagini che legano deforestazione, allevamenti intensivi, diminuzione delle varietà genetiche, popolazioni immuni per storia millenaria a patogeni locali che – attraverso le filiere mondiali dell’agrobusiness – porta agenti patogeni finora “a chilometro zero” in tutto il mondo, in ogni angolo del pianeta. Presso popolazioni che non hanno alcun anticorpo specifico.
La “globalizzazione” ha partorito il più letale dei meccanismi distruttivi, ma sarebbe ancora affrontabile se ci fosse un governo del mondo unitario e orientato al benessere – o almeno alla sopravvivenza – del genere umano.
Invece viviamo in un ecosistema suicidiario che mette al primo posto in profitto di alcune aziende in competizione con tutte le altre; le quali orientano molto facilmente le scelte di Stati che sono in competizione con tutti gli altri. Basta vedere come la volontà di Confindustria abbia abbattuto qualsiasi possibilità di limitare le conseguenze dell’epidemia nelle regioni più industrializzate di questo Paese. Ma è così dappertutto…
Un sistema che non può perciò affrontare una pandemia minimizzando i costi umani e persino quelli economici. Un sistema che, se pure dovesse “tornare com’era prima”, sarebbe semplicemente in attesa di una nuova pandemia più micidiale dell’attuale, con la stessa impreparazione e “minimizzazione” del suo impatto sulle popolazioni.
La rassegna del mese del Monty Review: da https://monthlyreview.org
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«Die Aufhebung der Arbeit». Attualità e prospettive del superamento del lavoro
di Mario Lupoli
Il superamento del lavoro (Die Aufhebung der Arbeit) è un tema centrale per ripensare la trasformazione radicale dell’attività umana in una società comunista. Questo contributo si propone di rimetterlo oggi a tema, nella consapevolezza che possa rappresentare un asse fondamentale attorno cui approfondire la riflessione sulla dialettica tra necessità e libertà, sulle modalità di relazione uomo-natura e sulle stesse forme di razionalità dominanti
… die kommunistische Revolution sich gegen
die bisherige Art der Tätigkeit richtet, die Arbeit beseitigt... …
la rivoluzione comunista si rivolge
contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro…
(K. Marx, F. Engels)
Lavoro: dalla dannazione al superamento
Quando si prospetta l’effettivo statuto della «libertà» nel comunismo, il tema del lavoro è necessariamente centrale, per l’importanza che assume nella vita degli individui e della società umana.
Il lavoro è una forma determinata dell’attività umana in generale, e delle forme di attività produttive in particolare.
Dalle sue origini è connesso alla mancanza e alla sofferente attività necessaria per porvi rimedio.
Lavoro, in greco (πόνος, pònos), rimanda sia a penuria che a pena. Operaius, in latino, è uomo di pena. Lavoro è sempre sofferenza[1]. «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra»: così Yahweh ammonisce l’Adam nel mito di Genesi (Gn 3:19).
Non si tratta naturalmente del semplice dispendio di energie legato a ogni attività, che sia scrivere una poesia, curare una rosa, giocare con un bambino o passeggiare in riva al mare.
Al labor si lega qualcosa di specifico: quella disperante fatica data dal vincolo, dall’oppressione, dal fatto che gli obiettivi posti al proprio agire siano determinati da un’autorità altra ed esterna, una necessità contrapposta alla nostra libertà.
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Il fondo europeo contro la disoccupazione? Un bluff per far accettare il Mes
di Alessandro Somma
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen chiede scusa a Italia e Spagna per l’assenza di empatia finora dimostrata nella gestione dell’emergenza sanitaria e annuncia trionfalmente un cambio di rotta. Lo fa presentando un piano da cento miliardi per il sostegno alla disoccupazione, fiore all’occhiello di una nuova “solidarietà europea”. La cortina fumogena di questa retorica nasconde però una realtà ben diversa: il piano è un bluff, probabilmente pensato per far rientrare le richieste di emissione di bond europei e magari anche per far accettare un intervento del famigerato Meccanismo europeo di stabilità. Vediamo perché.
Un fondo per crisi asimmetriche
Disponiamo al momento di una proposta di regolamento “che istituisce uno strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (Sure)[1], che pone innanzi tutto problemi per la sua base legale. Lo strumento viene infatti creato ai sensi della stessa disposizione utilizzata per l’assistenza finanziaria fornita dal Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf) ai Paesi colpiti dalla crisi del debito prima dell’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (Mes): Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. La disposizione è l’art. 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e in particolare il suo comma 2:
Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un'assistenza finanziaria dell'Unione allo Stato membro interessato.
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Gli eurobond fra logica economica, sofismi e difficili mediazioni
di Stefano Lucarelli
Introduzione
In questo contributo sottoponiamo a critica la seguente tesi recentemente avanzata da Bisin et alii (2020): gli eurobond senza condizionalità sono uno strumento di gran lunga inferiore al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il nostro è un esercizio di critica interna. Pertanto, non mettiamo inizialmente in discussione l’idea degli autori che l’emissione di eurobond sia riconducibile ad un contratto fra un assicuratore e un assicurato. Pur riconoscendo che questa rappresentazione è di per sé opinabile, ci concentriamo innanzitutto sulla robustezza logica della tesi di Bisin et alii (2020), per chiarire in che senso si possa davvero parlare di moral hazard in questo contesto. Mostriamo allora in che modo il moral hazard possa essere superato, giungendo così a svelare la natura sofistica della tesi che abbiamo sottoposto a critica.
Nei paragrafi conclusivi cercheremo di suggerire alcuni spunti di riflessione che riteniamo utili per comprendere il difficile processo di mediazione che impegnerà nei prossimi giorni i rappresentanti del nostro Governo.
Il contesto
La videoconferenza informale dello scorso 26 Marzo sulle misure di politica economica da porre in atto per affrontare la Pandemia da Covid19 ha, come noto, messo chiaramente in luce le divisioni interne ai 27 Paesi dell’Unione Europea.
La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, si sono assunti il compito di presentare entro il 5 Aprile delle proposte di lungo periodo da concordare con le altre istituzioni europee.
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Non torneremo alla normalità…
di Coordinamenta femminista e lesbica
Un nostro contributo per Continuare a pensare/Continuare a lottare…
“Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema” (parole dal Cile in rivolta).
Premessa
È in atto una pandemia da Coronavirus. Non riteniamo utile entrare nei dettagli di tipo scientifico e tecnico. Non servirebbe perché scienza e ricerca non sono affatto neutrali. Ci interessa piuttosto indagare a capire le cause e gli effetti, attuali e futuri, di quello che sta succedendo.
Punto in comune tra le molteplici teorie: la pandemia è prodotto del modo di produzione capitalistico (v. https://jacobinitalia.it/la-pandemia-del-tardo-capitalismo/ + altri riferimenti in bibliografia).
L’emergenza sanitaria, d’altra parte, è il risultato delle politiche neoliberiste, ossia della deregulation, delle privatizzazioni e dello smantellamento dello stato sociale.
Tutti lo dicono, ma ben attenti a occultare il fatto che tutte/i quelle/i che negli ultimi decenni hanno opposto le loro idee, le loro azioni e il loro corpo (sì, perché per fare politica c’è bisogno di metterci anche il corpo) a queste politiche sono state/i criminalizzate/i, represse/i, marginalizzate/i. Nel periodo “prepandemico” erano loro, eravamo noi, gli irresponsabili: quelle/i che resistevano agli appelli al senso del sacrificio imposto dalle politiche dell’austerità.
Le crepe nella normalità
Già in numerose occasioni ci siamo confrontate su quello che significa oggi l’azione politica e sui numerosi ostacoli che si frappongono, in una società neoliberista, alla costruzione di un discorso e di percorsi realmente antagonisti.
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Un'economia di guerra?
di Michael Roberts
Se le pandemie fossero uguali in tutti i paesi, l'immagine che vediamo qui sopra ci indicherebbe il modo in cui finirà questa, di pandemia. In tutti i paesi il coefficiente che indica la relazione tra inizio e fine dell'infezione sarebbe di 40-50 giorni. Ma molti paesi ancora non sono nemmeno vicini al punto di picco, e non c'è alcuna garanzia che il picco ci sarà nello stesso momento, visto che i metodi di limitazione e prevenzione (analisi, autoisolamento, quarantena e lockdown) funzionano diversamente. Ma alla fine ci sarà un picco ovunque, e la pandemia si attenuerà, anche se lo farà solo per tornare l'anno successivo, forse. Ciò che appare chiaro è che il blocco che sta avendo luogo in così tante economie maggiori provocherà un enorme crollo della produzione, degli investimenti e dei redditi nella maggior parte di queste economie. L'OCSE riassume meglio quale sia il quadro. L'effetto che avrà l'impatto dovuto alla chiusura delle attività potrebbe causare una riduzione del 15%, o più di quello che è il livello di produzione in tutte le economie avanzate, e nelle principali economie dei mercati emergenti. Nell'economia centrale, la produzione diminuirebbe del 25%... «Per ogni mese di contenimento, ci sarà una perdita di 2 punti percentuali nella crescita annuale del PIL».
Rileggendo il mio libro, "The Long Depression", ho scoperto che la perdita di PIL, nelle maggiori economie, dall'inizio della Grande Recessione del 2008, attraverso i 18 mesi che ci hanno portato a metà del 2009, è stata superiore al 6% del PIL. In quel periodo, il PIL reale globale è sceso di circa il 3,5%, mentre le cosiddette economie dei mercati emergenti non hanno avuto nessuna contrazione (dal momento che la Cina ha continuato ad espandersi).
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Messaggio ai medici e infermieri oltre la pandemia
di Carla Filosa
Non è lo spirito di sacrificio che il sistema premia con i centesimi e loda con lusinghiere parole, ma è l’accoglimento forzato e inconsapevole del destino liberista che rende la professione medica un martirio e l’etica sociale una pratica straordinaria
Al posto dell’occhiello, la citazione di una parte finale della poesia di B. Brecht, intitolata “Messaggio” [1] viene qui riportata all’inizio di queste brevi osservazioni sull’andamento della pandemia in atto, data la stretta attinenza ai problemi che ognuno di noi sta vivendo, quotidianamente assillati da informazioni contrastanti, in un disorientamento forse non voluto e comunque di impianto istituzionale assolutamente nuovo.
Il “Messaggio a medici e infermieri”
«Ora a voi, medici e infermieri. Pensiamo
che anche fra di voi ci debba essere qualcuno,
pochi forse, ma qualcuno sì, che
si rammenti dei doveri verso quelli
che hanno, come loro, apparenza umana. Invitiamo
costoro a sostenere i nostri ammalati
nella loro lotta contro le Mutue e le consuetudini ospedaliere
che riguardano la classe oppressa.
Impegnarvi in lotta con altri, con gli strumenti compiacenti
dello sfruttamento e dell’inganno. Vi chiediamo che questi
voi li consideriate come nemici vostri. Facendo questo
voi combattete solo la vostra propria battaglia contro i vostri sfruttatori
che ora vi minacciano di quella medesima fame
che ha fatto cadere il nostro compagno.
Lottate con noi!»
Il «compagno» della poesia riguardava un comunista ammalato di tubercolosi, abbandonato alla fame e all’umidità, cui giunge l’esortazione a lottare sia contro la malattia sia contro l’oppressione, che l’«hanno fatto ammalare». Oggi la tubercolosi, flagello durato fino al secondo dopoguerra, è stata confinata e quasi debellata nei Paesi sviluppati, mentre è ancora una delle prime cause di morte nei paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia con circa 2 milioni di morti l’anno.
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Economia e pandemia: domande e risposte sull’Italia e l’Europa
Intervista a Sergio Cesaratto
“A successful and long lasting union, like the US, helps its members in need. When New Orleans was hit by Hurricane Katrina, the initial faltering response horrified the nation. Congress then sent $71bn in aid, equivalent to more than a third of Louisiana’s gross domestic product. It did not content itself with waiving a balanced budget clause and allowing the state to plunge into debt. Other US states did not complain that Louisianans were lazy and corrupt, or wasted money on drinks and women, as the former head of the eurogroup of finance ministers, Jeroen Dijsselbloem, infamously said of southern Europeans.” Luigi Zingales (University of Chicago). [1]
Perché l’Europa dovrebbe salvare l’Italia che è stato un paese cicala?
Contrariamente a quanto dipinto dai mass media e, in maniera inqualificabile, da Jeroen Dijsselbloem, l’Italia è da trent’anni un paese frugale. Questa frugalità è misurabile dai surplus primari del bilancio pubblico [i saldi al netto della spesa per interessi] che sono in attivo dall’inizio degli anni novanta. In altre parole, da trent’anni gli italiani pagano più tasse di quanto ricevono come servizi pubblici o pensioni. E’ la spesa per interessi che manda in disavanzo lo Stato italiano, non una spesa pubblica allegra (naturalmente molta spesa pubblica è indirizzata male, ci sono sprechi, c’è molto da migliorare come efficienza ma, per esempio, il numero dei dipendenti pubblici in Italia è in rapporto alla popolazione molto inferiore alla Germania, come anche evidenziato dalla crisi sanitaria).[2] Anche David Folkerts-Landau, capo economista della Deutsche Bank ha ammesso due anni fa che “contrariamente a un diffuso pregiudizio, l’Italia è stato un Paese frugale".[3] Queste sono fra le poche voci “oneste” che si sono levate.
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