L'Italia ai tempi di Monti. Una nota sulle proteste delle ultime settimane
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere;
in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere (Q. 3, paragrafo 34)
Una premessa, banale: i movimenti sociali sono sempre faccende complesse, dalle molte sfaccettature, che non ci consegnano mai una “forma” pura rispetto a cui noi dobbiamo semplicemente schierarci, e che non consentono indebite astrazioni che isolino un aspetto per esaltarlo o demonizzarlo. Questa complessità non ci deve però mai impedire di pronunciarci e agire, soprattutto se pretendiamo di voler cambiare le cose.
In questo documento non si tratterà quindi di giudicare le cose in base a presunte affinità o divergenze, ma di provare a capire cosa sta succedendo intorno a noi per cercare magari di formulare e praticare un’azione alternativa, più strutturata, forse più efficace. Invece tutto quello che si è detto sugli avvenimenti delle ultime settimane, dalla mobilitazione dei tassisti a quella dei “forconi”, ha oscillato fra movimentismo ed esaltazione per qualsiasi cosa faccia casino, e un disinteresse che soltanto la caccia (peraltro esclusivamente telematica) al “fascista infiltrato” è sembrata scuotere…
Nelle prossime righe vorremmo provare a smarcarci un po’ da queste posizioni e recuperare qualche categoria che ci permetta di capire in generale che sta succedendo, per poi tentare di contestualizzare questi movimenti, in modo da non scadere nelle pessime abitudini che ormai contraddistinguono l’azione politica dal basso.
Infatti questa tende troppo spesso o a scambiare l’estetica del conflitto con il conflitto reale (secondo un attivismo esasperato che conduce nel migliore dei casi a stancarsi, nel peggiore a fare gli utili idioti di qualcun altro), o a diffondere microinchiesta e notizie sballate su chi stia “dietro” certi avvenimenti (secondo una logica del complotto e della cospirazione che va sempre contestata perché intimamente “apolitica” ed anti-materialistica)…
In realtà basterebbe parlare con qualsiasi lavoratore per vedere come un certo istinto di classe legga molto meglio di tante analisi la situazione: dei forconi se ne è discusso, anche perché se ne è avvertito il disagio (aumento dei prezzi sui generi di prima necessità, difficoltà per famiglie con bambini e anziani etc), non li si è biasimati perché si condivide una certa ostilità al governo e una sfiducia nel futuro, ma non li si è appoggiati perché si è sentito che non sono dei “nostri”, che le loro vertenze non parlano a tutti. E forse è proprio questa “intuizione” che dovremmo articolare, facendo un preliminare passo indietro.
Le manovre del governo e la posta in gioco delle liberalizzazioni
Per capire la concitata fase attuale, proponiamo quindi di partire dall’azione di questo governo. In tempi “normali” non sarebbe una buona abitudine, perché ogni governo è sempre espressione di un blocco sociale particolare e di un personale politico specializzato, relativamente indipendente, che – per quanto esprima le esigenze e la visione del mondo della classe dominante – tende a “interpretare” i messaggi che questa classe gli lancia con le sue agenzie, i suoi centri studio, le sue pressioni. Così, in “tempi normali”, ad analizzare quello che dice il governo ci si perderebbe dietro ad un mucchio di diversioni, falsi problemi, interessi di partito, di correnti e di leader...
Ma questi, appunto, non sono “tempi normali”. La crisi economica impone che si prendano decisioni in tempi rapidi e che le decisioni vadano in un senso solo. Il governo Monti ha dunque una peculiarità rispetto ai precedenti: quella di esprimere direttamente ciò che vuole il grande capitale (i grandi gruppi finanziari, bancari e imprenditoriali), in questo momento egemone nel paese. Così i problemi e le soluzioni che pone sono in una certa misura reali, sono i problemi e le soluzioni posti in tutto il mondo dal capitalismo più “avanzato”. Anche per questo l’ideologia del governo non è la semplice menzogna tipica dell’era Berlusconi, ma si manifesta su tutt’un altro terreno, molto più pericoloso, come vedremo fra poco.
Ora, secondo il governo Monti ed una parte consistente della borghesia, per uscire dalla situazione di crisi in cui l’Italia, dentro la crisi più generale, si è ritrovata, bisogna intervenire su diversi fattori: contrazione della spesa pubblica, recupero dell’evasione fiscale e soprattutto riforma del lavoro. Questo perché per avere credibilità sui mercati bisogna far ripartire la crescita, e la crescita deve essere sempre intesa come crescita dello sfruttamento. Quindi servono sia provvedimenti di “razionalizzazione” e dinamizzazione del sistema (miglioramento delle infrastrutture che servono alla circolazione delle merci, incentivi alle imprese giovani e taglio dei costi inutili rappresentati dalla burocrazia, liberalizzazioni ovvero smantellamento delle corporazioni e del monopolio su certi servizi), sia provvedimenti per far diminuire il costo del lavoro, che è la voce più pesante per il “profitto”. Il quale, come si sa, va tutelato in ogni modo perché è l’unica cosa che spinge i capitalisti ad investire.
Per questi motivi l’azione del governo Monti è a tutto campo: la situazione è tale per cui non basta più, come successo fino a qualche anno fa, mettere in cantiere i soliti tagli al settore pubblico e togliere un po’ di potere d’acquisto ai lavoratori. Stavolta si deve intervenire su diverse voci, e devono pagare tutti qualcosa, anche quelli che in questi ultimi anni non hanno risentito troppo della crisi. Da un lato quindi si continua a tagliare sulla spesa sociale, da un altro lato si prova a recuperare un po’ d’evasione, si “attaccano” gli ordini professionali ed anche altri segmenti che, per quanto si siano impoveriti nel corso degli anni, possono pagare ancora qualcosa.
Così la posta in gioco delle liberalizzazioni e delle altre manovre del governo è anche quella di uno scontro interno alle varie frazioni della borghesia, la cui parte ora egemone vuole ridimensionare il potere di certi ordini e di certe categorie sociali che contano ancora troppo, soprattutto visto che non “producono”, anzi spesso sono pure parassitarie. È una posta in gioco anche “ideologica”: si vuole dimostrare che il paese si sta “modernizzando”, sta iniziando a pagare le tasse (anche a questo scopo servono i blitz di Cortina e di Milano), sta semplificando i passaggi burocratici… Il senso complessivo di questi interventi non è tanto o solo quello di aprire spazi di investimento al grande capitale, permettendogli di entrare più facilmente in settori in cui fino a poco tempo fa regnava il piccolo padronato, ma anche di ostentare il fatto che sia finita un’epoca.
Nel complesso il governo Monti sta provando quest’operazione: scaricare quei gruppi di potere e quei ceti che avevano sostenuto nei decenni passati il sistema italiano, perché non ci si può più permettere di negoziare con loro e garantirgli l’esistenza ad ogni costo, e cooptarne di nuovi per garantirsi quel consenso necessario a portare avanti un programma di riforme radicali. Da qui l’ossessione per i “giovani”, a cui si vuole far passare il messaggio: datevi da fare, noi vi sosterremo, chiunque può riuscire, basta avere il talento, lo spirito d’impresa. Il messaggio è dunque duplice: ai “vecchi” si dice che non mangeranno a sbafo come prima, ai giovani che si stanno aprendo grandi possibilità, che lavorando duro si può migliorare la propria posizione – ovviamente come individui e non membri di una classe. Da questo punto di vista le leve ideologiche sono già state individuate: le più evidenti sono il contratto unico ed il tempo indeterminato che porrebbe fine alla “precarietà”, o a come è stata fin’ora intesa (non saremo più ostaggio di una selva di contratti e saremo assunti stabilmente, anche se questo comporterà rinunciare all’articolo 18 e dare il via ai licenziamenti facili), l’indennità di disoccupazione (la retorica utilizzata è quello dello scontro generazionale: perché noi che siamo giovani e forti e perdiamo il lavoro dobbiamo restare a secco mentre ci sono lavoratori vecchi ed iper tutelati che stanno anni in cassaintegrazione e magari dopo prendono una bella pensione?), l’enfasi sulla facilità d’impresa e sulle start up (apri un’azienda, progetta, vendi le tue idee, fatti acquistare da qualche grossa multinazionale)…
Le mobilitazioni delle ultime settimane
Certo, queste manovre del governo Monti trovano un limite nella tendenza quasi “naturale” delle classi dominanti italiane alla conservazione, per cui le riforme si stemperano ben presto in una serie di compromessi. Così, se è notevole il fatto che il numero dei notai sia raddoppiato di un colpo, è certo che il settore non è stato completamente liberalizzato come negli altri paesi europei, e l’accesso resta limitato (considerati anche i tempi dei concorsi, che rendono ancora possibili passi indietro etc). Stessa cosa si potrebbe dire per la questione farmacisti: anche lì si rende più facile aprire nuovi esercizi, ma alle farmacie resta il controllo dei farmaci di fascia C. L’attacco a questa borghesia – che non detiene certo i mezzi di produzione, ma che è discretamente influente nel paese, potendo contare su forti associazioni di categoria, “intellettuali organici” ed esponenti politici, presenza sui media etc – è dunque limitato.
Totalmente diversa è la situazione per altre le altre categorie colpite dai recenti provvedimenti del governo.
Si tratta di una piccola borghesia che ha già visto negli ultimi anni erodersi i propri margini di guadagno e vede ora messa a repentaglio addirittura la propria esistenza come categoria. Una piccola borghesia che è proprietaria dei mezzi di lavoro ma che è anche fortemente indebitata, e fatica duramente (aumentando i tempi di lavoro e diminuendo le tutele per sé e per i propri salariati); spesso "dipendente" di grandi imprese che subappaltano il lavoro sul territorio, come nel caso degli autotrasportatori. Un tessuto sociale di piccoli padroni o di padroni di se stessi, spesso evasori, spesso sfruttatori a nero di forza-lavoro immigrata.
Su queste fasce sociali – agricoltori e piccoli proprietari terrieri, imprenditori del trasporto su gomma, tassisti etc – pesa innanzitutto l’aumento del carburante (una delle loro voci dirette di spesa), i maggiori controlli dell’agenzia delle entrate, i provvedimenti che vanno nel senso della concentrazione e della federazione delle ditte.
Con questa piccola borghesia il governo è meno disposto a scendere a patti, anche perché sa che queste sono categorie destinate in qualche modo all’estinzione, almeno come strutture di potere organizzato. La radicalità delle proteste di queste settimane, per alcuni inaspettata, si spiega in realtà proprio con questi motivi:
a) si tratta di ceti sostanzialmente popolari, nei costumi, nei modi di sentire, che non hanno molti canali per esprimersi fuori di quelli della protesta diretta;
b) sono piccoli imprenditori che ricordano bene i margini di profitto che fino a qualche anno fa riuscivano a fare, e sentono chiaramente – purtroppo molto di più dei lavoratori, reduci da ormai trent’anni di botte – la perdita di ogni privilegio e lo scarto con un passato anche recente;
c) gli si sta chiedendo di rinunciare praticamente a tutto quello che hanno, quando sono già fortemente indebitati (si pensi al costo delle licenze dei taxi, ai pagamenti in sospeso nel settore degli autotrasporti etc);
d) sentono di stare scivolando verso il proletariato, perdendo anche quell’estrema forma di garanzia che era l’assicurazione del lavoro ai propri figli (se infatti diventano salariati assunti da imprese più grandi, non potranno “piazzare” più nessuno).
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