Print Friendly, PDF & Email

illatocattivo 

Classe media salariata e crisi: linee di demarcazione

In merito ad alcune critiche

di R. F.

unnamedIl testo che segue costituisce una versione modificata e ampliata di Classi medie e parole in libertà1una risposta alla recensione che Dino Erba (d'ora in poi DE) ha dedicato al libro da me scritto in collaborazione con Bruno Astarian, Le ménage à trois de la lutte des classes, uscito in francese a metà dicembre 2019 per le Éditions de l'Asymétrie, e attualmente in corso di traduzione in lingua italiana2. In seguito a varie sollecitazioni, mi è parso opportuno rivenire sulla stesura iniziale di quel testo, in primo luogo per renderlo intellegibile ad una platea di lettori più ampia – visto e considerato, peraltro, che la recensione di DE è circolata unicamente fra i suoi contatti personali e non è, ad oggi, disponibile in rete. In secondo luogo, il resoconto di Le ménage à trois... dato da DE è stato poi ripreso da Michele Castaldo (d'ora in poi MC), che a sua volta ne ha tratto spunto per un testo ulteriore, intitolato Ceto medio e suo movimento in questa fase3, su cui mi è sembrato necessario spendere qualche parola in più.

Per riassumere, sia la recensione di DE che il commento di MC si basano su un «malinteso» (diciamo così) di fondo, di cui è responsabile il primo e non il secondo. Il vizio ad originem della recensione di DE, è che pretende di criticare un libro che visibilmente il suo autore non ha letto. Perché allora scagliarvisi contro? Credo banalmente che DE vi abbia subodorato una minaccia per le proprie tesi, proprio perché esponente di quella (nutrita) schiera di «rivoluzionari» che – riprendendo una formula che ricorre a più riprese in Le ménage à trois… – prendono le lucciole dell'interclassismo per le lanterne della rivoluzione comunista. Ebbene, uno degli intenti del libro era proprio quello di mettere costoro alle strette.

Comunque sia, se sorvoliamo sui loro reciproci disaccordi, nelle considerazioni che DE e MC hanno dedicato a Le ménage à trois..., emergono almeno due assi comuni, che si possono riassumere così:

  • da un lato, una caratterizzazione delle classi medie che assimila, per posizione di classe e forme di reddito, le vecchie e le nuove classi medie, ovvero la piccola borghesia indipendente e la classe media salariata;

  • dall'altro, una concezione della crisi volta a farne un fenomeno permanente: nel caso di DE, abbiamo una teoria della decadenza/declino del modo di produzione capitalistico; con MC siamo più prossimi ad una teoria del crollo.

Più oltre ritornerò ampiamente su questi due punti fondamentali. Ma andiamo con ordine. Mi si scuserà se non riassumo qui gli sviluppi teorici sulla classe media salariata – e, soprattutto, sulla natura del reddito che la contraddistingue – ma mi limito a rinviare alle prima bozze dei capitoli iniziali di Le ménage à trois..., già tradotte in italiano e reperibili in rete4. I lettori avvertiti si accorgeranno comunque che – contrariamente a quanto affermato da DE – la nostra caratterizzazione della classe media non è riconducibile né al «dibattito Bernstein», né all'aristocrazia operaia nel senso di Lenin. Abbiamo invece preso spunto da uno studio piuttosto misconosciuto dell'inizio degli anni 1970, condotto da alcuni sociologi marxisti francesi, che abborda la questione da una prospettiva differente e a nostro avviso legittima, e che «spariglia» gli approcci tradizionali (Marx compreso). E non lo abbiamo mai nascosto, tant'è che ne abbiamo citati ampi stralci!

Viceversa, mi preme maggiormente chiarire che nel nostro libro, Bruno Astarian ed io, distinguiamo nel corso della lotta di classe due fasi, due forme fondamentali: la forma quotidiana, fatta di lotte immediate, rivendicative, anche violente e di massa, perfino pre-insurrezionali, ma che ancora non rompono con una logica generale di negoziazione con la controparte (quand'anche diano ad intendere il contrario); e la forma insurrezionale, in cui il proletariato – e solo esso! – rompe con la logica della negoziazione. Ciò che va sotto il nome di «interclassismo» o «movimenti interclassisti» – ovverosia quelle lotte che implicano un'alleanza fra classi distinte, di cui abbiamo trattato solo la configurazione che, tra le tante che si sono osservate storicamente, ci è parsa la più attuale (l’alleanza fra proletariato e classe media salariata) – è possibile solamente nell'ambito della forma quotidiana della lotta di classe, retta da una logica negoziale. Sottolineo, inoltre, che non si trattava per noi di fare l'apologia o, viceversa, di condannare questo interclassismo: ci siamo limitati a riconoscere che esso si produce, e ci siamo sforzati di comprendere le sue condizioni di possibilità, la sua effettività e i suoi limiti. E ciò alternando due registri:

  • quello dell’astrazione teorica, attraverso un'analisi delle rispettive posizioni di classe del proletariato e della classe media salariata, e delle convergenze e divergenze degli interessi materiali che ne discendono;

  • quello empirico, attraverso una serie di resoconti piuttosto dettagliati di alcuni dei movimenti interclassisti, o viceversa middle classe only, che hanno scandito gli ultimi 10-15 anni. Ricostruendo di volta in volta il contesto socio-economico, la dinamica e le realtà sociali soggiacenti a questi movimenti, abbiamo dedicato 47 pagine alla Tunisia (2011), 73 all'Egitto (2011-2013), 19 alla Francia (2016, Loi Travail), 31 alla «comune» di Oaxaca (2006), 10 pagine all'Iran (2009) e 37 a Israele (2011).

Invece di dare almeno un'occhiata a questo insieme di analisi – non prive di dati, statistiche etc. – e di formularne eventualmente una critica argomentata, DE ha invece preferito bollare d'anticipo la nostra ricerca come un «lungo esercizio di stile» in cui «gli autori riciclano Bernstein, forse inconsciamente».

Comunque sia, a più riprese, nel corso del nostro lavoro, abbiamo sottolineato come nelle fasi insurrezionali della lotta di classe, viga fra proletariato e capitale una logica di puro scontro, e come in essa la classe media salariata si situi necessariamente dalla parte del capitale e contro il proletariato insorto. Spingendoci oltre, abbiamo anche cercato di anticipare le caratteristiche specifiche dell'insurrezione proletaria futura (49 pagine in tutto), e della prossima crisi generale del modo di produzione capitalistico (32 pagine), senza la quale non ci potrà essere né tentativo insurrezionale, né a maggior ragione rivoluzione vittoriosa.

Come si possa intravedere, in tutto questo, l'influenza più o meno occulta di Bernstein, resterà un mistero. Diversamente dalle dispute teoriche del passato, la problematica alla base di Le Ménage à trois…, non è in effetti l’esistenza o meno di una classe media in seno al lavoro salariato, non è la sua vera o presunta crescita quantitativa, ma il fatto che questa classe sia capace di lottare autonomamente (come l’attualità mi pare dimostrare) e che lo faccia in virtù di interessi materiali specifici. È questa capacità a qualificarla, secondo Astarian e il sottoscritto, come una classe a tutti gli effetti. Una classe che non lotta mai in quanto tale, non è una classe. Ma la classe media salariata lotta – alleata o meno con questa o quella frazione del proletariato – così come fecero la borghesia in ascesa o la piccola borghesia, in innumerevoli episodi storici più o meno remoti e ben conosciuti.

Per di più, è giocoforza constatare che se di «bersteinismo» si può parlare, esso consiste nel considerare lo sviluppo di classi medie specificamente legate al capitalismo maturo, incompatibile con la legge della miseria crescente. Com’è noto, Bernstein, prendendo atto della crescita numerica di queste classi, ne trasse la conclusione che la visione generale del corso del modo di produzione capitalistico delineata da Marx, fosse in gran parte erronea. La conclusione, specularmente opposta, di DE e di molti altri prima di lui, è che non vi possa essere sviluppo durevole della classe media salariata poiché questo sarebbe in contraddizione con la legge della miseria crescente. In realtà, come altri hanno fatto notare ben prima di me (cfr. la prima serie della rivista «Invariance»5), è proprio questo postulato, che peraltro non trova alcun riscontro in Marx, ad essere erroneo. Ciò per almeno tre motivi:

  • in primo luogo, l'aumento tendenziale del saggio di sfruttamento del proletariato permette di aumentare la massa del plusvalore, e dunque di indirizzarne una parte cospicua a vari usi improduttivi, tra cui anche la maggiorazione dei salari della classe media salariata al di sopra del valore della sua forza-lavoro6;

  • in secondo luogo, quand'anche per effetto della crescita numerica della classe media salariata, il numero dei proletari in un dato paese, o anche su scala internazionale, diminuisse relativamente, esso si accrescerebbe comunque in termini assoluti, e ciò – vale la pena sottolinearlo – perché l'accumulazione capitalistica, anche in condizioni di forte rallentamento, è per definizione riproduzione allargata, e dunque la proporzione quantitativa fra proletariato e classe media salariata non è assimilabile a un sistema di vasi comunicanti che si ripartiscono una grandezza data;

  • in terzo luogo, le crisi generali respingono periodicamente una parte più o meno consistente della classe media salariata all'interno del proletariato.

Veniamo ora all’apprezzamento di DE – approvato da MC – delle classi medie: quella che Bruno Astarian ed io definiamo classe media salariata, non sarebbe nient’altro che un prolungamento della classe media indipendente, e il suo statuto di «salariata» sarebbe soltanto formale, di facciata. Si mettono dunque nello stesso calderone l'ingegnere, il notaio e l'artigiano, i cui redditi proverrebbero tutti indistintamente da un ciclo assimilabile a quello della piccola produzione mercantile (M-D-M). Da qui discenderebbe il carattere rigorosamente improduttivo di queste figure. Ora, osserviamo in primo luogo che un simile punto di vista comporta una confusione fra lavoro improduttivo e lavoro che crea valore ma non plusvalore. Nel ciclo M-D-M, tipico della piccola produzione mercantile, gli scambi fra merce e denaro realizzano, in un primo momento, il valore della merce prodotta attraverso la sua vendita (M-D), mentre nel secondo (D-M), garantiscono l’acquisizione di nuove merci in vista di una nuova produzione. E questo valore non può essere determinato da nient'altro che dalla legge del valore, cioè dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrre quelle merci7. Non è propriamente ciò che accade nell'ambito del settore improduttivo che si sviluppa in condizioni capitalistiche. Le porzioni di valore che vi affluiscono sono infatti interamente sottratte al pool del plusvalore sociale, e i capitali improduttivi se le appropriano attraverso il meccanismo della perequazione dei saggi di profitto medi (formazione di un saggio generale di profitto) al quale partecipano. Poiché dire profitto non è uguale a dire plusvalore, i capitali improduttivi intascano profitti pur non producendo né valore né plusvalore. Se è vero che il loro ciclo non è D-M-D', è comunque inesatto dire che sia M-D-M. Diversamente dalla piccola produzione mercantile, il capitale commerciale (M'-D-M) e il capitale produttivo d'interesse (D-D') presuppongono e prolungano il ciclo D-M-D'. Ciò detto, nel mondo empirico i capitali improduttivi evolvono in condizioni del tutto analoghe a quelle dei capitali produttivi, dovendo essi investire in capitale costante e capitale variabile per poter ambire (almeno) al profitto medio delle proprie branche di produzione che, in condizioni di perequazione normale, non può essere troppo diverso da quello delle branche produttive8. Si confronti la classifica delle imprese mondiali per fatturato Fortune Global 500, e si vedrà che non siamo troppo lontani dalla realtà.

Ma dall'assimilazione della classe media salariata a una sotto-categoria delle classi medie non-salariate, conseguono problemi ben più gravi. Secondo DE, le classi medie sarebbero indistintamente caratterizzate dal fatto di vendere, non la merce forza-lavoro, ma una merce tout court. Questo è forse vero per quelle figure di tipo piccolo-borghese che mantengono la proprietà dei loro mezzi di produzione (lasciamo da parte il piccolo capitale mercantile, che va trattato come un caso particolare). Come detto, ciò non ne fa dei lavoratori improduttivi, appunto perché il ciclo che li caratterizza è M-D-M. Questo, almeno, in linea di principio. Ma a partire dal momento in cui essi si trovano ad operare in un contesto capitalistico, dove gli eventuali concorrenti nella produzione della medesima merce sono produttori privati e in cui la figura del lavoratore e quella del capitalista sono ben distinte, le loro attività partecipano necessariamente alla formazione del saggio di profitto medio all'interno delle rispettive branche, e alla perequazione generale del saggio di profitto fra le diverse branche. È proprio la ragione per cui sono condannati a scomparire: non possono reggere alla concorrenza di imprese più grandi e produttive di loro, dunque non riescono ad appropriarsi il profitto medio della loro branca di produzione. Ma fintanto che non scompaiono, vivacchiano ai margini intascando meno valore di quanto ne producano, e ingrossando le tasche dei produttori concorrenti.

Insomma, assimilando piccola produzione mercantile e lavoro improduttivo, viene completamente deturpata la concezione marxiana della ripartizione del plusvalore. Ciò si conferma laddove DE presenta l'ingegnere, il data analyst, l'insegnante, il funzionario di medio rango, come dei commercianti che vendono una merce qualsiasi. Secondo una certa vulgata, effettuando degli studi superiori, costoro avrebbero «investito», quasi fossero dei piccoli capitalisti. Ci troviamo qui sul terreno delle più piatte elucubrazioni della sociologia sinistroide su «capitale culturale» (Pierre Bourdieu) e dintorni. Tanto valeva tenersi Bernstein! Ma ammettiamo per assurdo la legittimità di questo punto di vista. Se costoro vendessero una merce che non è la loro forza-lavoro, questa merce dovrebbe in linea di principio avere un valore, determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. Ma l'università, su cui essi hanno «investito», non può essere – in virtù dello stesso ragionamento di cui sopra – un settore produttivo di (plus)valore. Di conseguenza, nella merce che i quadri del settore pubblico o privato venderebbero, non può essere cristallizzato il valore degli studi superiori, per la semplice ragione che le merci prodotte nelle branche improduttive non cristallizzano alcun valore o, detto altrimenti, la loro vendita non alimenta il pool del plusvalore sociale. Queste branche sono alimentate dalle branche produttive attraverso il meccanismo della formazione del saggio generale di profitto. I presupposti che, ragionando per assurdo, avevamo dato per buoni, ci hanno dunque condotto in un circolo vizioso! Se il ruolo economico dei quadri e delle professioni intermedie fosse assimilabile al ciclo M-D-M, la supposta vendita della merce di cui sono possessori (e che non sarebbe la loro forza-lavoro) dovrebbe trasferire il valore che vi è cristallizzato, ma – come abbiamo visto – ciò non può avvenire. Se ne dovrebbe concludere che queste figure professionali siano in realtà dei rentiers. Ma in questo caso, a maggior ragione, i loro redditi non corrisponderebbero al ciclo M-D-M caratteristico della piccola produzione mercantile, molto semplicemente perché sarebbero delle rendite.

Cerchiamo ora di schematizzare questa curiosa concezione in termini di riproduzione complessiva del capitale, sulla base di un ampio sviluppo delle branche non produttive di plusvalore (tale quale esiste oggi), e di un saggio medio di sfruttamento del 100% nelle branche produttive (senz'altro sottostimato per ciò che concerne le aree centrali dell'accumulazione).

 

Capitale produttivo

Capitale improduttivo

Stato

(P)

Profitto

plusvalore

plusvalore

-

(c)

valore dei mezzi di produzione

plusvalore

plusvalore

(v)

valore della forza lavoro

plusvalore

plusvalore

La casella corrispondente al capitale costante (c) impegnato nelle branche produttive di plusvalore, figura qui come semplice valore dei mezzi di produzione, benché si tratti naturalmente di plusvalore accumulato nei cicli di produzione precedenti. Per quel che riguarda l’attività statale, la casella corrispondente al profitto risulta ovviamente vuota, in quanto tale attività non si inscrive nel meccanismo della perequazione generale, e dunque non permette di partecipare alla ripartizione dei profitti; lo Stato accede al pool del plusvalore sociale attraverso i canali dell'imposta e del credito9.

Ora, posto che il solo processo di produzione che produca plusvalore è – tautologicamente – quello che investe capitale costante (c) e capitale variabile (v) nelle branche produttive di plusvalore, mi permetto di attirare l'attenzione su due punti:

  • da un lato, poiché qui i soli «veri» salari – corrispondenti al valore della forza-lavoro in senso stretto – sarebbero quelli che coincidono con il capitale variabile impegnato nelle branche produttive, solo quest'ultimo può essere preso in considerazione nella determinazione del saggio generale del plusvalore (p/v) a livello della riproduzione complessiva. Ciò non è veramente conforme alla visione di Marx, secondo cui i salari dei lavoratori improduttivi contano anch'essi come valore della forza-lavoro… ma soprassediamo. Mi limiterò a osservare che il saggio del plusvalore vigente nell'ambito delle branche produttive di plusvalore sarà, al netto della perequazione con le branche improduttive, incredibilmente alto.

  • Dall'altro lato, però – e per la stessa ragione – se è vero che il saggio di profitto medio delle branche produttive è notevolmente ridotto dal meccanismo della perequazione generale, impilando le une sulle altre tutte le caselle in cui appare la dicitura «plusvalore», si nota che anch'esso risulta in realtà incredibilmente alto10!

Osserviamo inoltre che lo schema qui riportato (che – lo ricordiamo – sintetizza una visione che non è la nostra) è in realtà del tutto incompatibile con qualsivoglia teoria della crisi permanente, che sia di tipo decadentista/declinista (DE) o «crollista» (MC). E questo per la semplice ragione che una caduta costante e durevole del saggio di profitto nel settore produttivo, renderebbe la riproduzione del capitale improduttivo e il funzionamento dello Stato banalmente insostenibili. Affinché questi ultimi possano continuare a riprodursi, come evidentemente fanno ancora, è in effetti necessario un saggio medio di profitto abbastanza elevato. Intendiamoci: la fuga nel capitale fittizio può compensare un saggio medio di profitto insufficiente. Ma – per calare il ragionamento nella scottante attualità – se, ad esempio, dal 2010 in poi la redditività del capitale non avesse conosciuto alcuna ripresa, il settore improduttivo e i budget statali avrebbero subito una compressione ben più drastica di quella alla quale abbiamo assistito. In effetti, quando vi è penuria di plusvalore, il capitale reagisce in prima battuta cercando di raccattarne là dove può, anche a discapito di spese improduttive abitualmente ammesse come necessarie. Sotto questa angolatura, l'evoluzione che si può constatare in ambito pubblicitario è – per limitarsi ad un solo esempio – particolarmente esplicativa (vedi la tabella sottostante). Malgrado una contrazione tra il 2007 e il 2009, a partire dall'anno seguente le spese pubblicitarie su scala mondiale hanno ripreso a crescere, con un tasso di incremento decennale del 60%.

Spese pubblicitarie mondiali in miliardi di dollari USA (2007-2019)

2007

388

2008

383

2009

345

2010

376

2011

393

2012

412

2013

429

2014

499

2015

466

2016

493*

2017

511*

2018

533*

2019

552*

*Stime approssimative – Fonte: www.statista.com

Del resto, lo stesso Marx afferma, nelle Teorie del plusvalore, che la crisi permanente è un concetto privo di senso11. La crisi è un evento brutale e relativamente breve, che va distinto da periodi più o meno lunghi di attività economica globalmente poco dinamica, ma all'interno dei quali il «ciclo periodico percorso dall’industria moderna» non si arresta.

Come si è già osservato altrove12, l'aspetto forse più costernante di alcune delle critiche che ci vengono indirizzate, non riguarda tanto i disaccordi che si possono avere nei confronti dei loro autori, ma i disaccordi che questi nutrono nei confronti di se stessi. Con la pseudo-teoria della crisi permanente, affonda, per quanto concerne DE, anche il relativo corollario dell'arroccamento dell'accumulazione capitalistica all'interno delle sue basi storiche – laddove nelle periferie regnerebbe ovunque il caos, ampliando le enclavi dominate da rapporti sociali non-capitalistici (post-capitalistici?). Invece di lanciare accuse di revisionismo socialdemocratico, di progressismo e perfino di razzismo a chi è in disaccordo con le sue tesi, sarebbe bene che DE cominciasse a fare un po' di ordine nelle proprie idee. Ad essere rivelatrici di un punto di vista «etno-differenzialista», non sono forse proprio quelle visioni – quale quella del nostro critico – che oppongono a un Occidente (rigorosamente con la O maiuscola) per essenza votato ad essere la culla della formazione del capitale, un «resto del mondo» che, sempre per essenza, sarebbe del tutto estraneo e perfino incompatibile con questa formazione? L'Irlanda, oggi ancorata all'UE, era già «Occidente» all'epoca della colonizzazione inglese? O lo è diventata dopo? Il Giappone e la Corea del Sud sono «Occidente»? Se fosse possibile abbandonare queste dispute inconcludenti e intrise di retro-pensieri morali, si riuscirebbe forse a parlare di cose serie, e riscopriremmo allora che il modo di produzione capitalistico non sgorga da un'entità cultural-metafisica («l'Occidente»), ma dal ventre del modo di produzione feudale, e solo da questo. La localizzazione geo-storica del modo di produzione feudale non concerne però unicamente l'Europa, donde la traiettoria del Giappone, ad esempio. D'altra parte, il modo di produzione capitalistico ha ben mostrato di poter attecchire e svilupparsi in modo perfettamente conforme al suo concetto, anche in assenza di presupposti feudali e di una dinamica di formazione endogena. Nel Nuovo Continente come altrove, esso ha mostrato di poter fare terra bruciata di tutto o quasi, qualora ciò sia necessario al suo radicamento. Per quanto concerne la penetrazione dei rapporti capitalistici sulla base di modi di produzione di tipo asiatico, non mi pare proprio che questi ultimi pongano ostacoli insormontabili. La Cina contemporanea non è sicuramente esente da profondi squilibri, fra zone urbane e zone rurali in particolare. Si può pertanto negare che il «trapianto», almeno in una parte significativa del paese, sia riuscito? Quando DE fa appello, come spesso accade, all'assenza di proprietà privata individuale del suolo come fattore di resistenza allo sviluppo dei rapporti sociali capitalistici, evidentemente non sospetta che proprio la proprietà privata collettiva, quando convertita in «proprietà nazionale a rendita nazionale»13, può propiziare un più rapido sviluppo di tali rapporti, giacché con essa viene a mancare l’ostacolo alla redditività del capitale rappresentato dal potere politico ed economico della terza classe presente all’epoca della sussunzione formale: quella dei proprietari fondiari che, assieme ai proprietari della semplice forza-lavoro e ai proprietari di capitale, concorre a formare «le tre grandi classi della società capitalistica» che figurano alla fine del Libro III del Capitale (…ma guarda un po': le terze classi esistono!).

In un uno dei suoi più recenti interventi14, DE scrive:

«Da qualche anno, e con ritmo incalzante, ogni angolo del mondo è scosso da tensioni sociali che, spesso, assumono carattere insurrezionale. Di bassa o alta intensità. Da Hong Kong a Quito, passando per Parigi, da Gaza a Papua... agli Uiguri... l'elenco è lungo. Un'escalation inevitabile, sull'onda del declino economico del modo di produzione capitalistico che, da decenni, disgrega le relazioni sociali e politiche, dando fiato ai contrasti.»

Se per constatare l'aumento delle tensioni sociali non ci vuole certo uno scienziato, da qui ad affermare che esse siano onnipresenti, e addirittura che assumano spesso carattere insurrezionale, ce ne corre. In realtà, se lasciamo da parte la Francia15, i cui sommovimenti più o meno recenti non hanno comunque assunto alcun carattere insurrezionale, il quadro delineato da DE è quello di una serie di crisi sociali periferiche, di natura generalmente interclassista e non insurrezionale, e che sono tali anche perché non è in corso alcun «declino» del modo di produzione capitalistico. Ma quando non ci si sente obbligati a fornire definizioni di sorta, si può conferire carattere insurrezionale a tutto e al contrario di tutto, e gridare alla «crisi sistemica» ad ogni minima avvisaglia di recessione. In definitiva, a doversi giustificare non sono coloro che continuano a coltivare la prospettiva di una rivoluzione che, per essere «anticapitalista», non può che prendere avvio in prima istanza laddove c'è troppo capitale – e non dove ce n'è troppo poco! Sono altri a dover dare spiegazioni.

«Attenzione alle parole senza definizione: sono lo strumento favorito degli intriganti», scriveva Blanqui. In Le Ménage à trois..., Astarian ed io ci siamo quantomeno sforzati di dare definizioni precise e piuttosto restrittive di tutti i concetti proposti, non da ultimo proprio quello di insurrezione. Eccone un paio di esempi, e mi scuso per la lunga autocitazione:

«In primo luogo, bisogna forse insistere sul fatto che l'insurrezione di cui parliamo qui non è un putsch, ma un movimento di massa che coinvolge un gran numero di proletari. Allo stesso tempo, l'insurrezione non è una sommossa. […] Prima dell'insurrezione, vi sono scioperi a ripetizione, numerose manifestazioni e sommosse. Ma l'insurrezione segna una rottura per il fatto che i proletari escono dai luoghi di lavoro e si impadroniscono di certi mezzi di produzione, oppure li distruggono, per lottare contro il capitale e per garantirsi la sopravvivenza immediata. […] Attaccando i mezzi di produzione, l'insurrezione indica che lo scontro di classe si situa ormai al cuore del rapporto sociale capitalistico: il monopolio della proprietà capitalistica sulle condizioni della riproduzione materiale dei proletari. È questa una delle differenze rispetto alla sommossa, che scoppia generalmente a livello della realizzazione delle merci provenienti dalla sezione II della produzione sociale (quella dei mezzi di sussistenza, ndr). Una tale differenza è significativa, perché la requisizione – o la distruzione – di mezzi di produzione (materie prime, macchine, componentistica, veicoli etc.) esclude che la socializzazione fondamentale dei proletari insorti si mantenga come rapporto salariale. L'insurrezione genera un rapporto sociale inter-individuale specifico, unico nella storia, fra i proletari che vi partecipano, ed ciò che determina la sua intensità soggettiva. Bisogna precisare che riserviamo il concetto di rapporto sociale al rapporto degli uomini fra loro, che ingloba il rapporto con la natura esterna. […]» (pp. 369-372).

«Attaccare il capitale nel quadro dell’insurrezione, non vuol dire mandare in rovina i capitalisti distruggendo le loro proprietà, fossero anche delle fabbriche. Vuole dire soprattutto attaccare il rapporto sociale capitalistico, ovvero rifiutare di sottomettersi allo scambio salariale, divenuto manifestamente intollerabile. I proletari insorti formano fra loro un rapporto che cambia la forma sociale dei mezzi di produzione, per il fatto stesso che devono impadronirsi di elementi del capitale per assicurarsi la propria riproduzione immediata, materiale e sociale. Più che devalorizzato, il capitale così sottratto viene allora de-valorato. La connotazione dei mezzi di lavoro come valore che deve valorizzarsi – che va da sé nell'ambito della riproduzione normale della società capitalistica, anche in condizioni di crisi – è provvisoriamente sospesa per gli insorti. In questo modo, essi contestano al rapporto sociale capitalistico lo statuto di rapporto sociale fondamentale. È per questa ragione che la loro attività comporta un potenziale di superamento comunista.» (p. 390).

Se tutto ciò viene qualificato da DE come un «esercizio di stile», ovvero di forma, e non un discorso di contenuto, cosa rispondere? C'è un punto oltre il quale anche i migliori intenti razionali si trovano disarmati. Mi preme però precisare che i tratti distintivi che attribuiamo all'insurrezione non possono essere ridotti al rango di mera speculazione. Questa considerazione è indirizzata specificamente al discorso di MC, il quale critica non senza ragione «la vecchia illusione soggettivistica» secondo cui sarebbe possibile condurre classi sociali anti-rivoluzionarie su un terreno rivoluzionario attraverso una adeguata direzione politica, ed evoca a riprova le dure batoste incassate su questo fronte da vari big del cosiddetto socialismo reale, nei loro rapporti con il contadiname principalmente. Di sfuggita e un po' fuori contesto, nel medesimo passaggio MC menziona anche la sollevazione operaia di Berlino Est, che ridusse a mal partito il gruppo dirigente della RDT. Venendo da MC, il lapsus è interessante: per quanto egli tenda a rimuovere i numerosi episodi storici in cui dei proletari hanno effettivamente rotto con la logica della negoziazione propria delle lotte quotidiane, il rimosso inevitabilmente riaffiora. MC può anche avere gioco facile nell'affermare che il ruolo rivoluzionario del proletariato resta da dimostrare, ma non si può fare come se questi episodi storici – per quanto circoscritti nel tempo e nello spazio – non contino nulla in sede di bilancio. Né si può fingere che tali eventi, che punteggiano la storia del modo di produzione capitalistico, non intrattengano alcun rapporto gli uni con gli altri, anche malgrado differenze e discontinuità. E nemmeno – infine – si può pretendere che, quand'anche appartengano ad un passato in apparenza lontano, essi non abbiano alcun significato rispetto al presente – salvo pensare che il funzionamento del modo di produzione capitalistico si sia modificato a tal punto da non essere più nemmeno analizzabile come tale. Nel 2020, l'offerta culturale vigente in questo schifoso mondo «libero», ci permette di conoscere nei particolari la vita sessuale di Marx e i problemi gastrici di Lenin... ma sappiamo cosa fecero gli anonimi operai di Berlino Est e di altre città, in quei tre giorni di fuoco (15-18 giugno 1953)? Sappiamo cosa fecero – intendo precisamente, giorno per giorno, perfino ora per ora – quelli insorti a decine di migliaia nella Ruhr nel marzo del 1920? Si potrebbero moltiplicare gli esempi, e ciononostante la risposta sarebbe sempre la stessa: a parte qualche generalità, ne sappiamo pochissimo. Ma quel poco che sappiamo, ci indica che le pratiche e le relazioni fra i partecipanti, come pure le reazioni della controparte, non furono le stesse che caratterizzano la lotta di classe quotidiana. Quando è necessario mandare i carri armati per rimettere i proletari al loro posto, è evidente che qualcosa nell'implicazione reciproca delle classi si è inceppato. E questo, a conti fatti, è già molto, comunque troppo per gettarlo alle ortiche. Ciononostante, MC non si fa scrupoli nel ridurre sbrigativamente il rapporto fra proletariato e capitale a semplice «complementarità», ed asserire che «chi rincorre il soggetto della rivoluzione in questa o quell’altra classe porta a spasso la fantasia». Contento lui! Ma anche il suo materialismo si rivela assai meno realista (nel senso filosofico e, se vogliamo, nobile del termine) e sistematico di quanto promesso. Secondo MC, «il ruolo rivoluzionario lo ha la crisi del modo di produzione che procede a sbalzi fino ad un punto di caduta definitiva». Osservo innanzitutto che questa prospettiva è tanto ipotetica quanto quella che attribuisce un ruolo rivoluzionario ad una classe (prospettiva rigettata da MC), giacché una crisi tanto profonda da disgregare in toto il rapporto di classe – una sorta di lock-out generale, mondiale e simultaneo – non si è mai vista, e a mio avviso mai si vedrà. In ogni caso, l'impatto delle crisi reali non depone a favore del postulato della tendenza verso un «punto di caduta definitiva», la quale presupporrebbe un andamento dell'attività economica che non è corroborato dai fatti (vedi, ad esempio, la tabella sottostante).

Andamento della produzione industriale in periodo di recessione negli USA (1929-2009)

07/1929 – 03/1933

-52,00%

06/1937 – 05/1938

-33,00%

12/1969 – 11/1970

-5,80%

11/1973 – 03/1975

-12,90%

07/1981 – 11/1982

-8,60%

09/2000 – 11/2001

-5,50%

11/2007 – 06/2009

-17,30%

Fonte: FRED

Ma quand'anche si ammettesse come possibile l'esito prospettato da MC, resta il fatto che la dinamica che vi conduce non è interna al solo polo capitalistico del rapporto sociale. In ultima istanza, è la resistenza dei lavoratori sul terreno della durata della giornata lavorativa e dell'intensificazione del processo di lavoro in condizioni tecnico-produttive immutate (non fosse che attraverso il mantenersi nel tempo di un dato rapporto di forza), a spingere i capitali singoli a rivoluzionare queste ultime, ovvero ad aumentare gli investimenti in capitale costante, dunque ad aumentare la composizione organica del capitale che determina la caduta del saggio di profitto. Del resto, affermare come fa MC, che il soggetto della storia non è una classe particolare, ma il rapporto stesso, non esclude che il movimento di quest'ultimo si dia attraverso l'azione di classi distinte. E comunque, coglierne la contraddizione motrice non equivale a porre ipso facto la necessità del suo scioglimento. Per citare il mio compagno di avventure Bruno Astarian, «non basta dimostrare che il capitalismo è mosso da una contraddizione, foss’anche mortale. Occorre mettere in rilievo dove si situa, all’interno di tale contraddizione, la possibilità del suo superamento. E occorre conferire alla contraddizione stessa un senso»16. Mi pare sia qui che la distinzione fra le due differenti modalità della lotta di classe, e la comprensione di quella insurrezionale come un blocco momentaneo nella meccanica del rapporto fra le classi, assume la sua importanza... O allora, per dirla con Macbeth, la storia non è che «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla», e tutta la pretesa del comunismo moderno (già prima di Marx) di scovare il senso del divenire storico, e di legare i suoi sviluppi ulteriori alla classe proletaria, non è altro che un capriccio del pensiero. Quante volte l'abbiamo già sentito questo ritornello? Per carità, si può pensarla anche così, ma in questo caso è meglio chiudere baracca e burattini, e trovarsi un hobby. Dedicarsi alla teoria del superamento del modo di produzione capitalistico non è un obbligo.

Resta il fatto che se non ci fosse nulla, ma proprio nulla, nel rapporto di classe capitalistico, a suggerire la possibilità di un «totalmente altro», questa teoria – anche nelle sue varianti a-classiste o post-classiste contemporanee, di cui MC non è l'unico esponente – non esisterebbe nemmeno. Invece qualcosa evidentemente c'è. Questo qualcosa è «la crisi»? Lasciamo stare per un attimo il fatto che ci sono crisi e crisi, e nonostante una comune origine, ognuna presenta caratteristiche specifiche. Lasciamo pure stare che anche nella crisi più profonda, le perdite si ripartiscono in maniera ineguale tra i singoli capitali – salvo pensare che tra essi non vi siano rapporti di forza in funzione della taglia, dei segmenti di mercato di ciascuno, e di mille altri fattori. La crisi, intesa nella sua astratta generalità, non è mai altro che la manifestazione della divergenza fra le capacità di produzione sviluppatesi in seno al modo di produzione capitalistico, e la possibilità di farle funzionare in modo profittevole come valore che si valorizza. Una volta detto questo, cosa abbiamo detto? Che il modo di produzione capitalistico non esiste per il bene dell'umanità? E sia. Che questo modo di produzione è per definizione instabile? Vero. Che esso può togliere, da un giorno all'altro, ogni fonte di sostentamento a parti consistenti dell'umanità? Bene. E allora? Mi si scuserà se insisto: porre la contraddizione non equivale a scioglierla d'anticipo. Anche nel caso di una iper-crisi assoluta, non ci si può in tutta serietà immaginare un seguito esente da conflitti, ovvero senza tentativi locali di rilancio della produzione e dello scambio di merci – foss'anche con mezzi di fortuna o in forme aberranti – e senza tentativi opposti volti ad impedirli. Per non parlare dell'incognita rappresentata dalle forme spurie, di transizione al capitalismo, ancora vigenti nelle campagne di mezzo mondo17 (si pensi alla mezzadria in India), di cui sarebbe impossibile prevedere la reazione di fronte al disfacimento del contesto capitalistico circostante. Da questo punto di vista, il materiale storico splatter/gore non manca per far lavorare l'immaginazione.

La morale della favola è che la teoria della crisi è un elemento essenziale della teoria comunista, ma non è un passe-partout. C'è una porta in particolare che non può aprire, ed è quella del passaggio ad una nuova forma di produzione e riproduzione della vita materiale. Qui, come altrove, minimizzare il ruolo della lotta di classe equivale a rimettersi alla buona volontà di individui generici, privi di attributi sociali. «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Luca, 13, 23-24). E altrettanti, quella porta stretta, cercheranno di chiuderla in ogni modo.


[febbraio 2020]

Note
1 Disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2020/01/classi-medie-e-parole-in-liberta.html.
2 Dino Erba, I «nuovi marxisti» alla (ri)scoperta delle «nuove» classi medie, 27 dicembre 2019.
3 Disponibile qui: http://www.michelecastaldo.org/index.php?option=com_content&view=article&id=203:ceto-medio-e-suo-movimento-in-questa-fase&catid=40:articoli&Itemid=29.
4 I due testi sono disponibili qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2017/09/il-menage-trois-della-lotta-di-classe.html e qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2018/09/il-menage-trois-della-lotta-di-classe.html.
5 «Le classi medie: un’ennesima pietra d’inciampo per l’opportunismo. Non solo la loro esistenza, ma soprattutto la loro crescita, starebbe a dimostrare la falsità del marxismo. Marx avrebbe proclamato semplicemente che la società capitalistica avrebbe assistito alla loro scomparsa e non sarebbe stata costituita che da capitalisti e proletari. Senonché […] si tratta solo di un tessuto di menzogne.» (Jacques Camatte, Il capitale totale. Il «capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell'economia politica, Dedalo, Bari 1977, pp. 156-157).
6 Cfr., circa la natura di tale maggiorazione, e in generale del reddito della classe media salariata, la trad. it. della bozza del secondo capitolo di Le ménage à trois de la lutte des classes (vedi nota 2).
7 In realtà, più che di legge del valore, bisognerebbe parlare, già a questo livello, di legge dei prezzi di produzione. Nell'ambito della piccola produzione mercantile, come in quello della produzione capitalistica propriamente detta, la relazione che si stabilisce fra i vari produttori privati, e che determina il lavoro sociale medio necessario a produrre questa o quella merce, non è la semplice registrazione di ineguali livelli di produttività al fine di trarne la produttività media. Si tratta di una media disciplinante, nella misura in cui retroagisce sui produttori privati e li costringe a sviluppare le loro produttività rispettive. Questo meccanismo è all'opera anche in contesti precapitalistici decisamente arcaici, per quanto il ritmo di sviluppo della produttività del lavoro possa sembrare lento o quasi impercettibile.
8 Si vedano, ad esempio, le considerazioni di Marx a proposito del profitto commerciale: «Qualora il capitale commerciale desse una percentuale di profitto medio superiore a quella del capitale industriale, una parte del capitale industriale si trasformerebbe in capitale commerciale. Qualora desse un profitto medio inferiore, si verificherebbe il movimento opposto.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, IV sezione, cap. 17: «Il profitto commerciale»). In merito al profitto del capitalista monetario (capitale produttivo d’interesse), va osservato che esso in realtà non partecipa alla perequazione generale come frazione particolare del capitale improduttivo, ma la attraversa per così dire orizzontalmente, senza distinzione fra capitale produttivo e improduttivo: «Il profitto di ogni capitale, quindi anche il profitto medio fondato sul livellamento dei capitali tra di loro, si suddivide o si scompone in due parti qualitativamente diverse, autonome l’una rispetto all’altra ed indipendenti l’una dall’altra, interesse e guadagno d’imprenditore, che sono entrambi regolati da leggi particolari. […]» (Karl Marx, op. cit., V sezione, cap. 23: «Interesse e guadagno d'imprenditore»). Nello schema a pagina 6 facciamo astrazione da questa circostanza.
9 Per ciò che concerne le imposte (dirette e indirette) che pesano sui redditi da lavoro dipendente, bisogna tenere presente che la classe capitalista è obbligata ad includere le quote corrispondenti nei salari, affinché il prelievo da parte dello Stato sia possibile. Ciò avviene con più o meno facilità, a seconda della congiuntura economica.
10 Marx stesso sottolinea quest'effetto della perequazione: «Il saggio medio del profitto del capitalista, sfruttatore diretto [cioè il capitalista la cui impresa produce plusvalore, ndr], esprime quindi un saggio di profitto più piccolo di quanto esso non sia in realtà.» (Karl Marx, op. cit., IV sezione, cap. 17: «Il profitto commerciale»).
11 «Quando Smith spiega la caduta del saggio di profitto con la superabundance of capital, accumulation of capital, si tratta allora di un effetto permanente, e ciò è errato. Invece una transitoria superabundance of capital, sovrapproduzione, crisi sono cose diverse. Crisi permanenti non ce ne sono.» (Karl Marx, Teorie del plusvalore, Quaderno XIII, cap. 17: «Teoria dell'accumulazione di Ricardo»).
12 Il Lato Cattivo, Della difficoltà ad intendersi. Risposta a Dino Erba, gennaio 2017; disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2017/01/della-difficolta-ad-intendersi.html.
13 Amadeo Bordiga, Miseranda servitù della schiappa, in «Il programma comunista», n. 11, 1954, pp. 3-4. Disponibile qui: http://www.sinistra.net/lib/bas/progra/valu/vakufdedii.html.
14 Dino Erba, Curdi, Italia e sovversione sociale, 15 ottobre 2019.
15 En passant, mi permetto di far notare che MC qualifica frettolosamente i gilets jaunes (2018-19) come un movimento di «ceti medi», equiparandoli al Movimento 5 Stelle. In realtà, la partecipazione proletaria, se non strettamente operaia, al movimento dei gilets jaunes è stata considerevole, anche se non tale da dissolverne il connotato interclassista.
16 Bruno Astarian, Solitudine della teoria comunista, novembre 2017. Disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2017/11/solitudine-della-teoria-comunista.html.
17 A questo riguardo, la teoria della rendita di Marx e la sua esegesi bordighiana sono ancora straordinariamente attuali, in particolare in merito alla propensione del capitale a investirsi più volentieri nelle branche non agricole piuttosto che in quelle agricole, da cui la lentezza dello sviluppo della produttività nelle seconde rispetto alle prime.

Comments

Search Reset
0
Fabrizio
Tuesday, 03 March 2020 21:40
Caro Michele, cari tutti,
per ragioni di spazio ti rispondo qui:

https://www.dropbox.com/s/kqs25bp5xx8w4y3/Risposta%20a%20Michele%20Castaldo.pdf?dl=0

F.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Saturday, 15 February 2020 23:03
Caro Michele, ho avuto modo di leggere uno dei capitoli del lavoro Le ménage à trois… e mi sono trovato d’accordo (vicendevolmente e reciprocamente preoccupiamoci…) sulle tue osservazioni rispetto alla definizione di proletariato. La prenderei comunque “fraternamente” : autori che intendono la rivoluzione come storia, e storia di tutta una società, hanno una marcia in più; tuttavia, Kant sarebbe contento davanti a tanta normatività. Paradossale, no? Niente attivismo (suppongo sia la stessa definizione in voga nella sinistra comunista), ma ecco come potete interpretare il mondo. E ancora, ben vengano le analisi che misurano le masse in movimento per definire le classi, e mettere in risalto i parametri dell’attivismo come indicatori (certo l’osservatore non contamina il dato, professandosi immune da attivismo); tuttavia, se non appare agli occhi del mondo (esterno al fenomeno indagato) o se non passa l’esame (non raggiunge la ‘massa critica’?), allora appartiene a qualcun altro. A parole, questo non deve necessariamente essere il nemico; infatti, viene fatto l’accenno ai rentiers per sdoganare marxianamente la categoria della terza classe. Ma quelli lo sono per davvero, già garanti dell’accumulazione, e veri convitati di pietra in molti dei casi studio; rimandano a Bordiga, vero, e posso capire che quando si parla del commendatore bisogna stare attenti, molto attenti a quel che si dice. Come fanno a evitare che un lettore non scivoli nell’errore di guardare ai CMS come tutt’uno con il nemico di classe? Ben venga ricordarci che Marx ed Engels hanno soppesato bene il nome di proletario, e certamente oggi dobbiamo ricordarcelo bene che il padre padrone di famiglia non ha ius utendi et abutendi di prole e donne, che quella forza-lavoro non gli appartiene. Ma le classi dominanti si trovano comunque davanti tutti coloro che hanno come unica risorsa per campare quella di vendere la propria forza-lavoro. Ne tengono una statistica dettagliata, persino delle ore di sciopero. Persino delle ore, veramente, vedi il libro di Simone Fana. Dipende poi dall’accumulazione se un ragazzo si trova, e non a lungo, operaio o mimo al supermercato. Si potrebbe dare una definizione per differenza, ma come succede agli econofisici e a Piketty, anche per questi compagni vengono alla luce figure intermedie e contigue nella realtà sociale con il proletariato, tipo la CMS inferiore (inferiore : vicina al proletariato, che sfiga). Il teatro privilegiato, la grande città (se poi il movimento parte da altrove, non importa fin quando non arriva al centro; si sa, la rivoluzione o la si fa nel bacino della Ruhr o niente). En fin, mi sembrano interessanti e da seguire. Unico appunto metodologico, che partendo da un modello di proletariato idealtipico, per farci stare dentro tutto vanno indietro fino a sfrondare del profilo demografico una popolazione, come per l’Iran. In questo modo, il milite ignoto proletario rimane un numero, privo di milite, privo di proletario. Ignoto, quello nessuno si azzarda a toglierlo. Un abbraccio
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Michele Castaldo
Saturday, 15 February 2020 19:38
Cari compagni,
voi scrivete:
«Comunque sia, a più riprese, nel corso del nostro lavoro, abbiamo sottolineato come nelle fasi insurrezionali della lotta di classe, viga fra proletariato e capitale una logica di puro scontro, e come in essa la classe media salariata si situi necessariamente DALLA PARTE DEL CAPITALE e contro il proletariato insorto.».
[R. F., maiuscolo mi[censored].».
Potreste indicare quali sono state le fasi insurrezionali? E le circostanze in cui il proletariato è stato nella logica di puro scontro?
Noi, di una certa tradizione ideale dovremmo immaginare di discutere con un uditorio oltre noi stessi e innanzitutto non in maniera ideologica.
In Italia, tanto per fare un esempio al quale spesso ci si riferisce un certo ceto medio - e sottolineo un certo - funse da base sociale del fascismo, ma poi ci fu l'imprimatur della grande industria, come ben dovremmo sapere. Ma non si trattò di fase insurrezionale. Semmai dovremmo considerare quegli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione in Russia tutt'altro che insurrezionali, in modo particolare dopo Bakù. E la scelta di scindersi dal Psi dei comunisti che diedero vita al Pcd'I aveva due caratteristiche: 1) rompere l'isolamento che si era costituito intorno alla Russia dei Soviet; 2) rafforzare la spinta ideologica della corrente comunista in Europa e nel mondo.
Ma che si trattasse di fase insurrezionale è tutto da dimostrare.
A meno che non si voglia sostenere che in Germania fu sconfitta la rivoluzione proletaria. Se così veramente vogliamo leggere la storia inforcando gli occhiali dell'ideologia.
Peggio ancora se dovessimo sostenere la tesi di Del Carria: Proletari senza rivoluzione, che addebita all'assenza di veri dirigenti rivoluzionari la mancata rivoluzione in Italia.
La rivoluzione è una cosa troppo seria per essere trattata alla stregua di cavallo cui mettere la cavezza, e Del Carria dimostra con i suoi scritti di stare lontano anni luce dal materialismo per una ragione molto semplice: se una rivoluzione è matura si compone nello scontro in partito ed esprime i suoi diretti dirigenti e con essi il programma, Si tratta dell'ABC del materialismo come possiamo leggere in Giordano Bruno molto prima che in Marx.
Dunque vi chiederei, se lo ritenete importante, chiarire. q
Secondo punto.
Voi scrivete:
« Il proletariato, così come non possiede alcuna essenza rivoluzionaria, allo stesso modo non possiede alcuna essenza conservatrice».
Scusate cari compagni: se il proletariato non è né carne né pesce, cosa è? Quale categoria bisogna usare per definirlo?
Nel materialismo ci sono categorie chiare e nella teoria che descrive le relazioni ed i rapporti sociali ci sono termini che bisogna usare per definire i rapporti fra le varie componenti di un movimento storico come nel caso in specie del modo di produzione capitalistico.
La mia affermazione: il proletariato è conservatore nel modo di produzione capitalistico, nasce con esso e con esso muore intende spiegare il legame complementare che tiene insieme - con ruoli diversi - a un'altra classe, due classi fondamentali del modo di produzione. Sicché il soggetto della rivoluzione non può essere una parte contro l'altra, come ipotizzato da Marx nel Manifesto. Non ci può essere capitalista senza il proletario come non potrebbe esistere proletariato senza capitalismo. Entrambi si tengono in un rapporto di produzione e riproduzione all'infinito fino alla saturazione di ogni possibilità di ripetere quel diabolico meccanismo di M-D-M e D-M-D'.
Il proletariato è conservatore nel senso del determinato storico, non per coscienza, non per consapevolezza, no, ma per determinato storico. Nell'implosione del modo di produzione gli oppressi e sfruttati si ricompongono in movimento che transita dal capitalismo in Nuovi e Diversi rapporti che al momento non siamo in grado di immaginare. Chi lo ha tentato non ha fatto altro che trasferire al futuro la confusione mentale del momento, come Korsh, tanto per citarne uno a caso.
Su altre questioni si potrebbe discutere a lungo, ma ci deve essere da parte di tutti noi la volontà a capire, se no è tutto inutile. Siamo in una fase APERTA, MOLTO APERTA, all'interno della quale alcune categorie ideologiche non aiutano a capire.
Fraternamente, Buon lavoro.
Michele Castaldo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Saturday, 15 February 2020 00:09
Grazie, Michele, per quel Fraternamente. Sai che a volte ci si capisce meglio se si parte dalla fine, e non dall'inizio. Comunque,dici che "le leggi dell'accumulazione del modo di produzione non fanno sconti alla volontà dei comunisti". Rendere pariglia? Nella dittatura del proletariato, "le leggi dei comunisti non fanno sconti alla volontà dell'accumulazione". Un abbraccio
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabrizio B.
Friday, 14 February 2020 18:19
POST SCRIPTUM

Quando si assolutizza uno dei due aspetti definitori della contraddizione (antagonismo e unità), assegnando al proletariato una qualsivoglia “essenza”, si è condotti ineluttabilmente ad una impasse, che si cercherà allora di aggirare cercando la “soluzione” fuori dal rapporto tra le classi (avvitandosi così in una serie di paradossi teorici senza fine). Nell’un caso, ad esempio, introducendo la problematica (idealistica) della “coscienza di classe”; nell’altro, andando alla ricerca di nuovi quanto improbabili “soggetti rivoluzionari” alternativi al proletariato.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabrizio B.
Friday, 14 February 2020 17:15
Caro Michele,

rispondo qui di seguito, in modo estremamente sintetico, alle tue considerazioni:

1) Riguardo alla presunta "voglia [degli autori] di fare qualcosa nei confronti di settori sociali che colpiti dalla crisi scalpitano [leggi: i ceti medi] ", senza nemmeno bisogno di conoscerne l'intera produzione teorica - e dunque l'impostazione rigidamente CLASSISTA e la distanza siderale da QUALUNQUE VELLEITÀ ATTIVISTICA - è sufficiente leggere questo passaggio per smentirla:

«Comunque sia, a più riprese, nel corso del nostro lavoro, abbiamo sottolineato come nelle fasi insurrezionali della lotta di classe, viga fra proletariato e capitale una logica di puro scontro, e come in essa la classe media salariata si situi necessariamente DALLA PARTE DEL CAPITALE e contro il proletariato insorto.» [R. F., maiuscolo mio].

Dunque, sarebbe meglio evitare le dietrologie ed attenersi ai fatti, specie se non si conosce il quadro teorico generale all'interno del quale si colloca uno scritto, soprattutto se d'occasione come quello qui sopra.

[Cfr. anche il citato Bruno Astarian, “Solitudine della teoria comunista”, novembre 2017; disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2017/11/solitudine-della-teoria-comunista.html.]

2) Riguardo alla questione del "SOGGETTO DELLA STORIA", al di là delle considerazioni svolte dall’autore dell’articolo (che condivido), penso ti vada riconosciuto il merito di avere rilevato, qui e altrove, ciò che la maggior parte dei marxisti, o presunti tali, si rifiuta di vedere. Quella che tu chiami "la complementarità – e gli autori di “Le ménage à trois” la "IMPLICAZIONE RECIPROCA" delle classi – rende effettivamente impossibile che il proletariato possa assurgere al ruolo di soggetto autonomo. Il rapporto sociale capitalistico è rapporto contraddittorio tra le due classi fondamentali del modo di produzione. "Rapporto contraddittorio", appunto, cioè – per definizione – allo stesso tempo di opposizione (antagonismo) ed unità (implicazione reciproca). Solo da qui, dal cuore di questo rapporto, e da nient'altro, può venire il "superamento".

«Del resto, affermare come fa [Michele Castaldo], che il soggetto della storia non è una classe particolare, ma il rapporto stesso, non esclude che il movimento di quest'ultimo si dia ATTRAVERSO L’AZIONE DI CLASSI DISTINTE. E comunque, coglierne la contraddizione motrice non equivale a porre ipso facto la necessità del suo scioglimento.» [R. F., maiuscolo mio]

Il proletariato, così come non possiede alcuna essenza rivoluzionaria, allo stesso modo non possiede alcuna essenza conservatrice. Se lasciamo le essenze ai filosofi e proviamo ad essere materialisti, ad esempio comprendendo criticamente i caratteri delle lotte di classe attuali, possiamo allora vedere come – malgrado E in virtù della propria collocazione all'interno della riproduzione del capitale – il proletariato possa abolire il rapporto sociale capitalistico, non già costituendosi in soggetto autonomo ed affermandosi come classe del lavoro produttivo, ma NEGANDOSI IMMEDIATAMENTE COME TALE, e con ciò abolendo il capitale e tutte le classi. Come? La questione sarebbe troppo lunga da affrontare qui, e per ciò ti rimando alla produzione dei due autori e a quella (per restare in Italia) del blog/rivista "Il Lato Cattivo" (nella fattispecie il secondo numero della rivista e l'articolo "Foto dal finestrino", entrambi disponibili qui: http://illatocattivo.blogspot.com/).

3) Dal momento che nemmeno tu l’hai fatto, non entro nel merito del problema delle classi medie salariate, che pure costituisce il nocciolo dell'articolo di R. F.

Spero, malgrado la concisione, di essere stato sufficientemente chiaro.

Saluti,

Fabrizio
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Franco Trondoli
Wednesday, 12 February 2020 13:34
Michele Castaldo#2. Caro Michele, grazie dei Tuoi ,sempre saggi, interventi. Cordiali Saluti
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Michele Castaldo
Wednesday, 12 February 2020 08:38
Cari compagni Bruno e Roberto,
come ho scritto nel mio articolo non ho letto il vostro libro (tra l'altro parlo solo l'italiano oltre al napoletano) ed ho preso spunto dalla recensione critica di Dino Erba per trattare di un argomento che è all'ordine del giorno, ovvero il ruolo - se lo ha - del ceto medio in questa fase.
Ho notato che dedicate la seconda parte del vostro commento, qui esposto, ad alcune mie tesi; come dire: forse ho toccato un nervo scoperto, quello del ruolo del soggetto della storia in generale e della rivoluzione in particolare. Capisco che nella "voliera della sinistra" , come ho definito il dibattito della sinistra in questa fase, nessuna voce ascolta l'altra e ognuno canta il proprio canto. Se mi posso permettere, vorrei pregarvi vivamente di leggere con maggiore attenzione il mio scritto - visto che lo volete criticare - per contribuire positivamente al dibattito, come cerco di fare da molti anni questa parte.
Il punto centrale intorno a cui ruotano alcune mie tesi è il ruolo del soggetto della storia e nello specifico la critica al punto di vista di Marx e Engels espresso nel Manifesto sul proletariato "unica classe veramente rivoluzionaria" sul quale ci siamo educati un pò tutti dopo aver buttato il cuore oltre l'ostacolo.
Ripeto qui la tesi: nego che il proletariato possa avere un ruolo autonomo e rivoluzionario nel modo di produzione capitalistico. Esso in quanto classe complementare nasce con il capitale e morirà con esso.
E aggiungo, per lo sconforto degli innamorati di certe tesi, che in quanto classe di un modo di produzione è conservatrice fino alla sua fine.
Questo vuol forse dire che non lotta o non abbia mai lottato? Evidentemente no!
Voglio solo affermare - in contrasto con tutta una tradizione innamorata d'esso - che:
a) non può avere un ruolo autonomo;
b) cresce di condizione con la crescita dell'accumulazione in modo particolare nei paesi occidentali anche grazie ai proventi dei superprofitti dovuti all'oppressione e allo sfruttamento delle colonie dai paesi non capitalistici o pre-capitalistici;
c) che col decrescere dell'accumulazione va in crisi, arretra paurosamente e si lega al proprio capitalista e al proprio capitalismo nazionale.
Si tratta di semplici considerazioni ricavate dai fatti; in modo particolare in questa fase.
Quanto al "lapsus" sulla lotta degli operai nella Germania dell'est del 1953, rileggete con maggiore attenzione e vi rendete conto che non c'è nessun "lapsus" ma solo la precisazione che le leggi dell'accumulazione del modo di produzione non fanno sconti alla volontà dei comunisti. Tutto qua.
In chiusa, come dire, lo sconforto, quando scrivete:
«Quante volte l'abbiamo già sentito questo ritornello? Per carità, si può pensarla anche così, ma in questo caso è meglio chiudere baracca e burattini, e trovarsi un hobby. Dedicarsi alla teoria del superamento del modo di produzione capitalistico non è un obbligo».
Vorrei in questa sede ricordare che una certa Rosa Luxemburg - di cui consiglio umilmente la lettura di L'accumulazione del capitale - morì da combattente per la causa del comunismo dopo aver teorizzata la teoria del crollo del modo di produzione capitalistico. Lei riprese il Capitale di Marx e lo portò fino alle estreme conseguenze e le sue previsioni si rivelarono esatte e mandarono in crisi la socialdemocrazia, cioè il suo stesso partito.
Non sono abituato a fare dietrologia e non la faccio neppure in questa occasione, ma dal vostro scritto rilevo la voglia di fare qualcosa nei confronti di settori sociali che colpiti dalla crisi scalpitano. Sano sentimento, ci mancherebbe. Con un'avvertenza: il po-po-lo (come diceva un mio vecchio amico ad Acerra) è un sostantivo con tre zeri, che può essere?
Passando dal faceto al serio sempre la Rosa L. - un poco più seria di noialtri, scriveva:
«Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thàlatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abbietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra. Bel capitano sarebbe uno che dirigesse il corso della nave solamente in base all’aspetto momentaneo della superficie delle acque e che non sapesse prevedere l’arrivo delle tempeste in base ai segni del cielo e del mare».
Dice bene Franco Trondoli: «Non sappiamo COSA succederà. Sappiamo CHE succederà, ma non cosa e come». E aggiungo: l'importante è stare al nostro posto senza illudersi di mettere la cavezza al movimento e portarlo secondo i nostri desideri.
Fraternamente
Michele Castaldo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Franco Trondoli
Tuesday, 11 February 2020 23:22
Studi infiniti e valenti Studiosi che si spendono per "stare dietro" al Capitalismo. Non è uno scherzo. Ma alla fine si aspetta sempre Godot. La "lotta di classe" che compiutamente non arriva mai a fare la "Rivoluzione" decisiva. Ormai mi sa che si diventa "politicamente scorretti" anche se si dice che non c'è "lotta di classe", ne ci sarà "Rivoluzione". Non si è di sinistra se non si accettano questi dogmi teorici. Teorici, perché di Pratico, "Rivoluzioni Socialiste" non se ne sono mai viste. Le "Rivoluzioni Borghesi" ,fatte da altri, hanno tutte perso...Restaurazioni Inglesi,Francesi, Americane.. La Rivoluzione Americana ha prodotto Reagan alla fine..!. No ! Per me non funzionano così le cose. La Storia dei Tempi Moderni è un processo continuo di estensione globale del modo di produrre e di vivere Capitalistico. Quello che vediamo è un progressivo snervamento di una totalità che ha raggiunto il suo apice. Lo snervamento avviene in tutto l'insieme delle condizioni materiali, sociali e ambientali del vivere. Gli uomini non decidono questi "salti". È il loro rapporto impersonale con le forze produttive e tecniche che produce il "tilt". Al di là della loro volontà. Non sappiamo COSA succederà. Sappiamo CHE succederà, ma non cosa e come. Restiamo a guardare ?. Si e No. Per ognuno viene, verrà, il suo momento. Cordialmente
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit