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Tra Darwin e Chomsky
Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano
di Telmo Pievani
In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l'ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale
Nei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l'impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell'idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l'organizzazione dell'occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».
Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un'ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...
Due ipotesi per un rompicapo
Il problema è che l'evoluzionista non può rinunciare né all'uno né all'altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l'occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all'inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura.
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Scorciatoie zero
Rossana Rossanda
Diversamente da Valentino Parlato, credo che giustamente Bertinotti veda il pericolo: il sistema politico-mediatico mira a spingere nell'angolo quel che resta di rappresentanza della domanda sociale, e possibilmente a toglierselo di torno. Vediamo l'ultima: Rc e Pdci o incassano una riforma pensionistica men che moderata, pagando un alto prezzo fra i lavoratori, che sono la loro base, oppure la respingono facendo cadere il governo e spostando l'equilibrio istituzionale a destra - cosa che gli verrebbe rinfacciata più ancora della rottura del 1998. Non c'è oggi una alternativa a sinistra: sono possibili soltanto una riedizione del centrodestra, assai probabile se si andasse alle elezioni, o un governo centrista se la maggioranza riuscisse a scaricare Rifondazione, Pdci e Verdi attraverso un allargamento all'Udc e la conquista di un numero sufficiente di deputati e senatori sciolti.
Che quest'ultimo sia l'obiettivo finale della Margherita e di gran parte del Pd è dichiarato, ma i numeri non ci sono ancora. Resta in campo anche il pasticcio di un governo tecnico bipartisan, che sembra evocare ogni tanto il Presidente della Repubblica, ma questo scaricherebbe anche Romano Prodi, che non è disposto a tutto, e sarebbe il preludio a un nuovo centrodestra.
Parlato ha ragione di scrivere che bisogna indicare il «che fare», ma intanto vediamolo per quel che è: non solo un incidente di percorso e non solo in Italia. Lo stesso e peggio succede in Francia, dove la destra di Nicolas Sarkozy non solo ha vinto, ma si sta mangiando pezzo per pezzo l'opposizione socialista, mentre quella più a sinistra è già ridotta ai minimi termini.
E da un pezzo è successo in Germania dove la Linke si è faticosamente costituita ma resta istituzionalmente fuori gioco, la Spd essendo disposta a trattare fin con la destrissima Csu ma non con la propria costola di sinistra. In Spagna la stessa esistenza di una sinistra radicale è in causa. Se si aggiunge che da noi la Sd di Mussi, appena separata dai Ds, si riaccosta al governo proprio sul tema bruciante delle pensioni, lo stato della sinistra legata alla dimensione sociale - la sola che abbia un senso chiamare tale - appare davvero critico.
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Lessico veltroniano: il partito che affascina
di Sbancor
L’unico modo per sbarazzarsi di un leader è evitare che lo diventi. Eppure Veltroni lo è diventato per “ovazione”. Un sondaggio telematico di “La Repubblica”, la cui significatività veniva smentita dallo stesso giornale che lo ha investito come futuro leader del futuro Partito Democratico. Egli ha pronunziato un discorso. L’opinione pubblica ha plaudito.
“Bene, Bravo, Grazie!” ( Petrolini)
Il fatto che io abbia letto il discorso di Veltroni solo attraverso il sito di Babsi Jones la dice lunga sulla mia attenzione attuale alla politica italiana.
A questo Paese servirebbero più Babsi e meno Veltroni, più Genna e meno D’Alema, più Wu Ming e meno Bertinotti. Il Magister (Valerio Evangelisti), poi, lo metterei a Capo dell’”Intelligence”. Ma ho paura che non sia così semplice.
D’altra parto il testo da chiosare è uno splendido esempio di retorica “post-umana”, dove lo smarrirsi del senso procede verso l’affannosa ricerca di un significato, ahimé anch’esso irrimediabilmente perduto. Di significanti senza significato invece il testo è pieno. Il che lo fa immediatamente forma modernissima d’arte contemporanea. E come tale va letto.
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L'ex premier Hariri ucciso dai sauditi?
di mazzetta
La settimana scorsa è stato pubblicato il rapporto della commissione investigativa internazionale sull’attentato all’ex-premier libanese Rafik Hariri. Il capo della commissione Brammertz ha presentato i primi risultati dell’inchiesta, ma questi non sono piaciuti in Occidente e quindi non se ne è parlato per niente. Il rapporto, incensato da tutte le cancellerie occidentali per l’accuratezza ed il rigore, punta il dito sui jihadisti provenienti dall’Arabia Saudita. Il rapporto in realtà evita di indicare esplicitamente il reame, ma le perifrasi usate per indicare l’attentatore (“proviene da un paese dal clima più secco di Libano e Siria”, “è stato diversi anni in un contesto rurale”, che poi sarebbe l’Afghanistan) e altri riferimenti sparsi nel rapporto non lasciano dubbio alcuno. Una riservatezza che copre anche l’identità di altre cinque o sei persone, individuate attraverso l’analisi dei tabulati dei cellulari, delle quali non è stato reso noto alcun dettaglio; il che spinge a credere che non si tratti di siriani e neppure di Hezbollah. A questo punto, per quel si è scoperto fino ad oggi , non ci sono responsabilità della Siria nell’attentato.
Ci sono invece responsabilità indirette (relativamente) americane e saudite, visto che da tempo gli USA sembrano aver scelto di armare l’estremismo sunnita in funzione anti-sciita. La strategia è la stessa, fallimentare, usata contro i sovietici ai tempi dell’Afghanistan e sembra funzionare, almeno dal punto di vista degli americani.
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Pagine partigiane per indagare il nuovo capitalismo
Benedetto Vecchi
Che fare? Una radicale innovazione è l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza
La lettera di Marcello Cini a proposito delle pagine culturali (sul manifesto di ieri) pone problemi di grande rilevanza. Cini scrive che c'è stato un cambiamento di rotta della sezione «cultura» di questo giornale. Ha ragione. Proverò a spiegare come questo cambiamento sia dovuto a un principio di realtà e non a un esecrabile mutamento genetico. Rispetto al periodo cui Cini fa riferimento il mondo è cambiato e gli elementi di discontinuità prevalgono nettamente su quelli di continuità. Questa trasformazione aveva bisogno di essere analizzata e compresa, ed è quanto le pagine culturali del manifesto hanno cercato di fare, partendo dalla convinzione che i paradigmi acquisiti erano diventati armi spuntate. Chi ha lavorato alle pagine culturali ha infatti spesso puntato con caparbietà a creare uno spazio pubblico di discussione dove la posta in gioco non fosse la flebile difesa di un punto di vista che mostrava i tratti di una vuota ripetizione del già noto. Semmai, l'obiettivo, talvolta tacito, spesso esplicitato, era di contribuire a formare un forte punto di vista sul presente. La necessità di una radicale innovazione teorica è stata considerata l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza del manifesto. In questo le nostre sono state e sono pagine «partigiane».
Questo è stato il clima che ho respirato da quando, nel 1988, ho cominciato a lavorare a queste pagine. In quasi venti anni, insieme a tanti altri abbiamo parlato dei cambiamenti del mondo del lavoro, della produzione e circolazione del sapere, del rapporto tra scienza e società, delle caratteristiche della «rivoluzione del silicio», del profilarsi all'orizzonte, e poi dell'affermarsi, della riproduzione tecnica della vita. Senza dimenticare che una sezione «cultura» deve registrare e selezionare quanto propone il contesto culturale, dagli scrittori che emergono nel panorama editoriale ai saggi che vengono a mano a mano pubblicati.
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Memoria a rischio sulle pagine etichettate «cultura»
Marcello Cini
Pericoli - Il rischio di un ritorno a concezioni tradizionali non può giovare all'apertura alle sfide del XXI secolo Recinti Non più un'esplorazione dei campi del sapere ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali
Cari compagni, questa lettera nasce dal mio bisogno di rendere pubblico il crescente disagio che provoca in me, collaboratore del manifesto fin dalla sua fondazione, la lettura delle sue attuali pagine culturali. Metto le mani avanti: non intendo dare voti a nessuno. Soltanto mettere in evidenza la radicalità del cambiamento intervenuto negli ultimi tempi rispetto al loro ruolo tradizionale all'interno della linea del giornale. Non posso fare a meno, a questo proposito, di prendere come riferimento gli anni in cui se ne occupava un grande amico scomparso, Michelangelo Notarianni.
Sono andato a scorrere la raccolta dei suoi articoli pubblicata tre anni fa da manifestolibri con il titolo (malauguratamente profetico) La memoria a rischio, per confrontarla con alcuni dei contributi apparsi negli ultimi mesi sulle pagine etichettate «cultura». La differenza che salta agli occhi è la rigorosa coerenza degli interventi di Michelangelo con un disegno di fondo che li illumina, nonostante la varietà degli argomenti affrontati. Che, tanto per citarne alcuni, spaziavano dalle questioni ambientali (quando l'ambiente era una parolaccia anche per l'estrema sinistra) a Leopardi, dal capitalismo italiano straccione e truffaldino ai personaggi più significativi della storia italiana remota e recente, dalla rivoluzione basagliana della psichiatria alle tesi di Hans Jonas sul rapporto fra etica e tecnica.
Per contrasto a me pare evidente che il termine «cultura» non denota più, nel giornale attuale, una esplorazione dei campi del sapere illuminata da criteri comuni di visione della realtà sociale, ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali. Per dirla tutta sembra che per il manifesto di oggi la «vera» cultura sia tornata ad essere appannaggio dei filosofi e dei letterati. Per esempio, separare i temi della rivoluzione digitale per collocarli dentro un contenitore distinto, come fosse roba per addetti ai lavori, non giova certo all'apertura della cultura alle sfide del XXI secolo. Anche se non sarebbe giusto non riconoscere che alcuni articoli di Benedetto Vecchi in favore dell'open source e del free software sono stati un utile anello di congiunzione fra i due contenitori.
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Una riforma a rovescio
di Felice Roberto Pizzuti
L'impostazione finanziaria della trattativa sullo scalone ha partorito una controriforma che diluisce nel tempo la trappola di Maroni ma per certi versi l'aggrava. Al contrario di quanto si afferma, a essere penalizzati saranno anche i giovani
Nell'accordo sulle pensioni raggiunto tra il governo e le parti sociali si è accentuata la spinta «rigorista» che sovrastima e in parte fraintende la dimensione finanziaria del problema, mentre sottovaluta i più complessivi aspetti economici che collegano la previdenza al sistema produttivo e sociale. Questo accordo ha poi una valenza politico-sociale sicuramente condizionata dalle ultimissime mosse dell'ala moderata dello schieramento politico; una valenza discutibile che dovrà essere verificata, non senza rischi di pericolose divergenze, sia rispetto agli equilibri nella maggioranza sia nella verifica con i lavoratori.
In confronto alle proposte che circolavano nei giorni scorsi, il progetto concordato è abbastanza più restrittivo. Il sistema delle quote, particolarmente caro ad alcuni sindacati, che avrebbe dovuto garantire più elasticità di scelta ed evitare altri «scalini» successivi al primo (con il quale dal gennaio 2008 l'età minima di pensionamento d'anzianità è alzata da 57 a 58 anni), in realtà è molto vincolante. Dopo soli diciotto mesi, cioè dal luglio 2009, l'età minima di pensionamento salirà a 59 anni (più 36 di contribuzione per arrivare a quota 95); dopo altri diciotto mesi, l'età minima salirà a 60 anni (con la quota che sale a 96) e dopo altri due anni, cioè dal gennaio 2013, salirà a 61 (con la quota a 97). In realtà, lo scalone viene diluito in tre scalini, nel periodo gennaio 2008-gennaio 2011, e poi si va anche oltre, riducendo fortemente i margini di scelta dei lavoratori.
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Il Pd punta alla crisi commerciale. La Sinistra ha una "exit strategy"?
di Emiliano Brancaccio
In un'estate affollata di interrogativi a ruota libera sui massimi sistemi del mondo, proverò a formulare una domanda più modesta ma forse necessariamente prioritaria: dato l'avvento del Partito democratico a guida veltroniana e la voglia alquanto diffusa in esso di guardare alla propria destra, non è forse tempo per le forze della sinistra di considerare l'opportunità di una "exit strategy" da Palazzo Chigi? Naturalmente gli esiti della "rottura" del '98 li ricordiamo tutti. Credo tuttavia ci sia ora un buon motivo per affrontare pacatamente ma a viso aperto la questione: il motivo è che il dna politico-economico dei cosiddetti democratici appare ormai definitivamente strutturato su una linea di indirizzo votata alla deflazione, alla più violenta ristrutturazione e soprattutto al malcelato auspicio di una crisi commerciale e finanziaria quale fattore di "disciplina dei lavoratori".
L'accusa è pesante e cercherò in quel che segue di sostenerla con opportune evidenze. E' già chiaro però che se essa dovesse rivelarsi fondata, non potremmo che arrivare alla seguente conclusione: la sinistra può "estinguersi" non solo chiamandosi fuori ma anche ostinandosi a restar dentro un'alleanza che semplicemente la dissangua.
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Lettera aperta all'Inps sulle pensioni italiane
di Luciano Gallino
Signori Presidenti del Consiglio d´Amministrazione e del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell´Inps, abbiamo bisogno di lumi.
Siamo un gruppo di persone i cui figli e nipoti sono preoccupati perché temono che a suo tempo non avranno più una pensione, o almeno una pensione decente. Alla base delle loro preoccupazioni v´è un´idea fissa: che il bilancio dell´Inps sia un disastro, o ci sia vicino. L´hanno interiorizzata sentendo quanto affermano ogni giorno politici, economisti ed esperti di previdenza, associazioni imprenditoriali, esponenti della Commissione europea. Non tutti costoro, è vero, menzionano esplicitamente l´Inps. Ma tutti sostengono che le uscite dovute al pagamento delle pensioni risultano talmente superiori alle entrate da rappresentare una minaccia devastante per i conti dello Stato. Che tale deficit peggiorerà di sicuro nei decenni a venire, poiché pensionati sempre più vecchi riscuotono la pensione più a lungo, mentre diminuisce il numero di lavoratori attivi che pagano i contributi.
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Il Sudan sarà ricolonizzato?
di Stephen Gowan
Gli Stati Uniti stanno facendo manovre per introdurre nel Sudan una forza di peacekeeping delle Nazioni Unite, come primo passo per assicurarsi il controllo dei vasti giacimenti di petrolio della regione. Il controllo degli USA sulle risorse petrolifere del Darfur offrirebbe opportunità di investimenti altamente redditizi alle aziende americane e danneggerebbe gli investimenti cinesi nella regione, rallentando così l’ascesa di un avversario strategico la cui crescita dipende dalla possibilità di accedere in modo sicuro al petrolio estero. Washington si sta servendo di accuse di genocidio, abbondantemente esagerate, per giustificare un intervento delle Nazioni Unite di cui otterrebbe il comando; allo stesso tempo sta ostacolando la pianificazione di un processo di pace che risulti accettabile per il governo sudanese, il quale vorrebbe allargare l’attuale missione dell’Unione Africana in Darfur.
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L'enigma democratico
Mario Tronti
La democrazia reale non è il potere dei più ma il potere di tutti, in cui, nell'omologazione di pensieri, sentimenti, gusti e comportamenti, la singolarità è concessa nel privato ma non nel pubblico
Credo sia proprio venuto il momento di passare a una critica della democrazia. Questi momenti arrivano sempre, arrivano quando le condizioni oggettive del tema s'incontrano con le disposizioni soggettive di chi lo guarda, lo analizza. È maturato su questo terreno un percorso di pensiero, che mi pare arrivi oggi a cogliere la crisi di tutto un apparato pratico-concettuale. Perché quando diciamo democrazia diciamo questo: istituzione più teoria; costituzione e dottrina. E qui, su questi termini, si instaura un intreccio molto forte, un nodo anzi. Un nodo che non lega soltanto strutture politico-sociali e tradizioni forti di pensiero - quelle della democrazia sono sempre tradizioni di pensiero forti, anche se la deriva della pratica di democrazia indica oggi un terreno debole; ma si stringe anche all'interno delle une e delle altre, delle strutture pratiche e delle tradizioni di pensiero.
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Il processo decostituente
Luigi Ferrajoli
La legge di revisione costituzionale recentemente approvata rappresenta la demolizione non solo dellaCostituzione repubblicana del 1948, ma del paradigma stesso della democrazia costituzionale. Decostituzionalizzazione della democrazia e costituzionalizzazione del berlusconismo. La battaglia in difesa della costituzione.
Ogni carta costituzionale può essere considerata come la carta d’identità dell’ordinamento da essa costituito e disegnato. Ciò vale per la Costituzione italiana del 1948, come per tutte le altre costituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di convivenza generati dall’accordo di tutte le forze politiche rappresentative delle società cui sono destinate. La legge di revisione costituzionale recentemente approvata dalla maggioranza berlusconiana è invece la carta d’identità della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che è propria di questa destra e che questa destra pretende di imporre come nuova carta d’identità della Repubblica.
Questa legge, d’altro canto, non si limita a stravolgere la carta costituzionale del 1948. Essa persegue la trasformazione in costituzione formale di mutamenti già in larga parte intervenuti in questi ultimi anni nella costituzione materiale della Repubblica. Riflette, in breve, una deformazione della democrazia già di fatto avvenuta. È quasi certo che essa sarà spazzata via dal referendum. E tuttavia essa esprime e formalizza una concezione anti-parlamentare ed extra-costituzionale della democrazia largamente penetrata nel ceto politico e nel senso comune, anche di sinistra, e già tradottasi in un’alterazione di fatto del nostro assetto costituzionale.
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Marx e la scienza
di Franco Soldani*
1. Lo stretto rapporto che Marx ha intrattenuto con la scienza del suo tempo è provato non solo da tutta la sua storia intellettuale privata e pubblica, ma soprattutto dal fatto che non si può conprendere a fondo nessuna categoria del Capitale senza riferirsi al complesso sostrato scientifico che esse implicano. Da questo punto di vista, diventa essenziale tanto capire quale sia stata la comprensione che Marx ed Engels hanno avuto della razionalità scientifica ottocentesca, quanto scoprire quale esito essa abbia poi avuto nel processo di formazione dei concetti marxiani e nel disegnare il loro contenuto conoscitivo specifico.
2. Marx, ovviamente, aveva una conoscenza di prima mano della scienza del suo tempo. L'assidua frequentazione del British Museum, durante il suo esilio londinese, gli ha permesso di accedere ad una vasta mole di lavori scientifici che a loro volta rappresentano le fonti concettuali della sua sofisticata interpretazione del modo di produzione capitalistico. Naturalmente, non è che Marx mutui meccanicamente, o semplicemente copi, dalla scienza di allora le sue convinzioni. Al contrario. La sua relazione con dette fonti è complessa e multiversa, per niente lineare. Nel saggio vengono discusse quattro idee fondamentali della sua analisi sociale: a. La relazione cause-effetti; b. Il valore; c. Il metodo scientifico inglese; d. La presunta fine della metafisica.
3. In tutti e quattro i casi, la rilettura del pensiero di Marx alla luce di quella genealogia specifica ha permesso di ricostruire sia i peculiari significati attribuiti dalla ragione scientifica alle sue categorie, sia il significato specificamente sociale che Marx ha loro attribuito, sia infine le prepotenti, nuove tendenze epistemologiche che andavano prendendo forma in quegli anni all'interno della stessa comunità scientifica.
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Ecco i padrini dei rifiuti
di Roberto Saviano
Gli interessi del Nord, quelli della camorra, le collusioni di destra e sinistra: l'emergenza è oro. Che diventa veleno per tutta la Campania
Quand'è nato Francesco sembrava andasse tutto bene. Dalle mani dell'ostetrica però viene direttamente portato in incubatrice. La madre l'ha intravisto appena. Al bimbo manca un rene, i ventricoli del cuore hanno disfunzioni gravi, l'ano è imperforato. Ma se lo guardi, il piccolo però sembra perfetto, sgambetta, ha un viso sereno. Il primario del reparto incontra il padre: "Questa settimana è già il terzo bambino nato con molteplici malformazioni", dichiara, quasi che il dato elevato avesse portato queste nascite ad apparire ordinarie, casi che quindi non stupiscono e non spaventano i medici. Ai genitori bisogna dare una spiegazione che non li faccia sentire in colpa per i problemi del loro figlio e il motivo che si concede è "ammettere che anche la malformazione è una normalità. Senza troppe tragedie". Ad ascoltare queste parole bisogna respirare a lungo per mantenere la calma, non aver voglia di spaccare a pugni le vetrate dell'ospedale.
Perché questa normalità è una normalità di queste terre. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione mondiale della sanità riguardo la Campania sono incredibili, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12 per cento rispetto alla media nazionale. E le donne le più colpite. V'è un dato, però, uno in particolare, che lascia la bocca senza saliva.
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Perché le forze dell'ordine hanno sempre ragione
Marco Bascetta
C'è una nobile gara tra destra e sinistra nell'esprimere appoggio incondizionato ai tutori dell'ordine pubblico, considerando ogni minimo dubbio sul loro operato un oltraggio, una bestemmia, un tradimento Il sentimento di diffusa precarietà è tradotto dai teorici della toleranza zero in un problema di contenimento e lotta senza quartiere contro le «classi pericolose». Da qui il baratto tra una rinuncia o una limitiazione di alcuni diritti civili
La virtù cardinale del «moderatismo», nella dialettica politica delle democrazie parlamentari occidentali, è motivata da una presunzione e da una tautologia tra loro intimamente collegate. La presunzione è che in un «paese civile» la posizione moderata sia, per definizione, maggioritaria. La tautologia è che è maggioritaria perché moderata e, viceversa, moderata perché maggioritaria. Orbene, tra i pilastri fondamentali del «moderatismo» politico corrente va annoverato il seguente principio: «la polizia ha sempre ragione», dove per polizia si intendono tutte le forze dell'ordine, dalla polizia di stato ai carabinieri alla guardia di finanza.
Si può sensatamente sospettare che un simile punto di vista non sia affatto condiviso dalla maggioranza, ma è questo uno dei casi in cui la validazione tautologica funziona senza ammettere obiezioni. Che lo stato e i suoi amministratori di turno apprezzino e difendano le loro forze dell'ordine, che queste occupino uno spazio permanente nella retorica ufficiale è una circostanza del tutto normale quando non sconfini, come spesso è accaduto e continua ad accadere, nella copertura di abusi e vessazioni.
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L'onore perduto
di Lorenzo Guadagnucci
L'onore perduto della polizia italiana: potremmo titolare così il resoconto delle più recenti udienze al processo per i fatti della Diaz. Qualcuno obietterà che l'onore era già perduto, ed è difficile nagarlo, se si pensa alla chiusura corporativa scelta all'indomani del G8 genovese, alla legittimazione di fatto degli innumerevoli abusi compiuti, alle scandalose promozioni dei dirigenti imputati e via elencando. Ad ogni modo, la cronaca è la cronaca, per cui è giusto segnalare le ultime perle.
Dunque, abbiamo visto sfilare in aula:
a) un ex questore di Genova, Francesco Colucci, chiamato come testimone, che inanella una serie imbarazzante di "non ricordo" e di correzioni rispetto a deposizioni precedenti. Interrogato dai pm su chi fosse il massimo responsabile gerarchico della perquisizione alla Diaz (gli imputati sostengono che non ve ne fosse uno), indica Lorenzo Murgolo, ex vice questore di Bologna, l'unico fra i dirigenti inizialmente indagati ad essere stato scagionato in istruttoria. Colucci è stato poi iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza;
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La frontiera scientifica della società in rete
«Tecnologia e democrazia» di Luciano Gallino. Una importante raccolta di saggi sulla diffusione del sapere tecnico-scientifico
Franco Carlini
Il Fest, Fiera dell'editoria scientifica di Trieste, da pochi giorni si è chiuso, e con un buon successo. Dove «editoria» andava intesa come tutto quello che viene messo in pubblico - «pubblicato» appunto, in qualsivoglia formato e su qualsiasi supporto. Non solo libri e riviste, dunque, ma siti web, radio, filmati, Dvd. Ha confermato, una volta ancora, che di scienza ben narrata c'è fame in Italia, forse a colmare un ritardo storico, culturale e sociale. E infatti un po' ovunque per la penisola si sono moltiplicati convegni, festival della scienza (il più noto è quello autunnale di Genova), nonché master in Comunicazione della Scienza (il più rinomato è quello presso la Sissa di Trieste). Il genovese Vittorio Bo, che già fu alla direzione dell'Einaudi e che poi ha dato vita a Codice Cultura, è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rischiare prestigio (e capitali) nel campo storicamente abbandonato dell'editoria scientifica italiana per svecchiarla e sprovincializzarla, anche a costo di proposte assai specialistiche.
Tutto ciò certo aiuta a recuperare un divario rispetto ad altri paesi, specialmente Francia e Inghilterra, dove la scienza è da sempre considerata un costituente essenziale della cultura civica e delle politiche dei governi. Tanto rinnovato entusiasmo, che corrisponde anche a un discreto fatturato in eventi e convegni, è consolante. Ma ci basta? La domanda emerge, implicita, dalla lettura del recente libro di Luciano Gallino, lo studioso torinese da anni dedito alla sociologia del lavoro e dell'industria. Tecnologia e democrazia (Einaudi, pp. 296, euro 22) ripropone alcuni dei suoi molti saggi, dedicati alla ragione tecnologica, ai decisori, alle scienze dell'informazione. Tutti densi e importanti, ma qui sia lecito concentrarsi sul filo rosso che li cuce, che si concentra sul tema dell'ignoranza, quella dei singoli scienziati e quella sociale.
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L'Italia del 2 Giugno
Mario Tronti
Con la scelta repubblicana cadeva, insieme alla monarchia succube del fascismo, l'intera conquista regia del paese. Un mito fondativo della nostra storia
Il 2 giugno è mito fondativo del nostro Paese. I miti di fondazione stanno all'origine di tutte le grandi realtà politiche moderne. La Costituzione americana a Filadelfia, l'incendio della Bastiglia a Parigi, la presa del Palazzo d'Inverno a Pietroburgo. Roma antica costruiva il suo percorso repubblicano sul mito di fondazione dell'urbe. Sono momenti in cui si raggruma la storia di un'epoca. Poi quei momenti o si coltivano e restano, oppure si tradiscono e si perdono.
C'è sempre un prima e un dopo. Il momento mitico del 2 giugno, la scelta repubblicana del popolo italiano, viene direttamente dalla epopea della Resistenza. Senza la Resistenza non ci sarebbe stata la Repubblica. Su questa idea-forza si è costruito un blocco storico di masse popolari politicizzate che ha realizzato conquiste sociali e ha espresso egemonia culturale. Questa è l'immagine vera della cosiddetta prima Repubblica, che ha fatto decollare un capitalismo moderno in Italia, anche attraverso le lotte e le conquiste dei lavoratori. La prima Repubblica per noi sono i primi tre decenni repubblicani: il meglio forse dell'intera nostra, non esaltante, storia patria.
Il 2 giugno rappresenta infatti una frattura storica: e come tale va letto. Non fu una buona idea definire la Resistenza secondo Risorgimento. La Resistenza è stata una lotta armata di popolo, esattamente quello che il Risorgimento non è stato. Con la scelta repubblicana cadeva, insieme alla monarchia succube del fascismo, l'intera conquista regia del paese. Con un colpo solo crollavano l'italietta liberale e l'italiaccia fascista. I partiti di massa diventavano i nuovi protagonisti della vita politica. Le classi dirigenti, oligarchiche e notabilari, dovranno aspettare i fasti della cosiddetta seconda Repubblica per ricomparire, un po' sgangherate, sulla scena.
Se prima del 2 giugno c'è la Resistenza, dopo il 2 giugno c'è la Costituzione. Senza Repubblica non ci sarebbe stata Costituzione. Pensate: ci saremmo tenuto un aggiornamento dello Statuto albertino! La Costituzione è il capolavoro della "nostra" prima, e sola, Repubblica. Purtroppo, questa parola indica oggi niente più che...un giornale.
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L'ossessione ricorrente: abbattere la previdenza pubblica
Felice Roberto Pizzuti
Nelle «Considerazioni finali» si trovano preoccupanti riferimenti alla previdenza. L'idea di fondo è che «Un riequilibrio duraturo richiede un intervento sul sistema previdenziale».
L'intervento dovrebbe caratterizzarsi per l'aumento dell'età pensionabile e per l'aggiornamento dei coefficienti di calcolo delle pensioni; ma, più sostanzialmente, andrebbe molto più sostenuta la previdenza privata verso cui andrebbe dirottata anche una quota della contribuzione attualmente destinata alla previdenza pubblica.
Circa i collegamenti tra bilancio pubblico e pensioni vale la pena ricordare che il saldo tra i contributi incassati e le prestazioni previdenziali effettivamente erogate, cioè al netto delle trattenute fiscali, è positivo per un ammontare pari a circa mezzo punto di Pil. Dunque, attualmente, il bilancio pubblico è avvantaggiato, non peggiorato, dal sistema pensionistico previdenziale.
L'età di pensionamento effettiva dei lavoratori italiani è solo di 7 mesi più bassa della media europea, ma è superiore rispetto a quella d'importanti paesi come la Francia che, tra l'altro, ha una spesa pubblica complessiva più elevata della nostra e una crescita economica maggiore. In Italia, invece, il tasso d'occupazione è tra i più bassi in Europa, per motivi strutturali che evidentemente attengono alla scarsa capacità del nostro sistema produttivo di creare occupazione; in questo contesto, finché non verrà modificato, forzare l'aumento dell'età di pensionamento implicherà ridurre il turn over, aumentare la disoccupazione giovanile, peggiorare la composizione della forza lavoro e, dunque, ostacolare anche il rinnovamento produttivo.
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Conversazione sul bioreddito e sulla risocializzazione della moneta
par Antonella Corsani, Christian Marazzi
Antonella Corsani : Cosa diresti se affermassi alla lettura del tuo saggio “Ammortamento del corpo-macchina” che la socializzazione dei mezzi di produzione è consubstancielle alla natura del capitale fisso come capitale umano nel senso in cui tu declini, o piuttosto deformi, questo concetto dopo averlo strappato al pensiero neo-liberale et ibridato con il concetto marxiano di lavoro vivo ?
Christian Marazzi : Sulla socializzazione dei mezzi di produzione hai colto nel segno : la separazione tra capitale e lavoro di tipo fordista era mediata da processi di produzione “macchinici”, che assicuravano (sebbene parzialmente) al bioreddito di essere una variabile dipendente dal capitale. Cioè : di impedire che la riproduzione si autonomizzasse dal capitale. Nel modello antropogenetico (o biopolitico che dir si voglia), i processi di produzione sono umani, per cui la socializzazione dei mezzi di produzione non è mediata dal capitale macchinico, ma dal corpo della forza-lavoro. Forse sono proprio le nuove patologie legate al lavoro che svelano (in negativo) la nuova forma della regolazione capitalistica di questa socializzazione. Come dire che il reddito sociale ha oggi una dimensione “invalidante” e escludente, serve a medicalizzare le patologie del mercato del lavoro, invece di liberare energie vitali. “Business Week” ha recentemente dedicato un dossier al settore sanitario americano che, negli ultimi 5 anni, è stato l’unico in assoluto a creare occupazione (1,800 milioni di nuovi posti di lavoro) ! A conferma sia della natura antropogenetica/biopolitica del capitale cognitivo, sia della declinazione patologizzante del welfare state emergente (in cui malattia e guerra - tanatopolitica ? - “regolano” i processi di socializzazione).
Antonella Corsani : Tu affermi che il welfare ha assicurato la continuità del circuito del capitale (“D-M-D’”), questo reddito d’esistenza ha riprodotto la separazione tra capitale e lavoro e con essa la divisione sociale del lavoro. Come potrebbe essere assicurata questa differenza di ruolo del bioreddito che tu prefiguri ora come investimento nell’autonomia oltre il capitale ? Voglio dire, se il welfare è stato funzionale all’accumulazione capitalista assicurando la continuità del circuito del capitale, come potrebbe oggi il bioreddito non avere questo stesso ruolo, riproducendo nuove divisioni del lavoro dentro e fuori l’Europa ? Mi chiedo dunque quali siano le condizioni perché il bioreddito o reddito garantito nella sua forma monetaria non entri nel circuito del capitale.
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L’ammortamento del corpo-macchina
par Christian Marazzi
Una delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso, della macchina nella sua forma fisica, quale fattore di produzione di ricchezza.
Las materializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la “messa al lavoro” delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extra-lavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività, ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto.
La dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento d’importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali.
Le difficoltà in cui ci si imbatte in tutte le analisi delle tendenze del mercato del lavoro confermano indirettamente che il modello emergente nei paesi economicamente sviluppati è di tipo antropogenetico, un modello cioè di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività). Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana, alla sua capacità comunicativa, relazionale, innovativa e creativa. E’ la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana, non il fatto che appartenga a questo o quel settore occupazionale.
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Sotto il pavé
di Tito Pulsinelli
Anche il nostro corrispondente dal Venezuela, Tito Pulsinelli - che di '68 se ne intende - interviene nella discussione sul libro di Alessandro Bertante Contro il '68, iniziata su Lipperatura e proseguita su Carmilla, su Georgiamada e in vari altri siti.] (V.E.)
E’ immaginabile che si possa scrivere un pamphlet intitolato “Contro il 2001”? Semplicemente no, perchè è senza densità, privo dei significati e delle evocazioni simboliche che il '68 ha emanato. E, nonostante le smisurate fatiche negazioniste, continua ancor oggi a essere un punto di snodo. Non è ancora una moneta o una medaglia per le bancarelle dei rigattieri.
Rimane pur sempre un momento unico di rottura generalizzata, forse “il” momento, magico per la sua simultaneità trans-geografica, scaturita dal grembo di una sola generazione, forse nemmeno intera…
Questo è il suo limite assoluto, che l’ha trattenuto sul terreno epidermirmico della politica, condannandolo al vuoto della rappresentazione. Nessun cambiamento profondo e multivalente è possibile senza che prendan vita i sogni dell’arcobaleno, di tutto l’arco in un baleno: dei nonni, dei padri e dei bimbi.
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Ripensare marx oltre la destra e la sinistra
Intervista con il Prof. COSTANZO PREVE a cura di LUIGI TEDESCHI
1) La conflittualità con il capitalismo è il tema dominante che rappresenta l’origine e la ragion d’essere della sinistra. Evocare la sinistra significa, sia storicamente che psicologicamente riferirsi ad un complesso di culture ed ideologie che si contrappongono ad uno stato di rapporti economici e politici prestabiliti nella società capitalista. la sinistra è nata storicamente a seguito delle contraddizioni interne del capitalismo, in tema di eguaglianza sociale, produzione e redistribuzione della ricchezza, stratificazione della società in classi. Le crisi ricorrenti del capitalismo hanno posto storicamente in risalto il ruolo critico e antagonista della sinistra, in funzione di una alternativa che prefigurasse l’avvento di una nuova società che sostituisse a quella capitalista. Il fondamento economicista della società capitalista avrebbe quindi dovuto essere rovesciato in senso rivoluzionario con la creazione di una società socialista prima e comunista poi. Il fenomeno rivoluzionario comunista si rivelò, oltre che illusorio, un clamoroso fallimento. L’economia del socialismo reale non seppe competere con quella capitalista, né, tantomeno, fu in grado di sostituirsi ad essa. Il socialismo reale, anzi, nell’intento di emulare e superare il capitalismo fordista, ne esasperò gli aspetti negativi, quali l’esasperato produttivismo, la centralizzazione pianificatrice, l’omologazione di massa, la rigidità gerarchica delle strutture, senza conseguire gli stessi risultati. L’economia, vista l’impossibilità di creare nuovi sistemi che sostituissero il capitalismo, fu emarginata dai temi ideologici di una sinistra che, visto il fallimento dell’esperienza sovietica, si guardò bene dal riproporre la ricetta dell’economia pianificata in occidente, ma, nello stesso tempo, non fu in grado nell’ovest capitalista di elaborare modelli alternativi che non fossero socialdemocratici, cioè ispirati ad un riformismo moderato, quali correttivi istituzionali interni alla logica dell’economia di mercato. In realtà, a mio parere, l’ideologia marxista ha impostato il conflitto di classe basandosi unicamente sui rapporti di produzionee di redistribuzione della ricchezza non tenendo in dovuto conto la dinamica dei processi produttivi, della ripartizione tecnica delle funzioni specifiche nell’ambito di un processo produttivo estremamente parcellizzato e specializzato. La ricchezza, prima che essere ridistribuita diffusamente, dovrebbe essere prodotta secondo criteri ispirati alla massima diffusione.
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AZZARDI CLIMATICI
Quel rischio a misura di un pianeta precario
Ma il clima e l'economia sono realtà in cui opera l'incognita dei rapporti sociali. La sua irruzione nell'agire collettivo restituisce la pregnanza politica tanto del degrado ambientale che della gestione del bilancio pubblico Un percorso di lettura che mette a confronto i modelli di previsione dei mutamenti climatici e dell'andamento dei conti pubblici. Entrambi possono essere usati per elaborare condizioni di equilibrio nel breve, ma non nel lungo periodo
Luigi Cavallaro
«Facciamo un lavoro precario in un pianeta a rischio oppure il pianeta è precario perché il lavoro è a rischio?». Il dilemma lucidamente (e genialmente) sintetizzato in una vignetta di Pat Carra, pubblicata su questo giornale il 10 novembre scorso, non sembra aver suscitato particolare attenzione, almeno a giudicare dagli interventi che da allora in poi si sono succeduti su queste pagine in merito alla «questione ambientale». Eppure, è un dilemma centrale: dalla sua risoluzione, infatti, dipende la nostra possibilità di porre finalmente la questione ambientale come problema politico e sbarazzarci di quell'attitudine neoluddista di cui l'hanno ricoperto frotte di profeti di sventura, ai quali va una responsabilità non secondaria nel perdurare di una situazione che vede l'ambiente ridotto al rango di «questione tematica» o di «problema trasversale», come notava su queste stesse pagine Roberto Marchesini l'11 marzo scorso.
Proviamo allora a prendere sul serio il dilemma di Pat Carra, e chiediamoci anzitutto: cosa significa «rischio»? In senso tecnico, il rischio è la probabilità che un dato evento, che comporta danni per persone, animali o cose, si verifichi in un tempo definito. Poiché la sua misura si ottiene moltiplicando la probabilità dell'evento considerato per l'entità del danno che esso produce, ogni discussione intorno ad un qualunque rischio presuppone che si disponga di un modello teorico in grado di spiegare, sulla base di certe assunzioni ed ipotesi, il comportamento del sistema fisico e/o sociale di cui quell'evento è, propriamente parlando, «elemento». Diversamente, non potremmo mai «predire», ad esempio, che entro il 2100 il livello del mare crescerà da 18 a 59 centimetri e le temperature si innalzeranno fino a 4 gradi oltre le medie attuali, come affermato dal Rapporto 2007 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc). Né che eventi del genere potrebbero generare perdite economiche comprese fra lo 0,1 e lo 0,5 per cento del Pil, come pronosticato dall'Istituto per lo sviluppo economico di Kiel.
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Mercato e democrazia : A Trento il Festival dell'economia (liberista)
di Zenone Sovilla
Da oltre un ventennio, in un crescendo che sfiora l'apoteosi, assistiamo a celebrazioni quotidiane del mercato senza regole e del primato dell'impresa. Una macchina propagandistica impermeabile a ogni indicatore di sofferenza: dalle vittime dell’inquinamento ai crac finanziari. Nei Tg si riferisce spensieratamente dell’ennesimo bollettino sui cambiamenti climatici e un attimo dopo si esalta la crescita del mercato dell’auto. Qualunque pensiero critico è assente o soverchiato dall'incessante rumore di fondo della propaganda mercantile.
Bene. A Trento hanno pensato che tutto ciò non bastasse.
Per glorificare la dimensione economica della vita umana ci vuole un bel festival. Detto, fatto: nel 2006 la prima edizione. La Provincia autonoma vi ha destinato 600 mila euro, altri 100 mila vengono dal Comune di Trento e ai rimanenti 450 mila pensa una serie di sponsor privati con in testa Banca Intesa [250 mila] e le assicurazioni Generali [150 mila]. Nel comitato promotore non manca l'Università di Trento e in quello organizzatore trovano posto Il Sole 24 ore [giornale della Confindustria] e l'editore Laterza. Quest'anno ci sono tutte le premesse per replicare in grande stile, dal 30 maggio al 3 giugno, la simpatica kermesse: una sfilata di Vip del liberismo e dintorni, da Romano Prodi a Pietro Ichino. Possibilmente, però, in salsa agrodolce e «politicamente corretta»: il Trentino, si sa, è margheritino. Ecco affiorare l'impronta del noto gruppo di economisti de Lavoce.info: il coordinatore scientifico del festival è Tito Boeri, docente di economia alla Bocconi (come altri protagonisti del festival) secondo il quale l’obiettivo è «spiegare l’economia a tutti». Proprio così: spiegare.
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