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... E Mes-sia!
di Massimiliano Bonavoglia
Con la sentenza del 5 maggio, la corte costituzionale tedesca ha sostenuto che la BCE, nell’attuare misure come il Q.E. voluto da Draghi dal 2015 che applicavano il whatever it takes, abbia infranto la misura della proporzionalità nel sostenere i Paesi dell’eurozona. Non solo, si è anche rivolta sia al governo tedesco, sia al parlamento tedesco, rilevando che queste istituzioni nazionali non hanno vigilato ed eccepito in merito, a difesa degli interessi nazionali. Non solo. Si è anche rilevato che la corte di giustizia europea non ha vigilato sull’operato della BCE e non ne ha limitato l’azione. Quindi riassumendo, in una articolata e complessa sentenza, la corte costituzionale tedesca, ossia il massimo organo giuridico nazionale di un paese europeo, anzi, del paese egemone in Europa, ha criticato diverse istituzioni nazionali e internazionali: il parlamento tedesco, il governo tedesco, la BCE e la corte di giustizia europea. Nessuna di queste quattro istituzioni, due nazionali, due europee, hanno fatto il proprio dovere secondo la corte costituzionale tedesca. Nonostante i numerosi trattati europei, dice la corte tedesca, la sovranità spetta ancora agli Stati nazionali che hanno solo conferito mandati con la sottoscrizione dei trattati, per spazi d’azione limitati che, qualora dovessero risultare violati da parte della azione della BCE, o del MES, che ne sostituisce l’azione di politica monetaria attraverso la politica economica di aggiustamenti macroeconomici per i Paesi in difficoltà, la corte costituzionale tedesca si riserva il compito di indagare e chiedere spiegazioni. Interessante che secondo la corte costituzionale tedesca, la sovranità appartiene ancora agli Stati della UE, non è stata ceduta a titolo originario, ma solo con un mandato, che in quanto tale è rivedibile. Si gettano le fondamenta per la Germanexit, in un conflitto istituzionale tra un Paese membro (e quale Paese!) e la Corte Costituzionale europea delegittimata e messa sul banco degli imputati. Lo stesso per la banca centrale europea.
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L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
di Alberto Bradanini*
Ultimo editoriale dell'Ambasciatore Bradanini: "Un altro mondo è sempre possibile. La sfera finanziaria risponda dunque a quella politica. I mercati siano governati dallo Stato e non viceversa."
L’Italia è sull’orlo del fallimento. Nella giungla di quesiti che stringono d’assedio la mente del cittadino davanti al vuoto d’orizzonte dei dirigenti alla guida del Paese risulta centrale comprendere il rapporto tra sistema monetario e finanza sovranazionale, poiché dietro un’apparente neutralità tecnica si nasconde l’eterno bisogno patologico di dominio e colonizzazione. Di tale tecnicismo imposto fanno parte la narrativa ‘endogena del vincolo esterno’ (un incomprensibile ‘fuoco amico’ del nostro ceto dominante contro il lavoro e l’ingegno degli italiani), la leggenda di una maggiore efficienza della nostra economia all’interno dell’eurozona (contro l’evidenza dei dati su potere d’acquisto, lavoro stabile, investimenti pubblici e via dicendo rispetto ai tempi della gloriosa lira) e il mito di un’Unione Europa meglio attrezzata per costruire una società più libera e più giusta, mentre è limpido come il sole che essa è strumento di dominio delle élite finanziarie sovranazionaliste, il cui obiettivo è la distruzione della statualità nazionale, ultimo baluardo a difesa dei beni sociali e dei ceti più deboli.
La forma, affermava un grande scrittore del secolo scorso, è la sostanza visibile dell’esistenza. La differenza, ancora una volta, la fa la consapevolezza. Se non possiamo sfuggire alla sofferenza, vorremmo almeno guardarla negli occhi. Alle prese con una transizione politico-sociale che lascerà profonde cicatrici, la coscienza di ciò che scorre nelle vene profonde è il punto d’inizio della riscossa. Un aspetto preliminare/fondamentale è quello che il pensiero classico cinese chiama ‘rettificazione dei nomi’, un percorso di ragione emotiva (si perdoni l’ossimoro), affinché le parole usate corrispondano alla realtà descritta. Un’apparente banalità, che fornirebbe tuttavia un prezioso ausilio, nei limiti della sua praticabilità, per combattere le ingiustizie del mondo.
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La fine del lavoro: versione Postone o Castoriadis?
di Bernard Pasobrola
Moishe Postone,con il suo libro "Tempo, lavoro e dominio sociale" è stato uno degli ispiratori del gruppo di teorici tedeschi riunito intorno alla rivista Krisis. Questo gruppo, nato nel 1986 a Norimberga, ha incentrato la sua riflessione sulla teoria del valore di Marx e poi, grazie soprattutto a Robert Kurz, sulla critica del lavoro e del "feticismo della merce". Il legame teorico con la Scuola di Francoforte è esplicito, soprattutto con Adorno e con il suo allievo Hans-Jurgen Krahl. La partecipazione di Anselm Jappe, ha poi contribuito ad accentuare il riferimento all'Internazionale Situazionista, in particolare a Guy Debord.
Postone cerca di scoprire quale sia l'essenza del capitalismo a partire dalle categorie critiche del Marx della maturità, proponendo una «ri-concettualizzazione del capitale che fondamentalmente rompe con il quadro tradizionale di interpretazione marxista». Per lui, Marx utilizza il termine merce «per designare una forma storicamente specifica di relazione sociale, costituita come una forma strutturata di pratica sociale, che allo stesso tempo è il principio strutturante delle azioni, delle visioni del mondo e della disposizione delle persone». Postone aggiunge che la «specificità del lavoro nel capitalismo consiste nel fatto che esso media le interazioni umane con la natura, così come le relazioni sociali tra le persone».
La sua griglia analitica fa uso perciò di quelli che sono dei concetti piuttosto ortodossi (merce, capitale, lavoro, valore...), ma si sforza però di determinare quale tra loro sia quello che svolge il ruolo di vero principio strutturante, o di vera mediazione, che renda razionale il sistema.
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Mascherine: essere nessuno e odiarsi − Silvia Romano: mamma li turchi!I − Bonafede: Stato-mafia 2.0
di Fulvio Grimaldi
Due eventi avevano promesso di interrompere l’uragano terroristico, intimidatorio, manipolatore, unanimistico, squadrista, a giornale e schermo nazionali uniti (al guinzaglio del New York Times, organo di Soros, Gates e del profeta Malachia) e di farci eremgere, almeno con il naso, dal pantano di spazzatura politica e morale in cui ci hanno affondato.
Sprovveduta, ma santa subito
Invece niente. I due eventi ci hanno ricacciato col naso, gli occhi e le orecchie sotto, nella melma della propaganda falsa, bugiarda e ipocrita. Una retorica sgocciolante di emozioni farlocche (esaltazioni), che Mario Appelius, la voce tonante di Mussolini (“Dio stramaledica gli inglesi!”), era al confronto un sommesso ora pro nobis di beghine nella cappella laterale. Un trionfo epocale del regime e, dunque, a loro avviso, della nazione tutta, la liberazione della povera Silvia Romano. Povera perché, con ogni evidenza, travolta dagli avvenimenti costruitile addosso. E giustamente soddisfatta per essere tornata a casa dopo 18 mesi. 18 mesi durante i quali aveva capito che la ragione di chi l’aveva spedita a far girotondi con bambini neri, non era altro che una miserabile operazione colonialista in linea con quelle che, da qualche secolo, i bianchi cristiani infliggono ai diversi per fregargli radici, identità, cultura, fede, e farli sentire beneficati da alieni di qualità superiore (che poi gli avrebbero fregato anche il resto). Per cui s’è fatta musulmana, cioè della religione dei cattivi, malmessi e inferiori. Brava.
Con raccapriccio rivedo l’accoglienza all’aeroporto, tutti addosso a Silvia intabarrata nella veste islamica somala, ad abbracciarsi e baciucchiarsi, alla faccia dei tecnoscienziati e del loro banditore.
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Capitalocene
di Salvatore Bravo
L’epoca del Capitalocene è il regno della produttività e delle scissioni. Il Capitalocene con la conseguente crisi ecologica è la manifestazione più evidente di un processo che ha il suo centro nella trasformazione della natura e degli esseri umani in risorse per la valorizzazione. La natura, ma si potrebbe aggiungere anche la comunità umana, dal capitalismo regnante è giudicata “esogena” e pertanto sostanza altra, scissa dalla totalità, la cui unica finalità è di essere trasformata in valore di scambio. La scissione diviene “visione del mondo” (Weltanschauung) al punto che il soggetto si autopercepisce come abitato da due sostanze in relazione gerarchica tra di loro: res cogitans e res extensa. Il Capitalocene è il pungolo nella carne che disfa le unità per strutturare relazioni di dominio. L’esternalizzazione della natura, e dunque la separazione tra il “soggetto occidentale” e la “natura” è radicata nella relazione tra mente e corpo, la prima ridotta a solo cervello, da controllare e capire attraverso schemi anatomici applicati, il secondo a semplice corpo meccanico da modellare ed ostentare al fine di fondare relazioni di dominio e visibilità. Lo sfruttamento, in tal modo, è sistemico, niente e nessuno sfugge dalla valorizzazione. La rete della matematizzazione diviene il modello unico a cui ogni ente deve sottostare. Il dominatore in tale contesto è anche dominato, poiché si autopercepisce e si decodifica unicamente secondo parametri di ordine efficientistico e produttivo. Ogni linguaggio e visione altra è cancellata in nome della produttività. Il Capitalocene assimila energia, include per omologare. In tale processo il modello unico assimila le altre culture e visioni, mediante il fascino acritico del calcolo, della produzione, dell’eccedenza: il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio.
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Un culto di morte
di Il Pedante
I do not believe that a nation dies save by suicide. To the very last every problem is a problem of will; and if we will we can be whole.
(G.K. Chesterton)
I.
Non è facile commentare il periodo che stiamo attraversando. Mentre i più lo traducono nelle cronache e nei bollettini sanitari di una malattia che circolerebbe dall'inizio dell'anno, qualche avanguardia critica si spinge a denunciare gli errori con cui sarebbe stata gestita la collegata emergenza. È però ormai evidente che le reazioni e i pensieri innescati dalla patologia virale, su cui pure si fissa disciplinatamente il dibattito, evidenziano le piaghe di una patologia antropologica più vasta da cui emergono i limiti, se non forse anche la fine, di un intero modello antropologico e sociale.
Per restare nel dominio semantico che tiene banco, prima di valutare le cause e i rimedi occorre dare una chiara descrizione dei sintomi. In punto di fatto, la sospensione delle attività sociali oggi imposta per arginare la trasmissione di un virus non ha precedenti in tempi di pace e forse anche di guerra, scaricandosi ora l'intero potenziale offensivo e difensivo dello Stato sulla sola popolazione civile. Il combinato delle misure in vigore ha creato le condizioni di un esperimento, inedito per radicalità e capillarità, di demolizione controllata del tessuto sociale che parte dai suoi atomi per diramarsi verso la struttura. Alla base sono colpiti gli individui: terrorizzati dall'infezione e dalle sanzioni, braccati nella quotidianità con un accanimento e un dispiegamento di mezzi che è raro riscontrare nella repressione dei crimini più efferati, segregati tra le mura domestiche, allontanati dai propri cari, isolati nella malattia e nella morte, istigati alla delazione e al terrore - quando non direttamente all'odio - del prossimo, privati dei conforti della religione, senza istruzione, costretti alla disoccupazione e a vivere dei propri risparmi nell'attesa di un'elemosina di Stato, stipati come bestie in batteria e ridotti ad abitare il mondo attraverso gli ologrammi gracchianti di un telefonino.
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Storia di due marxismi: in ricordo di Erik Olin Wright
di Michael Burawoy
Un saggio, due autori: attrezzi per leggere il presente e per trasformarlo
Questo scritto, in cui Michael Burawoy[1] traccia un rigoroso profilo intellettuale del collega e amico Erik Wright, è stato redatto per la conferenza in ricordo di Erik Olin Wright – scomparso nel gennaio 2019 – tenutasi l’1 e il 2 novembre 2019 all’Università del Wisconsin a Madison, dove Wright era stato docente nel Dipartimento di Sociologia e per circa quarant’anni direttore del Havens Center for Social Justice. Lì Wright aveva sviluppato nell’arco di alcuni decenni il suo programma di ricerca scientifica neo-marxista atta a rielaborare un’analisi di classe al passo con i tempi, progetto che all’inizio degli anni Novanta, a seguito di aporie scientifiche e mutamenti politici più generali, lasciò il posto al Progetto di utopie reali. Grazie a Erik Wright, il Havens Center è stato non solo un dipartimento universitario di assoluta centralità nel dibattito sociologico americano, ma un’autentica fucina di sociologia critica, crocevia di generazioni di ricercatori e attivisti da tutto il mondo, dove si fondono rigore scientifico e impegno politico.
Questo saggio è stato inviato da Michael Burawoy a Opm, e riproduce il testo pubblicato sul numero 121 della New Left Review, uscito nel febbraio 2020.
Burawoy è stato nel 2004 presidente dell’American Sociological Association – carica che anche Wright avrebbe ricoperto, nel 2012 – ed è tuttora docente in uno dei luoghi più rilevanti della produzione sociologica americana, il Sociology Department dell’Università di California a Berkeley.
L’importanza della traduzione di questo scritto è molteplice. Anzitutto, permette di far entrare nel dibattito pubblico italiano i due autori statunitensi, entrambi esponenti di una via “critica” alla scienza sociale, che mentre a livello globale hanno esercitato un’indiscussa influenza scientifica e intellettuale, nel nostro paese sono poco noti ai non addetti ai lavori.
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Il problema del debito privato e lo scopo del debito pubblico
di Marcello Spanò
L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile
L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato. In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile.
Quello del debito privato è un problema che spesso viene trascurato in tempi di relativa tranquillità per riaffiorare (cogliendo regolarmente quasi tutti di sorpresa) in tempi di crisi. Molti economisti e regolatori si esercitano quotidianamente sul monitoraggio del debito pubblico, poiché questo è considerato, dalla tradizione accademica dominante, responsabile di diverse distorsioni e indebite intromissioni nel regolare funzionamento dei mercati che – sempre secondo tale tradizione – condurrebbe spontaneamente all’equilibro e all’efficienza allocativa. Come prova della presa che tale visione ha sulle decisioni politiche, basti riflettere sull’accanimento con cui i trattati e gli accordi presi in sede europea, da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact, si sono dedicati al controllo dei disavanzi pubblici dei paesi dell’eurozona, e la negligenza con cui hanno considerato la dinamica dei debiti del settore privato, verso le banche domestiche e verso il settore estero. Di fatto, però, quando le crisi esplodono, rivelano sempre un problema di insostenibilità del debito privato. Il debito pubblico, invece, nei momenti di emergenza, non soltanto viene derubricato come una variabile di secondaria importanza, ma viene perfino invocato come una risorsa strategica per il salvataggio dal naufragio dell’intero sistema economico.
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E allora, viva, viva il debito!
di Raffaele Picarelli
Dopo decenni di dogmi, in tempo di crisi cade la maschera: il denaro di chi paga le tasse serve per socializzare le perdite dei profittatori privati. Ma una volta sanata l’azienda, lo Stato si levi di mezzo
Il grido di dolore
Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! tuona Mario Draghi al “Financial Times” il 25 marzo scorso. Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! gli fa eco il 29 aprile scorso il governatore della Fed Jerome Powell. Ma come? Per circa quarant’anni essi e i loro predecessori ci hanno martellato sulla necessità inderogabile di tenere i conti pubblici in equilibrio! Allora era tutto uno scherzo? No, era semplicemente lotta di classe: il liberismo e il monetarismo degli ultimi quarant’anni è stato il volto feroce del dominio capitalista nel mondo.
Il ‘rigore’ dei conti è stato il totem ideologico da cui è partito un poderoso attacco per lo sfruttamento planetario e senza limiti dei subalterni; per la massiccia riduzione (spesso scomparsa) di diritti, salari, servizi sociali; per l’estrazione massiccia di plusvalore e per l’appropriazione capitalistica della massa dei profitti. Ora, al tempo della Pandemia, dello sconvolgimento della società capitalistica, serve il denaro pubblico, il denaro di chi paga le tasse (ben sappiamo chi è), per salvare il sistema. E non solo il denaro pubblico di ora, ma dei prossimi anni (almeno 12 a leggere il DEF governativo approvato nei giorni scorsi dalle Camere).
E allora, viva, viva il debito! Soldi e capitali pubblici subito! Lo dicono tutti: imprese, governi, istituzioni economiche nazionali e internazionali. In tanti gridano spaventati che la base produttiva e fiscale potrebbe saltare, la società entrare in dinamiche fuori controllo, la riproduzione capitalistica avviarsi verso una crisi ingovernabile. Per queste ragioni, gridano fra i molti Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, è ineludibile una rapida e mastodontica socializzazione delle perdite private.
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«Io non ho il minimo dubbio»
Il fallimento comunicativo di scienziati ed «esperti» nei giorni del Covid-19
di Roberto Salerno*
Sembra semplice: un virus ha fatto il salto di specie e da un animale si è trasferito all’essere umano. Appartiene alla famiglia dei coronavirus, diversa da quella dei virus influenzali. Per attaccare gli organi umani deve usare una delle tante cavità presenti nel nostro corpo: bocca, occhi, naso, ecc. Nel nostro organismo può entrare in due modi: o direttamente, grazie a un soggetto infetto che parlando emette goccioline che finiscono in una delle nostre cavità; oppure indirettamente, attraverso le nostre mani, se toccano prima una superficie infetta e poi una delle nostre cavità.
Su queste semplici affermazioni non esistono pareri discordi. Meglio segnarsele, perché sono le uniche.
Nel percorso da queste acquisizioni ai provvedimenti che hanno incatenato l’Italia e – con varie gradazioni e sfumature – il 75% dell’intero pianeta, la scienza ha offerto uno spettacolo di sé abbastanza desolante. Anzi no, non la scienza, poveretta, ma coloro che ritengono di “possederla”, e cioè un nugolo di persone che a vario titolo si ritengono – e vengono riconosciuti come – scienziati.
1. Medici, virologi, immunologi: poca roba, è un’ecatombe, pfui, moriremo tutti
Hanno cominciato i medici. Senza per forza arrivare ai casi che vi sono subito venuti in mente, e che afferiscono più allo show business politico-mediatico che alla scienza, possiamo notare che tra Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano, che dice «non voglio sminuire ma la sua (del virus) problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale», e Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia del policlinico di Padova, secondo cui «la mortalità è la stessa dell’influenza spagnola del 1918 che ha fatto milioni di vittime», ci sono tante posizioni quanti sono coloro che frequentano gli ospedali.
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La sentenza della Corte tedesca. Chi ha orecchie per intendere, intenda
di Vadim Bottoni
La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe il 5 maggio ha emesso una sentenza che ha prodotto uno scossone nelle testate d’informazione internazionali, da Bloomberg al Financial Times, che l’hanno etichettata come “dichiarazione di guerra” o “bomba” verso le istituzioni dell’UE. I media nostrani sembrano invece ancora un po’ balbettanti, ma tant’è che la Corte tedesca ha inviato un vero e proprio diktat alla BCE per giustificare, entro tre mesi e alla luce di principi che vedremo poi, la parte più rilevante del famigerato Quantitative easing (più correttamente PSPP), avviato circa cinque anni fa.
Ci stiamo riferendo a quella misura di politica monetaria non convenzionale che agli occhi di molti aveva “minimamente” reso la BCE assimilabile alle Banche centrali degli altri paesi avanzati e che oggi, in piena crisi economico-sanitaria, rappresenterebbe l’ultimo baluardo di sostegno alle economie dei paesi del sud Europa.
Avviato nel 2015 il PSPP è un consistente programma di acquisto da parte della BCE di titoli emessi da Stati sovrani dell’Eurozona per contrastare il sentiero deflattivo segnato dal crollo della domanda aggregata imputabile, in gran parte, all’austerità imposta ai Paesi periferici dell’Eurozona, oltre che a un rallentamento generale dell’economia post-crisi. Alcuni dubbi accompagnarono tale misura, infatti diversi analisti sottolinearono tanto il ritardo nell’implementazione di una operazione considerata indispensabile quanto la criticità della mancata condivisione dei rischi, per volere innanzitutto della Germania: per tale criticità la grandissima parte dei rischi derivanti dall’acquisto titoli avrebbe dovuto essere sopportata dalle stesse banche centrali nazionali e quindi ricadere sui singoli Stati membri, nonostante il cosiddetto sistema unico delle Banche centrali che vede al vertice la BCE.
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Derrida comunista
di Leo Essen
C’è lutto anche in politica. E ad essere in lutto non sono i comunisti che hanno creduto di aver perso, con il socialismo reale, anche il sogno di un comunismo possibile. La mente va a Althusser, al ricordo che ne offre Élisabeth Roudinesco, quando, parlando dell’amico scomparso, accosta il suo destino a quello di tutta una generazione di comunisti che, di fronte al disastro del socialismo reale, vedevano inabissarsi il loro ideale ed erano costretti a rinunciare all’impegno militante, con il risultato di sprofondare nella malinconia. Il lutto come ossessione, come un fantasma dell’ossessione, come idealizzazione e reificazione, e la malinconia, come memoria di una perdita, non possano essere confinati al socialismo reale. Rispondendo a Roudinesco, Derrida dice di non credere che la «malinconia» di cui lei parla – questa mezza sconfitta che non è possibile in alcun modo ridurre né esaurire, questo atteggiamento di scacco strutturale che segna l'inconscio geopoltico dei nostri tempi – sia soltanto il segno del decesso di un determinato modello comunista. Esso, dice, non fa che riversare i suoi pianti, talora privi di lacrime e inconsapevoli, più spesso fatti di lacrime e sangue, sul cadavere della politica stessa. Piange quello che è il concetto stesso di politica nei suoi caratteri essenziali, oltreché in quei caratteri specifici propri della modernità – lo Stato nazionale, la sovranità, la forma-partito, la struttura parlamentare nella sua configurazione più diffusa.
Nel 2001, in questo dialogo con Roudinesco, (morirà nel 2004), Derrida parla del suo rapporto con Althusser, suo grande amico e maestro, coinquilino in Rue d’Ulm a Parigi, e dice di essere stato costretto per lungo tempo al silenzio. Un silenzio frutto di una scelta, ma non per questo meno dolorosa.
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Se l'attualità di Marx inquieta i liberali
di Marco Veruggio
Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture. A cura di Marcello Musto, Donzelli, 2019, 472 pp., 30 euro
Il recente volume miscellaneo Marx Revival testimonia come il pensiero di Marx possa essere ancora utile per affrontare lo studio dell’economia e della società capitalistiche, inclusi temi di grande attualità come migrazioni e nazionalismo. Il che forse spiega l’acredine con cui un autorevole filosofo liberale come Bedeschi su Il Foglio ha recensito la pubblicazione.
Il sottotitolo di questa ampia e varia miscellanea curata da Marcello Musto, docente di sociologia presso l’Università di Toronto, indica al lettore sin dall’inizio come di questo volume si possa fruire sia come introduzione all’opera di Marx per un pubblico neofita interessato ad acquisire familiarità con l’argomento prima di attaccare direttamente la lettura dei testi fondamentali, sia come testo di approfondimento e di aggiornamento per un pubblico già esperto, in chiave non esclusivamente accademica, ma con un’esplicita volontà di affrontare alcuni temi dell’odierna agenda politica riprendendo e attualizzando le categorie del materialismo storico e senza concessioni e nostalgie all’era del ‘socialismo reale’, perché – annota Musto nella Prefazione al volume – il modello di socialismo di Marx era una ‘associazione di liberi esseri umani’ e ‘non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva e il soddisfacimento dei bisogni dei singoli’.
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Verso lo scontro finale? Germania, Ue e cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Era atteso, la parte dominante della società tedesca, quella che vive delle rendite derivanti dall’enorme surplus commerciale che l’euro ha contribuito in modo decisivo a regalare in questi anni, non sopportava più di vedere messi a rischio, e comunque annullati, i suoi rendimenti. La rudimentale visione delle interconnessioni e delle relazioni causali che l’opinione pubblica tedesca ha non riusciva a comprendere che la disperata compressione della domanda interna, imposta a tutta Europa dalla ortodossia ordoliberale, produce come effetto sia i surplus commerciali (e quindi il flusso dei profitti) sia la necessità di annullare i tassi ed il costo del denaro per sostenere disperatamente il sistema sull’orlo del crollo. Quindi non riusciva a capire che gli odiati tassi negativi, che distruggevano le rendite finanziarie degli anziani compatrioti, mettevano in costante sofferenza gli istituti di credito e assicurativi del paese, erano il verso della necessaria moneta con la quale i lavoratori privilegiati dei settori di esportazione e le grandi fabbriche di successo, orgoglio del paese, ottenevano i loro successi.
Hanno quindi deciso di rompere il giocattolo.
Ma quando i tedeschi fanno una cosa, tendono a farla fino in fondo, radicalmente, non sono come noi latini, che teniamo sempre un’aria sfocata, lasciamo che tutto resti indeciso e siamo pronti a cambiarlo. Quindi al livello più alto possibile, quello che non ha appello possibile, hanno rotto tutto.
La Corte Costituzionale ha dichiarato niente di meno che la gerarchia delle fonti europea va rovesciata e che la Banca Centrale Tedesca deve rispondere a loro, invece che al sistema della Bce alla quale appartiene da quando la Germania stessa ha firmato il Trattato di Maastricht.
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Emergenza Covid-19
Sara Zanisi intervista Vittorio Agnoletto
Pubblichiamo l’intervista raccolta da Sara Zanisi a Vittorio Agnoletto, medico del lavoro, docente di “Globalizzazione e Politiche della Salute” presso l’Università degli studi di Milano, tra i fondatori della Lila Lega italiana per la lotta contro l’Aids. La conversazione è stata registrata in audio lo scorso 17 marzo a Milano attraverso una video call, perché erano già in vigore le restrizioni di movimento e incontro imposte dall’emergenza Covid-19. È su questo argomento che la redazione di Opm ha voluto ascoltare la testimonianza di un medico impegnato non solo sul fronte del contenimento dell’epidemia, ma anche su quello dell’informazione e della divulgazione scientifica: Vittorio Agnoletto infatti è stato da subito attivo sul piano della comunicazione alla cittadinanza, sia attraverso Radio Popolare – emittente milanese in cui dal 2015 conduce la trasmissione “37 e 2” sui temi dell’handicap e dell’invalidità civile –, sia attraverso il blog su Il Fatto Quotidiano, il blog personale e la pagina Facebook – da cui trasmette quotidianamente dal 18 marzo 2020 un video-aggiornamento quotidiano sul Coronavirus.[1]
* * * *
Zanisi: A noi interessa mettere a fuoco gli aspetti dal punto di vista del lavoro, oggi – com’è organizzato il lavoro e cosa resterà sul lavoro in futuro. La prima questione: cos’è successo quando l’emergenza Covid-19 è arrivata e come ha impattato sul modello regionale che abbiamo in Lombardia?
Agnoletto: Io proporrei come percorso di analizzare i problemi che si sono verificati di fronte alla vicenda Covid in Regione Lombardia e in Italia. Poi comincerei a vedere il perché, cosa è successo, dando qualche dato di riferimento legislativo a livello nazionale, per capire perché la situazione è andata così. Va bene questo taglio?
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L’Europa spiegata semplice
di Giovanni Dall'Orto
Parlando con amici di quanto stanno discutendo i giornali rispetto a MES, monetizzazione del debito, eurobond, sentenza della Corte Costituzionale tedesca, mi sono reso conto del fatto che i termini della questione tendono a sfuggire a molti, perché i giornali, intenzionalmente, non vogliono presentare il problema nei suoi termini. Che sono semplici, ma che vengono resi complicati per non fare crollare la favola bella dell’euro e del “più Europa”.
Iniziamo dal denaro. Quasi tutti coloro che conosco parlano di “Stato che stampa denaro” o che “non deve stampare denaro se no abbiamo l’inflazione come la Germania di Weimar”.
Ma il denaro non viene “stampato” dallo Stato. Il denaro viene “creato“. Dalle banche. Il cosiddetto “circolante”, cioè monete, e banconote effettivamente a stampa, costituisce solo una piccola parte di tutto il denaro esistente (non ricordo più esattamente quanto, l’ultima volta che ne avevo letto era una percentuale sotto il 10%).
Capire il concetto è in realtà facile. Quanto denaro liquido possedete in tutto? E quanta parte di esso ha forma fisica di banconote e monete, e quanta invece è una semplice registrazione di un numero sul vostro conto corrente di una banca o ufficio postale? O di un credito presso un’assicurazione? O di un investimento? Ecco, quello è tutto denaro “non stampato”. Ma che esiste. Ed è il 90% del denaro. In pratica, il denaro “stampato” “dallo Stato” è l’eccezione, non la regola. Il denaro è oggi, per la gran parte, una scrittura contabile, un’annotazione in un computer.
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Pandemia, prevenzione e fase 2
di Ense
Nell’alluvione di “informazioni” e numeri diffusi dal governo Conte e dai mass media per allarmare o rassicurare, manca sempre un ragionamento sulla prevenzione di questa epidemia e sulla preparazione a contrastarne gli effetti. Già: una scienza medica che si occupi della prevenzione delle malattie e, prima ancora, della preservazione della salute come bene collettivo, sociale … è questa la grande assente. Ma se non vogliamo essere carne da macello, ora che Covindustria e governo Conte hanno decretato la “fase 2” con la riapertura di tutto, dobbiamo tornare ad impugnare quest’arma. E su questa strada andare fino in fondo.
E dunque, visto che non ne parla nessuno, mentre è questa la questione-chiave, parliamo di prevenzione. E per farlo in modo adeguato, ci avvaliamo del contributo di Giulio Maccacaro, uno degli illustri compagni del passato che sono poco conosciuti, ma i cui scritti sono di strettissima attualità.
Maccacaro era uno scienziato, un medico, un insegnante, uno dei fondatori di Medicina Democratica, il fondatore della rivista Sapere, che indagava i rapporti tra scienza e potere, e sostenne la necessità del controllo sociale, cioe’ del controllo operaio, dei lavoratori sullo sviluppo della scienza in generale e della scienza medica in particolare.
In questo articolo toccheremo tre punti:
- cosa significa prevenzione;
- come mai non sono state attuate misure di prevenzione di questa pandemia;
- in una seconda parte dell’articolo, che seguirà, affronteremo quali compiti ci aspettano, come movimenti di lotta e come classe operaia, per candidarci a cambiare il nostro destino anche su questo terreno.
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Pensare la fase 2 delle lotte. Incostituzionalità e contraddizioni giuridiche delle norme anti-Covid
di Alessandro Mustillo
L’attività dell’Ordine Nuovo è iniziata nel pieno della pandemia, in un contesto di riduzione dell’attività politica tradizionale e in preparazione di una fase di lotte alle porte. Tra i compiti che ci siamo assegnati c’è quello di contribuire al dibattito fornendo materiali di analisi utili anche sotto un profilo tecnico (sia esso economico, storico, giuridico ecc…) che facciano avanzare parallelamente alla coscienza di classe, le capacità effettive di lotta dei lavoratori e delle organizzazioni di classe. Fornire dunque strumenti e contributi per delineare percorsi di lotta in una fase di grande arretratezza soggettiva e allo stesso tempo di necessaria riorganizzazione dei comunisti e di un fronte di classe.
Il compito di oggi è abbastanza ostico e risponde alle richieste di molti compagni. Abbiamo detto più volte che esiste un punto di incontro tra la responsabilità nell’evitare la diffusione del contagio e la crescita della curva della conflittualità sociale per il carattere di classe delle scelte governative sulla gestione della crisi. In questo contesto diviene fondamentale comprendere quali sono le “forzature” possibili al sistema di chiusura dell’attività politica e in particolare delle manifestazioni. La premessa necessaria quando dall’ambito politico si entra in quello giuridico è che per noi comunisti questi due elementi non comunicano: le categorie del primo non sono quelle del secondo, che non è elemento neutrale, ma espressione degli interessi della classe dominante. Quando si parla del conflitto di classe il diritto è prevalentemente strumento della repressione. Non bisogna quindi cedere all’idea di fare la lotta di classe con le norme, perché questo è semplicemente impossibile.
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I comunisti e l’Unione Europea
di Ascanio Bernardeschi
L’unità dei comunisti quale condizione per la costruzione di un fronte anticapitalista è più che mai necessaria e i numerosi, minuscoli, ciascuno per conto suo ininfluenti, movimenti comunisti dovrebbero fare un esame di coscienza e andare verso la ricomposizione, abbandonando effimere rendite di posizione
Il disegno interclassista originario
Per ragionare sull’Unione Europea (Ue) occorrerebbe preliminarmente demistificare la retorica sulla bontà del disegno originario di un’Europa “libera e unita” tratteggiata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel loro confino di Ventotene. Si tratta di un disegno interclassista in cui la divisione fondamentale non sta “lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo” ma lungo la “nuovissima linea” che divide chi lotta per “la conquista e le forme del potere politico nazionale” da chi considera “compito centrale la creazione di un solido stato internazionale”. Un internazionalismo che prescinde dalla divisione in classi. Le “gambe” di questo processo federalista dovevano essere del tutto esterne ai partiti politici antifascisti esistenti e infatti, nell’agosto del 1943, venne costituito il Movimento Federalista Europeo, con carattere di apartiticità.
Certamente non mancano toni di pacifismo, giustizia, antirazzismo, antiautoritarismo, contrarietà a qualche imperialismo – non tutti, per la verità – e perfino accenni ad aspirazioni socialisteggianti, ma non c’è traccia del ruolo protagonista delle classi lavoratrici, del loro antagonismo rispetto allo sfruttamento capitalistico. Pare insomma che una società superiore possa essere costruita attraverso la concordia sociale e un volemosi bene indifferenziato di “tutti gli uomini ragionevoli”, in cui anche gli imprenditori che “vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali” dovrebbero fare la loro parte.
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Le radici dell’ecologia
di Controtempi
«La crisi non avviene semplicemente per il confronto diretto esterno fra società e natura: essa si traduce in formazione di contraddizioni che acutizzano e fanno esplodere antagonismi interni alla società»
M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Massari editore, Roma 1993
1. FFF e il sentimento ecologista
Il 15 marzo 2019 decine di milioni di persone, soprattutto giovani, sono scese in piazza in tutto il mondo per manifestare contro il cambiamento climatico. Il successo di queste manifestazioni è stato replicato e addirittura superato il 24 maggio e il 27 settembre. A suo modo, il movimento nato in questi mesi è un fatto inedito nella storia contemporanea. Una mobilitazione che spontaneamente si sviluppa a livello mondiale, in modo tanto ampio e tanto trasversale, non si era avuta nemmeno in occasione delle guerre in Afghanistan e in Iraq, o, guardando a un passato più lontano, negli anni ‘60 e ‘70. È un movimento che sembra sorto dal nulla: un movimento senza un passato e venuto alla luce così, come un fungo, senza preavviso, grazie alle azioni di Greta Thunberg. Eppure l’ampiezza e il successo delle manifestazioni in tutto il mondo mostrano come un certo sentimento ecologista sia già penetrato, in sordina, in strati importanti della popolazione nel corso degli ultimi anni, e non aspettasse che un segnale per manifestarsi. Si tratta di un bagaglio di idee positivo, che però non può rimanere allo stadio di senso comune, di coscienza irriflessa, ma che al contrario è bene analizzare, sviluppare, e chiedersi quali problemi apra e quali conseguenze nasconda al proprio interno.
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Giornata delle vittime del terrorismo... Di quale?
Lorenzo Poli di InfoPal intervista Fulvio Grimaldi
Nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo e quindi del popolo rinchiuso nell’unico Stato a cui tutto si condona. Collaborazionismo, consapevolezza politica, “fightwashing” e l’annientamento del popolo palestinese
Da tre mesi, per occuparmi dell’operazione coronavirus, ho tralasciato l’argomento – gli Esteri - al quale mi sono dedicato da quando, nel 1967, il quotidiano “Paese Sera” mi ha inviato in Palestina a riferire della Guerra dei Sei Giorni. Domani, mi tocca tornare sul maledetto progetto virus, che, peraltro, rientra anch’esso a pieno diritto nella giornata delle vittime del terrorismo, come è anche il fulcro oggi della politica internazionale. Non solo perché è un’operazione per cambiare il mondo in peggio, paragonabile solo all’altra grande mistificazione di duemila anni fa, ma perché intende ristrutturare l’intera umanità con annesso un calcolato sacrificio di una sua grande parte.
Sul tema terrorismo e relativi mandanti e vittime dovrebbe essere difficile insegnare qualcosa agli italiani. Ne siamo il laboratorio da almeno 50 anni. Il nostro 11 settembre si chiama Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, BR-Moro, Stazione di Bologna, Ustica, stragi Stato-mafia 1992-93 e, ora, Sars-CoV-2. Qualcuno sta rilasciando i boss al 41bis. Altri che hanno altrettanto e più colpe per meritarsi il 41bis, girano liberi (dopo pochi anni di formale galera), e pontificano su giornali e schermi, consolidando l’inganno Moro. Sicari e mandanti sono sempre gli stessi. Eppure un sacco di gente continua a cascarci.
Lascio, per oggi, il pontefice del vaccino, i suoi chierici, sacrestani e sguatteri, a sbattersi tra le travolgenti onde delle nuove terapie del “sangue iperimmune”, che al vaccino, ai suoi miliardi e alla sua dittatura globale, rischiano di rovinare la festa. E torno in Palestina, lì dove, forse, tutto è incominciato.
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La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente
di Wolfgang Streeck*
“Noi vorremmo sapere… per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare?”
La battuta di Totò resta inarrivabile come sintesi del dibattito politico nella “sinistra” italiana, soprattutto quando si tratta di affronatre le coordinate fondamentali della realtà in cui ci troviamo a vivere. Ossia su struttura e gerarchia dei poteri (economici, politici, militari), stato della crisi capitalistica, ruolo dello Stato e quel “piccolo vincolo esterno” rappresentato dalla stratificazione di Trattati e istituzioni che costituiscono l’Unione Europea.
Senza un briciolo di chiarezza su questo mondo – certamente complesso – si è condannati a brancolare nel buio della regione. Tra patetici tentativi di usare le antiche categorie per nuovi fenomeni, o all’opposto di buttare a mare un patrimonio di idee e chiavi di lettura che non si riesce ad utilizzare.
Di base, quel che manca è lo studio della realtà empirica. Che è complicata, praticamente inaffrontabile con le risorse solo individuali e anche di piccoli gruppi. Ma camminare su un terreno sconosciuto espone ogni momento a rischi enormi, e a figuracce frequenti.
La scorsa settimana, solo per quanto riguarda l’ultimo (e persino il meno potente) dei “poteri forti” prima nominati, l’Unione Europea, si sono registrati due momenti importanti. Il primo è stata la sentenza della Corte Suprema tedesca, che ha dato tre mesi di tempo alla Bce per “giustificarsi” sulle politiche monetarie troppo “lassiste” degli ultimi anni.
Il secondo è stato l’”accordo” raggiunto nell’Eurogruppo per imporre il Mes (Meccanismo Europeo di Statbilità) come unico – al momento – strumento finanziario a disposizione dei governi per far fronte ai costi e ai danni della pandemia. Abbiamo smontato più volte la menzogna spudorata sull’”assenza di condizionalità”, e quei contributi rimandiamo senza tornarci.
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Dall'utopia roosveltiana all'estorsione mafiosa: il declino della potenza americana
di Pino Arlacchi
[E' per noi di l'AntiDiplomatico un grande onore poter pubblicare quest'analisi di Pino Arlacchi, professore di sociologia generale, ex vicesegretario dell'Onu e uno dei massimi esperti di criminalità finanziaria a livello internazionale. Strumenti, metodi e comportamenti regolarizzati dalla prassi, non sanzionati dagli stati e che oggi sono, nella totale ignoranza dei cittadini per la censura sistematica del mainstream e per la complessità che li avvolge, le peggiori estorsioni che subiscono gli stati nazionali. Estorisioni che come scrive Arlacchi sono di tipo mafioso e che vede protagonisti gli Stati Uniti con la degenerazione iniziata negli anni'80.
In questo piccolo saggio Arlacchi ricostruisce la decadedenza della visione statunitense da Bretton Woods con il sogno di un "governo mondiale" da parte di Roosevelt all'estorsione di stampo mafiosa attuale attravero i due pilastri del dollar e del military a scapito del soft power. E' una lettura per comprendere tutti i possibili scenari futuri a livello di relazioni internazionali dopo la devastante crisi economico-finanziaria che si appresta a sconvolgere i già precari attuali].
* * * *
In questi tempi arroventati, si cercano i precedenti della crisi attuale e si discute molto, perciò, di Bretton Woods, la Conferenza del 1944 che ha rifondato l’ordine mondiale. Ma poiché la storia è sempre storia del presente, si trascura spesso di considerare la stretta connessione di Bretton Woods con la Conferenza di San Francisco che portò alla creazione delle Nazioni Unite l’anno successivo.
E si trascura di evocare la comune matrice: l’idea del governo mondiale. Una visione che dopo gli anni ’20 del Novecento era diventato molto popolare, promossa dai milioni di iscritti alle varie associazioni che ad essa si ispiravano e condivisa da grandi personalità.
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A maggio fioriscon le rose
di Militant
A maggio fioriscon le rose… e l’Occidente esce dall’ibernazione iniziata fuori stagione, quando già l’inverno era alle spalle. Nel farlo, non risponde tanto al richiamo di Madre Natura, ma a quello più prosaico del Profitto. Andiamo a vedere, però, se la quarantena del vicino è sempre più verde. Nel frattempo sono verdi le zone della Francia dove, dall’11 maggio in poi, si ritornerà alla libertà di movimento: l’intero Paese è stato diviso in zone colorate. Quelle rosse, come l’Île-de-France (la regione parigina, che da sola “pesa” dodici milioni di abitanti e che una volta era rossa anche per colore politico), dovranno attendere un altro po’. Le scuole riapriranno proprio l’11 maggio (anche nella zona rossa, per quanto domenica 3 maggio oltre trecento sindaci dell’hinterland parigino abbiano manifestato la loro contrarietà), mentre le università saranno ferme fino a settembre. I famosi “assembramenti” saranno consentiti non prima di metà luglio, mentre ancora non c’è un’indicazione precisa per i ristoranti, i cinema e quant’altro. Il confinement per gli anziani e i soggetti a rischio non era tecnicamente obbligato, ma “consigliato”. In tutto ciò, passa quasi in secondo piano – tanto da essere sottolineato solo dalla stampa di sinistra (che Oltralpe ancora esiste, a differenza dell’Italia), che il governo abbia prolungato fino al 24 luglio lo stato di emergenza sanitaria, che gli conferisce, di fatto, i pieni poteri, facendo saltare gli equilibri tra gli organi dello Stato, già piuttosto sbilanciati, tra l’altro, in un regime semipresidenzialista. In vista della riapertura del Paese, il ministro dell’Interno, ad esempio, ha elencato le numerose categorie di “agenti” che potranno erogare multe a chi non rispetterà le regole del déconfinement: riservisti (della polizia e della gendarmeria), agenti aggiunti di sicurezza, gendarmi volontari, addirittura “agents de sécurité assermentés”, che sarebbero una specie di guardie giurate. Facile passare, quindi, dall’emergenza sanitaria a quella sanzionatoria.
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Quarantena e distanza sociale dalla spagnola al coronavirus
di Stefano Latino
Spagnola 1918-1919
La mia formazione, di marcata impronta storica, mi ha spinto a ragionare attorno ad alcune pandemie del passato, in particolare l’influenza spagnola del 1918-1919, per cercare analogie e differenze con l’attuale covid-19. Mi propongo di riformulare la retorica della “centralità” delle misure di controllo sociale e delle quarantene nella gestione di questo tipo di emergenze a partire dai dati storici e da alcune considerazioni sulla gestione iniziale del covid-19 in Italia. La pandemia del 1918-1919 e quella del 2019-2020 appartengono a due ceppi virali differenti: influenza di tipo A-H1N1 la prima, mentre la seconda è compresa nella famiglia dei coronavirus. L’elemento principale che esse hanno in comune è il tipo di diffusione, che avviene per via aerea. Inoltre, la sintomatologia presenta esiti simili, con la morte che sopraggiunge a causa di una polmonite grave. Entrambi i virus hanno effettuato un percorso simile, in quanto derivano da un “salto di specie” dagli animali all’uomo: probabilmente una ricombinazione di agenti patogeni provenienti da suini e uccelli nel caso della spagnola, mentre da pipistrelli per quanto riguarda il covid-19. Detto ciò, va tenuta in considerazione la velocità di propagazione del contagio, che pare enormemente più alta nel caso della spagnola, poiché si stima che essa colpì un terzo della popolazione mondiale dell’epoca, provocando, secondo varie stime, dai 20 ai 100 milioni di morti.1 Cifre che oggi sembrano pura distopia, anche nelle previsioni più catastrofiste, se applicate al coronavirus odierno. La tragedia di cento anni fa è spiegata anche dal contesto storico in cui agì la pandemia, con l’umanità prostrata dalla Prima guerra mondiale che stava volgendo al termine.
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