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Marx e la scienza

di Franco Soldani*

Come il pensiero scientifico ha dato forma alla teoria della società di Marx


scienza211. Lo stretto rapporto che Marx ha intrattenuto con la scienza del suo tempo è provato non solo da tutta la sua storia intellettuale privata e pubblica, ma soprattutto dal fatto che non si può conprendere a fondo nessuna categoria del Capitale senza riferirsi al complesso sostrato scientifico che esse implicano. Da questo punto di vista, diventa essenziale tanto capire quale sia stata la comprensione che Marx ed Engels hanno avuto della razionalità scientifica ottocentesca, quanto scoprire quale esito essa abbia poi avuto nel processo di formazione dei concetti marxiani e nel disegnare il loro contenuto conoscitivo specifico.

2. Marx, ovviamente, aveva una conoscenza di prima mano della scienza del suo tempo. L'assidua frequentazione del British Museum, durante il suo esilio londinese, gli ha permesso di accedere ad una vasta mole di lavori scientifici che a loro volta rappresentano le fonti concettuali della sua sofisticata interpretazione del modo di produzione capitalistico. Naturalmente, non è che Marx mutui meccanicamente, o semplicemente copi, dalla scienza di allora le sue convinzioni. Al contrario. La sua relazione con dette fonti è complessa e multiversa, per niente lineare. Nel saggio vengono discusse quattro idee fondamentali della sua analisi sociale: a. La relazione cause-effetti; b. Il valore; c. Il metodo scientifico inglese; d. La presunta fine della metafisica.

3. In tutti e quattro i casi, la rilettura del pensiero di Marx alla luce di quella genealogia specifica ha permesso di ricostruire sia i peculiari significati attribuiti dalla ragione scientifica alle sue categorie, sia il significato specificamente sociale che Marx ha loro attribuito, sia infine le prepotenti, nuove tendenze epistemologiche che andavano prendendo forma in quegli anni all'interno della stessa comunità scientifica.

Un nuovo paradigma epistemologico stava allora emergendo ad opera degli stessi scienziati direttamente letti da Marx o comunque a lui noti. Mentre questo inedito modello di ragione dà la sua impronta, per vie altamente mediate, a tutta la riflessione di Marx, questi non ha sempre avuto una chiara consapevolezza delle conseguenze teoriche che tale pensiero scientifico emergente aveva su alcuni suoi presupposti filosofici più  generali, ed in particolare sulle basilari assunzioni del materialismo storico e del materialismo dialettico.

4. Se la scienza del suo tempo ci mette in grado di comprendere la sofisticata impalcatura concettuale delle categorie tramite cui Marx legge natura e struttura della società capitalistica, contestualmente essa ci permette anche di capire i punti deboli e talvolta le vere e proprie contraddizioni logiche in cui cade il suo discorso non appena esso viene messo a raffronto con quelle tendenze della razionalità scientitifica che gli sono sfuggite. In effetti, esiste nella concezione di Marx una dialettica profonda tra dati di fatto contrastanti. Da una parte, la scienza della sua epoca risulta essere indispensabile per poter capire la logica del capitale. D'altro canto, la comprensione della dinamica interna del modo di produzione capitalistico rende possibile una migliore delucidazione dei sottili legami che connettono capitale e pensiero scientifico. Infine, quella stessa, sofisticata conoscenza scientifica rappresenta, in specie con i suoi sviluppi novecenteschi, una delle confutazioni più radicali dei vecchi assunti marxiani - e di tutto il marxismo storicamente costituito, occorre dire - in merito alla realtà e al processo di pensiero.

5. Già con la scienza moderna è divenuto chiaro che non è più difendibile, al contrario di quanto erroneamente si crede ancor oggi, alcuna forma di realismo epistemologico, né la cognizione può più essere identificata con una qualsivoglia interpretazione di un oggetto storico. Se nello studio scientifico della natura l'osservatore riflette soltanto la propria attività concettuale, dando vita ad un processo ricorsivo di acquisizione delle conoscenze, a maggior ragione quando si occupa della società il soggetto non fa altro che confrontarsi con una moltitudine di altre interpretazioni ancora, entro una fitta rete d'interazioni sociali in cui ciò che conta è la solidità e la efficacia esplicativa del suo approccio convenzionalista, la capacità di quest'ultimo di resistere alle refutazioni e di promuovere analisi specifiche del mondo. Se in epoca contemporanea il dominio del capitale si è conficcato negli apparati di macchine che reggono l'organizzazione dell'attività lavorativa - che sono, è bene non scordarlo, scienza oggettivata -, del pari il sapere ha assunto oggi una forma costruttivista (in cui la conoscenza evolve a spirale all'interno della mente) talmente sofisticata che nessuno dei modelli marxisti attualmente esistenti è in grado di far fronte al suo enorme potere confutatorio.

6. Se le cose stanno così, e fine del saggio è dimostrare che stanno così, allora è ovvio che è oggi indispensabile abbandonare risolutamente tutti i concetti marxisti del passato, ormai datati. Se il marxismo odierno, in tutte le sue varianti, non può più avviare un'analisi soddisfacente della logica interna e più profonda della scienza (dovendo al contrario assumerla come sapere atemporale), del pari nemmeno esso è in grado di capire in che maniera tanto la razionalità scientifica ci obblighi a ripensare tutta la nostra storia pregressa, quanto essa sia assolutamente necessaria al capitale per assicurarne la riproduzione impersonale e virtualmente illimitata. Oggi è ormai improcrastinabile un radicale ripensamento e ridefinizione della concezione marxista della storia e della tradizionale interpretazione marxista della conoscenza. O lo si farà in maniera spregiudicata, vale a dire intellettualmente onesta e ferma, ma in pari tempo totalmente innovativa, oppure il grande patrimonio concettuale consegnatoci da Marx andrà di sicuro incontro, se ne può essere certi, alla sua definitiva uscita di scena.

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Quand  on  suit  une
mauvaise route, plus
on marche vite,  plus
on s’égare
Diderot
 
Non si piange sulla
propria storia, si
cambia rotta

Spinoza

Indice


 1.      Marx, il marxismo e la scienza

2.      Le fonti scientifiche del pensiero di Marx         

3.      La relazione cause-effetti

4.      Il valore e i suoi modi d’espressione

5.      Engels: Die plumpe englische Methode

6.      Marx: Die Teleologie ist kaputt gemacht worden

7.      Verso un nuovo marxismo
 

A Marxism not based
on science is obsolete

N. Cameron
 

1. Marx , il marxismo e la scienza
                                                                                                                                              
Si dice che Oscar Wilde, dal suo letto di morte nella camera d’albergo che l’ospitava, con impareggiabile humour britannico, abbia esclamato: <<This wallpaper is killing me!>>. Mi domando se per caso i marxisti di oggi, senza ovviamente il sarcastico aplomb di Wilde, non stiano facendo la stessa cosa. Dopo aver rivendicato lungo tutto un secolo ormai lo statuto scientifico dell’analisi marxista della società[1], attualmente non esiste, per quanto ne sa chi scrive, alcuno studio dedicato alla formazione scientifica di Marx[2]. Non esiste allo stato delle cose, per quanto è a mia conoscenza, alcuna ricerca dedicata alla comprensione dell’effettivo status epistemologico della scienza di allora, in tumultuoso cambiamento, né tanto meno alcuna indagine relativa al rapporto che lega la razionalità scientifica del tempo all’evoluzione interna del pensiero di Marx. Entrambi, invece, sono stati quasi sempre letti in modo tradizionale e aproblematico, come tramandava la vulgata, cosa che ha così vietato tanto la comprensione della natura pluriversa ed estremamente dinamica, in mutamento, della scienza ottocentesca, quanto la forma complessa ed altamente sofisticata della concezione più critica di Marx. Del resto, di quella presunta scientificità del marxismo storico, si potrebbe forse dire, vedremo perché, quello che Marx stesso diceva dell’economia politica: cioè che <<essa non comincia affatto nel momento in cui se ne comincia a parlare come tale>>[3].

Proprio per questo, probabilmente, l’attuale declino relativo del marxismo (molto simile ad una disintegrazione, per la verità) quale teoria sociale complessiva con tutto viene spiegato – in genere, con il collasso prima e la scomparsa poi dei paesi del cosiddetto “comunismo storicamente esistito”[4] – meno che con un’attenta analisi dell’impronta che la scienza dell’Ottocento ha lasciato nel sistema concettuale di Marx. Come cercherò di dimostrare, a parte questo problema cruciale, tutto il resto, per quanto importante possa apparire, è <<wallpaper>>.

A prima vista un’affermazione di questo tipo potrebbe sembrare provocatoria e persino arrogante. Spero tuttavia di poter dimostrare che non è così. Non si contano in effetti gli studi, recenti e meno recenti, dedicati da storici, economisti, filosofi, sociologi, ed in genere da tutta una schiera di studiosi sia ad una riconsiderazione dell’opera di Marx sia ad un nuovo utilizzo dei suoi concetti[5]. Tuttavia il limite di tutti questi studi sta nel fatto che essi ignorano un dato fondamentale, e cioè che il pensiero scientifico dell’Ottocento prima e poi soprattutto quello del Novecento tanto ha reso problematiche alcune rilevanti assunzioni di Marx (ripetute invece stancamente, ancor oggi, da quasi tutti gli studi citati), quanto ha completamente demolito tutte le categorie del marxismo storicamente costituito, vecchio e nuovo, rendendo definitivamente superato e desueto il suo sistema teorico complessivo, ciò che si potrebbe forse chiamare il suo paradigma sociale basilare. È allora necessario ripensare radicalmente tutto quanto, rimettendo in discussione anche le idee che a prima vista potevano sembrare ancora valide, in primis ovviamente quella di valore. Senza quest’opera di profonda revisione e potatura concettuale il marxismo, in tutte le sue mille varianti, diventa inutile e perfino fuorviante. Se dovesse rimanere com’è, secondo me è giusto che esso venga abbandonato e dimenticato dalle generazioni future. Penso che l’estinzione delle teorie in società debba considerarsi un evento naturale, alla stregua di quanto è già avvenuto nel passato per intere specie animali e vegetali. Se accadesse, non ci sarebbe niente di sorprendente. Caso mai sarebbe innaturale il contrario. D’altro canto, se noi stessi non prenderemo le distanze da quella vecchia concezione, a renderla un pezzo da museo di sicuro ci penserà lo sviluppo storico del capitalismo contemporaneo. Mi sembra francamente che a questa società  davvero non manchino i “grandi mezzi” massmediatici – dalle istituzioni culturali (Università, Case editrici, ecc.) a quelle dell’informazione (Televisioni, Quotidiani, ecc.) - per poterlo fare oggi molto comodamente. Del resto, non è neanche escluso che nuovi sistemi di pensiero non marxisti possano un domani non molto lontano rimpiazzare il marxismo nella spiegazione e nella critica della società capitalistica[6], magari migliorando la nostra comprensione dei suoi meccanismi riproduttivi  più essenziali.

Per il momento sostengo che la scienza di metà Ottocento rappresenta per Marx tanto l’archetipo per eccellenza del pensare in maniera razionale, quanto gli fornisce una chiave interpretativa fondamentale per la spiegazione della natura e delle tendenze più tipiche del modo di produzione capitalistico. Il pensiero scientifico di cui Marx ha diretta conoscenza, in altre parole, costituisce la fonte teorica più importante di tutta la sua complessa analisi della società capitalistica. In un certo senso, è la matrice cognitiva di quell’articolato sistema di concetti – dal valore alla sussunzione reale, dal lavoro sostanza alla visione dei soggetti quali funzionari del capitale, per non citarne che alcuni tra i più importanti – dal quale in definitiva sono poi derivate le varie forme del marxismo storico fiorite nel Novecento. Sia l’interpretazione della riproduzione capitalistica, sia la multiversa natura del marxismo storicamente esistito (nonché, ovviamente, delle società in cui esso si è incarnato) dipendono dunque dalla preliminare rappresentazione del sapere scientifico che Marx si è data. Il sostrato scientifico della sua concezione può forse meglio spiegare, più di qualsiasi altro referente, l’interna evoluzione del marxismo novecentesco e le particolari sue varianti nazionali ed internazionali, giacché solo detto sostrato ci mette in grado di capire le deformazioni e gli errori in cui è incorsa la comprensione del pensiero di Marx da parte dei diversi scholar del movimento operaio moderno.
   

Ignoring the origins of things
is always a risky matter.

G. Edelman

2. Le fonti scientifiche del pensiero di Marx

Naturalmente, ciò non vuol dire che Marx avesse una completa padronanza o un’esaustiva conoscenza dei paradigmi scientifici della sua epoca. Da quel gran divoratore di libri che era, certamente era molto informato. Del resto, a questo proposito, non si definiva egli stesso <<eine Machine>>?[7] Nondimeno, alcune cose della scienza moderna, come vedremo, gli sono comunque sfuggite. E forse, a giudicare dalle circostanze in cui Marx si è trovato, non poteva essere altrimenti.

Quali erano dunque, con ogni verosimiglianza, le sue principali fonti d’informazione e di documentazione? Qui conviene forse distinguere due periodi. Prima del suo esilio dal continente e durante il suo definitivo soggiorno a Londra e in Inghilterra. Diverse sono infatti nei due casi i testi consultati da Marx e le condizioni in cui avviene la conoscenza del pensiero scientifico dell’epoca. Nel primo periodo, diciamo dal 1842 al 1850, l’Illuminismo francese è forse il suo primo tramite con la scienza di allora[8]. Il sensismo materialista del Settecento sembra rappresentare il suo primo contatto effettivo con tematiche non più soltanto storico-giuridiche o filosofico-politiche, bensì squisitamente scientifiche. Nel corso di questi anni Marx consulta infatti diverse opere scientifiche in senso stretto nei più diversi campi della conoscenza: dalla chimica all’astronomia, dalla botanica alla biologia, dalla geologia alla fisica[9]. Solo man mano che cresce il suo interesse per l’economia politica, comincia a  leggere anche una gran quantità di libri sulla storia della tecnologia e la divisione del lavoro così come veniva allora interpretata dagli studiosi inglesi, tedeschi e francesi più noti, o che in ogni modo avevano attirato la sua attenzione[10].

Nel secondo, presumibilmente dal giugno 1850, non appena Marx riceve il suo pass al British Museum, al 1867, anno di pubblicazione del primo libro di Das Kapital, le fonti aumentano di numero e si diversificano[11]. In primo luogo, naturalmente, vi sono i volumi che la British Library gli mette a disposizione[12]. Nel più grande <<Temple of knowledge>> dell’Ottocento si può ragionevolmente pensare che Marx abbia avuto accesso a quasi tutte le pubblicazioni scientifiche del tempo, sicuramente alle più importanti. In secondo luogo, sembra ragionevole supporre che Marx abbia potuto prendere visione del dibattito scientifico e delle ricerche del tempo attraverso le riviste che allora in Gran Bretagna si occupavano espressamente di scienza[13]. Anche se erano poche e per un pubblico specializzato, è probabile che Marx le abbia usate per documentarsi sugli sviluppi del pensiero scientifico e magari per compilare una sua personale bibliografia scientifica.

Meno congetturali sono invece le opere degli scienziati, letti o comunque sicuramente conosciuti da Marx, desumibili dal suo Briefwechsel. Nel periodo in questione sembrano concentrarsi quasi tutte le opere relative alle scienze naturali – concernenti essenzialmente la biologia e la geologia, la fisica e la matematica, la mineralogia e l’astronomia, la chimica e la botanica – che poi confluiranno nel primo volume del Capitale[14]. Qui giocano certamente un ruolo di primo piano le letture consigliate da Engels, il quale trovandosi a Manchester usufruiva di un punto di osservazione privilegiato - anche se non sempre attendibile, come vedremo - per la conoscenza del pensiero scientifico europeo[15]. Fondamentale, a questo proposito, sono naturalmente i libri catalogati nella famosa biblioteca privata di Marx ed Engels, da poco pubblicata nella MEGA²[16]. Questa è la fonte primaria da cui si può avere una panoramica pressoché completa degli autori e delle opere scientifiche con certezza studiati dai due grandi tedeschi negli anni che qui interessano.[17] Infine, è necessario ricordare almeno due altre circostanze che di sicuro hanno permesso a Marx di approfondire la sua conoscenza del mondo scientifico di metà Ottocento. Da una parte, vi sono infatti i public meetings e le conferenze di scienziati inglesi tra i più influenti a cui Marx assisteva di persona[18]. Dall’altra, vi sono infine le lezioni di meccanica e anatomia, sia di Robert Willis sia di Henry Huxley ad esempio, che egli stesso seguiva per meglio documentarsi in merito alle più recenti acquisizioni della scienza dell’epoca[19].

 Come si vede, il ventaglio delle fonti possibili, probabili e certe, attraverso cui Marx poteva prendere visione diretta della scienza del suo tempo, dell’interna struttura concettuale del pensiero scientifico in pieno sviluppo dell’Inghilterra Vittoriana, è davvero considerevole, tanto dal punto di vista quantitativo quanto da quello qualitativo[20]. Il quadro d’insieme da esse delineato ci fa meglio capire quanto debba essere stata varia e complessa l’influenza avuta dalla scienza nel determinare forma e contenuto delle idee marxiane. Vista l’ampiezza, la diversificazione e la qualità delle fonti, sicuramente Marx ha avuto modo di formarsi un’opinione precisa dello stato della scienza della sua epoca. Si tratta di vedere tuttavia se egli ne ha colto tutte le diverse anime e implicazioni. In quella intensa attività di documentazione e analisi, tre sembrano essere gli atteggiamenti tenuti da Marx a fronte dei concetti scientifici con i quali è venuto in contatto. In primo luogo, sostengo, Marx ha  incorporato nel suo sistema teorico una buona parte delle idee scientifiche scoperte strada facendo nel corso dei suoi studi senza alterarne il significato. Semplicemente esse sono state assorbite tali e quali nel suo sistema teorico (anch’esso in statu nascendi in quegli anni). In secondo luogo, una serie invece di queste categorie ha subito alcune trasformazioni concettuali che hanno permesso a Marx di adattarle in maniera specifica alla (di accomodarle in un certo senso nella) propria problematica, cambiando almeno in parte il loro originario contenuto[21]. Infine, una parte non secondaria dei concetti che allora andavano prendendo forma all’interno del pensiero scientifico, e che avrebbero ben presto disegnato la nuova epistemologia emergente, è stata sostanzialmente fraintesa da Marx, sia perché a volte non ne vede la complessità, le molteplici tendenze, oppure perché non riesce a cogliere la duplicità e l’ambiguità di certe sue premesse.

Se le due prime assimilazioni rappresentano ciò che permette a Marx di dare la sua impronta tipica all’analisi della società, l’ultima esclusione rappresenta invece ciò che mette in discussione alcuni aspetti di rilievo della sua elaborazione, inficiandone l’efficacia esplicativa e persino l’attendibilità logica. Se da un lato la scienza serve a Marx sia per spiegare la natura altamente specifica del modo di produzione capitalistico rispetto alle epoche sociali passate sia per dare alla sua interpretazione della realtà capitalistica un imprimatur scientifico e quindi oggettivo (non meramente politico-ideologico, soggettivo o arbitrario), dall’altro l’evoluzione interna della razionalità scientifica dell’epoca e il suo carattere multiverso mettono in discussione alcuni di quei presupposti concettuali che invece Marx pensava di poter mutuare senza alcuna ulteriore indagine critica da quello stesso pensiero. L’aspetto paradossale della questione è che mentre la scienza ottocentesca li stava abbandonando, Marx li assume al contrario come suoi referenti epistemologici. La cosa, naturalmente, avrà ripercussioni profonde sulla sua concezione della conoscenza e del reale. Questo quadro è del resto complicato da due altre implicazioni. Se infatti la scienza consente a Marx di meglio e più a fondo penetrare negli intrinseci (e perciò segreti) meccanismi riproduttivi del capitale, per converso la sua sofisticata interpretazione del modo di produzione capitalistico ci mette in grado anche di diversamente impostare una virtuale critica della scienza stessa, dei suoi concetti e della sua pretesa avalutatività, della sua presunta indifferenza per i valori societari e per la storia delle classi nell’ambito della società attuale. Per suo conto, d’altro canto, la maniera in cui la razionalità scientifica ha trasformato i suoi paradigmi basilari tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo ci indica anche che cosa debba essere ridiscusso e  riformulato nell’analisi marxiana della scienza stessa, e per conseguenza nell’interpretazione della realtà sociale derivata da quest’ultima. Insomma, se nel pensiero scientifico è insita la logica riproduttiva del capitale, allo stesso modo la dinamica intrinseca di quest’ultimo viene meglio svelata, o resa per la prima volta intelligibile, proprio dal processo di formazione di quella razionalità scientifica che il capitale ha condizionato sin dall’inizio della sua epoca. A mio avviso è questa una dialettica infinitamente superiore a tutte quelle striminzite formulette sul divenire, l’emergere del nuovo, eccetera, da tutti ripetute nel corso dei decenni. Come si dice, no comparison! Per tentare di illustrare con esempi concreti queste ipotesi, prenderò in considerazione quattro idee basilari del pensiero di Marx, quattro punti cardine del suo intero paradigma teorico: 1. La convinzione che le cause esistano solo nei loro effetti; 2. La natura del valore; 3. Die plumpe englische Methode[22] attribuito a Darwin; 4. La fine della metafisica.     

Un observateur qui ne voit les choses
que du dehors, ne voit rien.

M. Proust

3. La relazione cause-effetti

Alcuni dei principi concettuali più importanti della concezione marxiana affondano la loro radice nel rapporto che nel modo di produzione capitalistico si stabilisce tra apparenza ed essenza delle cose. Come ci vien detto, <<ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero>>[23]. Oserei anzi dire che la distinzione in causa costituisce il fondamento epistemologico di tutta la complessa analisi sociale di Marx, il pillar che sostiene l’intera sua interpretazione del modo di produzione capitalistico, e senza il quale il suo impianto teorico complessivo crollerebbe senza meno. L’intero Capitale dovrebbe allora essere riscritto. Si tratta dunque di un passaggio estremamente delicato dal punto di vista teorico. In sostanza, è il punctum dolens di tutto il pensiero di Marx, la categoria tramite la quale tutto sta ed insieme cade. Per questo merita un’attenzione particolare. L’intrinseco significato dell’idea in questione è triplice. Vediamo, tout d’abord, i primi suoi due risvolti.

Innanzitutto, essa implica una distinzione concettuale di rilievo tra due ambiti fondamentali del mondo capitalistico: <<Bisogna distinguere le tendenze generali e necessarie del capitale dalle forme nelle quali esse si presentano>>[24] Le prime hanno il carattere di leggi causali, le seconde rappresentano invece i loro effetti tangibili, constatabili empiricamente e persino misurabili. Se le si confonde, o se si annulla il clivage che le separa, ci si vieta da soli la possibilità di rendersi intelligibile l’ambito di realtà che entrambe contribuiscono a creare. Se tale mondo è la società attuale, diventa allora impossibile poterne delucidare gli aspetti più complessi e meno visibili. Ascoltiamo come Marx spiega di nuovo il concetto in questione: <<Se, come il lettore ha dovuto a sue spese convincersi, l’analisi dei reali rapporti interni del processo capitalistico di produzione è molto complicata ed impone un lavoro assai gravoso, se è compito della scienza ricondurre il movimento apparente, puramente fenomenico, al movimento reale interno, è facile comprendere come necessariamente gli agenti della produzione e della circolazione capitalistica si debbono fare delle idee sulle leggi della produzione che sono in assoluto contrasto con il reale significato delle leggi stesse, esprimendo unicamente il movimento apparente>>[25]. Marx non si stanca di ripetere questa basilare avvertenza, aggiungendovi nel contempo nuove specificazioni: <<La forma definitiva dei rapporti economici, quali si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale, e quindi l’idea che gli agenti attivi e passivi [die Träger und Agenten] di tali rapporti cercano di farsene per arrivare a comprenderli, differiscono considerevolmente dalla intima, essenziale, ma nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e dal concetto che ad essi corrisponde, anzi ne rappresentano addirittura il rovesciamento, l’opposto>>[26].

La distinzione in oggetto è dunque di cruciale importanza tanto per poter tener conto della presenza dei due livelli di realtà (la superficie e il suo nucleo più profondo, altra metafora scientifica) quanto per poter così portare alla luce il meccanismo riproduttivo più interno del modo di produzione capitalistico, senza la comprensione del quale non resterebbe in piedi niente nell’analisi marxiana. Si pensi, in questo caso, all’ultima precisazione contenuta nel passo citato, e il cui sofisticato contenuto concettuale verrà chiarito più avanti.

In secondo luogo, tutte le forme d’espressione del capitale in quanto tale – dal salario al profitto, dalle rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti interindividuali tra soggetti, per non citare che le più rilevanti – si rapportano alla loro fonte in maniera altrettanto peculiare. Il capitale in quanto tale che si rende responsabile della loro esistenza  e del loro aspetto dinamico finisce infatti con l’esistere solo in e tramite esse. Questo significa che esso è conoscibile da parte dei diversi individui societari unicamente attraverso le conseguenze che induce nel mondo dei fenomeni, che anzi consta di tali effetti.  I singoli, in virtù di quel processo, hanno perciò accesso cognitivo e pratico soltanto a questi ultimi. Il capitale, in altre parole, può essere percepito e compreso dagli agenti sociali soltanto attraverso quelle forme che gli danno concreta esistenza empirica nel contesto della storia societaria in cui si sviluppa la realtà sensibile, quella di cui si può fare esperienza (diretta o indiretta). Vediamo come spiega la cosa Marx stesso: <<Il borghese vede che il prodotto diventa costantemente condizione di produzione. Ma non vede che i rapporti stessi di produzione, le forme sociali in cui egli produce e che gli appaiono rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale>>[27]. Il concetto, allo scopo evidente di metterne in rilievo l’importanza teorica, è chiarito più volte: <<È quindi la costante riproduzione dei medesimi rapporti – dei rapporti che condizionano la produzione capitalistica – che li fa apparire non solo come forme sociali e risultati di questo processo, ma in pari tempo come suoi costanti presupposti. Essi però sono tali solo come presupposti che esso costantemente pone, crea, produce>>[28].

Il capitale come tale, dunque, pone le sue forme di manifestazione o mette al mondo i suoi modi d’esistenza trasformandoli contemporaneamente in primi cominciamenti, o premesse infondate e non più problematizzabili, del suo interno sviluppo, della dinamica intrinseca tramite cui si realizza. Tutte queste categorie sono suoi risultati, ma esistono al mondo (e lo conformano in maniera complessa) in guisa di presupposti d’ogni cosa. Sono conseguenze di uno specifico sostrato e da questo dipendono, ma nello stesso tempo hanno un apparente status già dato o essente da cui tutto sembra cominciare. Noto tra parentesi che l’intero marxismo storico, compreso quello odierno, non ha mai avuto alcuna cognizione di queste complesse nozioni[29]. Tuttavia, da quale fonte specifica e attendibile mutua Marx questa sofisticata idea? Sostanzialmente dalla scienza del suo tempo. È infatti l’interpretazione della natura da parte del paradigma newtoniano di allora, dominante del resto in Gran Bretagna e in Europa, a fornirgli la base concettuale più autorevole per la sua argomentazione.

La congettura scientifica secondo la quale le cause naturali esistono solo nei loro effetti, e sono conoscibili soltanto tramite le conseguenze che esse – con la loro apparizione e manifestazione concreta – inducono nel mondo dei fenomeni percepibili e additabili, sensibili e misurabili, è stata sostenuta e apertamente argomentata precisamente da uno dei divulgatori più importanti di Newton, ben noto anche a Marx[30]: Colin MacLaurin. Nel volume dedicato proprio all’esposizione dei principi scientifici dell’opera newtoniana[31], il fisico e matematico scozzese enuncia la tesi in oggetto in maniera inequivocabile: <<Our knowledge of things penetrates not into their substance: we perceive only their figure, colour, external surface, and the effects they have upon us, but no sense, or act of reflection, discovers to us their substance>>[32].

Se la natura sicuramente possiede un ordine ed una regolarità invarianti, un’intrinseca struttura legisimile (universale e necessaria) che dà stabilità e relativa certezza al nostro mondo, consentendoci di poter  sottoporre al vaglio dell’esperienza e della previsione le nostre teorie[33], essa è tuttavia da noi comprensibile solo indirettamente e per il tramite dei meccanismi osservabili nell’ambito empirico. Questa convinzione riposa ovviamente sul fatto che l’intero sistema dell’universo deriva la sua esistenza in primo luogo dall’opera attiva del Divine Architect a cui ogni cosa deve la sua nascita[34]. Tuttavia, un altro motivo fondamentale che spiega l’idea in questione è il fatto che secondo MacLaurin sarebbe un errore logico capitale, oppure una spropositata e persino arrogante presunzione, pretendere di poter risalire all’inizio dell’infinita catena di cause – detto anche <<Supreme or First Cause>>[35] – che si è resa responsabile degli effetti constatabili nel mondo dell’esperienza[36]. Presumere di poterlo fare, rinchiuderebbe la nostra ragione in una gabbia dalla quale sarebbe poi impossibile uscire, giacché dovremmo presupporre l’illimitata capacità del nostro intelletto di affrontare la regressio ad infinitum implicita nella tesi di partenza. Il che è assurdo.

Entrambe le limitazioni in oggetto – derivanti tanto dalla teologia quanto dalla stessa complessità della natura – rendevano dunque all’epoca estremamente plausibile sostenere l’interpretazione descritta, che implicitamente contiene anche l’importantissima distinzione tra causalità e legalità dei fenomeni naturali, concetto su cui converrà tornare più avanti. Lo stesso divieto teologico, del resto, non rappresentava affatto un insuperabile <<ostacolo epistemologico>>, per dirla con Bachelard, alla incipiente trasformazione dell’epistemologia scientifica moderna[37]. Non appena diverrà chiaro che quel postulato rappresentava comunque un’assunzione dell’osservatore, la sua funzione concettuale subirà dei mutamenti significativi, divenendo persino più sottile, cosa che gli permetterà così di poter ancor meglio esplicare il suo potere vincolante in contrapposizione alla teorie rivali[38].

Si può sostenere, con fondate ragioni, che il manuale di MacLaurin rappresentava l’interpretazione standard di una teoria fisica universalmente condivisa dalla comunità scientifica del tempo? Ben difficilmente lo si potrebbe negare[39] E non solo perché ovviamente poggiava sull’allora indiscussa autorità di Newton. La concezione in oggetto era infatti predominante in tutto il milieu scientifico europeo ancora decenni dopo, a riprova sia della sua reale e duratura influenza sia della sua ampia diffusione presso le societés savantes dell’epoca (del resto MacLaurin era stato più volte insignito di diversi riconoscimenti da parte della <<Académie Royale des Sciences>> di Francia in seguito a suoi importanti lavori matematici sulla teoria del calcolo)[40].

Agli inizi dell’Ottocento, ad esempio, René Haüy, il fondatore della cristallografia, nel suo ponderoso Traité élémentaire de physique in quattro volumi[41], poteva nuovamente affermare che le forze della natura <<ne se manifestent à notre égard que par leurs effets. Ce n’est que par les effets qu’elles sont capable de produire, que nous pouvons  les mesurer>>[42]. A ulteriore conferma del credito che questo enunciato scientifico godeva  tra i fisici del tempo, Maurice Becquerel, padre del forse più famoso Henry, a cui si deve la scoperta della radioattività, poteva a sua volta riferirsi al medesimo principio per giustificare in un certo senso i limiti della scienza nello studio del mondo naturale: <<Dans l’impossibilité de remonter à la cause des phénomènes produits, il faut se borner à étudier les effets et les lois qui les régissent>>[43].

Il consenso degli scienziati del tempo intorno a questo principio era dunque pressoché unanime, anche dal punto di vista geografico. Johannes Müller, un importante fisico tedesco dell’epoca (da non confondere con l’altrettanto celebre fisiologo, suo contemporaneo), argomenta infatti in maniera pressoché identica la sua interpretazione della ricerca scientifica: <<Das innere Wesen der Körper ist uns verschlossen, sie sind uns nur durch die aussere Erscheinung bekannt, d. h. wir wissen von ihnen unmittelbar nur das, was wir durch die Vermittlung unsrer Sinne von ihnen erfahren>>[44]. Poiché le prime fonti della nostra conoscenza della natura sono l’osservazione e l’esperienza, che poi l’attività razionale del nostro intelletto trasforma in sapere scientifico delle cose, noi possiamo dire ben poco sull’ultimo fondamento della realtà. Al contrario: <<Nur der aussere, nicht der innere zusammenhang kann durch die Erfahrung gefunden werden. Über die inneren Ursachen der Erscheinungen, über das Wesen der Kräfte, welche sie hervorbringen, können wir nur Vermuthungen, Hypothesen, aufstellen>>[45].

Si può dire che Marx avesse una familiarità di prima mano con l’opera di questi ultimi scienziati? La cosa infatti potrebbe sembrare dubbia visto che nessuno di loro, né in Das Kapital né altrove, viene espressamente citato quale referente dell’analisi. Si potrebbe forse pensare, a questo punto, che Marx ignorasse l’esistenza di queste tendenze[46]. E tuttavia niente sarebbe più errato. Non solo esse erano moneta corrente nella scienza del tempo, ma si ritrovano immutate anche nei volumi scientifici sicuramente letti da Marx. Si veda, ad esempio, l’ampio studio di Benjamin Witzschel dedicato all’esposizione delle acquisizioni più recenti della fisica alla metà dell’Ottocento[47], oppure i tre volumi dell’Encyclopädie curata da Matthias Schleiden e Erhard Schmid, opere che facevano parte entrambe della biblioteca di Marx[48] . Se tuttavia vi fossero ancora delle incertezze in merito, queste dovrebbero essere dissipate dalla lettura di almeno due altri autori ben noti, il secondo anche di persona, a Marx: John William Herschel e Thomas Henry Huxley.

Per il famoso astronomo e fisico inglese, nel volume che diverrà un influente manifesto dell’induttivismo ottocentesco e un autorevole trattato di metodologia scientifica[49], l’ordine legiforme della natura presuppone <<the existence of causes acting under circumstances of such concealment as effectually to prevent their direct discovery>>[50]. Certamente, diveniamo consapevoli della struttura causale del mondo fisico attraverso l’esperienza e l’osservazione, e in genere avvertiamo o crediamo in questo ordinamento razionale di eventi per mezzo di un atto intuitivo[51]. Come ci vien detto, la nostra credenza nelle leggi di natura è <<an internal feeling>> e rappresenta <<the practical ground>> di tutta la nostra esistenza, compresa ovviamente la nostra attività logica e conoscitiva. Nondimeno, la nostra comprensione della causalità naturale non può avvenire in forma diretta né può aspirare alla completezza. Il perché, a parte ogni altra considerazione relativa alla costitutiva imperfezione dei nostri mezzi d’indagine ed ai loro limiti[52], è presto detto: <<In general we must observe that motion, whenever produced or changed, invariably points out the existence of force as its cause; and thus the forces of nature become known and measured by the motions they produce >>[53].

Logicamente, anche per Herschel la pretesa di poter comprendere la regolarità causale della natura senza alcun temine intermedio è del tutto priva di fondamento. La natura legiforme del mondo fisico, anzi, spiega ancora Herschel con insolita ed inintenzionale enfasi convenzionale, <<it is an axiom>>[54] del nostro intelletto che solo rende possibile lo studio razionale dei fenomeni e la ricerca di invarianti nella loro infinita e multiversa interdipendenza. È precisamente questo <<human belief>>[55] a rendere possibile l’interpretazione concettuale delle cose, delle relazioni e dei processi empirici un’impresa razionale[56]. Esso è dunque un presupposto della scoperta scientifica e non il fine verso cui questa tenderebbe o dovrebbe tendere. In sintesi, allora, la conoscenza scientifica della natura non può che passare attraverso la mediazione delle conseguenze indotte dalla <<struttura intima>> dell’universo nel mondo sensibile della nostra esperienza empirica: <<The agents employed by nature to act on material structures are invisible, and only to be traced by the effects they produce>>[57].

L’argomentazione di Huxley non segue strade molto diverse. Per certi versi, anzi, ne è persino uno sviluppo più radicale, come avremo modo di vedere nel paragrafo successivo. Anche per il famoso evoluzionista, <<Darwin’s Rottweiler>> come verrà poi chiamato[58], la natura possiede un odine fisso e invariabile di cui facciamo esperienza ogni giorno osservando la regolare successione e ripetizione degli eventi e dei processi che ci circondano[59]. Tuttavia quando postuliamo <<the objective existence of a material world>>[60] noi non ammettiamo di poterne conoscere senz’altro l’intrinseco carattere legiforme, necessario e universale, giacché allora, a parte che diverrebbe impossibile poterne verificare la verità, dovremmo anche presuppore di poter disporre di una ragione onnisciente in grado di ricostruire <<the endless procession of phenomena>>[61], l’intera e complessa catena degli accadimenti, il che è assurdo e manifestamente contrario alla realtà[62].

Al contrario, quello che noi possiamo aspirare a comprendere e a rappresentare nei nostri sistemi d’idee è la regolarità degli effetti che si susseguono nel mondo fisico e ci confermano la presenza di un <<underlyng substratum>>[63] dal quale deriva la relativa stabilità delle condizioni fisiche in cui viviamo. In ogni caso, quando descriviamo il mondo fisico noi non facciamo altro che ordinare e dare razionalità al complesso dei fenomeni che la natura ci pone davanti quali differenti forme di manifestazione della materia. Come dice Huxley, <<natural laws espress the general course of nature […] and they remain laws only so long as they can be shown to express that order>>[64].

Non occorre, penso, risalire fino a Laplace[65] per capire che la distinzione tra cause e leggi, tra ordine interno della materia e interdipendenza complessa dei fenomeni, costituisce una delle categorie epistemologiche fondamentali della scienza dell’epoca. Per tutta la comunità scientifica del tempo la differenza tra i due livelli rappresentava un assunto indispensabile per poter tener conto della ineliminabile forma finita e limitata della ragione umana[66]. Da questo punto di vista,  poco importa che all’origine di questa  convinzione vi fosse una <<Supernatural Intelligence>>[67] o <<the rational order that pervade the universe>>[68]. Sta di fatto che, o per motivi religiosi o per ragioni scientifiche, noi possiamo aspirare a conoscere solo gli effetti e le conseguenze tangibili, osservabili e misurabili, della causalità necessaria operante in natura[69]. È solo in questo contesto che noi possiamo costruire un’interpretazione razionale, decidibile e rettificabile, rivedibile e controllabile, confutabile e assoggettabile a esperimento, dei fatti d’esperienza.

Francamente penso che non siano necessarie altre prove testuali a conforto della tesi che ho cercato di illustrare. Quella concezione era talmente radicata nel pensiero scientifico di allora che essa è rintracciabile un po’ in tutti gli scienziati letti di sicuro da Marx[70]. Se poi si pensa al fatto che essa attraversa indenne la transizione di fine secolo[71] per giungere intatta fino ai nostri giorni[72], si dovrebbe avere un’idea più chiara credo in merito alla sua effettiva validità epistemologica. La scienza moderna corrobora dunque in pieno la distinzione fatta da Marx tra causa più interna e sua manifestazione di superficie negli effetti visibili e apparentemente più concreti o reali, i soli di cui si possa fare esperienza.

Tuttavia una domanda sorge a questo punto spontanea. Le due distinzioni in oggetto si ricalcano completamente? Hanno cioè entrambe lo stesso contenuto concettuale, un identico status teorico? Penso proprio di no. Tra le due corre anche infatti una sottile linea di demarcazione che ci dà la misura integrale dell’estrema originalità del pensiero di Marx. La loro differenza dovrebbe gettare una nuova luce anche sulle sue famose affermazioni relative all’interpretazione della società attuale in termini di <<processo di storia naturale>>, come un organismo il cui sviluppo segue una <<legge di natura>>[73]. L’idea di Marx deve la sua diversità rispetto a quella d’impronta scientifica al fatto che essa interpreta un differente oggetto, un modo di produzione e una formazione sociale storicamente determinati, che debbono possedere caratteristiche del tutto originali se è vero che <<il capitale annuncia sin da principio un’epoca del processo sociale di produzione>>[74]. Qual è allora la specificità della categoria di Marx? Si son già visti i primi suoi due livelli. Essi sono però completati da un ultimo, e dirimente, significato che dà tutto il suo peculiare finish (e la sua complessa struttura cognitiva interiore) al concetto in questione. Vediamo.

Perché è importante considerare in maniera differente i due piani di cui consta la realtà sociale istituita dal modo di produzione capitalistico? Su che cosa si basa la loro diversità? Su una caratteristica peculiare delle Erscheinungsformen: <<È cosa abbastanza nota in tutte le scienze, tranne nell’economia politica, che nella loro apparenza spesso le cose si presentano invertite>> [75]. Secondo Marx, dunque, le forme sociali che danno espressione alle tendenze più intrinseche del capitale - dal salario al profitto, dalla rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti interindividuali tra soggetti - posseggono una natura opposta a quella che effettivamente spetta loro. Tipica a questo proposito, precisa ancora Marx, è la <<forma di salario>>: <<Su questa  forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare>>[76].

Le forme di manifestazione, i modi d’apparizione del capitale, e ricordo che sono tutte categorie sociali storicamente determinate - vale a dire, insisto, tutte quelle istanze che danno corpo di sistema alla realtà societaria, che producono la sua struttura istituzionale e la sua storia variabile nel tempo (dalla politica al diritto, dall’agire economico al mondo dei valori e del simbolico, dalla razionalità individuale alle molteplici agenzie ideologiche che ingabbiano gli individui nelle loro specifiche funzioni sociali: in una parola, dalla mind dei soggetti alle loro differenziate pratiche comunitarie) –, si presentano dunque all’intelletto dei soggetti societari, secondo Marx, come istanze che tanto esprimono il contrario della loro più interna natura preformata quanto finiscono col rendere invisibile il fondamento da cui pure dipendono. Questi due tratti delle categorie in oggetto sono contestuali e coevolvono insieme. Entrambi rappresentano quanto di più specifico mai sia stato prodotto dal processo di formazione del capitale. Al fine di chiarire in maniera inequivocabile questo fondamentale concetto di Marx, ignorato del resto da tutto il marxismo storicamente esistito, conviene citare un passo dirimente: <<Gli agenti della produzione capitalistica vivono in un mondo stregato, e le loro stesse relazioni appaiono loro come proprietà delle cose, degli elementi naturali della produzione. Ma è nelle forme estreme, le più mediate – in forme in cui allo stesso tempo non solo è diventata invisibile la mediazione, ma anzi è espresso il suo diretto contrario -, che le figure del capitale appaiono come veri agenti e portatori immediati della produzione. Il capitale produttivo d’interesse è personificato nel moneyed capitalist, quello industriale nell’industrial capitalist, il capitale produttivo di rendita nel landlord come proprietario della terra e infine il lavoro nell’operaio salariato>>[77]. All’intelletto e alla ragione formale di questi variegati soggetti, qualunque ruolo essi occupino nel sistema complessivo della riproduzione sociale, è dunque fatto divieto di poter mai comprendere l’originaria forma derivata della loro condizione sociale, che ad essi appare invece come una premessa del loro agire. Poiché il processo che li ha posti in esistenza è divenuto irrappresentabile e si è persino realizzato nel suo opposto, per tutti questi individui può avere senso logico solo la loro razionalità infondata e senza  causa alcuna, se si esclude ovviamente la natura autoreferente dei singoli e la loro apparentemente innata capacità decisionale. <<Das Prinzip der Politik – spiega del resto Marx - ist der Wille>>[78]. Questo meccanismo riproduttivo è istituito dal capitale sin dai suoi inizi, e costituisce precisamente ciò che lo demarca da tutte le formazioni sociali precedenti[79]. Chiaramente, degli individui simili mai e poi mai potranno avere accesso alla comprensione della intrinseca natura preformata delle loro funzioni sociali. Poiché nemmeno possono pensare la loro ragion d’essere, questa per essi non  ha significato alcuno. La cosa è chiarita in maniera esemplare dallo stesso Marx: <<In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi sono anzi immutabili, ma del loro contenuto>>[80]. Mi sembra superfluo commentare ulteriormente il pensiero di Marx. I famosi effetti sociali della dinamica capitalistica innescati dalla sussunzione reale[81] – di nuovo: i diversi soggetti intenzionali e più in generale tutte le categorie più importanti del modo di produzione  e della formazione sociale attuale - sono infatti <<presupposti>>, <<forme naturali e immutabili>>, del tutto prive di <<contenuto>> specifico, del sistema sociale che esse istituiscono e a cui danno la loro impronta determinata, precisamente come le <<forme estreme e più mediate>> dell’economico descritte in precedenza, quelle che rendevano invisibile la loro causa e ne mostravano l’inverso.

In sintesi, dunque, il principio metodologico di Marx si articola in tre complessi livelli di significato che riassumo qui per comodità espositiva e per poterli mettere a confronto con l’equivalente nozione scientifica. Prima di tutto, è necessario distinguere le cause sociali dai loro effetti sensibili, visibili e misurabili. In secondo luogo, bisogna farlo perché nell’ambito della società detti risultati si presentano come presupposti d’ogni cosa, come istanze già date da cui l’intera vita sociale deve avere inizio (visto che nient’altro, oltre ad esse, sembra esistere). Infine, e questo rafforza la prima avvertenza, gli effetti esistenti come entità incondizionate rendono invisibile il loro fondamento e si rappresentano agli occhi dei soggetti in guisa di enti naturali, preesistenti e autoidentici, senza origine né causa genetica, addirittura senza alcun contenuto differente dal loro puro e semplice esserci (o being there).

Benché la categoria epistemologica basilare di Marx trovi una sua legittimazione teorica nel pensiero scientifico della sua epoca, è tuttavia anche evidente che essa possiede caratteristiche aggiuntive e specifiche rispetto all’equivalente nozione scientifica. Se la scienza può supporre che la natura costituisca un contesto sensorio diverso dalla razionalità umana, la stessa cosa non può essere detta per la società. La cornice societaria dei soggetti non può essere considerata, in alcun modo, un sistema d’istituzioni e rapporti differente dagli (o peggio ancora esterna agli) agenti sociali che l’istituiscono e di cui esso in definitiva consta. L’identica natura dei due ambiti esige anzi che la loro distinzione, dovuta al peculiare modo di riprodursi del capitale, venga spiegata in maniera originale. Precisamente ciò che Marx ha fatto con la sofisticata spiegazione che ci ha dato, e che rende conto del modo in cui si correlano in maniera complessa, fino ad entrare l’uno nell’altro, i due livelli di realtà che all’inizio venivano distinti. La distinzione tra cause ed effetti ha insomma, e deve avere, in società un suo status teorico differente da quello ch’essa possiede nelle scienze naturali, giacché essa deve interpretare un oggetto storico definito e del tutto particolare, completamente dissimile da quello della scienza. Questa idea è stata enunciata da Marx sin dai tempi dell’Ideologia tedesca ed era allora condivisa anche dagli scienziati dell’epoca[82]. Del resto, mentre per l’intelletto scientifico il principio di causalità può rimanere sullo sfondo in guisa di idea regolativa per lo studio legisimile dei fenomeni naturali, per l’interpretazione della società capitalistica era indispensabile a Marx correlare i due livelli attraverso una mediazione capace di spiegare come si passasse dall’uno all’altro e come agisse la determinazione da parte della causa più profonda. Senza questa delicata, e ripeto altamente sofisticata, dimostrazione sarebbe stato impossibile spiegare attraverso quali caratteri specifici la tendenza interna si rappresenta poi nel suo mondo di superficie, imprimendovi il suo marchio. La maniera in cui si passa dal sostrato fondamentale della realtà sociale al pluriarticolato sistema degli effetti restava per Marx una condizione essenziale da soddisfare per poter sperare di dare alla sua interpretazione delle cose una forma razionale e convincente, in cui quel contesto di cose, rapporti e processi vedesse infine svelata la sua intima natura preformata, derivata e dipendente. Proprio ciò che la complessa categoria discussa, con i suoi molteplici piani concettuali interni, gli ha permesso di fare. Anche di tutto ciò il marxismo storico non ha mai saputo nulla. Se la scienza della natura, come diceva Bachelard, è interessata a conoscere soltanto i fenomeni[83], e al limite può porre la loro origine nell’ignoto e nell’inconoscibile[84], una teoria critica della società non può fare a meno di spiegare anche il motore interno che li produce. Altrimenti non potrebbe mai contrastare quella logica della fatticità oggi come ieri dominante nelle scienze sociali e così essenziale per il capitale.    
     

Think first, compute later.
I. A. Stewart

 
4.  Il valore e i suoi modi d’espressione

Lo stretto legame della problematica più sofisticata di Marx con la scienza del suo tempo, così come l’interno carattere complesso del suo pensiero, vengono ancora meglio in luce nell’analisi del valore. D’altro canto, il nocciolo scientifico di questa categoria dimostrerà anche, credo, la completa incomprensione del suo interno e stratificato significato concettuale da parte di quel pensiero economico, marxista e no, che si è occupato della sua natura logica, pretendendo di confutarla. In realtà, come vedremo, la razionalità economica ignora completamente l’effettivo status cognitivo della conoscenza scientifica e della sua epistemologia, cosa che poi la porta del tutto fuori strada quando deve prendere in considerazione teorie fondate su queste ultime.

Per Marx, come è noto, la quantità di lavoro astratto rappresa nella merce rappresenta il suo valore. Il lavoro sans phrase, mera spesa fisiologica di energia mentale e fisica, costituisce la <<sostanza sociale>> del valore e le differenti merci non sono altro che <<cristallizzazioni>> di questo <<contenuto>>[85]. Il lavoro umano indistinto è dunque l’elemento comune che nello scambio generalizzato dei beni permette l’onnilaterale confronto dei differenti valori d’uso, altrimenti incommensurabili a causa delle loro diverse proprietà merceologiche. Quando due oggetti differenti che soddisfano bisogni umani vengono scambiati, il loro commercio è regolato dal <<rapporto quantitativo>> o <<proporzione>> nella quale i diversi valori d’uso vengono valutati. La quantità determinata in proporzione della quale i diversi valori d’uso si scambiano reciprocamente è il loro <<valore di scambio>> e questo non è altro che <<il modo di espressione necessario>> o la <<forma fenomenica>> di quel lavoro incorporato. La grandezza di valore di ogni merce sarà dunque misurata dalla quantità di tempo di lavoro socialmente necessario per produrre quel determinato bene.

Il rapporto tra la sostanza e le sue forme o modi di espressione sembre dunque, a prima vista, privo di difficoltà. Il valore è un coagulo di lavoro umano indifferenziato e questo <<cristallo>> si rappresenta o si manifesta[86] nell’interscambio delle merci attraverso dati rapporti numerici perfettamente misurabili dal loro valore di scambio. Uguaglianza qualitativa e comparazione quantitativa[87] sembrano andare così di pari passo. Come mai, allora, Marx definisce la natura del valore un <<arcano>>[88], una forma <<metafisica>>, una <<proprietà sovrannaturale>>, un sostrato <<nascosto>>[89], una <<proprietà occulta>>[90], <<una qualità metafisica e insostanziale>>[91], addirittura un <<qualcosa di immateriale>>[92]? Se questo è il punto  <<intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica>>[93], in che cosa consiste il suo carattere problematico e persino irriconoscibile?

Apparentemente non v’è nulla di cabalistico nel fatto che le diverse attività lavorative, producenti valori d’uso distinti corrispondenti a determinati lavori concreti, possano essere considerate pure e semplici forme di realizzazione o incarnazioni di lavoro astrattamente umano. Eppure, spiega ancora Marx, <<nell’espressione di valore della merce la cosa è stravolta>>[94]. Di qui <<il carattere mistico della merce>>, il suo <<carattere enigmatico>> e <<misterioso>>, la sua <<forma fantasmagorica>>. Tutti questi attributi finiscono col trasformare dunque la merce stessa in una <<cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici>>, in una <<cosa sensibilmente sovrasensibile>>, che è allora indispensabile sottoporre ad una più fine analisi. Infatti, <<il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale>>[95].

Per capire l’intrinseca natura complessa del valore è allora indispensabile decifrare questo enigma. Il punto di partenza più appropriato a questo fine è senz’altro l’osservazione e lo studio del rapporto semplice di valore fra due merci, giacché <<l’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di essa>>[96], poiché non appena essa si svilupperà attraverso le sue interne metamorfosi tutte le sue nuove forme superiori dissolveranno quella semplicità iniziale[97]. Cosa c’è da capire, sostanzialmente, in questa relazione che possa dischiuderci la comprensione del problema? Due cose soprattutto.

Innanzitutto, il fatto che nel rapporto di scambio tra una merce A ed una merce B, tra forma relativa di valore e forma di equivalente in altre parole, l’oggetto che svolge la funzione dell’equivalente dà <<una propria espressione autonoma>> ed una presentazione <<esterna>> [98] al valore dell’altra merce. La <<opposizone interna>> tra valore d’uso e valore racchiusa nella singola merce ha trovato modo di uscire dal corpo ospite attraverso il rapporto tra due merci. Ed in effetti questo processo può svilupparsi solo nell’ambito del rapporto tra grandezze di valore diverse[99], vale a dire solo all’interno del processo di scambio, del confronto quantitativo tra merci distinte. La cosa importante, tuttavia, è che questo svolgimento ha permesso al valore di trovare una sua via d’uscita dal regno delle ipotesi, delle condizioni soltanto pensate[100], e di rappresentarsi attraverso una mediazione reale, come un’entità tangibile e misurabile.                            

In secondo luogo, tuttavia, questo passaggio o <<trapasso>> all’esterno della sostanza della merce, in una forma di valore (l’equivalente) differente e indipendente dalla sua veste materiale[101], dà luogo anche ad un altro eclatante effetto, inseparabile del resto dal primo, mediante il quale si può spiegare l’enigma del valore, cioè perché esso appaia all’intelletto degli individui in guisa di mistero inesplicabile. La chiave di accesso alla comprensione di tutta la faccenda è la forma di equivalente. La merce che nel rapporto di valore rappresenta la <<parte passiva>> si presenta infatti di fronte a coloro che scambiano come un oggetto che <<così com’è, tale e quale, esprime valore, cioè possiede per natura [von Natur] forma di valore>>. Il bene che all’interno della relazione di scambio funziona come equivalente <<sembra possedere per natura [von Natur] la sua forma di equivalente, la sua proprietà di immediata scambiabilità>>, così come ad esempio sono ad esso connaturate le sue proprietà fisico-chimiche.

<<Di qui – spiega Marx – viene il carattere enigmatico della forma di equivalente>>, e di conseguenza della merce in generale. Insomma, la forma più elementare di espressione del valore (ad es. due m² di tela = un abito) ci fa <<risolvere l’enigma della forma di equivalente>>[102], nella misura in cui almeno ci fa capire quale sia l’apparente caratteristica che sembra rendere i beni universalmente scambiabili tra loro entro determinati rapporti quantitativi. La merce, in altri termini, non deriva le sue proprietà intrinseche (forma e grandezza di valore) da una determinata formazione sociale, bensì sembra possedere le sue virtù in maniera naturale, in quanto bene utilizzabile per dati bisogni umani. Già la forma semplice di valore realizza dunque la virtuale cancellazione della specificità sociale dei prodotti del lavoro umano, la derivazione della merce da una società storicamente determinata (con i suoi rapporti sociali peculiari, le sue istituzioni, le sue forme di pensiero, e così via). Ascoltiamo a questo proposito di nuovo Marx: <<L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose>>[103]. Che questo sia il primo significato del concetto in causa e la via privilegiata d’accesso alla comprensione della natura <<occulta>> del valore è provato dal fatto che Marx ripete senza sosta, in contesti diversi e con formulazioni sempre più pregnanti, l’interpretazione succitata. Nel processo di scambio infatti domina <<la parvenza che il carattere sociale del lavoro appartenga agli oggetti>>, giacché i rapporti numerici entro i quali essi vengono permutati <<sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro>>[104] e non da un circostanziato e identificabile sistema di relazioni tra individui specifici, appartenenti ad una società determinata[105]. Tutto il contrario. Infatti, l’intera razionalità dei soggetti dipende dal <<feticismo inerente al mondo delle merci>>: <<ossia – spiega in maniera inequivocabile Marx – dalla parvenza che le determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti>>[106].

Il meccanismo di rappresentazione del valore mette in moto dunque degli effetti sociali assai complessi e difficilmente intelligibili da parte di coloro che li osservano, effetti tanto più sottili poi se si considera il fatto che nel rapporto semplice di scambio tra due beni, paradossalmente, l’aspetto enigmatico della merce <<sembra ancora relativamente facile da penetrare>>, mentre <<in forme più concrete scompare perfino questa parvenza di semplicità>>[107]. Si può capire agilmente, penso, la potenza di questa mediazione. Se infatti sin dall’inizio, nel comune interscambio tra due merci, s’instaura la logica fattuale che si è vista, ci si può facilmente immaginare cosa possa accadere non appena si passi a livelli ulteriori di sviluppo della forma di valore. A che cosa dunque si riferisce precisamente Marx quando parla delle sue <<forme più concrete>>? In primo luogo ai prezzi e al denaro (anche se di certo non solo ad essi).

Se <<la forma semplice di merce è il germe della forma di denaro>>[108], la <<forma germinale che matura fino alla forma di prezzo solo passando attraverso una serie di metamorfosi>>[109], allora è ovvio che l’analisi dello svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci deve proseguire <<dalla sua figura semplice e inappariscente, fino all’abbagliante forma del denaro>>, un’impresa questa <<che non è neppure stata tentata dall’economia politica borghese>> (anzi, precisa Marx, <<la duplice forma del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta>>). Non appena questo passo sarà compiuto, <<scomparirà anche l’enigma del denaro>>[110], al quale spetta del resto una funzione determinante nel velare materialmente[111] il processo di realizzazione del valore. In che modo il denaro adempie a questa sua funzione?

L’equivalente generale, consentendo la comunicazione universale e senza limiti delle merci, funzionando come misura generale dei valori e scala dei prezzi[112], si presenta agli occhi degli attori sociali come un mezzo in cui <<scompare ogni traccia del rapporto di valore>>[113]. Poiché il denaro rappresenta soltanto il massimo sviluppo della forma di valore, anch’esso, al pari del processo di scambio delle merci da cui deriva, appare al raziocinio comune, intelletto degli economisti compreso, come un puro e semplice artificio, a volte intenzionale a volte strumentale, avente lo scopo di oliare la circolazione mercantile[114]. A causa del fatto che, per sua essenza, il valore  è <<invisibile>>[115] nei corpi delle merci, esso deve trovare il modo di manifestarsi in una forma adeguata al suo concetto[116], e ci riesce precisamente nel denaro che è perciò da considerarsi come <<la prima forma fenomenica del capitale>>[117].

Si consideri a questo proposito l’esemplare spiegazione di Marx: <<Come soggetto predominante ed unificante [als übergreifende Subjekt] di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro>>[118]. Ecco perché <<è necessario che il valore si evolva, a differenza dei variopinti corpi del mondo delle merci, fino a raggiungere tale forma non concettuale e di cosa, ma anche semplicemente sociale>>[119].

A questo punto, è chiaro che il <<potere trascendentale del denaro>>[120] non è altro che l’originaria identificazione del rapporto di valore delle merci con le loro proprietà materiali, non differisce in nulla, per l’essenziale, dalla mediazione del naturale in precedenza considerata: <<l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio>>[121]. Solo che nel denaro quella prima mediazione ha trovato modo di raggiungere livelli di sviluppo enormemente superiori, molto più complessi. Se, come si è visto, già nella più semplice espressione di valore la merce B <<sembra possedere come qualità sociale di natura la propria forma di equivalente, indipendentemente da tale rapporto>>, il denaro porta a compimento questa errata ma reale parvenza non <<appena la forma generale di equivalente finisce con il connaturarsi alla forma naturale d’un particolare genere di merce, ossia è cristallizzata nella forma di denaro>>.

Al culmine di questo processo di svolgimento, l’equivalente generale ha ormai assunto il suo carattere definitivo e la sua specifica connotazione sociale. Nel denaro, infatti, <<il movimento mediatore scompare nel proprio risultato senza lasciar traccia. Le merci trovano la loro propria figura di valore davanti a sé, bell’e pronta, senza che esse c’entrino, come un corpo di merce esistente fuori di esse e accanto a loro>>[122].

Valore di scambio, merci, prezzi e denaro sono allora da considerarsi tutte forme di manifestazione locali per così dire[123] del valore la cui funzione sociale, mano a mano che le sue metamorfosi danno luogo alla nascita di nuove determinazioni, diventa sempre più sottile e dal contenuto concettuale vieppiù sofisticato. La complessità interna del loro significato logico evolve praticamente in parallelo ai compiti di mediazione che esse devono svolgere in ambito economico-sociale. D’altro canto, se già nel denaro, giacché esso nella sua esistenza infondata e autoidentica o fattuale non reca alcuna traccia delle sue origini, diventa praticamente impossibile per i soggetti comprendere da dove esso nasca, nelle altre sue ancor più sviluppate forme economiche quel suo profilo apparentemente già dato ed esistente come presupposto raggiunge il suo apice parossistico.

Se già salario, profitto e rendita fondiaria rappresentano delle categorie che <<rendono invisibile il rapporto reale e mostrano precisamente il loro opposto>>[124], con l’interesse si raggiungono livelli inimmaginabili di sovvertimento  dell’effettivo stato delle cose, il culmine vero e proprio dell’intero e discontinuo processo di sviluppo del valore. Cos’è che fa di questa rubrica economica un fattore così radicale? Il fatto è che nell’interesse, nella formula D-D', tanto <<è cancellata ogni mediazione>>, ogni e qualsivoglia relazione con la produzione, il plusvalore e le classi sociali: esso è <<la forma aconcettuale del capitale, la distorsione e reificazione del rapporto di produzione alla massima potenza>>[125], quanto i tratti più tipici e specifici del capitale, quelli che avrebbero dovuto connotarlo come un tipo storicamente determinato di società, sono <<rovesciati nel loro contrario>>, in <<una inversione di causa ed effetto>>[126], vale a dire in un sistema di istanze e di rapporti da cui tutto sembra dover cominciare visto che oltre ad essi nient’altro apparentemente sussiste. Mentre all’inizio il denaro pareva avere ancora qualche remoto legame con la circolazione delle merci e le persone in carne ed ossa, nel capitale produttivo d’interesse sparisce anche questo residuo riferimento ed esso diventa <<il rapporto di D con se stesso e misurato su se stesso>>[127]. Ecco perché, secondo Marx, in queste circostanze <<anche l’ossificazione dei rapporti, la loro rappresentazione come un rapporto tra uomini e cose, dotato di un determinato carattere sociale, è ben diversa che nella semplice mistificazione della merce e in quella, già più complicata, del denaro. La transustanziazione, il feticismo è compiuto>>[128].

Mi sembra inutile commentare l’impressionante analogia di questa spiegazione con l’interpretazione marxiana delle forme illustrata precedentemente[129]. Sta di fatto che Marx considera tutti i più importanti concetti del pensiero economico e del mondo sociale – valore di scambio, merci, prezzi, denaro, salario, rendita, profitto ed infine interesse – come delle entità che, pur essendo derivate e dipendenti dal processo di riproduzione del capitale, esistono ed agiscono come dei presupposti, come delle figure autonome e a prima vista senza alcun altro fondamento che il loro monolitico esserci. Sono effetti posti dalla loro ragion d’essere (l’autovalorizzazione del valore-capitale)[130], ma esistono nella realtà e le danno una struttura d’insieme complessa e mutevole in guisa di cause. La dinamica intrinseca del valore tiene insieme questi due aspetti della cosa: il mondo di superficie delle <<forme naturali>> in cui e tramite le quali si mediano le leggi riproduttive del capitale e il motore più interno che ne determina l’affiorare attraverso la loro autoreferenza.

Dovrebbe essere più chiaro adesso, spero, perché secondo Marx <<nel concetto di valore si svela il segreto del capitale>>[131]. Nella complessa dimostrazione che ne ha dato Marx, il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei valori d’uso è infatti il fondamento causale che mette in moto tutto il processo di rappresentazione che si è visto, processo che costituisce l’aspetto più sofisticato di tutta l’interna evoluzione discontinua, per scatti di significato e salti di livello, del valore. D’altra parte, si è visto anche che tutti i soggetti che personificano quelle categorie agiscono intenzionalmente, con volontà e coscienza, come rappresentanti e incarnazioni della suddetta dinamica. Il loro intelletto decisionale non può che prendere le mosse dalla loro razionalità preformata e funzionare unicamente nell’ambito della fattualità in cui soltanto possono vivere ed esplicare il loro ruolo. Nella circolazione e nella concorrenza intercapitalistica, dunque, vigono gli stessi principi che si son visti all’opera nella metamorfosi delle merci[132]. Se il valore rappresenta <<la legge naturale regolatrice>>[133] di queste ultime, la stessa funzione la svolgerà dunque entro la competizione e l’azione reciproca tra i differenti capitali(sti), che del resto per Marx eseguono soltanto <<le leggi interne del capitale>> (infatti <<è nella concorrenza che le leggi immanenti al capitale, le sue tendenze, giungono a realizzarsi>>)[134].

Dunque per Marx il valore sarebbe <<la regola interna>>[135] dell’intero sistema concorrenziale, delle oscillazioni dei prezzi di mercato, e naturalmente anche dei prezzi di produzione intorno ai quali ruotano del resto i primi[136]. Il problema principe ovviamente è qui quello di capire come il valore possa essere identico, qualitativamente e quantitativamente, a tali prezzi e come esso possa determinare il saggio del profitto incamerato per così dire dai singoli capitali. Attraverso quali meccanismi si attua questa regolazione? Vediamo la spiegazione che ne dà Marx. Nell’ambito della concorrenza <<la legge del valore agisce solo come legge interna, come cieca legge di natura nei confronti dei singolo agenti e impone l’equilibrio sociale della produzione in mezzo alla sue fluttuazioni accidentali>>[137]. All’interno di questo meccanismo, in cui si intrecciano e si scontrano le <<azioni casuali>> e molto spesso divergenti - guidate da un fine comune ma non da un unica mente o strategia  - dei differenti “produttori”, il valore funziona come una sorta di anonima  “centrale di controllo” alla quale spetta il compito di smistare e coordinare tutto il sovrastante traffico, dandogli una certa qual razionalità. Solo che esso non lo fa in maniera diretta né imperativa. Al contrario: <<In tutta la produzione capitalistica la legge generale si afferma come tendenza predominante, sotto forma d’una media, che non è mai possibile determinare, di oscillazioni incessanti>>[138].

La realtà determinata dal valore, in quell’ambiente altamente turbolento, dinamico e imprevedibile che è il mercato, si afferma dunque in maniera specifica: <<la sfera della concorrenza, considerata nei suoi singoli avvenimenti, è dominata dal caso; in cui dunque la legge interna che si attua in questi casi, e che li regola, è vsibile solo quando questi casi sono riuniti in gran numero; in cui dunque questa legge rimane invisibile e incomprensibile ai singoli agenti della produzione stessa>>[139].

La legge del valore, come si può evincere dalla descrizione che ne ha fatto Marx, possiede dunque almeno tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto, è una <<cieca legge di natura>>, regola in modo oggettivo e impersonale i fenomeni economici così come la legge di gravità, ad esempio attrae tutti i corpi verso il centro della Terra[140]. In secondo luogo, la funzione regolatrice del valore <<rimane invisibile e incomprensibile>> all’intelletto dei soggetti, sia perché essa si esprime attraverso gli effetti che induce nel mondo empirico, sia perché la razionalità autoreferente degli individui vieta loro ogni possibilità di poter capire ciò che non risulta o è indipendente dal loro agire intenzionale (l’unica cosa che per essi possa esistere)[141]. Infine, essa si fa valere nei confronti dei singoli attori sociali solo come una <<tendenza predominante [beherrschende Tendenz]>> avente la <<forma d’una media>> statistica e approssimata, giacché la concorrenza <<è dominata dal caso>> ed al suo interno non è possibile determinare con precisione assoluta alcun calcolo numerico né tanto meno una perfetta coincidenza, matematicamente certa, di valori e prezzi o plusvalore e profitti complessivi.

La sinergia e la cooperazione di questi tre caratteri spiegano dunque, secondo Marx, perché la legge del valore debba essere considerata la causa <<razionale e naturale>> - <<das Rationelle, das natürliche Gesetz>>, dice Marx[142] - dello scambio delle merci sulla base del tempo di lavoro socialmente necessario in esse incorporato. In qualsiasi modo i prezzi delle merci vengano fissati o regolati, compresa l’addizione di un profitto medio ai vari capitali impegnati nelle diverse sfere della produzione sociale[143], <<il loro movimento è determinato dalla legge del valore>>[144], che agisce come <<il centro di gravità>>[145] attorno al quale fluttuano i prezzi di mercato e quelli di produzione. In sintesi: <<Quando si afferma che le merci vengono vendute ai loro valori, si vuole naturalmente dire che il loro valore costituisce il punto intorno al quale gravitano i prezzi di queste merci, e verso il quale si ristabilisce l’equilibrio delle loro incessanti oscillazioni sopra e sotto tale valore>>[146].

Ogni eventuale scarto quantitativo o differente ammontare tra valori e prezzi, tra plusvalore complessivo e profitti[147], deve allora essere spiegato sulla base del fatto che la estrema complessità, l’infinità varietà e quantità di atti di scambio che avvengono entro la circolazione complessiva rappresentano <<una serie senza inizio né fine>>, un intrico di compere e vendite <<frammischiate alla cieca>> in una <<giustapposizione e successione infinitamente casuale>>[148]. Entro un simile ambiente caotico, <<già per la loro indeterminata numerosità, questi cicli si sottraggono ad ogni controllo, ad ogni misura e ad ogni calcolo>>[149]. Non avrebbe dunque alcun senso pretendere di poter riscontrare nell’<<infinito frazionamento circolatorio>>[150] una corrispondenza matematica esatta o biunivoca tra valori e prezzi.

Nello specifico modo capitalistico di regolare le variazioni dei prezzi il suddetto processo di compensazione manifesta soltanto <<la tendenza al livellamento>> delle periodiche sperequazioni nei livelli dei prezzi, giacché l’effettivo raggiungimento di una <<posizione media ideale non trova riscontro nella realtà>>[151]. Se infatti <<in teoria si postula che le leggi del modo di produzione capitalistico si sviluppino senza interferenze>>, nel mondo concreto le cose vanno diversamente: <<Nella vita reale c’è solo approssimazione, e questa approssimazione è tanto maggiore quanto maggiore è il grado di sviluppo del modo capitalistico di produzione>>[152].

Potrebbe sembrare a prima vista che l’argomentazione di Marx abbia qui fatto ricorso ad una circostanza di fatto per spiegare la maniera in cui il valore determina e regola la formazione dei prezzi di produzione, e quindi anche il pari ammontare dei due. Potrebbe sembrare infatti che la loro identità numerica, la concordanza della loro somma, sia stata solo perturbata e per così dire solo temporaneamente squilibrata o alterata dai fenomeni della concorrenza, dai movimenti irregolari e altalenanti delle merci. E nondimeno niente sarebbe più errato. Il discostarsi quantitativo dei prezzi dai valori è anzi una conseguenza della loro unità. Come dice Marx, anche in questo caso <<è su di essa che bisogna fondarsi per spiegare le eccezioni, e non sulle eccezioni per spiegare la legge stessa>>[153].

Prima di tutto, logicamente, il presupposto secondo il quale valori e prezzi coincidono[154] deriva dal fatto che i secondi sono una forma d’espressione del primo, sono i modi d’esistenza tramite i quali il tempo di lavoro necessario si dà una sua realtà empirica e tangibilmente comparabile. Da questo punto di vista tra i due elementi non può esservi alcuna differenza di natura. Come spiega Marx, <<un prezzo che differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda>>[155]. D’altro canto, come si è visto sia il prezzo sia il denaro sono forme autonome ed esterne del valore[156], rappresentano le categorie mediante le quali il valore viene ad esistenza uscendo fuori dal corpo della merce ed incarnandosi in entità reali, additabili, divisibili in parti aliquote determinate e misurabili. È insita dunque in questa loro funzione la possibilità che esse possano distinguersi quantitativamente dai valori. Poiché non sono più immediatamente uniti ad esso, ed anzi costituiscono delle entità presupposte, prezzo e denaro vengono a dipendere da meccanismi particolari propri e in genere da <<un complicato processo sociale>>[157] tramite il quale possono dunque assumere grandezze diverse dalla loro fonte[158]. Poiché adesso tra il tempo di lavoro necessario e i prezzi di produzione vi stanno le complesse metamorfosi della merce nella circolazione, che innescano la redistribuzione del plusvalore estratto dalla forza lavoro tra i singoli capitali impegnati nei diversi rami della produzione, ecco che un certo divario quantitativo tra le due istanze può prendere forma senza annullare tuttavia la loro identità di genere, la loro sostanziale uguaglianza.

Da questo punto di vista, spiega Marx, è la stessa <<forma di prezzo>> a generare lo scarto numerico tra prezzi di mercato e valori: <<La possibilità di un’incogruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore, ossia la possibilità che il prezzo diverga dalla grandezza di valore, sta dunque nella forma stessa di prezzo>>[159]. Oltretutto, questo divario potenziale non rappresenta affatto <<un difetto di tale forma, anzi, al contrario, ne fa la forma adeguata d’un modo di produzione nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca>>[160] .

Il differente ammontare di prezzi e valore, se <<i prezzi sono un’espressione quantitativamente incongruente del valore della merce>>[161], non deriva tuttavia soltanto dal fatto che nella concorrenza, come si sa, a causa della ripartizione del plusvalore complessivo tra i vari capitali in conseguenza della loro differente composizione organica, i prezzi ora stanno sotto ora stanno sopra il valore delle merci prodotte nei vari rami della produzione sociale. In effetti, <<si deve soltanto al caso se il plusvalore, e quindi il profitto, effettivamente prodotto in una particolare sfera di produzione, coincide col profitto contenuto nel prezzo di vendita della merce>>[162]. Il fondamento primo di tale divario discende invece prima di tutto dal fatto che una precisa, matematica, concordanza di cifre tra valori e prezzi (di produzione e di mercato), nel pensiero di Marx, non è possibile per ragioni di principio. Non esiste alcuna aporia logica, a differenza di quanto il dibattito ormai centenario sul valore ha sempre affermato (o per confermarla o per tentare di risolverla), nell’impostazione marxiana della trasformazione dei valori in prezzi. Al contrario, essa è estremamente coerente con tutti i più importanti principi  epistemologici di Marx e da questi ultimi in definitiva dipende. Se la si volesse confutare, o se si volesse dimostrare il suo presunto fallimento, si dovrebbe prima di tutto dimostrare l’infondatezza di quei presupposti, cosa che gli economisti (ed in genere tutti quanti) nemmeno si sono sognati di pensare naturalmente. Poiché ignorano completamente la complessa natura interna del pensiero scientifico e dei suoi paradigmi epistemologici, neanche potevano immaginarsi di dover prima riferire il problema in oggetto alla sua fonte concettuale per poterlo capire.

Nella spiegazione che Marx ci ha presentato, infatti, i prezzi e il denaro rappresentano le uniche istituzioni mediante le quali effettuare il calcolo dei profitti e della ripartizione del plusvalore tra i vari segmenti del capitale complessivo sociale. Se queste forme costituiscono degli effetti tangibili del valore, è ovvio, discende in linea retta da questa premessa, che il loro ammontare possa essere determinato soltanto tramite grafici ed algoritmi matematici in cui il tempo di lavoro sociale direttamente non può figurare. Poiché nella realtà di superficie, quella visibile ed additabile determinata dal processo di sviluppo del valore, esistono soltanto denaro e prezzi, ecco che ogni quantificazione e computazione non potrà che essere fatta mediante queste due unità di misura, giacché nel mondo della concorrenza non v’è alcun’altra entità (se non quantità fisiche di merci) mediante cui poter affettuare dei calcoli. Pretendere di poter mettere in parallelo valori e prezzi per controllare la loro concordanza quantitativa sarebbe come voler rendere direttamente commensurabili lo stato termico di un sistema e la sua temperatura. Vale a dire, diventerebbe del tutto inutile misurarne la temperatura. L’operazione, anzi, verrebbe resa impossibile. L’illogicità del problema, come si vede, sta nella sua stessa formulazione[163].

In realtà, dunque, come Marx ha sempre precisato prendendo come punto di partenza del suo discorso lo scambio di equivalenti, i suoi calcoli basati sull’identità di valori e prezzi <<valgono solo come illustrazione>>[164], giacché neanche i <<prezzi medi coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci>>[165]. Inutile dire che questo divieto deriva dalla natura stessa del valore. Se dalla sua dinamica intrinseca discendono i fenomeni della concorrenza, se questi ultimi sono le sue mediate forme d’espressione, in pari tempo tali suoi modi d’esistenza empirici rendono impossibile poter vedere la loro causa, il meccanismo interno da cui pure sono prodotti. Se nella concorrenza <<tutto appare invertito>>[166], è ovvio, è insito in questo stesso carattere della realtà, che sia impossibile poter toccare con mano, o computare attraverso formule matematiche, la funzione regolativa del valore nel determinare i movimenti dei prezzi. Se i valori rappresentano la causa genetica dei prezzi che rende possibile il calcolo delle loro grandezze relative, essi possono tuttavia determinarli solo <<in ultima analisi>>[167], giacché <<la trasformazione dei valori in prezzi di produzione impedisce di vedere la base su cui si fonda la determinazione del valore>>[168].

In sintesi, nella misura in cui Marx spiega la nascita dei prezzi e del denaro dal valore, egli può considerarli o supporli identici. D’altro canto, nella misura in cui il valore si distingue dai prezzi e dal denaro, ecco che essi tanto possono quantitativamente divergere in conseguenza della ridistribuzione del plusvalore tra i diversi capitali operata dalla concorrenza, quanto il valore può svolgere la sua funzione di <<centro di gravità>> di tutto il meccanismo senza alcun bisogno di dover comparire sul davanti della scena. Anzi, proprio perché, come dice Marx, è scomparso nei suoi risultati <<senza lasciar traccia>>, esso può funzionare come una sorta d’attrattore invisibile dei prezzi. Da questo punto di vista, la discrepanza numerica tra valori e prezzi, in altre parole, non può avere alcuna rilevanza concettuale nel pensiero di Marx, giacché mentre i valori sono una categoria della mente - <<un schema symbolique>>, come l’ha definito Duhem -, i prezzi rappresentano delle entità e dei criteri di calcolo appartenenti ad un diverso livello di realtà. Si può correlare tramite grandezze matematiche, che so, il volume di un’idea a priori e quello del suo oggetto d’esperienza? D’altro canto, come dice Marx, o potete spiegare la cosa su quella base, o non potete spiegarvela affatto[169]. La trasformazione quantitativa dei valori in prezzi, così com’è stata impostata dalla ferrea logica positivistica degli economisti, marxisti e no, secondo la quale è razionale solo ciò che si può misurare[170], non ha senso alcuno nel pensiero di Marx, semplicemente perché, dovendo correlare su base numerica un concetto e delle forme empiriche, risulterebbe assurda[171]. Oltretutto, come bene ha chiarito Feyerabend, <<an agreement of numbers does not tell us anything about the entities to which the numbers belong>>[172].

L’interpretazione del valore come <<cieca legge di natura>> determinante le oscillazioni e le fluttuazioni tanto dei prezzi di produzione quanto dei cicli economici nel loro complesso trova invece una sua legittimazione concettuale ed una più sofisticata spiegazione nel pensiero scientifico del suo tempo. Se la legge del valore ha le complesse caratteristiche teoriche che ha – sostanzialmente: identità/distinzione contestuali coi prezzi e il denaro (con tutti i corollari insiti in questa coppia: dall’autoreferenza delle forme alla natura della concorrenza) + punto d’attrazione intorno a cui gravitano i prezzi – ciò è dovuto in primo luogo alla maniera in cui la scienza dell’epoca si rappresentava il rapporto tra le cause dei fenomeni naturali e i loro effetti visibili e quantificabili. Che interpretazione davano di questa relazione gli scienziati, primo tra tutti ovviamente Laplace, sicuramente letti da Marx? Secondo il celebre astronomo e matematico francese <<tous les événements, ceux même qui par leur petitesse, semblent ne pas tenir aux grandes lois de la nature, en sont une suite aussi nécessaire que les révolutions du soleil>>. Da questo punto di vista, le <<causes finales>>, lo <<hasard>> e in genere tutte le <<causes imaginaires>> dei fenomeni non sono altro che <<l’expression de l’ignorance où nous sommes des véritable causes>>[173].

Nel mondo fisico e nell’intero sistema dell’universo agiscono soltanto le <<lois immuables de la nature>>[174] che però vengono da noi conosciute in modo probabilistico in ragione prima di tutto del nostro intelletto finito e limitato. Benché la nostra comprensione degli eventi non possa essere che relativa e sempre meglio approssimata, essa può però tendere alla certezza in conseguenza del fatto che, dato <<l’ordre de la nature>>, una certa regolarità  costante finisce sempre per imporsi tra i fenomeni osservati e <<au milieu des oscillations du hasard>> [175]. Se <<les rapports des effets de la nature, sont à peu près constans, quand ces effets sont considérés en grand nombre>>, allora è evidente, sostiene Laplace, che <<dans une série d’événemens, indéfiniment prolongée, l’action des causes régulières et constantes doit l’emporter à la longue, sur celle des causes irrégulières>>[176].

Anche se talvolta si è tentati di attribuire a delle <<circostances accidentelles>> variabili e imprevedibili lo sviluppo apparentemente erratico e aleatorio degli avvenimenti empirici e dei fatti osservabili, in realtà esistono sempre delle costanti in tale divenire, per quanto complesso e intricato esso possa apparire a prima vista. Infatti, in <<toutes les combinaisons de la nature, dans lequelles les forces constantes qui animent les êtres dont elles sont formées, établissent des modes réguliers d’action et de changement>>. Questo spiega dunque anche perché <<les phénomènes qui semblent le plus dépendre du hasard, présentent donc en se multipliant, une tendance à se rapprocher sans cesse, de rapport fixes>>. In conclusione, al di là del corso apparentemente casuale delle cose, in cui una serie infinita di variabili sembra rendere impossibile ogni ricerca di leggi, un certo ordine costante finisce comunque con lo stabilirsi in mezzo alle fluttuazioni irregolari dei fenomeni. Se <<les phénomènes de la nature sont les plus souvent enveloppés de tant de circostances étrangères>> e se <<un grand nombre de causes perturbatrices y mêlent leur influence>>[177], tuttavia attraverso la moltiplicazione delle osservazioni e l’analisi di un numero indefinito di casi sarebbe possibile riconoscere l’esistenza nel reale di un principio legisimile. Chiaramente si tratta di un ideale di ragione, giacché ci è impossibile prendere in considerazione un numero infinito di eventi. D’altro canto, quanto più grande è il numero dei fenomeni osservati, tanto più alta è la probabilità che essi, mediamente, si comportino seguendo un certo ordine: <<Au milieu des causes variables et inconnues que nous comprenons sous le nom de hasard, et qui rendent incertaine et irrégulière, la marche des événements, on voit naître à mesure qu’ils se multiplient, une regularité frappante qui semble tenir à un dessin>>[178]. Essa non è altro invece che uno sviluppo delle possibilità inerenti agli avvenimenti stessi. In un certo senso, essa è intrinseca al mondo reale, affiora dall’interno stesso dell’apparente susseguirsi disordinato e senza regole dei fenomeni: <<la régularité finit par s’établir dans les choses même, les plus subordonnées à ce que nous nommons hasard>>[179].

La spiegazione di Laplace si estende naturalmente ad ogni caso osservabile ed è perciò finalizzata all’interpretazione anche dei fenomeni sociali. Che si tratti di fenomeni demografici, delle lotterie, dell’economia politica, della storia o dell’astronomia[180], la concezione in causa ritiene che sia sempre possibile rinvenire nell’apparente distribuzione caotica degli eventi e nelle loro anomalie un ordinamento razionale di forma causale, responsabile del loro sviluppo secondo leggi[181].

L’argomentazione di Laplace non rappresentava certo un modello a sé stante nella comunità scientifica del tempo né esso è rimasto confinato, come si sa[182], nel Settecento. Condorcet, D’Alembert, Jacques e Nicolas Bernouilli, Borda, de Moivre, persino Fermat[183], ed insieme ad essi Hume, Locke, Smith[184], in genere tutta l’economia politica classica, con scopi differenti ovviamente, avevano cercato di applicare la logica delle scienze naturali allo studio della società. Lo stesso John Stuart Mill, <<the Victorian philosopher of induction>> come è stato definito[185], nel suo monumentale System of logic[186] aveva largamente attinto alla letteratura scientifica del periodo per argomentare e difendere la sua interpretazione della conoscenza e perorare così l’uso dello <<Scientific Method>> anche nell’interpretazione delle <<Moral Sciences>> cioè della società[187]. D’altro canto, è nota l’ammirazione e l’ampio utilizzo fatto da Marx delle opere di William Petty, il <<fondatore dell’economia politica moderna>>, ed in particolare della sua Political Arithmetick del 1691, un’opera che come è stato detto <<founded the modern science of statistics>>[188]. Inoltre, spiegando come i prezzi di mercato aumentino o cadano rispetto ai <<prezzi di produzione regolatori>> e come le loro fluttuazioni siano soggette alla <<regolarità della loro reciproca compensazione>>, Marx cita espressamente un altro importante autore dell’epoca: <<Troveremo qui dominanti le medie regolatrici di cui Quételet ha dimostrato l’esistenza nei fenomeni sociali>>[189]. Cosa sosteneva il famoso sociologo e matematico belga? Cose in sostanza non molto diverse da quelle di Laplace. Secondo Quételet, infatti, v’è uno stretto rapporto tra le leggi dominanti nel mondo fisico e certe costanti riscontrabili nei fenomeni sociali. Infatti a suo avviso <<l’homme se trouve sous l’influence de causes dont la plupart sont régulières et périodiques; et ont des effets également réguliers et périodiques>>[190], di modo che è possibile stabilire un parallelo significativo tra ciò che accade in natura e le dinamiche che prendono forma in società. Così, <<l’analogie porterait à croire que, dans l’état social, on peut s’attendre à retrouver, en général, tous les principes de conservation qu’on observe dans les phénomènes naturels>>[191].

Se per studiare e comprendere questa legiformità risulta indispensabile, quando si considerano grandi masse di dati, usare <<le calcul des probabilités afin d’éliminer des observations tout ce qui n’est que fortuit et individuel>>[192], questo accorgimento è a sua volta basato su un’altra convinzione di Quételet: <<L’homme que je considère ici est, dans la societé, l’analogue du centre de gravité dans le corps; il est la moyenne autour de laquelle oscillent les élémens sociaux>>[193]. In società esisterebbe dunque un <<centre de gravité du système>>, che tra l’altro <<demeure invariablement  en équilibre>>, al quale tutti i comportamenti individuali si rapporterebbero come ad una sorta di meccanismo impersonale in grado di regolare il loro agire razionale. Oltretutto, l’esistenza di questo “attrattore” può essere controllata solo in modo indiretto e mediato, giacché per Quételet <<il est des élémens relatifs à l’homme qui ne peuvent être mesurés directment, et qui ne sont appréciables que par leurs effets>>[194], cioè per le conseguenze che l’agire volontario e cosciente dei soggetti induce nel sistema complessivo dei rapporti sociali[195].

Il nesso strettissimo tra teoria del valore e pensiero scientifico del tempo risalta ancor più, oltre che attraverso i concetti considerati finora e persino tramite il linguaggio usato[196], se si considera il fatto che le tesi di Quételet, che aveva del resto frequenti contatti e scambi con l’élite intellettuale inglese di allora, venivano discusse anche nelle riviste scientifiche dell’epoca, sicuramente conosciute da Marx.

John Herschel, in particolare, nella Edinburgh Review del 1850 dedica un lungo saggio al commento dell’interpretazione di Quételet che costituisce un altro prezioso documento a riprova dell’origine scientifica dei significati attribuiti da Marx alla teoria del valore. Cosa sostiene Herschel in questo scritto? Secondo lo scienziato inglese la scienza ha come suo principale scopo quello di analizzare <<the complicated web of phenomena and superimposed uniformities, to which we assign the name of inductive theorems, or laws of nature >>[197]. Il corso degli eventi naturali, per quanto rispondente al principio di causalità[198], presenta dunque irregolarità e casi fortuiti, la presenza di una miriade di concause accidentali e persino secondarie che danno allo sviluppo legiforme dei fenomeni osservabili un aspetto estremamente complicato e soggetto all’influenza di fattori contingenti. Poiché, d’altra parte, il caso e l’aleatorio sono riconducubili ad una nostra limitata conoscenza delle cause[199], la nostra comprensione delle cose deve per forza di cose fare affidamento sulla <<law of probability>>, il cui fine è proprio quello di mettere in evidenza le regolarità emergenti all’interno di avvenimenti apparentemente casuali e caotici.

Così, spiega Herschel, <<all experience tell us, that where efficient causes are known, but from the complication of circumstances cannot be followed out into their results, we may yet often discern plainly enough their tendencies, and that these tendencies do result, in the long run, in roducing a preponderance of events in their favour>>[200]. In mezzo alle irregolarità, casualità e anomalie dei fenomeni è dunque possibile discernere quanto meno certe loro direzioni emergenti di cui è poi possibile calcolare le probabilità di realizzazione. La cosa importante da sottolineare è che questo tipo di ricerca <<discloses not causes, but tendencies, working through opportunities>>[201].

Se la dinamica intricata e a prima vista irrazionale degli eventi, anche in società, viene studiata prendendo in considerazione un numero molto elevato di casi, su larga scala, allora si può osservare, afferma Herschel, la <<mutual destruction of accidental deviations from the regular results of permanent causes which always take place when very numerous instances are brought into comparison>>[202]. Date quelle condizioni, <<the irregularities disappear by mutual destruction, and the result exhibits the tendency in question in its full prominence>>. Questa è la migliore dimostrazione, conclude Herschel, <<that we have here arrived at a proof of a tendency which must be taken as a law of human nature under the circumstances in which it exists>>[203].

Il comportamento apparentemente  casuale e contingente dei fenomeni naturali evidenzia dunque per Herschel delle tendenze e delle medie legisimili che sono precisamente la maniera in cui le leggi più intime del mondo reale (fisico e sociale) vengono da noi conosciute. Le cause interne e spesso <<concealed>> della natura (materiale o umana), insomma, quelle che correlano i fenomeni <<in that invariable manner which is one of the characters of efficient causation>>[204], si impogono - tramite l’eliminazione delle irregolarità, delle fluttuazioni, delle deviazioni accidentali e transitorie - attraverso i loro effetti[205], che le fanno venire alla luce, o <<to emerge to view>>[206], in maniera percepibile e calcolabile, assoggettabile alla computazione e quantificabile.

Può essere ritenuto un caso il fatto che un simile modello teorico fosse tematizzato anche da William Whewell, cioè da uno studioso che lo stesso Herschel indicava come il più eminente esponente di quella scuola filosofica <<almost diametrically opposite>>[207] al metodo induttivo? Evidentemente no. Il problema è che tutti questi diversi orientamenti in merito alla natura della conoscenza, a volte pensati e presentati come contrapposti, in realtà condividono uno stesso paradigma epistemologico, rinvenibile proprio in una più attenta analisi degli oggetti e dei concetti che essi tematizzano. La questione in causa – l’esistenza nella <<machinery>> dell’Universo di <<an invariable average of most variable quantities>>[208], di una <<regular recurrence accompanying constant change>>[209] - è proprio una delle migliori dimostrazioni di questa implicita e sottile (non meno che sotterranea e poco visibile) complementarità.

Ovviamente sarebbe possibile addurre altre prove della intima parentela concettuale della legge del valore con il pensiero scientifico dei tempi di Marx. Mi sembra tuttavia superfluo insistere oltre su tale evidente concordanza. È un fatto che Marx ha elaborato la sua interpretazione del valore e del suo modus operandi pensando sicuramente alla contemporanea rappresentazione che la scienza dell’epoca dava delle leggi di natura e della maniera in cui queste potevano da noi essere riconosciute e comprese in mezzo all’apparente caoticità e irregolarità di eventi a prima vista occasionali, intricati e contingenti. Questa concezione scientifica, insieme alla sua applicazione, a fini di conoscenza, anche ai fenomeni sociali da parte degli stessi scienziati, è il nocciolo concettuale che probabilmente corroborava per Marx la sua spiegazione delle cose, che conferiva alla sua dimostrazione tutta l'autorità di un sistema di pensiero oggettivo allora in grande sviluppo e pressoché indiscusso sul piano della interpretazione razionale dei fenomeni. D’altro canto, il prestigio cognitivo della scienza è di certo apparso a Marx pari al carattere sofisticato delle complesse categorie che essa aveva formato nel corso della sua millenaria storia per rendersi intelligibili gli eventi naturali, e che egli riteneva di poter finalizzare anche alla spiegazione delle leggi riproduttive del modo di produzione capitalistico.

È comunque chiaro che la teoria del valore di Marx, così come le altre idee scientifiche che ha usato nel corso della sua analisi, e alle quali dà spesso un nuovo significato specificamente sociale, non è né confutabile né tanto meno comprensibile al di fuori del contesto in cui è nata e all’interno del quale ha fatto fiorire tutti i suoi complessi significati concettuali. Se la si volesse invalidare definitivamente si dovrebbe essere capaci anche di confutare quella razionalità scientifica dalla quale essa sostanzialmente deriva il suo contenuto esplicativo[210]. Inutile dire che la logica economica nemmeno è capace di concepire una simile impresa (e anche i filosofi marxisti hanno qualche difficoltà a capire la cosa)[211]. Caso mai essa, come ci è noto, ha sempre cercato nelle scienze naturali una legittimazione del suo discorso. La cosa diventa tuttavia paradossale quando si pensa alla mole dell’apparato matematico a volte usato nel corso della disputa, soprattutto dagli economisti, per dimostrare l’incorenza formale del valore. Una particolare disciplina scientifica viene così usata, tra l’altro da non matematici, per confutare un’interpretazione inferita in sostanza dalla scienza moderna. Detta in altri temini, gli economisti usano un singolo dipartimento del pensiero scientifico di cui ignorano la complessità interna per refutare una concezione inferita in ultima istanza proprio da tale pensiero. Non è surreale? Non è comico che chi imputa una mortale aporia logica ad un dato discorso prenda le mosse proprio da un presupposto contraddittorio? Non è incredibile che nelle centinaia di volumi – di taglio filosofico, più strettamente economico, politico-ideologico, persino epistemologico (Sohn-Rethel ad esempio)[212] – dedicati in un modo o nell’altro alla teoria del valore, o per refutarla o per convalidarla, nemmeno uno abbia studiato o preso in considerazione le radici scientifiche dell’idea di Marx?[213] È proprio vero quello che diceva Bachelard (che pensasse dentro di sé a certi economisti?): <<Quand on commence à calculer l’incalculable, on ne sait pas ou l’on s’arrêtera>>[214]. La mia impressione, a parte ogni altra considerazione sui reali obiettivi della controversia, è che a queste interpretazioni ben si attagli un vecchio aforisma scientifico dell’Ottocento: <<Ce qui veut trop prouver ne prouve rien>>[215].
 

Les premiers aperçus trompent
souvent  et  le  vrai  n’est  pas
toujours vraisemblable

P.-S. Laplace

 
5. Engels:  Die plumpe englische Methode

Come è noto, uno dei difetti del volume di Darwin, la cui importanza fu del resto subito rilevata da Engels ben prima di Marx[216], sarebbe stato un certo empirismo insito nel suo modo di trattare la materia d’indagine, empirismo che d’altra parte Marx ed Engels ritenevano tipico, anche se non esclusivo, dell’intera cultura anglosassone ed in specie degli economisti cosiddetti “volgari”[217]. Ovviamente, lo studio della natura juxta sua principia rappresentava uno dei capisaldi della concezione materialista e dialettica del mondo sin dai suoi esordi. Insieme a questa fondamentale premessa pari importanza veniva però data all’attività concettuale avente il fine di scoprire le leggi di movimento e di trasformazione della materia organizzata. Se la conoscenza scientifica si occupava esclusivamente del mondo oggettivo fuori di noi, in pari tempo essa sviluppava l’analisi di tale contesto attraverso il processo di pensiero a cui veniva affidata una funzione attiva, tramite la formulazione di ipotesi e congetture, nella comprensione dei dati d’esperienza. Grosso modo questo era il modello epistemologico prevalente nelle scienze della natura secondo Marx ed Engels[218]. La natura ontologica, primordiale e a tutto anteriore, della materia rappresentava l’oggetto per eccellenza della razionalità scientifica, mentre questa ne rendeva intelligibile (sempre meglio e più in profondità) la forma dinamica e legisimile attraverso l’attività riflessiva, emendabile e modificabile, del pensiero sistematico e formale. L’avversione per l’empirismo, induttivo o no, derivava dunque sostanzialmente da questa interpretazione attiva del processo di conoscenza.

Ammettiamo che tale impostazione, secondo Marx ed Engels, rappresentasse il vero approccio induttivo allo studio della natura, che il sapere scientifico non fosse riducibile ad una mera generalizzazione di dati empirici. Bene. Un problema cruciale sorge immediatamente. Era davvero quello il metodo per eccellenza della scienza dell’epoca? Dominava davvero <<l’induzione baconiana-newtoniana>> all’interno della comunità scientifica del tempo? In altre parole, è mai esistito nella cultura scientifica europea un paradigma cognitivo saldamente basato su quei due presupposti? La risposta, come ora vedremo, non può che essere negativa. Caso mai è vero l’opposto.

Per dimostrare quanto sia errata e fuorviante la tesi in questione, quanto poco essa corrisponda alla realtà, non c’è bisogno di risalire a Newton e neppure a Francis Bacon. È sufficiente considerare con la dovuta attenzione gli stessi scienziati conosciuti, letti e studiati da Marx ed Engels. Il panorama delle tendenze epistemologiche allora presenti in campo scientifico, esplicite oppure latenti, apparirà subito differente. Innanzitutto, però, è bene precisare che lo stesso Darwin non professava affatto alcun metodo induttivo poi applicato alle sue ricerche naturalistiche, né tanto meno può definirsi un convinto assertore dell’empirismo (hard o soft che dir si voglia). Come hanno dimostrato gli studi più recenti[219], i supposti <<Baconian principles>>[220] del pensiero darwiniano hanno poco a che vedere con l’induzione o con mere generalizzazioni di fatti d’esperienza. Benché lo stesso Darwin abbia cercato di accreditare l’idea di se stesso quale scrupoloso <<collector of facts>>[221], la realtà risulta essere diversa. Come bene ha chiarito Ospovat, <<the formation and trasformation of Darwin’s theory represent not so much the results of an interaction between the creative scientist and nature as between the scientist and socially costructed conceptions of nature>>. Persino quando Darwin era a più stretto contatto con la materia di studio, come durante il suo viaggio intorno al mondo sul famoso brigantino <<Beagle>>, <<his interaction with nature was mediated by assumptions and ways of perceiving nature that he derived from other naturalists, both his predecessors and his contemporaries>>[222]. Da questo punto di vista, più che con il mondo naturale l’intera attività di Darwin era in rapporto soprattutto con le idee e le concezioni biologiche, evoluzionistiche e no, del suo milieu culturale[223].

Tutto si può dunque dire di Darwin meno che egli fosse un empirista o che il suo metodo fosse <<rozzo>> e <<goffo>> come credevano, nonostante la loro ammirazione per il grande naturalista, Marx ed Engels. Secondo Ospovat, perfino quando parla di “facts”  Darwin ha in mente soprattutto <<the product of considerable effort and creative thought of his contemporaries>>[224].

Del resto, l’ambiente intellettuale frequentato da Darwin, con il quale egli era in contatto epistolare, personale o per il tramite dei volumi letti, pullulava di orientamenti teorici innovativi avversi in larga parte all’induttivismo fino ad allora dominante nelle scienze naturali[225]. Se per tutto il Settecento la <<natural theology>>, con intenti descrittivi e catalogatori nonché di apologia del Creatore, aveva rappresentato l’unica fonte per lo studio della storia naturale, con l’inizio dell’Ottocento la fioritura e la diversificazione degli indirizzi di ricerca nei più vari campi del sapere ad opera di scienziati come Charles Lyell, Richard Owen, William B. Carpenter, Edward Forbes, Robert Knox, Peter Mark Roget, John Goodsir – in larga parte conosciuti da Marx ed Engels -, determineranno l’affiorare d’interpretazioni non strettamente empiriche della natura. Sia che fossero intenzionate a riformulare su nuove basi la vecchia impostazione teologica[226], sia che volessero opporsi ad essa in nome di un differente modello di conoscenza[227], tutte le nuove tendenze scientifiche mettevano comunque l’accento sull’attività congetturale della mente – gli <<ideal patterns>> dell’osservatore e le sue assunzioni teoriche, dette anche <<regulative principles>>[228] - per la spiegazione dei fenomeni naturali. Una nuova funzione esplicativa veniva dunque assegnata al ragionamento ipotetico-deduttivo e al ruolo della ragione nel produrre convincenti spiegazioni della complessità della natura. Tutti quei diversi scienziati, si noti, avevano legami molto stretti sia tra di loro sia con lo stesso Darwin, e ne influenzeranno profondamente il pensiero, William Whewell compreso[229].     

È possibile tuttavia vedere all’opera le nuove tendenze anche in altri ambiti scientifici e altri noti studiosi dell’epoca di Marx, ad esempio in John Herschel, sulla carta uno dei rappresentanti più autorevoli ed in vista dell’induttivismo inglese. Cosa sostiene in campo epistemologico il celebre astronomo? Herschel è convinto che nella spiegazione dei fenomeni fisici e più in generale naturali un ruolo fondamentale spetti alla ragione soggettiva, che rende intelligibile le illusioni dell’apparenza (consentendoci di evitare <<the grossest errors>>[230] che possono derivarne) e ci permette di organizzare in un sistema razionale l’ambiguità  e l’ambivalenza dell’esperienza empirica [231]. Se da una parte i sensi sono <<the only inlets by which we receive impressions of facts>>[232] e prendiamo coscienza dell’esistenza del mondo esterno, dall’altra tuttavia, giacché le nostre percezioni sensoriali non sono completamente affidabili a causa dei loro ineliminabili limiti, la funzione dell’attività cognitiva del soggetto diventa decisiva per inquadrare in un ordine concettuale esplicativo le regolarità naturali, l’ordinamento legisimile delle cose[233].

La sola induzione non è in grado di poter produrre la conoscenza delle leggi fisiche e la connessione regolare dei fenomeni. Da questo punto di vista, anzi,  gli <<axioms of nature>> debbono piuttosto essere considerati come delle nostre <<mental conventions>>, nostri <<statements>>[234] aventi lo scopo di esprimere la continuità dell’intero <<frame of nature>>[235] nella <<form of a general proposition>>[236]. Nonostante l’impegno profuso da Herschel per argomentare una sostanziale differenza tra vera causa dei fenomeni e il carattere arbitrario del ragionamento ipotetico[237], è evidente la tendenza convenzionale del suo pensiero. Anche se i nostri sistemi d’interpretazione devono essere confermati e convalidati dal loro <<agreement with facts>> e dalla loro verifica empirica[238], resta il fatto che la comprensione della natura dipende dall’attività razionale della mente attiva che escogita congetture e avanza spiegazioni ipotetiche del suo oggetto. Il controllo delle nostre teorie è solo a posteriori, e avviene attraverso l’uso della natura quale cartina di tornasole dei nostri processi di pensiero, delle <<rational speculations>>[239] da noi formulate per renderci intelligibile il mondo fisico[240].

D’altro canto, l’enfasi induttiva affiorante talvolta dal discorso di Herschel[241] è solo in realtà la foglia di fico sotto la quale egli tenta di nascondere, coscientemente o meno poca importa, le propensioni costruttiviste implicite nella sua argomentazione. Infatti, se <<the principle of discovery>>[242] si basa sulla rigorosa connessione e concatenazione di singoli ed individuali fatti d’esperienza dai quali possono esser dedotte, tramite la nostra <<active mind>>, delle leggi generali[243], si è anche visto che l’ordine oggettivo della natura, sul quale si fonda l’intera procedura concettuale succitata, rappresenta un postulato di ragione, un’idea regolativa dell’osservatore. Da questo punto di vista, l’intero ideale induttivo si rivela essere anch’esso soltanto un enunciato del soggetto scientifico e dei processi di conoscenza attivati da quest’ultimo per spiegare il proprio contesto sensibile. La concezione di Herschel, che con le sue parole <<refers all our knowledge to experience>>[244], non è affatto alternativa ad, né diversa in sostanza da, un’impostazione convenzionale del sapere, giacché come questa ha a suo presupposto epistemologico un assunto stipulativo del tutto arbitrario che le fa da sostrato e rende possibile tutte le sue più tipiche inferenze.

Al contrario di quanto credeva Herschel, la teoria della conoscenza di William Whewell, il cui pensiero avrà del resto grande influenza sull’intero ambiente dei naturalisti inglesi dell’età vittoriana[245], tanto si rivelerà alla lunga vincente rispetto all’induttivismo empirista quanto possiede una sua intrinseca complessità epistemologica del tutto superiore a quella rivale. Avendone già descritto il modello epistemologico[246], faccio a meno di ripetermi e posso nello stesso tempo rinviare il lettore a quel mio lavoro. La cosa paradossale, tuttavia, è il fatto che una concezione parallela a quella di Whewell sia stata sviluppata da Thomas Huxley, che forse per il suo dichiarato realismo scientifico[247], parimente avverso tanto al materialismo di Cabanis quanto all’idealismo di Berkeley, avrebbe potuto essere considerato caso mai un avversario del grande Master del Trinity College[248]. In ogni modo, la concezione di Huxley è altamente interessante sia per il suo privilegiato legame con Darwin, sia perché è molto probabile che egli sia stato per Marx uno degli scienziati più importanti tramite cui ha avuto accesso alla comprensione della razionalità scientifica dell’epoca. Huxley, insomma, si configura come un vero e proprio case-study mediante il quale illustrare il rapporto di Marx col processo di formazione del nuovo paradigma allora in corso di definizione.

Cosa sostiene, in sostanza, Huxley in merito al carattere distintivo del processo di conoscenza rispetto ad ogni forma di empirismo (induttivo o meno)? Secondo il grande naturalista il metodo scientifico è fondamentalmente basato sulla procedura che egli chiama <<the “anticipation of nature”>>[249]. Essa consiste in una <<invention of hypotehsis>> - una <<invention of verifiable hypothesis>> - mediante la quale <<to go beyond fact>>[250]. A causa del carattere finito, imperfetto, limitato e persino ingannevole delle nostre osservazioni, che non potranno mai essere esatte e rigorose, il ricorso alla natura razionale e alle congetture della nostra ragione sembra a Huxley l’unica via percorribile per poter arrivare ad una spiegazione dei fenomeni naturali in qualche modo intelligibile al nostro intelletto. Infatti, spiega Huxley, <<all human inquiry must stop somewhere; all our knowledge and all our investigation cannot take us beyond the limits set by the finite and restricted character of our faculties, or destroy the endless unknown, which accompanies, like its shadow, the endless procession of phenomena>>[251].

Anticipando un’impostazione che sarebbe poi divenuta celebre, grazie a Feyerabend, in pieno Novecento, Huxley sostiene che il progresso della conoscenza scientifica si è avuto proprio grazie a congetture che, benché controllabili, avevano <<very little foundation to start with>>. Anzi, paradossalmente i passi in avanti fatti dalla scienza almeno dai tempi di Keplero si sono realizzati <<by the help of scientific errors>>[252], nella misura in cui questi ultimi hanno comunque permesso l’acquisizione di date conoscenze e hanno preparato il campo per nuove scoperte. Da questo punto di vista, <<to guide observation and experiment by verifiable hypothesis>> non è <<only permissible, but is one of the conditions of progress>> del sapere scientifico[253].

Si capisce meglio adesso perché Huxley polemizzasse apertamente con la cosiddetta <<Baconian philosophy>> e ritenesse opposto ai suoi <<pseudoscientific canons>> il vero metodo della ricerca scientifica[254]. Se certamente per Huxley <<the prime sources of knowledge>> sono <<the facts of Nature>>[255], in pari tempo egli si ritiene <<incapable of conceiving the existence of matter if there is no mind in which to picture that existence>>[256]. Mondo reale e pensiero sono due termini coesistenti e in coevoluzione entro un rapporto però in cui una funzione dominante è svolta dalla nostra attività razionale e dalle congetture da noi volta a volta formulate per interpretare il mondo empirico[257]. Come spiega lo stesso Huxley in un sintetico enunciato: <<the supremacy of reason, is Science>>[258].

Le conseguenze epistemologiche di queste sottili considerazioni controcorrente, in largo anticipo sui tempi del resto, sono davvero notevoli. Dalla loro enunciazione infatti ne consegue che persino <<the dominant idea of modern thought>>, quella che <<underlies every process of reasoning>> ed è <<the foundation of every act of the will>> – vale a dire: <<the constancy of the order of Nature>>[259] e la <<universality of the law of causation>>[260] -, non rappresenta altro che un assunto concettuale dell’osservatore (per la precisione: <<a symbolic conception of the universe>>) funzionante <<as a chart for the guidance of his practical affairs>>[261]. Se le cose stanno così, secondo Huxley, allora si può persino dire che tutti i principi più importanti della scienza fisica – dalla causalità all’esistenza di un mondo oggettivo esterno – rappresentano nostre <<assumptions>> o <<axioms>> senza alcun fondamento reale in fenomeni materiali: <<The validity of these postulates is a problem of metaphysics; they are neither self-evident nor are, strictlly speaking, demonstrable>>[262].

La natura convenzionale di tutte queste assunzioni - Huxley lo ripete a più riprese: esse sono <<mere unverified or unverifiable speculations>>[263] -, non pone tuttavia nessun insormontabile ostacolo alla nostra conoscenza degli oggetti e degli eventi tangibili, constatabili e misurabili, giacché tramite esse siamo comunque in grado di formulare previsioni interpretative che possiamo poi sottoporre ad accertamento sperimentale (che, ci ricorda Huxley prefigurando la concezione di Bachelard, è in ogni caso <<observation under artificial conditions>>)[264].

In fin dei conti, sostiene Huxley, <<the reconciliation of physics and metaphysics>>[265] è possibile sotto il segno della ragione scientifica e della sua impalcatura ipotetico-simbolica. Dopo tutto, <<their differences are complementary, not antagonistic>>, ed è dunque possibile che esse possano sin da adesso fondersi in un’unica forma di razionalità. Anzi, secondo Huxley, <<thought will never be completely fruitful until the one unites with the other>>[266]. È in ogni modo evidente che il modello epistemologico di Huxley non ha niente di materialistico[267], se con questo ultimo termine si vuol designare una concezione non idealista della realtà. Certamente, Huxley è convinto, <<with the Materialist, that the human body, like all living bodies, is a machine, all the opetaions of which will, sooner or later, be explained on physical principles>>[268]. Tuttavia, quando i materialisti e la loro scuola[269] <<begin to talk about there being nothing else in the universe but Matter and Force>>, allora egli non può più concordare con tale posizione: <<I decline – spiega Huxley – to follow them>>[270].

Al contrario, afferma Huxley esplicitando fino in fondo il suo pensiero, tutto quello che di sensato possiamo dire intorno alla costituzione del mondo fisico, ai suoi fenomeni e alle regolarità che ne governano la proliferazione e lo sviluppo complesso ha natura esclusivamente congetturale e discende dall’attività concettuale della nostra mente. Ecco come Huxley sintetizza la sua concezione: <<It is an indisputable truth that what we call the material world is only known to us under the forms of the ideal world>> (idea che in fisica verrà ripresa in pieno Novecento anche da Arthur S. Eddington).

Se ciò è vero, allora un’altra fondamentale proposizione segue da questo primo asserto: <<by physics all the phænomena of Nature are, in their ultimate analysis, known to us only as facts of consciousness>>. Da questo punto di vista, chiarisce in conclusione ed in maniera inequivoca Huxley, si può persino sostenere una tesi più generale, che tra l’altro precorre il Novecento e la scuola epistemologica dell’autopoiesi: <<all our knowledge is a knowledge of states of consciousness>>[271].

Il costruttivismo radicale di Huxley, oltre a rappresentare per i suoi tempi una tendenza eterodossa altamente originale, è stato da lui stesso definito <<a sort of shorthand Idealism>> [272] per l’enfasi portata sul processo di pensiero quale essenziale e predominante componente del conoscere razionale, di fatto quale l’unica fonte di tutto il nostro sapere. Se Descartes e Kant sono per Huxley i precursori storici di questa impostazione epistemologica[273], la sua interpretazione tende tuttavia a ibridare i due modelli cognitivi per i motivi già spiegati. Se infatti il suo <<Idealism declare the ultimate fact of all knowledge to be consciousness, or, in other words, a mental phenomenon>>, contestualmente non va dimenticato che esso si riferisce anche <<to that correlation of all the phænomena of the universe with matter and motion, which lies at the heart of modern physical thought, and which most people call Materialism>>[274].

Così, se ad avviso di Huxley <<matter may be regarded as a form of thought, thought may be regarded as a property of matter>>, in quanto <<each statement has a certain relative truth>>, quando si studia <<the progress of science, the materialistic terminology is in every way to be preferred>>. Il perché è molto semplice: <<For it connects thought with the other phænomena of the universe, and suggests inquiry into the nature of those physical conditions>>[275].

Huxley non rappresentava certo un punto di vista isolato e solitario nel panorama della cultura scientifica del tempo. William Whewell era forse stato l’antesignano di questa impostazione e probabilmente, a  dispetto di tutte le apparenze contrarie, perfino il maestro di Huxley[276], e comunque è indubbio il fatto che il convenzionalismo teorico rappresentava una tendenza epistemologica diffusa a livello europeo. Darwin stesso, come si è visto, la condivideva. Del resto, alcuni altri scienziati famosi in tutta Europa per i loro innovativi lavori scientifici e ben conosciuti anche da Marx avevano sostenuto, prima e dopo Huxley, idee simili a quelle descritte in precedenza.

Johannes Peter Müller, ad esempio, il famoso fisiologo tedesco alla cui scuola avevano studiato Theodore Schwann e Rudolf Virchov, difendeva un’interpretazione biologica della conoscenza estremamente moderna, in cui la percezione del mondo esterno è sempre un processo che avviene all’interno del nostro corpo o nella nostra coscienza, nell’ambito della riflessione mentale dell’osservatore. Anche se il mondo fisico rappresenta un presupposto del pensare, l’attività intellettuale mediante la quale ne costruiamo l’interpretazione rimane <<une activité tout-à-fait indépendante de la matière>>[277]. Da questo punto di vista, i concetti tramite i quali spieghiamo il contesto sensibile che ci contorna non rappresentano affatto un rapporto tra il soggetto senziente e la natura, bensì sempre e soltanto un sistema teorico, una data conoscenza delle cose: <<les idées expriment les relations qui existent entre eux>>[278]. Come si vede, in merito alle questioni di fondo non c’è una gran differenza rispetto alla scienza odierna[279].

Questo orientamento epistemologico, già attivo nella scienza ottocentesca, anche se rimarrà ancora a lungo latente, è tuttavia provato anche dalle tesi sostenute da Jakob Schleiden, il botanico che insieme a Th. Schwann costituisce una figura chiave della moderna <<cell theory>>[280], e di cui Marx ed Engels, inutile persino dirlo, avevano una conoscenza di prima mano[281]. Cosa sostiene Schleiden? Una interpretazione scientifica molto semplice: <<Toute pensée qui se rapporte au monde extérieur a dans le cerveau sa correlation>>. In effetti, secondo lo scienziato tedesco, i nostri organi di senso svolgono una funzione intermediaria fondamentale tra la razionalità formale del soggetto e il mondo dell’esperienza in cui viviamo. Solo che essi non ci mettono in relazione con un oggetto distinto dal nostro raziocinio individuale, dai processi di pensiero che attiviamo per renderci intelligibile l’esistenza. Al contrario: <<Nous avons une preuve décisive que nos perceptions sont de pures créations de notre esprit, que nous ne saisissont point le monde extérieur tel qu’il est, mais que l’action qu’il nous fait subir est une simple occasion d’exercer notre esprit, dont les produits sont tantôt en rapport avec le monde extériur, et en sont tantôt entièrement indépendants>>[282].

Considerazioni non molto dissimili, anche se magari più caute o non apertamente costruttiviste come le precedenti, venivano avanzate anche da William Boyd Carpenter, altro scienziato studiato e apprezzato da Marx, il quale nella sua opera più nota giungerà ad affermare che il pensiero, proprio perché riceve <<trough the sensory ganglia that consciousness of external objects and events, which is the spring of its intellectual or emotional operations>>, non ha in effetti alcuna <<communication with the external world>>[283]. Tutta la conoscenza elaborata dall’attività concettuale dell’osservatore, anzi, dipende interamente dai processi che si svolgono all’interno della nostra logica razionale o ragione selettiva: <<It is upon the ideas aroused in the Mind by Sensorial changes […] taht all acts of Reasoning are based>>[284].

Se vi fossero ancora dei dubbi sull’importanza e il peso teorici di queste interpretazioni scientifiche, si può allora citare un altro esempio eclatante della nuova epistemologia allora era in fase di costituzione, e si tratta ovviamente anche in questo caso di uno scienziato che Marx aveva letto e riversato poi persino in Das Kapital[285]: Adolphe Wurtz. Il celebre chimico francese, uno dei pionieri della sintesi organica, sostiene che <<l’hypothèse>> degli atomi si trova in effetti <<à la base des idées modernes sur la constitution de la matière>>[286]. La forma congetturale di questo principio rappresenta forse una deduzione da fatti d’esperienza o un’inferenza da dati empirici previamente osservati? Come probabilmente ci direbbe Wurtz: Il n’en est rien. Con l’assunzione in oggetto, all’inverso, <<nous pénétrons dans un monde invisible, inabordable par l’expérimentation directe>>, anche se poi <<les hypothèses qui y donnent accès peuvent être vérifiées dans quelques-une de leurs conséquences et acquérir par là quelque degré de possibilité>>[287]. Il principio teorico di partenza, dunque, è un postulato della nostra mente razionale, un enunciato convenzionale attraverso il quale ci rendiamo possibile l’analisi scientifica della materia e le <<ordonnances immuables de la nature>>[288]. In ogni caso, se gli atomi sono <<une cause première et profonde>> dei corpi naturali, se essi determinano la stessa loro <<forme physique>> in termini che non sempre <<sont saisissables>> nella loro completezza[289], resta il fatto che essi posseggono natura stipulativa ed arbitraria, rappresentano comunque un’idea regolativa posta in essere dal soggetto scientifico per spiegare determinati fenomeni. Come afferma Wurtz stesso in una formulazione di sintesi, <<tout cela est logique>>. Infatti, <<en admettant l’existence des atomes, nou faisons  une hypothèse: il faut la concevoir aussi large que possible, de façons à en faire découler tous les faits et rendre inutiles la création et l’emploi d’hypothèses secondaires>>[290]. Si potrebbe continuare a lungo a documentare la presenza del costruttivismo convenzionalista nella scienza dell’Ottocento, soprattutto nell’opera di scienziati sicuramente studiati da Marx ed Engels[291]. In ogni modo dovrebbe essere abbastanza evidente il fatto che la tendenza ipotetico-deduttiva nel pensiero scientifico del tempo non rappresentava una tendenza minoritaria o limitata ad alcuni scienziati per così dire “relativisti”[292]. Al contrario, la concezione allora emergente conferiva un nuovo significato epistemologico persino allo stesso realismo scientifico, attribuendogli adesso un contenuto razionale e arbitrario che prima non possedeva. Mentre questo <<paradigma shift>>, come è stato definito da Kuhn, è a mio avviso largamente dimostrato dalle prove addotte, molto più problematico è comprendere perché esso non sia stato minimamente avvertito da Marx ed Engels, né per criticarlo né per condividerlo. Penso che possano essere almeno quattro le probabili ragioni del loro silenzio.

Una possibile spiegazione di questa omissione ci è forse data dal fatto che quelle tendenze, benché esplicite e apertamente argomentate, fossero allora poco visibili e non ancora ufficialmente accreditate nell’ambito della comunità scientifica. In fin dei conti, esse sembravano convivere col vecchio ideale della conoscenza oggettiva per l’accento che veniva comunque portato sulla scoperta delle leggi di natura e sulla comprensione dell’ordine immutabile dell’universo[293] da parte dell’attività razionale della mente. L’incipiente convenzionalismo, entro il quale sarebbe poi divenuto chiaro che la natura svolge solo la funzione di convalida o meno delle nostre teorie e che noi conosciamo sempre meglio soltanto la nostra conoscenza, poteva sembrare infatti ancora perseguire l’antico fine di rappresentare o rispecchiare nei nostri sistemi d’idee il mondo esterno, giacché l’attività congetturale della ragione veniva apparentemente finalizzata  alla interpretazione della materia e delle sue leggi causali.

In secondo luogo, e questa è una circostanza che può aver avuto il suo peso, bisogna ricordare il fatto che la nuova epistemologia si presentava allora, per così dire, <<scattered>> in numerosi testi apparsi in diversi periodi entro le varie discipline, senza che in nessuno studio scientifico essa fosse stata presentata in forma organica e chiara. L’assenza di una sua formulazione inequivoca e di sintesi può forse aver ostacolato la sua comprensione da parte di Marx ed Engels, di solito così attenti all’affiorare di nuovi stili di pensiero.

Una terza ragione, a mio avviso più convincente delle altre, risiede nel fatto che Marx sembra più interessato a trovare nella scienza di allora una conferma o una convalida della sua interpretazione piuttosto che analizzare la sua intima e complessa, internamente differenziata, logica epistemologica o teoria della conoscenza. La mia netta impressione è che Marx abbia soprattutto cercato nell’autorità indiscussa del pensiero scientifico dell’Ottocento, oltre ad una serie di categorie atte a spiegare la specifica natura sociale del capitale e la sua dinamica, la legittimazione teorica della sua concezione, come se la scienza confermasse in pieno la sua analisi del modo di produzione capitalistico[294]. Infine, sicuramente una decisiva funzione di schermo e un potente ostacolo ad una più precisa comprensione delle cose l‘ha svolta l’avversione per Hegel e per l’idealismo più in generale, cosa che del resto fa parte dell’intera formazione culturale e filosofico-politica, vero e proprio patrimonio genetico, di Marx ed Engels. Ciò che giustamente Michael Rosen ha chiamato <<the banal Marxist criticism>> di Hegel, secondo la quale il grande filosofo di Stoccarda prenderebbe <<for mind what is really matter>>[295], ha con molta probabilità rappresentato un esiziale, tenace e duraturo, pregiudizio che ha sbarrato la strada ad ogni messa in discussione di quel principio ontologico ritenuto specifico del materialismo che invece proprio la scienza stava in quegli anni abbandonando. Mentre il mondo fisico veniva sempre più chiaramente interpretato dal pensiero scientifico come uno sfondo sensorio dell’attività conoscitiva, che per il resto veniva costruita dai processi concettuali attivati dalla mente e controllati poi tramite l’esperienza (esse stessa, d’altra parte, artificiale), fino all’ultimo Marx ed Engels continueranno a ritenerla un fondamento oggettivo preesistente ed indipendente dall’osservatore e a cui la razionalità umana doveva comunque riferirsi per poter dare un reale significato empirico alla sue teorie. D’altro canto, come vedremo nel prossimo paragrafo, se questo presunto presupposto materialistico – l’autosufficienza della Materia – aveva lo scopo di confutare tutte le tendenze spiritualistiche o metafisiche (vitalismo, deismo, Soul, Spirit, teologia, sovrannaturale, misticismo, cause occulte, animismo, apriorismo, ecc.) presenti nella ricerca scientifica del tempo (dalla geologia alla biologia), esso diventa un non sense in rapporto alla società. Anzi.

Nella misura in cui infatti pretende di poter trattare la realtà sociale come un contesto empirico esterno e indipendente dagli individui, come il marxismo storico ha del resto sempre fatto, quel principio, dal punto di vista teorico, diventa persino controproducente e fuorviante. I soggetti sociali infatti, attraverso il loro agire in genere razionale, guidato da determinati intenti e da date istituzioni (Stato, diritto, politica, denaro, ecc.), finiscono sempre col costituire la loro cornice societaria, che allora mai e poi mai potrà essere considerata esterna, preesistente e già data - in una parola: differente -, rispetto alle loro pratiche intenzionali. Al contrario, il sistema sociale consta di quello che i singoli fanno e pensano, dell’intera loro prassi costruttiva (pensiero e attività politica in senso lato). Presupporre una distinzione di natura tra le due istanze significa in questo caso enunciare soltanto una contradictio in adjecto, che come tutte le contraddizioni logiche si dissolve da sola.

D’altro canto, la tesi in oggetto è insostenibile anche per un altro fondamentale problema. Si è visto infatti che nella sottile analisi di Marx le diverse forme della società – istituzioni, razionalità regionali, soggetti, ecc. – appaiono all’intelletto degli individui come una premessa perché sono state intrinsecamente mediate dai processi riproduttivi del capitale. È questo ultimo a porle nella loro funzione apparentemente fattuale, da cui tutto sembra cominciare. Di fatto, però, esse rappresentano entità preformate e dipendenti dalla loro causa istitutiva. Considerare un presupposto dette istanze o anche la loro storia, come necessariamente deve fare il postulato in questione[296], vorrebbe dire sposare in pieno la logica del capitale, l’identificazione di realtà sociale e datità delle forme, che Marx ha invece radicalmente criticato. In altri termini, la concezione più sofisticata e complessa di Marx, corroborata come si è visto dalla scienza della sua epoca, confuta dalle fondamenta la sostenibilità o la coerenza  logica di quell’assunto concettuale, giacché essa, tramite le categorie mutuate dal pensiero scientifico moderno, dimostra che esso costituisce il risultato o l’effetto specifico di un processo di formazione determinato che ne condiziona natura e struttura, forma e contenuto. L’idea in discussione si confuta dunque da sé due volte. Innanzitutto, perché entra in contrapposizione con quello stesso pensiero dal quale si pretendeva di derivarla, che asserisce il contrario di quanto da essa sostenuto. Secondariamente, perché in società essa rappresenta una contraddizione in termini, un asserto illogico che non può stare in piedi né possedere alcun significato effettivo.

Anche questi fraintendimenti, tipici secondo me di tutto il marxismo storicamente costituito, dipendono in ultima istanza dal fatto che Marx ed Engels, paradossalmente, non hanno messo a fuoco le profonde trasformazioni epistemologiche che nel corso di quegli anni prendevano piede all’interno della scienza ottocentesca. Anche i loro travisamenti, almeno in parte, sono riassumibili nel celebre aforisma di Diderot: On voit tout à travers la lunette de son système, e sono precisamente questi “occhiali” ad aver prodotto i silenzi di cui si è detto. Il loro antihegelismo, la feroce e accecante polemica contro lo speculativo – un costume filosofico che coincide d’altra parte con la loro formazione teorica -, hanno reso impossibile ad entrambi capire fino in fondo quali effettivi mutamenti epistemologici stesse attraversando allora la scienza da essi così intensamente studiata. Benché questo sia solo uno dei motivi che può spiegare il loro atteggiamento unilaterale nei confronti dell’epistemologia contemporanea, la sua importanza mi sembra difficilmente contestabile.

 

The apparently obvious
can often be deceptive.

S. J. Gould


6. Marx: Die Teleologie ist kaputt gemacht worden

Il giudizio di Engels sull’importanza dell’opera darwiniana[297], giudizio formulato del resto con grande acume nemmeno venti giorni dopo l’uscita del volume, verrà condiviso in toto anche da Marx un anno dopo, non appena anch'egli avrà avuto modo di leggere The origin of species by means of natural selection e di definirlo <<il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere>>[298]. Un mese dopo circa, scrivendo a Lassalle, Marx ritornerà sul significato del volume per la sua interpretazione della società, esprimendo in sostanza una duplice valutazione sul lavoro del grande naturalista inglese. In primo luogo, lo studio di Darwin è importante <<als naturwissenschatliche Unterlage des geschchtlichen Klassenkampfes>>. In secondo luogo, a parte <<die grob englische Manner der Entwicklung>> presente a suo avviso nel testo darwiniano, <<ist hier zuerst der “Teleologie” in der Naturwissenschaft nicht nur der Todestoß gegeben, sondern der rationelle Sinn derselben empirisch auseinandergelegt>> [299].

 L’opinione di Marx, per quanto riguarda il metodo darwiniano e la teleologia, coincide dunque completamente con quella di Engels. Di suo Marx aggiunge la particolare sottolineatura del presunto <<fondamento scientifico>> dato da Darwin alla lotta di classe[300].

Tuttavia, anche questa specificazione non differisce in sostanza dalla spiegazione engelsiana. Qual è infatti l’apporto decisivo di Darwin ad una interpretazione della natura juxta sua principia? In che modo l’opera di Dawin fornisce alla concezione materialistica della società un fondamento scientifico? In effetti, come ora vedremo, le due domande sollevano questioni diverse che finiscono tuttavia per confluire in un’unica interpretazione.

Intanto è noto che il contributo teorico decisivo del volume di Darwin riguarda la nuova visione della natura che vi viene delineata. Il suo primo merito consiste infatti nell’aver realizzato <<un tentativo grandioso per dimostrare uno sviluppo storico nella natura>>[301]. In diversi scritti posteriori Engels preciserà ulteriormente questa sua interpretazione dell’opera darwiniana, puntualizzando meglio cosa si debba intendere in realtà con <<sviluppo storico della natura>>. Essenzialmente tre cose. Prima di tutto, la vecchia concezione fissista del mondo materiale, secondo la quale la natura si sarebbe mossa <<nell’eterna uniformità di un circolo che di continuo si ripete>>, ha ricevuto da Darwin <<il colpo più vigoroso>>[302]. Con lo studioso inglese è infatti divenuto evidente che tutto il regno naturale <<è il prodotto di un lungo processo di evoluzione>>[303] che si è sviluppato nel corso del tempo e al cui interno si sono formate molteplicità e differenziazione, mutamenti e proliferazione degli organismi viventi. Con Darwin, dunque, <<l’idea dell’assoluta immutabilità della natura>>[304] entra in crisi e viene sostituita da una rappresentazione in cui adesso sono le proprietà intrinseche della materia, e non un <<impulso esterno>>, di norma teologico[305], a produrre la sua storia e le sue trasformazioni periodiche dal più semplice al complesso, dagli organismi monocellulari al cervello pensante[306].

In secondo luogo, come conseguenza di questa nuova impostazione scientifica tutte le categorie immaginarie della vecchia Naturphilosophie[307] – le <<forze occulte>>, l’<<assoluto>>, le cosiddette causæ finalis[308], le <<cause soprannaturali>>[309] (<<übernatürliche Ursachen>>, dice Engels), un intero <<modo di pensare metafisico>> insomma[310] – sono da considerarsi ormai definitivamente confutate da un sistema di conoscenze positive che le ha relegate nell’ambito delle <<folli speculazioni aprioristiche>> senza riscontro alcuno nella realtà empirica. A questa vecchia scuola filosofica si contrappone ormai un nuovo modo di pensare che, invece di dedurre dalla logica soggettiva le leggi di natura[311], tende piuttosto ad inferirle direttamente dal divenire della materia, dall’incessante movimento immanente del mondo fisico. Entro questo sistema di pensiero <<i processi naturali fondamentali>>, anziché dipendere da agenti ignoti, misteriosi e inesplicati, e in sostanza non afferenti al corso delle cose e degli eventi, <<sono spiegati, sono ricondotti a cause naturali>>[312] aventi la loro origine all’interno della materia stessa. Da questo punto di vista, la scienza offre dunque ben altre basi all’interpretazione razionale del contesto sensibile entro il quale viviamo, tanto che senza di essa, precisa Engels, la nostra conoscenza della realtà <<non avanza di un passo>>[313]: <<concezione materialistica della natura non significa altro se non, semplicemente, concezione della natura quale essa è, senza apporti estranei>>[314]. Da queste due premesse segue infine, secondo Engels, la terza caratteristica del nuovo paradigma scientifico inaugurato da Darwin e divenuto poi uno dei capisaldi del pensiero scientifico contemporaneo. Entro questo nuovo modo di concepire le cose, la natura rappresenta ormai, sia per il materialismo moderno sia per la scienza, <<la sola realtà>> conoscibile da parte dei soggetti sociali. Questo perché <<la natura esiste indipendentemente>>[315] da ogni osservatore e al di fuori della sua mente[316], e ci fronteggia dall’alto del suo status oggettivo ed anteriore ad ogni forma di pensiero. Infatti essa <<ci sta di fronte come un qualcosa di dato>>[317] retto soltanto dalle proprie intrinseche leggi interne. Tale contesto materiale costituisce una <<realtà ultima>>[318] in cui dominano incontrastate le <<diverse forme oggettive e di movimento della materia>>[319], l’eterno flusso delle differenti espressioni particolari dell’energia che pervade l’universo: <<tutto il movimento della natura si riduce a questo processo ininterrotto di trasformazione di una forma nell’altra>>[320].

Questo perenne divenire delle cose è ovviamente <<connaturato>> al mondo reale, rappresenta <<un attributo inerente alla materia>>[321], in cui una funzione di regolazione fondamentale la svolge una legalità causale necessaria - una <<ferrea necessità>>, dice Engels [322] - che rappresenta in effetti l’anima razionale per eccellenza del mondo fisico, la sua intrinseca struttura normativa (oggettiva ed immutabile)[323]. L’ordine legisimile della natura, di cui anche il caso è un effetto, attribuibile del resto ad una nostra temporanea ignoranza delle cause[324], è da noi tuttavia conosciuto solo tramite l’interdipendenza onnilaterale delle cose e dei fenomeni - tale interdipendenza è infatti <<la prima cosa che ci si presenta>> - derivante dal <<principio della conservazione dell’energia>>[325]. L’osservazione, l’analisi e lo studio della generale interazione e retroazione delle differenti e molteplici forme di movimento della natura sono ciò che ci consente di comprendere l’intima regolarità e le leggi dinamiche, l’intero processo di sviluppo del mondo fisico e organico che ci circonda. Infatti, <<solo partendo da questa azione mutua universale noi perveniamo al reale nesso causale>>, giacché con la comprensione delle diverse <<forme di movimento>> della materia <<abbiamo così conosciuto la materia stessa, e con ciò la [nostra] conoscenza è completa>>. Ecco perché, spiega conclusivamente Engels in un enunciato di sintesi, <<l’azione mutua è la vera causa finalis delle cose>>: <<Più indietro della conoscenza di questa azione mutua non possiamo risalire proprio perché dietro ad essa non c’è nulla da conoscere>> [326]. Il sapere scientifico moderno, spiega ancora Engels, si basa sulla <<origine sperimentale di tutto il contenuto di pensiero>>[327], giacché se <<l’intero mondo naturale è governato da leggi>> che escludono l’intervento di qualsiasi azione esterna o di qualsivoglia Creatore (infatti <<il mondo materiale è governato da leggi immutabili>>[328]: <<noi sappiamo dalla teoria e dalla esperienza che la materia così come il suo modo di essere, il movimento, sono increabili, e sono quindi causa finale di se stessi>>)[329] per il materialista conseguente i nessi e le regolarità tipiche riscontrabili in natura possono essere <<scoperti>>[330] soltanto attraverso la nostra attività congetturale e verificati poi tramite i dati e i fatti d’esperienza. Detta in breve: The proof of the pudding is in the eating [331].

Da questo punto di vista, si capisce meglio, credo, perché la nuova impostazione di Darwin sembrasse dare a Marx un <<fondamento scientifico>> al materialismo storico. A parte l’enfasi sull’evoluzione nel tempo delle specie e dell’intero mondo fisico e organico, concetto che metteva l’accento sulla differenziazione delle <<epoche storiche>> in natura[332], è molto probabile che l’entusiasmo di Marx sia da spiegare soprattutto col fatto che l’opera di Darwin rappresentava la formazione e la trasformazione degli organismi viventi, la nascita, lo sviluppo e l’estinzione d’intere specie animali e vegetali attraverso l’azione di un meccanismo - la <<natural selection>> - avente tutte le caratteristiche di una tendenza legiforme, e dunque oggettiva, insita nella stessa costituzione della materia. Darwin, in altre parole, avrebbe dato <<una forma razionale>>[333] alle cause operanti nel regno organico, spiegando in maniera convincente <<i loro effetti>> nell’ambito della variabilità delle specie. Se si tiene conto di quanto già dimostrato nel 3° paragrafo, dovrebbe risultare più chiaro perché Marx trovasse nel pensiero di Darwin un’ulteriore conferma alla sua interpretazione della logica scientifica. Il grande naturalista inglese aveva infatti dimostrato che una regolarità empirica – la stretta interdipendenza necessaria e conforme a legge di tutti i fenomeni fisici – dominava anche all’interno di quel mondo organico in cui invece sembrava imperare il finalismo tipico degli esseri viventi. Anche questa parte della natura poteva dunque essere interpretata sulla base degli stessi principi epistemologici tramite cui si studiavano in genere gli eventi astronomici, geologici, chimici o fisici, in una parola gli accadimenti complessi e le forme di manifestazione della materia inorganica. Caso mai il punto debole della concezione di Darwin, credeva Marx, come ora vedremo, stava nel non aver dato un adeguato rilievo prominente alla legiformità stretta.

L’importanza di questa impostazione per la concezione di Marx è del resto provata anche dal cosiddetto “affaire Trémaux”[334]. Uno dei punti della concezione di Darwin che Marx riteneva poco soddisfacente riguardava in particolare il fatto che il caso giocasse un ruolo troppo rilevante nel determinare la variabilità delle specie[335]. Come dirà anni dopo Engels, Darwin <<astrae dalle cause>> che si sono rese responsabili delle variazioni individuali all’interno di una specie: le assume infatti come <<del tutto sconosciute>>[336] per concentrarsi invece sulle conseguenze che esse inducono nell’ambito dei viventi. Ad avviso di Marx questo limite è superato dall’<<opera importantissima>> di Pierre Trémaux[337] che <<costituisce un notevolissimo progresso su Darwin>>. Mentre in quest’ultimo il processo della selezione naturale <<è puramente casuale>>, nel volume di Trémaux risulta  invece essere <<necessario sulla base dei periodi di sviluppo del corpo terrestre>>[338].

Nonostante l’errata supervalutazione dello scritto di Trémaux, demolito del resto da Engels qualche mese dopo[339], e nonostante la rappresentazione contraddittoria del lavoro di Darwin rispetto alla sua anteriore valutazione, il giudizio di Marx sul volume in questione (in una lettera a Kugelmann dello stesso periodo lo definirà nuovamente <<ein Fortschritt über Darwin>>)[340] è particolarmente interessante per l’enfasi portata ancora una volta sulla esigenza d’individuare la <<legge necessaria [notwendige Gesetz]>> e il <<fondamento naturale [Naturbasis]>> dei fenomeni osservabili nel mondo empirico, nei fatti e dati d’esperienza. Tuttavia è bene precisare che Marx ha torto anche nei confronti di Darwin. L’interpretazione del mondo vivente data da questi non ha infatti le caratteristiche attribuitele nella lettera citata. Al contrario. Se Darwin avversava l’ipotesi di <<an innate and ncessary law of development>>[341] operante in maniera uniforme e simultanea per tutti gli individui in direzione della perfezione[342], egli tuttavia partiva comunque dal presupposto che esistesse in natura un <<underlying system of laws>>[343] dal quale dipendeva l’ordine e la regolarità dei fenomeni naturali, compresi ovviamente quelli riguardanti l’evoluzione delle specie viventi. La stessa <<natural selection>>, d’altra parte, non era altro che un <<power>> inerente al mondo organico e in sostanza <<the work of Nature>>[344], la realizzazione di <<one general law leading to the advancement of all organic beings>>[345], migliorando la loro organizzazione e consentendo alle singole specie uno specifico e più vantaggioso accomodamento entro il loro ambiente tipico[346]. A questo proposito, è significativo il fatto che Darwin paragoni il suo concetto alla legge di gravità[347] allo scopo evidente di renderlo equivalente al suo significato, di assimilare la <<natural selection>> all’azione di una potenza della natura[348].

Se il caso sembra giocare una parte preponderante nella concezione di Darwin, come egli stesso ammette[349], ciò non dipende dunque per nulla da sue propensioni personali per l’occasionale e il contingente o l’accidentale. Il riferimento alla casualità nella spiegazione delle variazioni entro le specie, è anzi a suo dire  una <<wholly incorrect expression>> proprio perché presuppone sempre, a monte, l’attività legiforme intrinseca al mondo della vita. Il suo fine concettuale è dunque un altro: <<it serves to acknowledge plainly our ignorance of the cause of each particular variation>>[350]. Il fatto è che la forma specifica di ciascun essere vivente <<depends on an infinitude of complex relations>>, cioè da variazioni <<due to causes far too intricate to be followed out>>[351]. In fin dei conti, puntualizza Darwin, <<we should not forget that only a small portion of the world is known with accuracy>>[352] . Poiché grande è ancora ciò che non sappiamo rispetto ai meccanismi della selezione, la nostra spiegazione delle cose deve essere per forza di cose limitata. Se la natura, conclude Darwin, <<may be said to have taken pains to reveal her scheme of modification>> al nostro intelletto, tuttavia <<we are too blind to understand her meaning>>[353].

Marx su questo punto ha dunque sicuramente frainteso Darwin, al quale è invece speculare, come si è visto, il pensiero di Engels. Del resto, nonostante l’aperta e personalmente dichiarata ammirazione per il grande naturalista[354], Marx ed Engels, anche se si tennero sempre al corrente riguardo alla sue pubblicazioni, lessero attentamente ben poco di Darwin: due volumi al massimo[355]. Paradossalmente tuttavia è proprio quel travisamento che prova ancora un volta l’importanza attribuita da Marx al concetto scientifico di causalità o alla struttura legisimile dell’ordine della natura. Il perché è presto detto. Il modo di produzione del capitale o lo sviluppo della formazione economica della società si sono infatti affermati in epoca contemporanea come un <<processo di storia naturale [eine naturgeschichtliche Prozeß]>> e lo stesso sistema sociale che ne è derivato appare dominato <<dalle leggi naturali della produzione capitalistica [die Naturgesetze der kapitalistische Produktion]>>, che del resto <<si fanno valere con bronzea necessità [eherner Notwendigkeit]>>[356] per tutti i singoli individui facenti parte di questa organizzazione specifica, storicamente determinata.

È stupefacente pensare a tutte le cantonate prese dai marxisti (indifferentemente: eretici e ortodossi) ogni volta che si son trovati di fronte a queste, o anche a consimili, formulazioni di Marx. Le accuse di determinismo, filosofia della storia, e chi più ne ha più ne metta, si sono sprecate[357]. A nulla è valsa la precisazione di Marx proprio in merito a quei passaggi, in particolare del “Capitale”, in cui sembrava enunciare una sorta di fatale ed ineluttabile transizione dal capitalismo ad una nuova formazione sociale[358]. Il fatto che Marx, su questa questione così delicata, abbia chiarito il suo pensiero in modo inequivoco non ha scosso più di tanto i suoi superficiali critici[359]. Del resto, non ha forse chiarito, in contrasto con Hegel, che <<la necessità non implica la possibilità>>? [360]

 Dunque, se è vero che egli non aveva alcuna intenzione di spiegare quei processi sociali <<col grimaldello di una teoria storico-filosofica generale, la cui suprema virtù consiste nell’essere sopra-storica>>[361], qual è allora il differente significato teorico, più pregnante e più corrispondente al vero, dell’analogia tra modo di produzione capitalistico e legiformità naturali? Come si è visto nell’analisi del rapporto cause-effetti e del nesso intimo tra il valore e i suoi modi d’espressione, dal punto di vista sociale il contenuto concettualmente più sofisticato e complesso dell’idea di Marx sta tutto nella distinzione che essa permette di fare tra nucleo interno, più profondo, della realtà capitalistica e quel mondo esterno, di superficie, in cui sembra accadere ogni cosa ed in cui le più diverse istituzioni societarie, in primis i soggetti, sembrano costituire a prima vista delle istanze decisionali autoreferenti. Questa distinzione di livelli è ciò che precisamente consente a Marx di spiegare l’inganno della fatticità e di mostrare il carattere derivato e dipendente di quei presupposti. Senza il supporto del pensiero scientifico e della sua autorità indiscussa in quanto conoscenza oggettiva ben difficilmente Marx avrebbe potuto argomentare la sua originale interpretazione di questo essenziale processo di mediazione, istituito dal capitale per riprodursi in maniera impersonale attraverso le sue forme di rappresentazione.

Che la categoria in oggetto abbia questo significato fondamentale è provato anche dal fatto che essa è alla base di un’altra importantissima precisazione. Se il modo di produzione capitalistico non avesse avuto quale suo essenziale carattere storico quel dislivello tra le leggi interne e i loro effetti naturali ma tangibili, Marx non avrebbe mai potuto tematizzare alcuna differenza tra il capitale in quanto tale e i singoli individui, quelli che sembrano occupare tutta la scena reale degli accadimenti. I soggetti, invece, possono essere descritti come <<creature>>,  <<personificazioni>>, <<incarnazioni>> e <<funzionari>> del capitale proprio perché ne rappresentano i vettori consapevoli, gli agenti intenzionali o gli attori politici aventi il compito di dare uno sviluppo discontinuo e una storia specifica alla sua dinamica più intrinseca, gettandola così nel tempo e nel divenire empirico, concretamente osservabile. La cosa è del resto spiegata in maniera esemplare direttamente da Marx: <<I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista e il lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati che il processo di produzione sociale imprime agli individui>>[362]. Le <<specifiche funzioni sociali>>[363] svolte da ciascun soggetto razionale ai differenti livelli e nei diversi sottosistemi della struttura sociale complessiva non sono altro dunque che rappresentazioni intenzionali di un distinto fondamento da cui in definitiva derivano. La società del capitale è infatti determinata e regolata da <<un processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni>>[364]. La confutazione del soggettivismo, imperante nell’ambito del pensiero politico-economico, socialista e no, ai tempi di Marx, non avrebbe potuto essere più radicale, così come nelle sue intenzioni c’era probabilmente il proposito di farla finita con ogni tendenza di tipo speculativo e metafisico, mistico o teologico, del resto imperanti dappertutto nella sua epoca[365].

Penso che adesso possa essere più facile capire quale stretto rapporto la concezione di Marx intrattenga con la logica scientifica del suo tempo e come l’utilizzo a fini di analisi sociale di quest’ultima metta comunque capo a concetti dai significati oltremodo peculiari. D’altro canto, un’ultima e conclusiva dimostrazione del fatto che Marx non aveva in mente nessuna interpretazione destinalistica del capitalismo (come se esso fosse condannato ad una fine inevitabile) ci è data dal confronto della sua visione teorica con la contestuale elaborazione delle scienza sociale per eccellenza della sua epoca: l’ecomomia politica classica. Non si contano i luoghi in cui Marx confuta a ogni piè sospinto la tendenza di quest’ultima a presentare il modo di produzione capitalistico come un sistema di produzione esistente sin dall’eternità, come la forma finalmente scoperta ed oggettiva della produzione sociale[366]. Sarebbe davvero paradossale pensare che Marx abbia voluto presentare il modo di produzione capitalistico e la sua formazione sociale come un tipo di sistema parallelo a quello della scuola di pensiero rivale, come se la sua genesi e al sua struttura d’insieme coincidessero puramente e semplicemente con leggi di natura, con processi e tendenze afferenti al mondo fisico e biologico. Se per demolire un’ipotesi, come dice Diderot, <<il ne faut quelquefois que la pousser aussi loin qu’elle peut aller>>[367], niente meglio della congettura in questione sembra prestarsi allo scopo. Enunciandola, infatti, l’intero processo di formazione del capitale si vedrebbe conficcato in eventi materiali che tenderebbero a presentarlo come un’organizzazione corrispondente alla natura, ed in questo modo a trasformarlo in un tipo di società legittimato e corroborato dallo stesso ordine delle cose. Se si considerasse il modo di produzione del capitale un calco sociale di processi naturali si avrebbe lo stesso risultato, involontariamente apologetico in questo caso, di quei trattati di economia politica così aspramente criticati da Marx per le loro interpretazioni “eterniste” del capitalismo.  Il che ovviamente non può essere, altrimenti dovremmo ammettere che Marx enuncia un’interpretazione del capitale, allo stesso tempo e dal medesimo punto di vista, sia storica che senza epoca, sia socialmente determinata che naturalmente priva di ogni connotazione societaria. Inutile insistere oltre sulla illogicità di un simile discorso. Se anche si volesse, prescindendo dalla sua intima natura contraddittoria, ammettere la sua liceità, come si potrebbe infatti distinguere Marx dagli economisti classici e più in generale dal pensiero grande-borghese?[368]

Si può a questo punto dire con sicurezza che l’eliminazione della metafisica dal discorso scientifico ha per Engels e per Marx un significato complesso. In effetti, implica la definizione di un vero e proprio modello epistemologico di ragione che non comprende solo la liquidazione dell’arbitrio soggettivo e delle categorie immaginarie della scienza premoderna. Infatti, nonostante l’apparente carattere ontologico del materialismo in questione – primato della Natura (esterna ed oggettiva, preesistente e indipendente) rispetto alla mente -, esistono anche delle implicite tendenze convenzionaliste nell’interpretazione delineata in precedenza. La raffigurazione ontologica della materia entra infatti in crisi, o vede incrinarsi quella sua forma monolitica, non appena Engels è costretto ad ammettere che le nostre conoscenze delle distinzioni presenti in natura hanno <<una validità solo relativa>>. In un duplice senso. In una prima accezione perché esse sono ovviamente transitorie, rettificabili e continuamente nuove, mai definitive né immutabili[369]. In una seconda e più importante accezione tuttavia i <<nessi razionali>> che possono essere stabiliti tra i fenomeni e le loro cause sono relativi perché sono introdotti nella materia <<solo dalla nostra riflessione>>[370], dall’attività concettuale dell’osservatore, che formula ipotesi, spiega e costruisce in definitiva un’interpretazione teorica dell’oggetto. Non appena Engels presuppone una costitutiva correlazione tra mente e mondo e la definisce <<materialismo puro>>[371], egli in realtà mette in discussione, apparentemente senza saperlo, il suo principio ontologico primario, giacché la codipendenza dei due termini implica la pari compartecipazione di pensiero e natura alla formazione della conoscenza, cosa che revoca in dubbio il supposto carattere indipendente e a tutto anteriore del mondo fisico. Se questa antinomia non determina ancora il crollo di tale premessa, giacché la natura viene ancora pensata come un sistema esterno all’intelletto umano, tuttavia rappresenta sicuramente una crux logica o una spina nel fianco dell’intera argomentazione engelsiana difficlmente risolvibile.

Oltretutto la polemica di questa interpretazione con il cosiddetto materialismo volgare solleva nuovi problemi teorici che rendono ulteriormente problematica l’intera sua ricostruzione del <<materialismo moderno>> e dei suoi caratteri più specifici, aggiungendo nuove perplessità in merito alla sua effettiva attendibilità concettuale. È realistica la critica di quella corrente di pensiero? E soprattutto: rappresentava davvero quella concezione un modello alternativo di conoscenza rispetto al materialismo storico, con categorie diverse da questo e in un certo senso inferiori per efficacia esplicativa? Dubito molto.

Come è noto, Engels e Marx imputavano ai maggiori esponenti di quel materialismo, quasi tutti scienziati del resto, una sostanziale <<incapacità di concepire il mondo come un processo, come una sostanza soggetta a una evoluzione storica>>[372] e soprattutto confutavano la loro pretesa di poter pedissequamente <<applicare la teoria della natura alla società>>[373], magari usando Darwin a tale scopo[374] e dimenticando, secondo Engels, che la <<evoluzione della società si rivela essenzialmente differente da quella della natura>>[375].

Lasciamo perdere il fatto che Engels contraddice subito questo suo enunciato, a prima vista chiaro e netto, sostenendo il contrario in una sorta di illogico “qui lo dico, qui lo nego”[376]. Il problema maggiore riguarda infatti la validità dei suoi giudizi su quella scuola filosofico-scientifica. Se si guarda più da vicino e con più attenzione l’elaborazione teorica di quest’ultima, le cose cambiano aspetto in più punti, soprattutto in merito alle tre caratteristiche fondamentali del modello espistemologico delineato da Engels e da lui ritenute tipiche e tipizzanti il materialismo moderno.

Ad un’analisi più approfondita degli scritti fondamentali di questi naturalisti e fisiologi risulta infatti che essi – da Haeckel, via Büchner, a Moleschott e Vogt – tematizzavano, mutatis mutandis, la stessa rappresentazione epistemologica descritta da Engels. In primo luogo, per tutti loro la natura rappresenta un sostrato di processi fisici e chimici del tutto indipendente dall’osservatore, anteriore all’esistenza della mente ed esterno all’osservatore. La natura è un universo in movimento incessante, in divenire perenne, al cui interno fioriscono senza sosta forme viventi completamente nuove e trasformazioni continue della materia. La natura combacia con l’autoorganizzazione della materia[377]. In secondo luogo, il mondo reale è regolato da inflessibili leggi necessarie ed universali, di cui le diverse forme di energia sono manifestazioni ed espressioni sensibili, additabili e misurabili. Nell’ambito di questo determinismo cosmico[378] il caso e gli eventi apparentemente accidentali, a prima vista occasionali, chiaramente, derivano soltanto dalla nostra ignoranza delle cause determinanti da cui in sostanza nascono. Infine, l’attività concettuale ipotetica del pensiero deve tendere alla scoperta sperimentale delle legiformità naturali attraverso sistemi di conoscenza rivedibili e rettificabili, in un processo di avvicinamento asintotico alla realtà praticamente senza fine ed in sostanza irraggiungibile, in cui comunque alla ragione umana spetta un’insostituibile funzione congetturale attiva[379].

Non solo, dunque, le categorie base dei due tipi di materialismo – quello definito meccanicista e quello moderno – coincidono, ma persino le loro implicazioni e i loro obiettivi polemici sono in definitiva gli stessi. L’avversione per ogni spiegazione metafisica della natura in termini di cause finali, di mistiche tendenze teleologiche, di vitalismo, di creazionismo e quant’altro, la difesa ad oltranza dell’interpretazione razionale del mondo naturale, la confutazione dell’idealismo, persino una certa enfasi costruttivista e convenzionale implicita nell’argomentazione di tutti quanti, costituiscono delle concordanze concettuali che rendono i due punti di vista estremamente simili, in ogni caso, contrariamente a come Engels aveva cercato di presentarli, non così dissimili come si credeva. Oltretutto, analoghe tendenze epistemologiche, anche se in via di trasformazione come si è visto, erano largamente diffuse in tutta la cultura europea ed erano divenute esplicite anche in ambienti scientifici diversi da quelli del materialismo in senso stretto[380]. Comunque, tra i due orientamenti delle differenze certo vi sono, ma riguardano sostanzialmente altri aspetti della loro elaborazione (l’idea di progresso necessario, il pregiudizio razziale, ad esempio). Sulle questioni di fondo il loro accordo è sostanziale, tanto che i loro discorsi finiscono col tematizzare perfino le stesse identiche impasse, o a dare lo stesso sviluppo doppio ed ambiguo alle loro argomentazioni.

Insieme alla tesi ontologica, ad esempio, come Engels, anche essi sostengono che esiste un rapporto complementare tra la mente e il mondo, i quali rappresentano in fin dei conti istanze codipendenti e in coevoluzione, cosa che così finisce col confutare l’assunto di partenza. In secondo luogo, se i fatti e l’esperienza costituiscono le sole fonti del nostro sapere e il sostrato empirico prioritario dell’intelletto, il pensiero risulta però essere indispensabile per costruire un’interpretazione razionale delle cose, ed esso diventa poi così l’elemento logico primario del rapporto, senza il quale la conoscenza non potrebbe mai prendere forma. Infine, come se non bastasse, la tesi secondo la quale il pensiero è il prodotto di <<un organo materiale, corporeo: il cervello>> e questo non sarebbe altro a sua volta  <<che il più alto prodotto della materia>> [381] - enunciazione che secondo Engels, come si è visto, sarebbe <<materialismo puro>>[382] -, mette capo ad un paradosso insostenibile e ad un duplice controsenso talmente evidente da sembrare inverosimile. Se difatti si sostiene, contemporaneamente a quelle tesi, che il mondo reale è un nostro postulato e che la nostra attività conoscitiva discende dalla materia organizzata, come si può poi affermare che il <<mondo materiale […] non è un prodotto dello spirito>>? Se il pensiero deriva dalla materia, è però vero anche il contrario, giacché tra i due termini non è stata posta alcuna demarcazione, se non concettuale. Il che non fa altro che corroborare la non differenziazione dei due. In altre parole, il discorso in oggetto si infila da solo in una contraddizione logica senza alcuna via d’uscita, e questo nel vano tentativo di distinguere pensiero ed essere dopo averli resi identici[383]. Il principio di materialità si scontra qui con l’idea opposta: cioè con la convinzione, mutuata dall’Illuminismo francese e dalla scienza tedesca dell’epoca (avversa o no alla Naturphilosophie)[384], che la conoscenza derivasse tutta dai nostri organi di senso, giacché tali organi, in ultima analisi, dipendono comunque da processi naturali, chimico-fisici, svolgentisi nel sistema nervoso centrale[385].

Questi irrisolti rompicapo teorici, micidiali per la coerenza teorica della concezione in questione, illuminano in effetti l’estremo aspetto problematico di tutta la controversia antimetafisica tra Sette-Ottocento e gli inizi del Novecento. Il tentativo di eliminare dallo studio della Natura, in nome della conoscenza oggettiva indipendente dai valori, qualsivoglia arbitrio soggettivo (nel senso della formulazione di ipotesi) o categorie “speculative” non suscettibili di accertamento sperimentale né controllabili da parte dell’esperienza[386], reintroduce paradossalmente l’osservatore dalla finestra dopo averlo cacciato dalla porta. A causa delle contraddizioni logiche che la sua concezione implica, il positivismo delle due epoche non può riuscire in alcun modo ad <<esorcizzare>>, per riprendere un’efficace formula di Popper, la funzione determinante della mente individuale e dell’intera cultura del singolo nella definizione del sapere scientifico. Come vedremo tra poco, non v’è modo di espungere dall’ambito della conoscenza razionale del mondo fisico e organico la costitutiva funzione dell’attività congetturale del soggetto, precisamente perché concrescono insieme, una dentro l’altro. Tra comprensione della natura e processi di pensiero, in altri termini, non v’è differenza alcuna, il che vuol dire che per la scienza la materia non esiste all’esterno della mente.         

Tutto ciò ovviamente ha un effetto scioccante e dirompente sul materialismo tradizionale, moderno alla Engels o meccanicistico alla Hæckel, e nemmeno poteva essere immaginato da questi pensatori, troppo presi dalla polemica contro l’idealismo per poter scorgere le implicazioni prospettiche della loro impostazione. In ogni caso, come ho già detto, la cecità teorica nei confronti, o l’impossibilità di poter prendere coscienza, delle tesi implicite nella loro stessa tematizzazione, è inscritta nel codice genetico della loro formazione filosofico-politica. Sta di fatto comunque che il convenzionalismo costruttivista - caratterizzato da una triplice tesi epistemologica: 1. Non esiste alcuna indipendenza né primato della materia rispetto al pensiero; 2. L’attività cognitiva coevolve con il nostro contesto sensorio e non è affatto esterna a tale presunto sistema di cose; 3. Conosciamo soltanto la nostra conoscenza, che nelle varianti per così dire deboli del paradigma in questione tutt’al più può venir controllata sul mondo fisico – discende in linea retta, almeno potenzialmente e come tendenza che in seguito troverà modo di esplicitarsi apertamente, da quella stessa concezione positivista che avrebbe voluto negarne persino la più remota possibilità. Ancora una volta, l’avversione per ogni misticismo, finzione, teologia, e così via, in nome di un’interpretazione spinoziana della Natura[387], ha finito col generare il proprio opposto: un modello di ragione centrato sull’attività cognitiva autoreferente (avente forma di spirale) del soggetto.

A maggior riprova di quanto sostenuto, e cioè della sostanziale concordanza tra l’impostazione di Engels e il realismo scientifico[388] tedesco, soprattutto paradossalmente in quei punti in cui essi avrebbero dovuto maggiormente divergere e distinguersi, mi sembra opportuno chiamare in causa anche la questione del rapporto natura-storia. Questa relazione possiede in effetti un valore simbolico e concettuale di primo rango, giacché Engels ne fa la linea di demarcazione fondamentale tra il materialismo storico e la concezione avversa(ta), la discriminante che avrebbe dovuto sancire la definitiva confutazione dell’altra scuola. Come stanno, allora, le cose?

Secondo Moleschott <<le leggi universali della storia sono emanazioni necessarie della natura>>[389] giacché dappertutto nel mondo empirico impera il determinismo più rigoroso e consequenziale, di cui anche la volonta individuale è in definitiva un effetto. D’altro canto, se l’intero corpo umano non è altro che una sintesi organica di forze chimico-fisiche[390], ne deriva di conseguenza l’impossibilità di distinguere l’agire razionale (politico-ideologico, economico, etico, ecc.) dei soggetti dalla loro conformazione biologica. Ergo, gli avvenimenti storici che prendono forma all’interno delle società non sono altro che emanazioni e conseguenze di regolarità legisimili insite nella Natura stessa. Il libero arbitrio non esiste. Se nel mondo sensibile, organico e inorganico, domina soltanto una <<cieca causalità>> senza scopi né intenzioni, così del pari la storia sociale ha a suo fondamento un ordinamento legiforme dei fenomeni assolutamente impersonale e oggettivo, cosa che poi permette di trattare i problemi della società in maniera rigorosamente scientifica, alla stregua di oggetti naturali, e dunque di fare predizioni verificabili intorno alla loro possibile evoluzione e alla loro realizzazione di fatto o meno.

Che argomentazione contrappone Engels a questa interpretazione rigidamente determinista del sistemi sociali? La sua analisi è molto semplice e si sviluppa a partire da una contrapposizione. In natura infatti, asserisce Engels, tutto viene causato e regolato da <<fattori ciechi e incoscienti>>: <<Nulla di ciò che accade si produce come fine consapevole, voluto>>[391]. Al contrario in società. Qui la storia è l’effetto di una moltitudine di azioni, riflessioni e persino passioni attribuibili esclusivamente agli uomini: <<Nulla accade, in questo campo, senza intenzione cosciente, senza uno scopo voluto>>. Tale sarebbe dunque, ad avviso di Engels, la <<differenza>> tra i due contesti. Solo che questa distinzione, ci viene spiegato, <<non può cambiare nulla al fatto che il corso della storia è retto da determinate leggi interiori>>. Nonostante quella demarcazione, dunque, storia e natura sono equiparabili perché in ambito sociale, <<malgrado gli scopi coscientemente voluti dai singoli, regna alla superficie, in apparenza e all’ingrosso, il caso. Solo di rado ciò che si vuole riesce>>.

Gli scontri dei soggetti, i risultati divergenti delle molte individualità in interazione, gli effetti inattesi e imprevedibili, l’incrocio e il contrasto delle diverse azioni, la sproporzione tra mezzi e fini, e via dicendo, <<creano sul terreno storico una situazione che è assolutamente analoga a quella che regna nella natura incosciente>>. Anche se la storia consta delle configurazioni non volute a cui mettono capo <<le numerose volontà operanti in diverse direzioni>>, nonché dei <<risultati delle loro svariate ripercussioni sul mondo esteriore>>, resta il fatto, ad avviso di Engels, che <<gli avvenimenti storici sembrano, nel loro complesso, dominati essi pure dal caso. Ma laddove alla superficie regna il caso, ivi il caso stesso è retto sempre da intime leggi nascoste, e non si tratta che di scoprire queste leggi>>[392].

Questa dunque, in breve, la spiegazione engelsiana. E francamente si tratta di una spiegazione estremamente debole. Per almeno due problemi di fondo. Innanzitutto, se fosse vero che in società il caso connota una circostanza <<assolutamente analoga>> a quella esistente in natura, allora verrebbe meno ogni possibilità di potersi differenziare dall’altra interpretazione, giacché per la scienza dell’epoca il caso è solo il nome che diamo alla nostra imperfetta, inevitabilmente imperfetta, conoscenza del principio di causalità. Se la materia non può essere governata dall’accidentale e dall’erratico, ne consegue, stante il parallelismo tra i due ambiti, che anche in società deve vigere una qualche forma di determinismo, cosa che confuta dunque il primo argomento engelsiano.

In secondo luogo, poiché concepisce le classi sociali ed il loro conflitto in termini sostanzialmente politici, come uno scontro complesso e multiverso di soggetti intenzionali guidati da progetti e fini[393], non è più possibile ad Engels tracciare una qualche distinzione di principio tra il presunto sistema sociale complessivo e quelle variegate azioni <<che costituiscono la storia>> degli uomini associati[394]. Se sono i soggetti sociali ad istituire, come ci vien detto, la loro cornice d’insieme, ecco che da questa premessa segue in linea retta il divieto di poter trattare o considerare le configurazioni di fatto che nascono dalla loro plurivoca e temporalmente differenziata interazione e retroazione multipla come degli oggetti sottoposti a leggi di qualsivoglia tipo. La totalità sociale a cui mette capo l’agire razionale dei singoli rappresenta soltanto un contorno fattuale emerso alla fine di un lungo processo di formazione attraverso l’attività cosciente degli individuali. Questo contesto apparentemente già dato, a prima vista esistente in guisa di saldo suolo preesistente, non può presupporre l’esistenza di alcuna legalità, tantomeno <<dominante>> o in grado addirittura di <<reggere la storia in generale>>[395], differente per natura dai soggetti che lo hanno fatto nascere, semplicemente perché le due istanze coincidono, sono fondamentalmente la stessa cosa.

Se all’inizio Engels aveva formulato una demarcazione avente una sua apparente plausibilità, l’esigenza di non spiegare tutto con la ratio politica, o di distinguersi da ogni interpretazione della realtà sociale in termini intersoggettivi, tramite il principio-volontà, lo ha costretto subito tanto a negarla in sostanza quanto ad assumere la presenza di leggi sociali che si sono rivelate poi, stante la maniera contraddittoria in cui le ha teorizzate, del tutto chimeriche e in definitiva inesistenti. Se esistono solo rapporti, relazioni tra istanze, e solo queste possiamo conoscere, allora questo enunciato rende impossibile - nell’equivalenza tra natura e società, nella loro <<assoluta analogia>> - supporre qualsivoglia distinzione tra rapporti interindividuali e qualsiasi supposto <<mondo esterno>>. Se lo si fa, si viola il primo presupposto. Se non lo si segue, del pari s’infrange il secondo assunto, cioè l’equivalenza tra storia e mondo materiale. Così, da qualunque prospettiva si guardi la cosa, il discorso di Engels si confuta da solo.

Anche l’ultimo caposaldo engelsiano non è stato dunque in grado, per suoi intrinseci limiti concettuali, di far fronte ai modelli teorici rivali. Il che a mio avviso prova per l’ennesima volta la sostanziale contiguità e complementarità delle due forme di materialismo. Alla prova dei fatti, né esiste tra i due alcuna demarcazione essenziale capace di renderli effettivamente alternativi né le loro categorie epistemologiche di fondo differiscono in maniera significativa quanto al loro contenuto logico.

A parte le incogruenze del suo discorso, come si spiega la clamorosa incompresione da parte di Engels dell’efettivo significato teorico della concezione del <<materialismo scientifico>> tedesco? Che cosa può aver vietato ad Engels la messa a fuoco del reale status teorico dei concetti base di tale pensiero? La risposta più probabile a questi interrogativi mi sembra ci venga data da un’altra domanda: se Engels non aveva chiaro quello che accadeva entro l’epistemologia scientifica del suo tempo[396], è realistico pensare che potesse veder chiaro entro un’impostazione basata in ultima analisi sugli stessi principi di quell’epistemologia? Se a tutte le antinomie discusse si aggiunge poi il fraintedimento di Kant ed Hegel, la banale critica di entrambi e la semplicistica interpretazione della dialettica[397], credo che tutto possa diventare meglio comprensibile. Come mi è già capitato di dire, l’originaria formazione culturale di Engels e di Marx, con tutte le idiosincrasie e i pregiudizi che ha depositato nel loro sistema d’idee, ha creato sin dall’inizio un ostacolo insormontabile alla loro comprensione dei mutamenti epistemologici che andavano prendendo forma all’interno della comunità scientifica della loro epoca. Non mi sorprende che questo condizionamento, insieme agli altri fattori prima considerati, abbia potuto rendere difficile e persino bloccare la loro percezione delle novità teoriche allora emergenti dall’interno stesso del pensiero scientifico col quale pure avevano una grande confidenza.

Piuttosto l’obiezione rivolta da Marx al <<materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali>> si spiega meglio con le caratteristiche specifiche delle forme sociali illustrate in precedenza. I limiti di questo sistema infatti consistono nel fatto che esso, nell’analisi delle istituzioni umane e in particolare di quelle della società contemporanea, <<esclude il processo storico>>[398] che ha portato alla formazione di questo sistema sociale. Il principio fatttuale da cui questo tipo di materialismo sembra prendere le mosse - la sua teoria della conoscenza, spiega Büchner, ha a suo fondamento <<ciò che è dato>> come unico punto di partenza del pensare[399] -, è senz’altro apparso a Marx come un’assunzione concettuale in cui era insito il divieto di poter mai spiegare la logica del presupposto dominante nella realtà empirica del capitalismo contemporaneo. Se quel postulato realista poteva avere un senso nella disputa contro le varie tendenze idealistiche allora imperanti anche nel campo della razionalità scientifica, nell’ambito della società esso diventava del tutto inutile e perfino fuorviante, giacché finiva col cancellare la caratteristica altamente specifica dei processi sociali istituiti dal capitale al momento della sua nascita. In particolare, esso avrebbe vietato qualsiasi comprensione della doppia (duplice-ambigua) natura del suo tipico ordinamento sociale, rappresentato in questo caso dalle <<leggi naturali esclusivamente storiche della produzione capitalistica>>[400]. E’ questa duplice e a prima vista inconcepibile simultaneità, tipica come si ricorderà del modo di produzione attuale, a inficiare dalle radici l’idea regolativa del “realismo materialista” - o come lo ha definito Gregory <<rationalistic realism>>[401] - quando questo pretende di poterla usare nell’interpretazione degli eventi sociali. Come ci ricorda Marx, <<l’unico metodo materialistico e quindi scientifico>> di spiegare l’intrinseca natura complessa delle forme d’espressione del capitale, invece di assumerle come un dato, consiste piuttosto nel problematizzare e sottoporre ad analisi la loro apparente fatticità, in maniera tale da rendere possibilmente intelligibile il loro processo di formazione e la loro interna struttura derivata. In conclusione, sempre secondo Marx, <<è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno [delle categorie sociali] che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme>> presupposte[402].

Anche a voler prescindere da questa ultima questione e dai fraintendimenti sopra esposti, resta il fatto è che tutta la concezione qui riassunta non prende minimamente in considerazione l’altra fondamentale scuola metafisica europea della natura: l’inglese Natural Theology. Forse perché ritenuta, a torto, un caso particolare della più generale impostazione speculativa[403], questa interpretazione teologica del mondo possiede in realtà dei tratti caratteristici e specifici che la distinguono in parte dalla Naturphilosophie tedesca in ragione prima di tutto del più accentuato profilo scientifico della sua argomentazione[404]. Quali sono dunque, in sintesi, i tratti salienti del suo discorso?

A differenza della gemella concezione continentale, la Natural Theology non rifiuta affatto, in toto, l’interpretazione meccanicista del mondo né si oppone in alcun modo ad uno studio della natura sulla base di principi puramente fisico-causali. Anzi. Come già si è visto in precedenza, negli ambienti scientifici dell’Inghilterra Vittoriana l’opposizione di molti naturalisti al dominio incontrastato dello <<argument from Design>> - che interpretava la natura tramite l’azione e la volontà del Creatore, da cui poi derivava la circolarità del tempo, l’immutabilità del mondo e ad un tempo il finalismo degli organismi - aveva a suo fondamento comunque <<an a priori belief in the existence of ideal, or “trascendental”, patterns in nature>>[405]. Anche se questi scholar non condividevano la spiegazione della materia data dalla <<mechanical philosophy>>[406], essi tuttavia presumevano che esistessero in natura degli <<ideal patterns>> che potevano essere scoperti da una specifica attività di ricerca degli scienziati <<interested in discovering the laws of the living world>>[407]. In questo periodo, dunque, la tradizionale divisione tra <<natural philosophy>> e <<natural history>> comincia <<to break down>>: <<Naturalists began to view their endeavors as nomothetic – oriented toward the establishment of general laws>>[408].

Lo studio del mondo delle forme biologiche, così come quello dei fenomeni fisici, tende a diventare adesso uno studio tanto positivo ed empirico quanto organizzato intorno a <<regulative principles>> la cui prima funzione è quella di guidare lo scienziato nella spiegazione dei fatti osservati e dei dati d’esperienza. Anche se il regno vivente sembrava mostrare dappertutto dei comportamenti finalizzati da parte delle diverse specie, essi potevano e dovevano essere ricondotti tuttavia a delle regolarità insite nella natura stessa. I <<purposes>> impliciti nel mondo biologico potevano così essere attribuiti a caratteri propri del vivente senza aver bisogno di rincondurli a nessuna altra fonte. Da questo punto di vista, i naturalisti potevano trattare <<the phenomena of the origin and diversity of life as law-governed phenomena, and thus as phenomena amenable to scientific investigation>>[409].

Non solo dunque l’analisi empirica del mondo vivente non implicava la rinuncia ad ogni tipo di congettura in grado di esplicare e collegare i diversi fenomeni osservati in un sistema interpretativo coerente. In ogni caso, a monte di questo atteggiamento v’era la ricerca di regolarità nell’ambito del mondo biologico e la presupposizione comunque che la natura possedesse un intrinseco ordine legiforme. Anche in quest’epoca, dunque, una parte di primo piano la svolgeva un postulato che uno scienziato contemporaneo ha definito <<the most sacred cow of natural science’s sacred cows>>[410]. D’altro canto, se il principio di causalità, con il suo sistema di eventi causalmente interrelati e impersonali, era sicuramente alternativo ed opposto alla teleologia e alle <<final causes>>, era esso del pari avverso ad, ed inconciliabile con, ogni forma di teologia? Per nulla, come la storia del pensiero scientifico dimostra.

Tutta una generazione di naturalisti, paleontologi e anatomisti inglesi, da Richard Owen a William Boyd Carpenter, da Edward Forbes a Peter Mark Roget, la maggior parte dei quali studiati di prima mano da Marx ed Engels, era infatti convinta che compito di uno scienziato <<was to discover and explain patterns in nature>>[411] attraverso l’uso  di concetti a priori elaborati dalla mente mediante i quali poi spiegare i fatti considerati[412]. La <<search for laws>> [413] e l’interpretazione della natura attraverso una sua supposta <<underlying unity of structure>> [414] non fanno divieto alcuno ad un approccio non induttivista alla conoscenza del mondo reale. I costrutti mentali dell’osservatore diventano anzi funzionali ad una migliore comprensione dell’oggetto, nella misura in cui almeno essi danno corenza formale e razionalità d’insieme alla nostra conoscenza della materia.

L’interpretazione della natura tramite l’agire legismile di un <<underlying system of laws>> di forma biofisica e chimica non discende tuttavia solo dal fatto che i maggiori naturalisti e fisiologi del tempo <<were dissatisfied with the method of final causes>>[415] adottato dalla visione tradizionale né dalla loro intenzione di offrire <<a new and better foundation for natural theology>>[416]. Sicuramente, come ha ben spiegato Ospovat, questo intento ha guidato il loro tentativo di riformare la scienza naturale inglese d’impronta creazionista dell’età vittoriana, al fine soprattutto, come è stato detto, di accomodare la <<scientific knowledge within the intellectual framework of Christian theology>>[417]. A tutti questi studiosi in effetti - da Theodor Schwann ad Louis Agassiz, da Henry Milne Edward a Karl Ernst von Baer, e praticamente a <<most of the leading naturalists of the middle third of the century>> dell’intera Europa - i fatti e i dati acquisiti <<of their science were incompatible with a strictly teleological interpretation of organisms>> [418]. La trasformazione del paradigma è stato così probabilmente dettato dalle nuove circostanze in cui la loro scienza si è venuta a trovare, ma che cosa ne ha reso possibile la realizzazione? La risposta a questa domanda non può essere semplice, così come del resto non è stata per niente semplice né lineare la formazione delle precondizioni che hanno poi consentito a quel mutamento epistemologico di prendere piede ed affermarsi. Prima di tutto, bisogna tener conto del fatto che nella scienza sperimentale moderna, sin dai suoi inizi, e particolarmente con Descates prima e Newton poi, è sempre stato possibile sostenere un’interpretazione meccanicistica della Natura e in pari tempo farla andare di pari passo con la presupposizione di Dio[419]. L’interpretazione del mondo fisico in termini di meccanica collisione di corpi, d’interazione multifattoriale di particelle materiali (vortici, ecc.)[420] aveva anzi necesariamente bisogno di assumere l’esistenza di un Divine Architect per una serie di ragioni fondamentali per la sua coerenza interna e la sua sostenibilità. Intanto, in tutta la cultura scientifica del tempo <<the Deity’s role was axiomatic>>[421] e difficilmente contestabile di fronte all’autorità della Chiesa, e non solo ovviamente per motivi dottrinari (Galileo docet). In secondo luogo, sia che lo facesse per non incorrere nell’arduo problema delle origini (<<Physics do not meddle with the first formation of things>>, dichiarava Gravesande)[422], sia che volesse evitare rompicapo logici con la regressio ad infinitum, la scienza dell’epoca doveva per forza di cose limitarsi allo studio esclusivo dei fenomeni e delle relazioni tra fatti d’esperienza, i soli in fondo di cui noi si potesse avere cognizione diretta. Per gli scienziati di allora – per Descartes, Newton, e prima ancora per Copernico, Keplero, Harvey, Boyle e persino per Lord of Verulam – le leggi di Natura, come ha spiegato Gillispie, <<are discoverable only by applying our senses to the study of facts, and our only appropriate tools are observation, experiment, measurement, mathematical calculation, and induction>>[423].

Rendere intelligibili i fenomeni, chiarire gli effetti riscontrabili e le loro cause prossime, insieme alla invariabilità delle legalità naturali e al postulato dell’ordine razionale del mondo, sono dunque tutti concetti e <<regulative Ideas>> che hanno permesso al pensiero scientifico, in un certo senso, sia di prendere le distanze da ogni <<divine intervention>> nell’analisi della materia sensibile, sia di presupporre comunque l’esistenza di un <<Divine Purpose>>[424] nell’ordinamento del cosmo. Da questo punto di vista, il meccanicismo si è sempre ibridato con la teologia e l’ha sempre tenuta sullo sfondo delle sue argomentazioni, usandola all’occorrenza quando mediante i “miracoli” si poteva persino dare una spiegazione delle eventuali accezioni a quelle leggi universali e necessarie[425].

L’intrinseca simbiosi e la cooperativa coesistenza delle due tendenze, oltre a rendere possibile uno studio razionale della natura, aveva probabilmente anche altri scopi più complessi e meno evidenti. Oltre a confutare l’idea che meccanicismo e teologia rappresentassero paradigmi rivali e alternativi tra loro[426], la solidale combinazione di quei due indirizzi permetteva infatti alla nuova scienza allora in via di gestazione di conseguire almeno tre importanti obiettivi polemici, uno politico-culturale, due sicuramente concettuali, di non inferiore rilevanza sociale del resto. In primo luogo, infatti, rendeva possibile la difesa della funzione morale e delle posizioni di potere della <<Oxbridge élite>> e in generale dell’intera classe dominanate del tempo[427]. Nella misura in cui si poteva dire che per comprendere la natura, anche quando apparentemente la si studiava attraverso le sue proprietà sensibili, v’era comunque bisogno di Dio offriva difatti un formidabile schermo protettivo contro ogni immanenza panteistica e/o ateismo, scetticismo, stoicismo, e così via. In secondo luogo, in quel paradigma la natura poteva esere considerata un universo di <<passive Matter>> in cui vigevano soltanto urti e pressioni tra corpi materiali inerti (esclusivamente <<motions of the atoms and molecules>>)[428] e privi di ogni <<active power>>[429], in maniera tale da poter considerare l’intero mondo reale come un sistema di cose sottoposto a leggi universali e immutabili, ad uno <<static order, created once and for all time>>[430]. Con l’idea di <<dead Matter>> questa impostazione poteva così contrapporsi ad ogni scuola di pensiero alternativa, in particolare all’empirismo inglese capeggiato da Hume e al sensismo illuminista francese[431], negando in radice qualsiasi indipendenza e autonomia alla materia tangibile, che in quanto <<inherently inert stuff>>[432] non poteva vantare nessuna interna <<self-organizing structure>> [433]. Infine, il meccanicismo professato da questa concezione la metteva in grado di confutare in maniera difficilmente fronteggiabile anche qualsiasi forma di spiritualismo o metafisica rivale che avesse a suo fondamento una qualunque <<mystical force of nature>> (Soul, Spirit, e via dicendo)[434]. Se la natura veniva concepita come un contesto regolato esclusivamente da urti ed interazioni tra atomi e molecole, come un mondo che constava soltanto di forze, pressioni e contatti meccanici tra corpi impenetrabili e palpabili[435], non era più possibile rappresentarsela o pensarla attraverso alcun agente immateriale, alcuna misteriosa <<Substance>> non fisico-chimica.

D’altro canto questa spiegazione razionale della natura non possedeva soltanto una sua intrinseca complessità epistemologica. Essa aveva in pari grado anche una sua interna flessibilità concettuale che la rendeva particolarmente adattiva al variare dei tempi e delle circostanze. Se da principio infatti si supponeva che Dio avesse impresso <<divine purposes>> a tutto l’universo, se si riteneva che l’intera Natura mostrasse dappertutto un <<finalistic design>> ad essa imposto da un <<Supreme Designer>>[436], in seguito questa impostazione basata sulle <<final causes>> fu largamente abbandonata proprio da coloro che l’avevano difesa - William Paley in testa, il maggiore esponente del Design Argument nel corso dell’Ottocento, nonché da William Whewell e altri - per adottare un punto di vista strettamente meccanicistico, che meglio dell’altro permetteva un’efficace difesa dell’egemonia culturale dell’establishment tradizionale.

Paradossalmente, tutta la cosiddetta <<trascendental school>>, continentale e inglese, dei primi decenni dell’Ottocento  - da Geoffroy Saint-Hilaire a William Carpenter e Richard Owen, per non citare che i suoi rappresentanti più influenti – darà un nuovo impulso al Design Argument, in parte intenzionalmente in parte senza volerlo, applicando i due principi metodologici di cui si è discusso anche allo studio del mondo organico e delle forme viventi, modificandone però nello stesso tempo, in parte almeno, il contenuto concettuale per renderlo meglio rispondente ai suoi intenti. La cosa sorprendente, che come vedremo l’accomuna alla Naturphilosophie e allo <<scientific realism>> europeo (fisiologico o fisico)[437],  è che questa corrente di pensiero presume di non poter accettare un’interpretazione rigidamente meccanicista dell’universo, e gli è anzi avversa per l’enfasi portata da quest’ultima sulla <<inertness of matter>>. Ovviamente la sua formulazione non è lineare. Fa anzi convivere al suo interno enunciati contrastanti, come in ogni argomentazione di transizione [438]. Oltretutto, il paradigma in questione viene persino tematizzato da naturalisti e scienziati di opposte tendenze  - ad es. Saint-Hilaire contro Cuvier, Carpenter contro il Design Argument oppure Knox contro Owen -, a ulteriore riprova di quanto complessa e ingarbugliata fosse allora la disputa scientifica nel momento di trapasso a nuovi modelli epistemologici.

Comunque sia, qual è il nocciolo concettuale di queste nuove interpretazioni intermedie o “vie di mezzo” teoriche? In che cosa esse presumevano di potersi differenziare dalla Natural Theology, o al contrario perfezionarla, evitando la loro assimilazione al materialismo?  Come si è visto sopra, a qualunque tendenza epistemologica appartenessero, fossero essi oppositori del Design Argument come Robert Knox o Geoffroy Saint-Hilaire oppure suoi espliciti supporter come Richard Owen ed Edward Forbes, per non citare che i nomi più noti, tutti questi studiosi pensavano che il mondo organico possedesse delle sue intrinseche proprietà - dette anche <<powers or forces>> - che si manifestavano come <<some form of matter>>, tramite entità da noi dunque visibili, osservabili, misurabili e controllabili. La <<Vital Activity>> e le <<Vital forces>> [439] riscontrabili nel mondo vivente sono così per essi tanto delle caratteristiche intrinseche della natura quanto delle <<additional forces>>[440] rispetto ai sistemi fisici e avrebbero rappresentato la peculiarità del regno organico. Una sorta di <<vital principle>>[441] avrebbe dunque disseminato all’interno della <<living matter>> <<some general purpose>>[442] che avrebbe poi conferito al mondo della vita tutta la sua intrinseca complessità e forma dinamica.

Un’interpretazione di questo tipo, a parte il rigetto della <<dead Matter>> e l’insistenza sulla specificità delle forme biologiche, ricalca tuttavia in pieno il modello epistemologico della teoria fisica. Se le proprietà interne della materia, come sostiene Carpenter, <<give rise to powers or forces>>[443] che danno una sua storia allo sviluppo e alla differenziazione degli organismi[444], a loro volta quelle proprietà presuppongono delle leggi generali, un ordine dell’universo, una razionalità legiforme della natura avente lo scopo di conferire una sua stabile regolarità ai fenomeni reali. Il fatto che Carpenter, oltre a difendere l’impostazione <<trascendentale>> di Saint-Hilaire (che si opponeva, lo ricordo, al teleologismo di Cuvier)[445], identificasse la <<fundamental unity of structure>>[446] del mondo naturale con una <<Designing Mind>>[447] ci dà un’ulteriore e aperta dimostrazione della intrinseca flessibilità teorica del Design Argument, che riesce a bilanciare in questo caso una rettifica del troppo rigido fissismo della Natural Theology con la difesa e l’utilizzo comunque dell’idea di un <<Great Principle>>[448]  posto alla base del governo del mondo (che poi questo sia per lui un <<omniscient Creator>>[449] cambia poco al problema)[450] .

Da questo punto di vista, la Naturphilosophie tematizzava forse una diversa interpretazione delle cose? Non sembra proprio[451]. Anzi. Benché l’influenza di questa scuola filosofica sul <<development of the Life Sciences in Germany>> sia stata praticamente nulla[452], l’accento portato su una visione dinamica, processuale, in continua trasformazione della vita[453] sembrava a prima vista contrapporsi alla circolarità senza tempo degli eventi tipica della Natural Theology. Gli organismi viventi venivano visti evolvere attraverso l’azione di una Lebenskraft o di un Bildungstrieb che, benché attivi <<in addition>>[454] alle leggi della fisica, venivano pur sempre visti sovrapporsi alla <<inorganic matter>> come forze distinte ed esistenti indipendentemente dal loro <<material substrate>>[455]. Anche se le tendenze connotate dai due concetti, elaborati da studiosi come Johann Blumenbach e Johann Reil, erano cosiderate insite nel mondo vivente, tuttavia esse non erano riconducibili ai suoi materiali costituenti. Anche se queste interpretazioni sembravano  prendere le mosse, secondo Lenoir, da una <<materialist assumption>> - infatti, secondo Reil, negli organismi viventi <<structure and organisation [are] the appearance and effect of matter itself>> [456], tanto che a parere di von Baer <<the organism is a mechanical apparatus, a machine, which build itself>>[457] -, tuttavia esse sostenevano in pari tempo che la Lebenskraft o il Bildungstrieb dovessero intendersi come <<an occult quality>> non dissimile da quelle operanti in altri domini del mondo naturale[458]. In pratica, le due <<bildenden Kräfte>>[459] sono concepite come le cause da cui dipendono i fenomeni e i loro effetti osservabili nella vita organica e nei fatti d’esperienza [460]. L’analogia con lo stesso rapporto stabilito dalla teoria fisica tra le cause e i loro effetti sensibili non potrebbe essere più lampante[461]. La cosa più importante, tuttavia, è il fatto che la natura occulta di quelle entità non le equipara affatto, come invece ha fatto ad es. Engels semplificando troppo drasticamente il problema[462], a categorie mistiche, magiche,  arbitrarie o trascendenti. Piuttosto, esse sono da intendersi come legalità non ancora conosciute, non ancora comprese in maniera chiara e razionale, ma in ogni caso da ritenersi interne al vivente, afferenti comunque all’organizzazione biologica degli organismi. I concetti in causa, in altre parole, rispecchiano la parallela distinzione che sin dal Seicento veniva fatta in merito alla <<knowledge of the occult>> nell’abito della stesso paradigma meccanicistico[463], che veicolava due differenti contenuti concettuali: con esso si poteva infatti intendere <<what is hidden or latent>> da una parte, <<what is suprarational>> dall’altra[464]. Nel caso delle categorie in discussione, è evidente che si trattava del primo significato, giacché la Lebenskraft, per quanto ignota benché conoscibile tramite i suoi effetti, afferiva pur sempre alla natura, ne rappresentava comunque una parte integrante[465].

D’altro canto, le idee in questione conosceranno una loro ulteriore specificazione concettuale con la precisazione che verrà loro apportata da Jacob Berzelius e Justus Liebig, ad aggiuntiva riprova, anche qui, del carattere versatile delle categorie della Naturphilosophie. Mentre nella versione di Blumenbach e Reil la Lebenskraft, benché avesse le sue radici in una base materiale, veniva allo stesso tempo concepita come una <<super-imposition upon inorganic matter>>[466], nell’elaborazione degli altri due scienziati la <<catalytic force>> osservata nell’analisi delle reazioni chimiche diventava una <<special sort of expression>> delle relazioni elettrochimiche della materia, senza aver più alcun bisogno di andare a ricercarne le origini[467]. In questa visione delle cose, la Lebenskraft doveva essere concepita <<solely in terms of the order and arrangement of natural forces>>, giacché il suo solo <<mode of appearance was trhough the material interconnections of those forces>>[468].

In questa concezione, dunque, <<the Lebenskraft is a special effect of the relationship of natural forces and not a hyperphysical directive agent superimposed on them>>[469]. Qui essa diventa un effetto delle forze naturali inerenti al vivente, una <<form of expression>> di queste ultime. Liebig interpreta dunque la categoria in oggetto in maniera completamente diversa dai <<vital materialist>>, giacché la Lebenskraft in pratica rappresenta ora un effetto della interna costituzione della materia, una sua forma di manifestazione, che può persino essere misurata. Mentre prima spiegava la <<purposive nature>> degli organismi, adesso essa è stata trasformata  in un modo di espressione, di apparire e rendersi visibile delle interne proprietà della natura, in definitiva del mondo vivente. Invece del <<previous mystical scheme>>[470] si ha qui un presupposto fisico-chimico inferito dallo stesso modo di agire del mondo naturale, un assunto dogmatico (nel senso di non più spiegabile)[471] derivato però o visto nascere dall’interno stesso  delle cose, da complesse interrelazioni di forze fisiche. Rispetto alla precedente impostazione il progresso teorico è evidente, giacché ora tutto inerisce alla materia, sembra provenire dal suo interno, appare determinato dalla sua intrinseca dinamica. Adesso non v’è più bisogno di alcuna Gestaltungkraft per render conto della peculiarità delle forme biologiche, giacché i fenomeni afferenti al mondo organico sia provengono dall’organizzazione del vivente, sia sono essi stessi delle manifestazioni della materiale interconnessione delle sue forze[472].

L’evoluzione concettuale di queste categorie, nate in ambito scientifico e sviluppatesi nella disputa tra i diversi punti di vista degli scienziati tedeschi del tempo[473], ci dà forse un’idea più precisa del reale e complesso status della questione ed in particolare del variegato retroterra scientifico della Naturphilosophie. È davvero significativo il fatto che Engels non abbia minimamente preso in considerazione questa genealogia culturale, puntando tutta la sua attenzione praticamente soltanto sul suo ramo più direttamente filosofico (il più debole). Il tentativo di conciliare meccanicismo e vitalismo, modelli newtoniani di spiegazione del mondo biologico[474], nella Germania dell’epoca non corrisponde affatto al riduttivo e in ultima analisi fuorviante quadro che ce ne ha dato Engels. Le differenti e ramificate interpretazioni di cui si è parlato, al contrario, sono persino in grado di reggere il confronto con l’impostazione, all’apparenza radicale all’estremo, del cosiddetto <<scientific materialism>>, del resto né la prima né l’unica scuola materialistica d’impronta scientifica presente in Europa in quegli anni[475]. Come ora vedremo, infatti, tanto i presupposti epistemologici di entrambi gli indirizzi si riveleranno essere gli stessi, quanto gli eclatanti fraintendimenti degli <<scientific materialists>> intorno al reale stato delle cose deriveranno, paradossalmente, dalla loro stessa enfasi antimetafisica, proprio da quei concetti cioè che avrebbero dovuto differenziarli dal paradigma avverso.

Innanzitutto il meccanicismo con il quale avrebbero voluto contrapporsi ad ogni dottrina teologica, a tutta la tradizione biblica e ad ogni firma di spiritualismo, in nome della natura autonoma della Natura e dell’indipendenza del mondo oggettivo esterno, era paradossalmente una caratteristica persino della Naturphilosophie e sicuramente anche della Natural Theology. Se per l’indirizzo in questione, allo scopo di confutare ogni soprannaturale e tutte le volontà immateriali o gli agenti <<soprasensibili>>, nella materia vigevano solo immutabili leggi naturali e l’altrettanto eterno ordine razionale dell’universo, la stessa cosa pensavano gli esponenti delle altre scuole. Il postulato in oggetto, che nelle intenzioni di Büchner, Vogt e compagni, avrebbe dovuto differenziarli definitivamente da ogni concezione creazionista e spiritualista del mondo fisico - il dominio incontrastato, in ogni dove, di tendenze legisimili e rigorosamente determinate -, non è affatto in grado né di demarcarli dai paradigmi rivali né di contrastarli, giacché questi ultimi presupponevano esattamente lo stesso meccanismo di regolazione dei fenomeni naturali[476].

D’altro canto, nonostante il loro dichiarato empirismo, la supposta derivazione di tutta la nostra conoscenza dai dati di senso e dai fatti d’esperienza - concetto che si presumeva costituisse un’altra fondamentale distinzione rispetto ad ogni tipo di logicismo, ed in specie rispetto a Kant [477] -, la loro enfasi sulla funzione primaria dell’attività cognitiva dell’osservatore nell’interpretazione dell’oggetto reale[478] li accomuna invece ulteriormente ai modelli che si presumeva di poter criticare. Nella misura infatti in cui l’intelletto, il processo di pensiero e l’attività razionale della mente risultano essere indispensabili per la spiegazione dei fatti, per la loro decifrazione e per renderli intelligibili alla nostra ragione, ecco che le teorie del soggetto scientifico diventano necessarie per poter procedere ad una delucidazione del reale significato fisico dei fatti di natura. Significativo, a questo proposito, il riferimento esplicito di Büchner alla concezione di Whewell, uno dei più grandi epistemologi dell’Ottocento di orientamento convenzionalista[479]. D’altra parte, non è che il <<rationalistic realism>>[480] di tale impostazione fosse solo una combinazione eclettica di induzione e deduzione[481], in precario equilibrio (in bilico su una <<tightrope>>, dice Gregory) tra <<primacy of facts>> e <<the laws of logic and reason>>[482]. Il fatto è che il suo stesso sensismo implica una concezione costruttivista e convenzionale della conoscenza che contraddice la basilare premessa iniziale, il fondamento ultimo in pratica, del suo intero discorso. Una prima prova di ciò, come già detto, ci è data dall’idea di codipendenza tra mente e mondo. Se è vero, come sostiene Moleschott, che <<ogni nozione suppone un soggetto e quindi un rapporto tra l’oggetto e l’osservatore>>[483], allora è ovvio che non è più possibile postulare alcuna priorità ontologica della materia rispetto alla nostra intelligenza concettuale. Questa convinzione, l’esistenza di un paritario e stretto rapporto necessario tra realtà e razionalità, entra dunque in collisione, dissolvendola, con la presunzione che fosse possibile assumere la Natura come un dato incontrovertibile, preesistente a tutto e da tutto indipendente, semplicemente da spiegare attraverso la riflessione. Pensiero e mondo, al contrario, coesistono e si implicano a vicenda.

Questo enunciato introduce la seconda prova, la più eclatante, dell’implicita tendenza convenzionalista insita nel presunto realismo, invero <<naive realism>> secondo Gregory [484], della concezione sotto esame. Se è vero che agli <<organi dei nostri sensi dobbiamo tutte le nostre idee>>[485], ne consegue, visto che i nostri apparati percettivi rappresentano una struttura interna dell’organismo in stretta simbiosi tra l’altro col cervello, che il prender forma della nostra conoscenza può avvenire esclusivamente nell’ambito dei processi di pensiero sviluppati dalla mente. La struttura (le percezioni sensorie) e l’organizzazione dell’esperienza (l’attività cognitiva) sono infatti due livelli intercooperanti della nostra identità vivente. Nessuno dei due appartiene a domini differenti o esterni rispetto a quelli dell’individuo. La latente ascendenza di Berkeley[486]  diventerà infine molto più esplicita non appena Moleschott affermerà che <<noi non sappiamo né potremmo cogliere e conoscere nelle cose [del mondo esterno] altri rapporti all’infuori di quelli che riguardano noi medesimi>>[487]. Alla luce di questa implicita teoria biologica della conoscenza, molto diffusa del resto nella cultura scientifica europea dell’epoca, come si è visto, lo stesso enfatico positivismo di Büchner e la sua avversione apparentemente radicale per ogni forma di pensiero congetturale assumono ben altro aspetto, rivelandosi per quello che vermente erano: un sistema teorico dalle pronunciate tendenze convenzionali, del tutto analogo a quello di Moleschott[488].

La stretta parentela concettuale tra il presunto empirismo realista di questa concezione (realismo che Büchner teneva a distinguere dal materialismo)[489] e le altre impostazioni dell’epoca, opposte e no al positivismo, è tuttavia ulteriormente dimostrata dal paradossale teleologismo apertamente professato da questi intellettuali, Czolbe in testa[490]. Conficcando nel processo di sviluppo della Natura stessa le tendenze evolutive verso il perfezionamento della storia e degli esseri viventi riscontrate nei fatti d’esperienza[491], essi credevano di potersi differenziare dalle causæ finalis di metafisica memoria e trasformare in tal modo quel finalismo speculativo in un progresso afferente al mondo fisico, insito nella stessa dinamica della materia ed in tal senso oggettivo ed impersonale, rispondente unicamente alle immodificabili e necessarie legalità intrinseche della Natura[492]. Questa convinzione era talmente radicata nella mente degli <<scientific realist>> che persino il catastrofismo dominante allora in campo geologico, in specie ad opera di Cuvier, era visto come un’idea in cui <<a supernatural process was at work>>[493], giacché il concetto di improvvise rivoluzioni geologiche sembrava violare l’uniformità della natura ed introdurvi surrettiziamente un arbitrario elemento aleatorio[494].

Tutto l’aspetto paradossale e contraddittorio della tesi in oggetto, come è facile intuire, sta per intero nel fatto che la suddetta teleologia laica o presunta ontologica – secondo la quale la Natura <<è causa e fine di se stessa>>[495], e la sua unica tendenza è quella di riprodurre incessantemente se stessa e nient’altro – attraverso la quale il “realismo scientifico” avrebbe voluto demarcarsi dalla metafisica biblica o comunque speculativa rappresenta in realtà un concetto che, oltre ad essere identico a quello delle altre scuole, in particolare nella versione datane da Berzelius, Liebig e Schwann[496], i sistemi di pensiero rivali avevano già da tempo formulato, precorrendo quindi l’interpretazione positivista e inficiandone nel contempo tutta l’originalità argomentativa. In sostanza, il cosiddetto <<rationalistic realism>> ha combattuto una energica battaglia contro i mulini a vento sia perché in questo caso la sua idea era stata previamente incorporata nelle concezioni avverse, sia perché conseguentemente essa non è in grado di confutare alcunché, essendo al contrario la categoria che caso mai lo apparenta alle altre impostazioni. Se grande era la confusione sotto il cielo filosofico-scientifico del tempo, la situazione, coerentemente, non poteva certo dirsi eccellente se si considerano gli approdi successivi di questa concezione[497].

L’intera questione raggiunge però il suo apice parossistico, fino a diventare surreale, non appena diventa chiaro che l’intero paradigma teorico di questo positivismo e tutte le sue categorie più importanti – la critica della tradizione speculativa, l’idea di progresso, la concezione sensista della conoscenza, il fondamento ontologico del pensiero, il sapere scientifico obiettivo, lo stesso finalismo della Natura, e via discorrendo, ché l’elenco completo sarebbe troppo lungo – derivano sostanzialmente dal principio di causalità, dalla presupposizione cioè che il mondo materiale possedesse un’intrinseco carattere razionale, legisimile e necessario: deterministico in altre parole, intelligibile da parte della mente umana[498]. Questa basilare assunzione concettuale, tipica del resto di tutti i sistemi di conoscenza analizzati e messi a confronto finora, svolge praticamente una funzione cruciale all’interno del discorso in oggetto, giacché senza di essa diventerebbe impossibile all’impostazione in discussione poter sviluppare la sua argomentazione complessiva, contraddizioni logiche comprese.

Il suo aspetto altamente problematico, ed in definitiva mortale per lo <<scientific materialism>> così come per le altre varianti, risiede tuttavia nel fatto che tale fondamento epistemologico rappresenta una congettura della mente, un presupposto soggettivo, un postulato di ragione, un assunto del pensiero, una <<regulative Idea>> e una convenzione dell’osservatore. In questa guisa, tale principio costituisce un postulato inverificabile, non assoggettabile ad alcun controllo dei fatti né accertabile attraverso alcun dato d’esperienza. In questo senso, il radicale positivismo del materialismo scientifico tedesco si rivela essere nient’altro che una premessa indimostrabile e metaempirica senza alcuna possibilità né di corroborazione né di confutazione da parte di quella realtà sensibile dalla quale tutto sembrava invece dovesse discendere. In sostanza, dunque, l’intero e apparentemente incondizionato empirismo realista dipende in toto da un asserto metafisico posto dal pensiero. Davvero un bel risultato per una concezione che aveva fatto della assoluta autonomia della materia la propria distintiva bandiera teorica!

Come dovrebbe esser chiaro, Natural Theology, Naturphilosophie, Trascendental School, Vitalism, Scientific Materialism, Mechanism, e financo il Determinismus professato da Helmholtz, Du Bois-Reymond, Karl Ludwig e dal loro <<reductionist program>>[499], rappresentano tutte differenti varianti di un unico modello epistemologico basato sull’esplicita o latente assunzione di una interna legiformità della Natura non suscettibile di alcun riscontro reale, completamente privo di fondamento fisico in quanto nemmeno sottoponibile a conferma o smentita sperimentale. Concetti quali quelli di <<purposeful Design>>, <<additional forces>>, <<ideal patterns>>, <<Lebenskraft>> o <<Bildungstrieb>>, e persino <<der natürliche Weltordnung>> del materialismo realista sono tutti indistintamente <<regulative Ideas>>, a loro volta basate sulla fede (vale a dire, su un atto di ragione) nella intrinseca corrispondenza dei fenomeni naturali a regolarità legiformi insite nella materia. Tanto le singole categorie quanto quest’ultimo ordine invariante sono così semplici congetture dell’osservatore che si ritrovano in tutti i modelli teorici discussi. Da questo punto di vista, non esiste alcuna alternativa tra i diversi paradigmi: essi sono tutti, all’opposto, complementari e dipendono dagli stessi postulati. Anche quando sembra poggiare su saldi presupposti empirici, sulla <<mechanical view>> dell’organismo, su premesse apparentemente ontologiche e sui soli fatti e dati d’esperienza, la concezione in questione ha a sua radice un dogma della mente, una ipotesi convenzionale non dimostrabile né refutabile, e in quanto tale metafisica, del tutto non dissimile da quella delle altre impostazioni[500].

Forse adesso si capisce meglio perché l’analisi scientifica  - juxta sua principia - del mondo materiale, contrariamente a quello che pensavano Engels e Marx, non ha portato né poteva portare alla fine della te(le)ologia, alla <<eliminazione>>[501] di ogni rappresentazione speculativa (=soggettivo-arbitraria, stipulativo-congetturale) della natura. Engels e Marx, già a partire dalla loro valutazione del pensiero darwiniano, non si sono resi conto del fatto che l’ideale della conoscenza oggettiva – la comprensione teorica di una materia indipendente dall’osservatore, alla quale i nostri concetti dovevano corrispondere – contrapposta alla funzione cognitiva e all’attività concettuale della mente costituiva all’epoca in cui essi scrivevano un principio che la scienza stava ormai abbandonando in favore di una più sottile rappresentazione dei processi di pensiero ed in direzione di una più aperta interpretazione convenzionalista della natura.

Oltretutto, la presupposizione di un principio ordinatore – da Dio alla stessa causalità, per ragionare in termini di estremi – svolgeva una funzione concettuale importantissima nei sistemi d’idee scientifici dell’epoca moderna (oltreché, ovviamente, nel sistema di potere della Chiesa anglicana e luterana del tempo). Intanto, una fondazione di questo tipo permetteva all’attività di pensiero di evitare la regressio ad infinitum, confinando in tal modo il problema delle origini dell’universo nel limbo delle cose impossibili da pensare o inconoscibili. Poiché appartenevano al novero dell’indicibile e dell’irrappresentabile, le cause prime del mondo potevano tranquillamente essere assunte come esistenti dall’eternità[502]. In secondo luogo, presumere l’azione di un Supernatural Power[503] nell’ordinamento del cosmo consentiva alla scienza del tempo di conferire uno status cultuale e sacrale al suo assioma, in modo da potersi dedicare esclusivamente allo studio delle cose e dei dati fisici, dei fenomeni percepiti dai sensi, senza per questo dover tutto ridurre alla sola materia. Attraverso Dio (o qualsiasi altro Great Being: World Soul, Spirit, ecc.), il ragionamento induttivo conferisce alla ricerca fisica delle cause un fondamento adeguato ed estremamente versatile, giacché gli è ora possibile contrapporsi tanto ad ogni finzione o fantasia dell’immaginazione nell’analisi della natura, quanto ad ogni forma d’empirismo, giacché tutto il suo discorso razionale ha a sua premessa l’attività legislativa di un Governatore immateriale del mondo. In terzo luogo, inoltre, quel postulato gli rendeva possibile non rinunciare alla funzione attiva e costruttiva della mente nell’interpretazione delle cose e degli eventi tangibili, giacché si poteva supporre che il sistema materiale osservato, soprattutto nella predominante concezione meccanicista del 600-700, possedesse delle regolarità legisimili che dovevano essere scoperte e portate alla luce, rese intelligibili all’umana ragione dal nostro intelletto[504] tramite l’osservazione, l’uso di strumenti formali (le matematiche, la logica) ed artificiali (il microscopio, gli strumenti in genere)[505]. I fatti e i dati d’esperienza, al contrario, potevano diventare affidabili e sicuri, generalmente credibili o socialmente condivisi nella misura in cui venivano organizzati, disciplinati e resi razionali dalla nostra conoscenza[506]. Infine, esso permetteva agli scienziati di non fermarsi ai dati di fatto, all’empiria certa ed indubitabile, all’esperienza dei sensi, salvaguardando così l’idea di mediazione, la convinzione cioè che la realtà osservabile non si riducesse ad un unico oggetto monolitico privo di livelli interni e di meccanismi più profondi di quelli immediatamente visibili e accessibili alla percezione sensoria[507].

A parte l’incomprensione, non di dettaglio, di queste tendenze, in ogni caso è evidente che il materialismo ottocentesco, moderno alla Engels o realista alla Büchner, sia non riesce a demarcarsi in nulla dalle impostazioni rivali sia non è in grado di competere con i sofisticati paradigmi epistemologici della razionalità scientifica emergente, tanto di allora quanto a maggior ragione di oggi. A dir la verità, anzi, nella misura in cui non conosce o non comprende le trasformazioni concettuali avvenute entro il pensiero scientifico moderno, il materialismo marxista, dialettico alla Plechanov o meno[508], continua a rimanere ancorato a presupposti teorici che non hanno ormai più alcun rapporto con i paradigmi scientifici odierni né tanto meno sono in grado di fronteggiarne l’interna complessità epistemologica. In genere, detto materialismo o interpreta la scienza in maniera tradizionale, come se essa fosse solo un sistema avalutativo di pensiero[509] al quale al massimo si possono imporre, alla fonte, delle finalità di parte[510], magari sotto forma di un’invasione dell’ideologia nei verdi campi della razionalità formale[511], oppure si fa un’idea completamente sbagliata della logica della scienza, interpretandola tramite idee – l’intenzione di dominio, la sua derivazione dal mercato - che nascono confutate dalla loro stessa natura contraddittoria[512]. Inutile dire quanto sia necessario oggi andare oltre queste visioni datate della razionalità scientifica.  
                                               
                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

A theory exists so that
we may build a better
theory

G. Edelman


7.  Verso un nuovo marxismo

Quali sono dunque le conseguenze che è possibile trarre da quanto è emerso nel corso dell’analisi? E soprattutto quali effetti teorici hanno o potrebbero avere sull’attuale interpretazione del capitalismo contemporaneo? Se è vero, come dice Gould, che <<simple ugly facts do not destroy great theories>>[513], altrettanto certo tuttavia è il fatto che essi ci obbligano quantomeno a ripensarle drasticamente. Una delle poste in gioco in questa indispensabile opera di revisione della maniera in cui il marxismo storico, ad iniziare da Marx ed Engels, ha interpretato la scienza è sicuramente una più corretta comprensione della sua interna evoluzione, dei mutamenti epistemologici che ha attraversato e l’esatta descrizione del paradigma attualmente dominante nell’ambito della comunità scientifica. L’importanza di questa riscrittura, ovviamente, sta tutta nella migliore rappresentazione che essa potrebbe darci di una razionalità divenuta ormai dominante rispetto a tutte le altre forme di sapere sociale. Già capire come funziona effettivamente la scienza, quali sono i suoi sistemi di conoscenza egemoni e quale effettiva struttura concettuale ne connota la complessa natura odierna costituisce un’impresa encomiabile che ciascun pensatore critico dovrebbe sottoscrivere.

D’altro canto, capire l’organizzazione interna del pensiero scientifico ed in particolare i suoi modelli epistemologici ha un rapporto strettissimo, come ci ha mostrato Marx, con la comprensione della maniera in cui il modo di produzione capitalistico ha dato la sua impronta altamente specifica alla realtà storico-economica della sua formazione sociale. Sono infatti decine le categorie, e le analogie a fini di dimostrazione, che Marx mutua dalla scienza del suo tempo per finalizzarle alla spiegazione dei meccanismi riproduttivi del capitale, e tutte in un modo o nell’altro condizionano la rappresentazione data da Marx di questo determinato sistema sociale[514]. Si possono ignorare?  Si può realisticamente pensare di poter leggere adeguatamente Das Kapital e capirne i concetti più sofisticati, così come i limiti del resto, senza una previa e seria analisi del loro eventuale significato scientifico originario?[515] Oltretutto, bisogna tenere conto di quello che si potrebbe chiamare “effetto di ritorno” di una simile riconsiderazione. Una migliore comprensione delle categorie più sottili di Marx costituisce infatti, secondo me, una precondizione indispensabile per poter meglio capire la logica scientifica, per correlarla alle modalità riproduttive dei rapporti sociali capitalistici, facendo vedere come essa, attraverso la tecnologia, ne rappresenti in effetti il vettore fondamentale, il pilastro portante tramite cui in società tout se tient. Come si realizzi questa mediazione, attraverso quali anelli intermedi essa prenda la sua intrinseca forma complessa non mi è possibile ovviamente dimostrarlo qui[516]. Qualche prima correlazione credo sia già emersa dalle comparazioni sviluppate in questo saggio. Per il momento tuttavia debbo linitarmi all’enunciazione del problema. D’altra parte, come sostiene Wheeler, <<it is often more difficult to ask the right questions than to find the right answers>>[517]. Ci sarebbe dunque da ritenersi relativamente e provvisoriamente soddisfatti se solo si riuscisse a tener fede ad un simile ideale.

In ogni modo, anche i pochi risultati acquisiti sin qui ci danno un’idea, per quanto solo abbozzata e ancora incompleta, della drammatica inutilità della pletora di scritti marxisti dedicati, nel corso soprattutto del Novecento (Dietzgen è un caso isolato nell’Ottocento), all’interpretazione del pensiero di Marx. Se già Lenin, nel 1914-15!, poteva dire che <<nessun marxista aveva ancora capito Marx>>[518], oggi, a distanza di quasi cento anni da questa constatazione, il bilancio non può essere che vieppiù sconfortante. L’intera cultura marxista di questo secolo e gli studiosi più seri e più intelligenti – di norma intellettuali professionali, storici della società, economisti, filosofi, sociologi, giuristi e teorici del diritto, qualche raro storico della scienza o scienziato esso stesso (e.g. John Burdon Haldane, Marcel Prenant e forse alcuni studiosi russi)[519], impossibile logicamente nominarli tutti – che hanno dato forma al marxismo storicamente costituito giunto fino a noi, persino coloro che in anni recenti e meno recenti han cercato di rinnovarlo[520], hanno in pari tempo del tutto ignorato il lungo, tortuoso e complesso processo di formazione scientifica della concezione di Marx, ripetendo stancamente, in forme magari sempre nuove e con argomenti ogni volta diversi, le vecchie, consunte categorie della tradizione sulla società e la scienza (diventati ormai veri e propri luoghi comuni del marxismo internazionale con la loro codificazione persino nei famosi, e per altri versi meritori, Dizionari marxisti europei)[521].

E’ così diventato evidente, ad avviso di chi scrive, che tutti i concetti più noti di questi diversi marxismi non sono attualmente più in grado di affermare alcunché di specifico o di originale in merito alla natura del capitale, alle sue interne leggi di movimento e riproduzione nonché alle tendenze del suo sistema complessivo. Non una delle sue molteplici idee, del resto estremamente adattive al variare dei tempi e delle circostanze, è in grado di spiegare in modo convincente - senza cioè incorrere di continuo in micidiali contraddizioni logiche - la realtà sociale né tanto meno di reggere il confronto con i paradigmi scientifici odierni. Materialismo dialettico e materialismo storico, teoria della conoscenza e teoria della società, almeno così come sono giunti sino a noi, non hanno oggi più alcun senso. Sono solo scatole vuote (talvolta, come negli scritti di certi accademici, filosofi ed economisti, vere e proprie <<black box>>) che ciascuno può riempire a proprio piacimento con i più differenti contenuti. In ogni caso, non possono minimamente preoccupare il pensiero dominante né scalfirne l’egemonia. Si ha la netta impressione che siano divenuti, insieme a tutti i concetti che possono snocciolare dal loro interno (riflesso attivo, mercato: magari <<market socialism>>, rapporti sociali interpersonali: di potere, di forza oppure mediati dall’egemonia, forze produttive, natura avalutativa della scienza e della tecnologia, Stato e democrazia, e via dicendo) dei semplici giocattoli con cui certa élite intellettuale può senza timore di doversi troppo sprenere le meningi trastullarsi ed occupare il suo tempo libero. Cosa può esserci di più riposante che recitare a memoria la preghiera della domenica, soprattutto se la si è appresa mediante un training lungo più di cento anni?

Prendiamo ad esempio due nozioni classiche e cruciali insieme, alle quali del resto si è fatto cenno in precedenza, di questa variegata e tenace formazione ideologica: il processo di pensiero in rapporto alla società e alla natura. Come è noto, praticamente tutto il marxismo tradizionale, e quello odierno insieme ad esso, ha sempre creduto che la storia di questa formazione sociale, lo sviluppo nel tempo degli eventi, dei processi e delle sitituzioni societarie – discontinuo o continuo, in incessante mutamento o invece immutabile, poco importa – desse vita ad una sorta di cornice esterna ed oggettiva alla quale poter rapportare le diverse teorie e decidere così, sulla base della loro corrispondenza o meno ai dati d’esperienza, in merito alla loro validità o confutazione. La storia della società, in altre parole, in questa concezione è sempre stata elevata al rango di pietra di paragone dei sistemi di conoscenza che han tentato di rendere intelligibile agli stessi soggetti il loro contorno comunitario. Anche quando alcune correnti di questo marxismo, magari sulla scia di Reichenbach o Bachelard, hanno preso una piega più convenzionalista, abbbandonando l’idea che la teoria fosse una copia del mondo[522], tale oggetto reale ha continuato ad essere interpretato come un contesto esistente al di fuori della mente ed indipendente rispetto all’attività cognitiva degli individui, così da poter illusoriamente dare alle nostre teorie un criterio apparentemente ontologico tramite cui poter controllare la loro attendibilità e coerenza[523].

Nel tentativo di aggirare o esorcizzare il soggettivismo incombente nel costruttivismo della loro impostazione, oppure, a seconda delle scuole, anche per giustificare in qualche maniera la loro credenza nei fatti e nei dati empirici quale ultimo e aproblematico suolo del reale (e. g. lo storicismo), tutte queste interpretazioni marxiste – filosofiche, storiografiche, economiche, politico-ideologiche, giuridiche, epistemologiche[524] – han finito col trasformare il sistema sociale e la sua storia interna in una sorta di mondo autonomo al quale veniva assegnata la funzione di corroborare o meno le nostre spiegazioni delle cose. Qui il retaggio filosofico e teorico di un secolo ha pesantemente condizionato questi modelli concettuali, preformandone in maniera irrimediabile l’intera loro rete di concetti. Anche a voler prescindere dagli sviluppi autopoietici della scienza odierna e dalla sua distruzione di ogni dominio ontologico[525], dei quali sanno ben poco, tutte queste concezioni han finito col rimanere incollate, anche quando paradossalmente cercavano di contraddirlo[526], al vecchio e datato principio di materialità riportato in auge da Althusser nel corso degli anni sessanta-settanta, a cui veniva addirittura affidato il compito di sostenere <<toutes les Thèses marxistes sur la connaissance>>[527], ma risalente sostanzialmente alle originarie formulazioni di Marx ed Engels[528].

Come è oggi evidente, invece, l’idea che la società e la sua storia costituiscano la pierre de touche delle teorie non può avere più alcun senso e va definitivamente abbandonata. Per due ragioni sostanziali, complementari e convergenti. Innanzitutto, per la sua ineliminabile natura contradittoria. Se la storia della società consta dell’agire in genere razionale degli individui, essa non potrà mai rappresentare un contorno esterno ed oggettivo rispetto agli attori sociali che le danno forma, che le conferiscono il suo aspetto dinamico e strutturato. Anche se la storia degli eventi sociali sembra assumere un profilo fattuale, già dato e anteriore nei confronti dei soggetti, essa ne è invece un prodotto, l’effetto intenzionale o anche inintenzionale. In ogni caso, è istituita dal loro complesso agire e per sua natura non può dunque essere né esterna né distinta dalle loro pratiche complessive (ciò che essi pensano e fanno). Da questo punto di vista, i dati e i fenomeni empirici, in società, non sono altro che pensiero divenuto, razionalità materializzatasi in una certa configurazione di cose, processi mentali trasformatisi in una specifica organizzazione d’insieme. I cosiddetti fatti, insomma, non esistono né sono mai esistiti nella loro veste oggettuale, come invece una tradizione secolare di pensiero ce li ha tramandati: essi hanno natura concettuale e dunque sia sono interni alla ragione umana sia hanno un’origine convenzionale e stipulativa. I fatti sono dati di realtà, ma il loro carattere interno è esclusivamente concettuale o s’identifica con l’attività congetturale e ipotetica della mente. Non v’è chi non veda le conseguenze epistemologiche di una simile interpretazione dell’oggetto, e l’impatto esplosivo che essa ha su tutto il vecchio marxismo[529]. In secondo luogo, la rappresentazione della storia e della società come mondo presupposto esterno, poiché deve considerare i fenomeni empirici di cui entrambe constano, come premesse della sua argomentazione finisce col generare dal proprio interno la logica del fattuale o, come l’ha definita Marx, lo si ricorderà, del post festum. A parte il fatto ch’essa si scontra con la spiegazione marxiana relativa al carattere derivato e dipendente dei modi d’espressione del capitale, tale forma mentis particolare rende impossibile poter problematizzare o sottoporre a critica le differenti istituzioni del sistema sociale (qualunque esse siano: dai rapporti di potere entro l’impresa agli apparati ideologici nella società civile, dalla merce e dal mercato allo Stato, dalla stessa natura della scienza alla tecnologia). Poiché assume la realtà sociale come un oggetto già dato, deve infatti poi trattare le diverse istanze di cui questo consta come entità su se stesse fondate, cancellando d’un colpo il problema delle loro origini dall’intrinseca dinamica del capitale. Esse semplicemente sono, e poi variamente interagiscono tra loro – la politica con l’economia, l’ideologico con entrambi, e dentro un singolo apparato (Giant Firm o Stato) i diversi sottosistemi tra loro, in un gioco senza fine di rimandi ed intrecci – per produrre la loro configurazione d’insieme, un dato sistema d’interrelazioni reciproche con date caratteristiche.

Un’interpretazione di questo tipo, dominante oggi nelle cosiddette scienze sociali, non ha né può avere alcun interesse a domandarsi da dove derivi l’aspetto apparentemente autoreferente di tutte quelle entità. Poiché da esse comincia come da un saldo fondamento, non può più avere per essa alcun senso chiedersi quale processo di formazione specifico si renda responsabile del loro carattere a prima vista concreto e tangibile. Tutte le istanze di questo mondo sono semplicemente dei dati di fatto da cui dover necessariamente prendere le mosse nell’analisi del reale, giacché oltre ad esse non sembra esistere nient’altro. Nell’ambito di questa visione delle cose, persino il diniego della logica fattuale, l’enfasi sull’origine storica, e dunque socialmente condizionata, dei differenti istituti sociali (del potere, del mercato, della tecnologia, della scienza, e via dicendo) implica paradossalmente il suo contrario: la preliminare presupposizione della datità delle istanze e dunque il divieto di poterne davvero criticare la natura anteposta. Nella misura in cui la storia di queste istituzioni viene elevata al rango di criterio obiettivo di valutazione e controllo, essa ridiventa immediatamente un criterio convenzionale, un postulato dell’osservatore, e dunque, in quanto tale, di nuovo un oggetto avente forma di premessa indiscutibile che deve essere considerato come già dato. Tra l’altro, stando così le cose, quando una teoria, un’interpretazione, una certa spiegazione di un particolare evento ritiene di potersi contrapporre all’impostazione rivale tramite la storia, i dati d’esperienza e i fatti empirici, essa contraddice o tenta di confutare il paradigma alternativo esclusivamente tramite una controversia concettuale, mediante una disputa tra differenti categorie di pensiero.

In questo contesto, a niente vale considerare quelle diverse istanze dinamicamente, come se fossero in costante evoluzione e trasformazione, in perenne mutamento e divenire, giacché anche questa processualità non può cambiare niente alla loro forma presupposta. Anzi, finisce col renderla ancora più flessibile, adattiva e capace di accomodarsi sempre meglio entro le nuove condizioni al contorno emergenti volta a volta. Il fluire del tempo, ammessso ma non concesso che esista in società[530], non prova alcunché a favore della storia come criterio di valutazione né dimostra che i processi di sviluppo delle cose siano esterni e oggettivi rispetto a chi li osserva. Nella misura in cui siamo noi che li pensiamo, nella misura in cui siamo noi che affermiamo la loro esistenza, essi costituiscono sempre nostre statuizioni, degli enunciati soggettivi e dunque nient’affatto indipendenti dall’osservatore o fuori della sua mente cognitiva. Nel tramonto definitivo di ogni criterio oggettivo di valutazione, i soli criteri di controllo delle nostre interpretazioni sociali diventano adesso la coerenza argomentativa e la corroborazione concettuale, la solidità logica, la capacità di resistere alle confutazioni ed insieme di spiegare meglio, in maniera più approfondita di altri paradigmi, dati eventi sociali. Di qui l’importanza della controversia e del confronto tra teorie o sistemi di pensiero alternativi.

La duplice e solidale concezione in questione, i cui presupposti teorici, come si è visto, danno luogo a una singolare sinergia concettuale tendente ad un unico fine o unilateralmente finalizzata al conseguimento di un solo scopo, oltre a vietarsi da sola la comprensione della sofisticata spiegazione data da Marx dell’effettiva natura intima delle forme d’espressione del capitale, finisce anche con l’affiancare il pensiero dominante quando essa dà una spiegazione della realtà seguendo la logica del post festum, sia legittimandolo sia rendendosi in tal modo completamente subalterna alla sua interpretazione del mondo. L’egemonia culturale dei dominanti è così corroborata – avvalorata e consolidata – dalla stessa teoria che avrebbe voluto contrastarla. Si può immaginare miglior paradosso? Se in genere, come dice Gould, <<traditional views die hard>>[531], quella in discussione sembra essersi assicurata un’eterna giovinezza.

Oltretutto, si deve anche tener conto del fatto che quel modello di rappresentazione del legame tra pensiero e realtà empirica, in società, rispecchiava fedelmente il rapporto che la scienza sembrava intrattenere con la natura. Nell’analisi del sistema sociale, in altri termini, si adottava lo stesso approccio che si riteneva tipico della conoscenza scientifica. Senza tener conto alcuno della distinzione che necessariamente deve passare tra osservare un oggetto fisico o biochimico e studiare un contesto sociale a cui, per genere, la mente dell’osservatore è identica (distinzione che però Condorcet faceva!)[532], il marxismo storico nemmeno si è accorto del fatto che il pensiero scientifico dal quale esso mutuava la sua interpretazione, sin dall’inizio dell’Ottocento stava abbandonando quella concezione tradizionale della relazione mente-mondo. Da questo punto di vista, detto marxismo, comprese le sue varianti attuali, sia non ha mai demarcato la sua interpretazione del processo di conoscenza da quella della razionalità scientifica, obliterando così la specificità della società capitalistica rispetto alla natura, sia non ha mai avuto chiara nozione di quali correnti epistemologiche effettive fossero all’opera entro la logica della scienza proprio nel periodo in cui il modo di produzione capitalistico affermava la sua definitiva supremazia. Il marxismo storico e contemporaneo, in altre parole, non ha mai capito né l’effettiva complessità interna dei paradigmi scientifici, poco o niente corrispondente all’immagine standard che se ne dava: conoscenza oggettiva delle eterne leggi della materia, sia del pari non ha mai avuto cognizione delle prepotenti tendenze convenzionaliste insite nello sviluppo teorico della scienza tra Ottocento e Novecento in particolare, cosa che ne ha condizionato e limitato gravemente e irrimediabilmente l’intero apparato concettuale. Non è certo un caso che categorie cruciali di Marx come produzione di merci, merci, feticismo, scambio, circolazione, valore, plusvalore, prezzo e denaro, modi e forme d’espressione, sussunzione formale e reale, sistemi di macchine, tecnologia, potere oggettivo del capitale, rapporti di produzione impersonali, i soggetti in quanto personificazioni del capitale e sue incarnazioni dotate di volontà e coscienza, per non parlare poi dell’ideologia e della contraddizione dialettica, vengano ancor oggi riempite di significati banali e ripetitivi dal marxismo corrente, che le ha ormai ridotte a innocue icone buone per tutte le chiese[533].

Se si confrontano le concezioni marxiste, del passato e odierne, con gli sviluppi più recenti del pensiero scientifico, allora bisogna dire che l’intera cultura di queste interpretazioni non è assolutamente in grado di reggere il confronto con i sofisticati apparati concettuali della scienza moderna. Anzi, diciamo pure che tutto il marxismo posteriore a Marx, senza niente voler togliere ai suoi migliori e più intelligenti esponenti, viene confinato da questi sistemi d’idee nel passato sociale più remoto e reso teoricamente insignificante a fronte dei paradigmi scientifici, una specie di <<left handed Sam>> posto sotto la tutela del fratello maggiore, probabilmente in senso generale, sicuramente per quanto riguarda il processo di conoscenza.

Il fatto è che, proprio in piena epoca in cui Marx scrive Das Kapital, il pensiero scientifico si era avviato su una strada diversa da quella classica, esemplarmente rappresentata dal determinismo di Laplace. Durante questo periodo, come si è visto, era divenuto chiaro a molti scienziati che la conoscenza del mondo fisico e biologico non poteva più essere pensata nei termini tradizionali del paradigma induttivo che si credeva avesse avuto inizio con Newton, e che invece come oggi sappiamo era solo un mito (persino Bacon non è quel campione dell’induttivismo che si è pensato fosse)[534]. D’altro canto, l’opposizione di molti scienziati al metodo induttivo, come si è visto, era praticamente cominciata da subito sulla base della convinzione sia che il soggetto fosse in coevoluzione con la materia, in stretto rapporto d’interdipendenza con i fenomeni naturali, sia che la percezione empirica, l’osservazione dei dati e dei fatti sensibili implicasse sempre la presenza del nostro apparato concettuale per rendere intelligibile l’esperienza. La prima categoria metteva in discussione l’idea che il mondo fosse anteriore alla mente e da sempre già dato, un monolite ontologico preesistente alla razionalità umana (non importa se posto da Dio o esistente in virtù di se stesso). La seconda del pari confutava la convinzione che vi fosse qualcosa di oggettivo fuori dell’attività conoscitiva del soggetto o circostante e delimitante i processi cognitivi attivati dall’osservatore.

Con la maturazione di questi due nuovi orientamenti – un processo sia di lunga durata sia non lineare, giacché come in ogni fase di transizione il nuovo paradigma e quello precedente convissero a lungo, ora in parallelo ora intrecciati (a volte nell’opera di uno stesso scienziato), entro la comunità scientifica del tempo – prese piede una sorta di rivoluzione epistemologica vera e propria. Erano stati tendenzialmente infranti, infatti, i due caposaldi su cui si era fino ad allora basata l’interpretazione del mondo fisico, e contestualmente, cosa non meno grave per il prestigio e lo status privilegiato della scienza, era stato messo in crisi l’ideale dell’oggettività, la convinzione cioè che i modelli scientifici di spiegazione dei fenomeni naturali riflettessero in qualche maniera l’ordine immutabile dell’Universo, le leggi universali ed eterne della Natura. I due esiti di quel contrastato passaggio, infatti, tendevano adesso a mettere in primo piano l’aspetto soggettivo del sapere, la forma ipotetica e convenzionale dei sistemi concettuali con i quali ci rendevamo intelligibili le cose. L’arbitrio soggettivo faceva irruzione nell’antico mare tranquillitatis della scienza - il regno del razionale e della ricerca disinteressata, quello che Eddington definirà <<the temple of rigour>>[535] - e ne metteva a soqquadro le vecchie certezze (il determinismo, la tendenziale approssimazione a Dio, oppure, da un altro versante diciamo più materialista, la scoperta dei segreti della Natura, la comprensione del suo enorme potere chimico, fisico, biologico, ecc.).

A dispetto dell’apparente apriorismo della nuova impostazione, il paradigma emergente non rappresentava affatto un punto di vista in cui la conoscenza prendesse forma unicamente all’interno della mente e questa avesse cancellato qualsiasi contorno percettivo. Se non è mai esistito alcun idealista <<delirio di onnipotenza della ragione>>, come credeva Althusser, un fantasma verso il quale i marxisti hanno inutilmente lanciato migliaia di strali spuntati, mai del pari la scienza di quel periodo e dei periodi successivi si è sognata di eliminare la cornice sensoriale dei nostri sistemi d’idee. Al contrario. Anche nella nuova epistemologia ottocentesca la Natura continua a svolgere una sua funzione insostituibile nell’accertamento delle teorie. Solo che essa è adesso semplicemente distinta dai processi di conoscenza dell’osservatore come non-pensiero: non è più né esterna né oggettiva, bensì unicamente diversa dall’attività cognitiva dei soggetti. L’impostazione convenzional-costruttivista che allora si delineava non annulla affatto ogni rilievo empirico del mondo, piuttosto lo confina in una sfera entro la quale, pur esistendo in quanto ambiente differente dalla mente, non svolge alcuna funzione nel prender forma della nostra conoscenza. Così, l’enfasi congetturale dei processi di pensiero, e l’assunzione del loro carattere pienamente soggettivo, può tranquillamente convivere con la presupposizione dell’esistenza comunque di un contesto materiale a cui la nostra ragione in un certo senso sia è correlata (cosa implicita del resto nell’idea di coevoluzione), sia dal quale tuttavia è indipendente, giacché la distinzione succitata le permette di poter sviluppare in maniera autonoma i propri sistemi concettuali. Fine del presunto induttivismo newtoniano ed inizio di una nuova fase.

Questa sofisticata nuova interpretazione della conoscenza scientifica, il cui processo di formazione ho qui schematicamente riassunto, ma la cui evoluzione interna ha un grado di complessità ben più elevato[536], va incontro con l’ingresso nel Novecento a nuovi sviluppi. Intanto si consolida e si fa più esplicita, toccando punte di insolita limpidezza e icastica formulazione soprattutto con Henry Poincaré ed Arthur Eddington, con i quali lo sviluppo della nuova razionalità subirà un nuovo scatto, prendendo una direzione decisamente più radicale. Basti pensare al fatto che, secondo una formulazione di Poincaré risalente agli inizi del nuovo secolo, <<tout ce qui n’est pas pensée est le pur néant; puisque nous ne pouvons penser que la pensée et que tous le mots dont nous disposons pour parler des choses ne peuvent exprimer que des pensées; dire qu’il y a autre chose que la pensée, c’est donc une affirmation qui ne peut avoir de sens>>[537]. Pochi anni dopo, ma ormai in pieno Novecento, Eddington enuncerà lo stesso principio, sostenendo, di contro alla <<realist school>>, che <<it is the awareness, not the description nor the analysis implied in the description, which constitutes the datum [..] The data are evidently mental; they are an awareness - a content of the consiousness>>. Ecco perché, invece di essere un riflesso della Natura, <<the world of physics is inferred>>[538].

Per capire quanto poco i marxisti dell’epoca avessero compreso i mutamenti allora in corso entro la rappresentazione scientifica della conoscenza, basti pensare al fatto che lo stesso Lenin, analizzando il dibattito scientifico d’inizio secolo, inferisce dalla controversia risultati opposti a quelli che si venivano delineando. Mentre la scienza del tempo tematizzava ormai apertamente la nuova interpretazione convenzionalista dei processi cognitivi, con le implicazioni teoriche che si son viste, Lenin si appoggia alla vecchia concezione realista per tentare di confutare coloro che portavano alla luce le nuove tendenze. Così Lenin sbaglia due volte: prima perché non vede che la scienza che ha di fronte non corrisponde in nulla alla sua interpretazione d’essa, poi perché pretende di poter difendere il “materialismo spontaneo degli scienziati” rifacendosi proprio a quella parte della comunità scientifica che lo stava abbandonando. Grande era allora, anche tra i marxisti più intelligenti, la confusione sotto il cielo! Basti pensare al fatto che, ancora durante gli anni Trenta, Bucharin – nel famoso Science at the crossroads del 1931 -  metteva nello stesso sacco Moritz Schlick (allievo di Planck e fisico egli stesso all’università di Vienna, ucciso tra l’altro da un nazista) ed Eddington, criticandoli entrambi per il loro presunto idealismo, nel mentre come è invece chiaro entrambi questi scienziati facevano a pezzi il suo “materialismo dialettico”, che per di più si riteneva inferito dalle stesse scienze naturali[539].

Nel corso degli anni ’50 i nuovi orientamenti sono ormai completamente definiti ed il costruttivismo, la convinzione cioè che tutta la nostra conoscenza è ipotetico-congetturale e si forma all’interno della mente, con la Natura che funziona ormai soltanto come cartina di tornasole delle nostre teorie, imbocca decisamente la strada già tracciata in precedenza. Ad avviso di Erwin Schrödinger infatti, uno dei fondatori della teoria quantistica e premio Nobel per la fisica nel 1933, e dunque ampiamente titolato per esprimere un giudizio autorevole in merito, il cosiddetto “mondo esterno” della scienza classica non esiste più. Piuttosto, <<the world is a construct of our sensation, perceptions, memories. It is convenient to regard it as existing objectively on its own. But it certainly does not become manifest by its mere existence>>. Se si può ammettere che <<our sense perceptions constitute our sole knowledge about things>>, del pari si deve presumere che il contesto con cui siamo in relazione rappresenta soltanto un’assunzione del nostro intelletto: <<This objective world remains a hypothesis, however natural>>[540]. Ovviamente, le cose non sono andate così lisce come le sto riassumendo. Vi sono state in effetti delle epistemologie di transizione, tutte rigorosamente di natura scientifica, che si sono opposte alla pronunciata tendenza convenzionalista dei nuovi approcci. Scienziati, matematici ed epistemologi come Schlick, Bachelard, Whitehead, Russell, Geymonat, Monod prima, ed in tempi più recenti Ilya Prigogine, Stephen Weinberg, René Thom, Bernard d’Espagnat, Franco Selleri, David Bohm e numerosi altri scienziati han cercato di conciliare i diversi indirizzi presi dalla ricerca scientifica, tentando di proporre una sorta di <<via di mezzo>>, non si sa se ispirata a Kant o a Siddharta, della conoscenza[541]. La concezione difesa da tutti questi autori assume sì la forma costruttivista, ipotetica e rivedibile, del nostro sapere, ma nello stesso tempo ritiene che la Natura possegga una sua legalità intrinseca ed oggettiva che le nostre teorie congetturali avrebbero il compito di scoprire, di approssimare in maniera via via sempre più precisa. Così, si sostiene, sarebbe possibile continuare a presupporre un ordine razionale intrinseco al mondo fisico e nel contempo non rinunciare al carattere convenzionale e soggettivo dei paradigmi scientifici volta a volta a confronto, carattere formale che consente loro di adattarsi alle nuove scoperte, di utilizzare la <<consilience of inductions>> propria delle singole interpretazioni, di modificarsi nella disputa e financo di scomparire dalla scena una volta accertata la loro confutazione da parte dell’esperienza o di altre e alternative spiegazioni dei fenomeni.

Comunque sia, queste differenti scuole di pensiero non sono state in grado di arginare o contrastare, a livello concettuale, l’affiorare della consapevolezza relativa alla funzione determinante che l’osservatore svolge nella definizione della conoscenza. Come ci spiega il famoso astrofisico Davies, lo <<extreme subjective element>> insito in ogni interpretazione della Natura <<obliges us to suppose that, in the absence of observation, the external world does not exist in a well-defined sense. It is as though through our observations we actually create, rather than explore, the external world>>[542].

Il fatto sorprendente da mettere in rilievo, è che questa tendenza epistemologica, all’opera in ambito europeo come si è visto sin dai primi anni dell’Ottocento, è ormai diffusa ben oltre la fisica teorica o le più recenti cosmologie scientifiche. La scuola biologica dell’autopoiesi, insieme ai modelli ormai affermatisi nelle neuroscienze, ha infatti elaborato un’ulteriore, ancor più sofisticata, versione del paradigma in oggetto, in cui addirittura si è in grado di presupporre un ambiente circostante, un contorno chimico-fisico per gli organismi viventi, senza tuttavia che questo possa svolgere alcun ruolo nella formazione e ciclica trasformazione della nostra cognizione, nemmeno come cartina di tornasole delle nostre interpretazioni. Entro questi nuovi indirizzi scientifici, quel presupposto <<substrato>>, come vien chiamato il dominio delle cose, degli enti e degli oggetti, può al massimo innescare la percezione sensoriale (il vedere i colori ad esempio, oppure il sentire i suoni, ecc.), ma la conoscenza, la produzione di sistemi cognitivi atti a comprendere e ad elaborare l’esperienza dei singoli tramite complessi d’idee, avviene esclusivamente all’interno della mente soggettiva. Ed è questa, nella coevoluzione ed interazione con altre consimili menti, ad istituire relazioni e mondi interpersonali reali di tipo consensuale e a responsabilità individuale. Come ci vien detto in una formulazione di sintesi, <<le spiegazioni scientifiche non spiegano un mondo o universo indipendente, ma spiegano la prassi (il dominio empirico) dell’osservatore>>[543].

Come si vede, l’approdo attuale dell’epistemologia contemporanea, vale a dire di quella teoria della conoscenza che affiora dalla stessa riflessione del pensiero scientifico intorno alla propria attività, affonda le sue radici in quella parte della scienza ottocentesca, davvero in anticipo sulla sua epoca, che aveva apertamente tematizzato la chiusura organizzativa dei processi cognitivi attraverso i quali comprendevamo l’empiria. Scienziati come  T. Huxley, W. Whewell, J. Müller, M. Schleiden, e molti altri, come si è visto, tutti ben conosciuti da Marx tra l’altro, avevano ampiamente ed in maniera esplicita argomentato in favore di un’interpretazione autoreferente potrei dire delle nostre teorie. A parte questa ascendenza, comunque importante, quali sono gli effetti concettuali dei nuovi modelli della mente? Il fatto è che essi, oltre a presupporre un contesto sensibile del quale possono fare a meno nella comprensione della realtà, tanto fanno discendere la società dalla prassi cognitiva dei diversi soggetti, quanto rendono la conoscenza umana una <<unità autopoietica>> senza tempo né causa, senza fondamento né origini, trasformandola così in una proprietà naturale degli esseri viventi. La prima sovverte completamente qualsivoglia idea che sia la società a porre gli individui, a determinarne l’esistenza e le funzioni. Qui la convinzione di Marx sul rapporto coscienza-essere sociale si scioglie come neve al sole. La seconda, del pari, trasforma il pensiero dei singoli in un sistema biologico selettivo senza più alcun rapporto con la maniera in cui il modo di produzione capitalistico, cioè un contesto storicamente determinato, preforma l’intelletto dei soggetti, la loro razionalità complessiva (il loro agire e pensare, la prassi politica e la conoscenza)[544].

Di fronte a simili esiti, può il marxismo semplicemente far finta di niente, o magari come Althusser accusare queste correnti scientifiche di idealismo, e tirare diritto per la vecchia strada? Non vedo come si possa. Caso mai, si deve accettare la sfida ed attrezzarci per capire da dove provengano questi nuovi paradigmi, che rapporto sottile essi intrattengano col processo riproduttivo del capitale. Si è visto infatti che l’osservatore porta i suoi postulati e principi concettuali, l’intera sua cultura sociale, all’interno stesso del pensiero scientifico. La mente complessiva del singolo preforma dunque la natura della razionalità scientifica, condizionandola alla radice, là dove essa nasce e si sviluppa. Se questo è vero, allora l’apparente natura autoreferente di tale ragione risulta dunque parallela al modo di funzionamento dei soggetti determinati dal capitale, giacché entrambi sembrano ragionare attraverso la stessa abbagliante autodeterminazione, a prima vista senza fondamento alcuno. La codipendenza tra razionalità scientifica e riproduzione del capitale può dunque essere spiegata.

Sta di fatto comunque che il mondo della scienza attuale, esplicitamente o implicitamente, non ha più niente in comune con il vecchio presupposto del materialismo filosofico classico o del realismo scientifico dell’epoca precedente. Le nuove accezioni del concetto di mondo prevalenti nei modelli scientifici più recenti rappresentano piuttosto la confutazione più completa delle vecchie impostazioni, sia perché possono presupporre un contorno fisico ignorandolo, sia perché trasformano la cornice sociale in una conseguenza diretta dell’attività cognitiva dei differenti soggetti. Si può chiudere gli occhi di fronte ad una cosa come questa? Si può continuare a credere che il marxismo possa studiare la realtà senza tener conto delle sfide dell’epistemologia scientifica? Secondo me ci si cullerebbe solo in un’illusione. Sarebbe davvero comico che una teoria nata con intenti scientifici, e soprattutto a stretto contatto di gomito con la scienza dell’Ottocento, si permettesse d’ignorare il pensiero scientifico odierno. Cosa ci potrebbe essere di più sbagliato? E soprattutto, cosa ci potrebbe essere di più controproducente e di autolesionista?

Alla luce anche dei recentissimi sviluppi della scienza tutte le interpretazioni dei marxismi precedenti vanno considerate morte e sepolte, definitivamente tramontate ed estinte. Tutti i loro concetti basilari – da quelli con cui si interpretava il modo di produzione capitalistico (forze  produttive, rapporti sociali di produzione, mercato, ecc.) a quelli relativi alla formazione sociale nel suo complesso (Stato, società civile, potere sociale, apparati del consenso, ecc.) – sono infatti oggi sia irrimediabilmente surannées sia fuorvianti se finalizzati alla spiegazione del mondo capitalistico, in quanto viziati ab ovo dalla loro radicale incomprensione della razionalità scientifica e dello stesso pensiero più complesso di Marx. Se li si continuerà ad usare nella consueta maniera aproblematica, come si fa tutt’ora, le classi dominanti possono dormire sonni più che tranquilli. Se si continuerà a riesumare i grandi classici del marxismo, per quanto importanti siano stati e per quanto abbiano segnato la storia contemporanea, oppure qualsiasi altra corrente marxista del Novecento, sperando di poter trovare nelle loro analisi categorie atte ad interpretare l’età attuale, non sarà mai possibile capire fino in fondo gli sviluppi più recenti del capitalismo mondiale e le tendenze predominanti della sua versatile dinamica interna. Se, come diceva Bachelard, ogni nuova forma di conoscenza <<prise au moment de sa constitution est une connaissance polémique: elle doit d’abord détruire pour faire la place de ses constructions>>[545], allora niente meglio di un risoluto congedo dal vecchio marxismo può forse dare inizio ad una rinascita del pensiero più sottile di Marx ed insieme ad una nuova stagione dell’interpretazione critica della società.

da Actuel Marx en Ligne   n°3
(31/ 1/2001)

*Europaeische Schule Muenchen

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