Print Friendly, PDF & Email
infoaut

Difficile transizione...

di Raffaele Sciortino

Il dibattito si è oramai spinto al di là del “caso” italiano toccando un problema più generale: come situarsi nel presente in relazione a un percorso storico di cui si è smarrito quasi il senso o, comunque, dagli esiti apparentemente capovolti rispetto alle premesse. Sottesa alla tesi della dittatura dell’ignoranza è una periodizzazione(1) del post-‘68 come regressione complessiva, dal livello socio-politico a quello antropologico. Senza qui indulgere a false visioni “progressiste”, il problema di quella tesi è che rischia di dare per perso un sapere (e non solo) che non è mai esistito nelle forme che si rimpiangono. Piero Bevilacqua e Mario Pezzella approssimano invece la questione cruciale: la capacità del neoliberismo di presentarsi ed essere accolto come messaggio di liberazione - risucchiando lo strumento principe del movimento operaio: il partito di massa -  e, contestualmente, la capacità del potere di creare un ampio consenso riprendendo e deformando spinte non sue di trasformazione radicale(2).

Lavoro su questa traccia ma utilizzo altri strumenti. Procedo per punti cercando di non farla troppo lunga; e scontando una visuale eurocentrica. Il nodo è, in estrema sintesi, da rintracciare nelle trasformazioni degli stessi soggetti sociali “antagonisti” in rapporto di lotta/spinta/sussunzione con le trasformazioni del capitalismo sulla via del suo farsi globale.

 1. Il dibattito sfiora continuamente il tema dell’esaurimento del lungo ciclo innescato dalla grande trasformazione del capitalismo post-‘29 (in realtà andrebbe considerata l’intera vicenda 1917-1945). Dentro uno scontro durissimo, tra le due guerre si è impostata la risposta di lungo termine delle classi dirigenti occidentali alla lotta di classe radicale innescata dal ’17. Al di là delle innegabili e profonde diversità di regime politico e blocco sociale, fascismi da un lato, new deal e fronti popolari dall’altro (più complesso il discorso sul socialismo in un paese solo della fase stalinista) sono accomunati dal fatto che la risposta a quella spinta rivoluzionaria è tutt’uno con il tentativo di salvare il capitalismo in crisi (a sua volta già profondamente mutato rispetto a quello ottocentesco). Si salva il capitalismo -col “piccolo” particolare di una guerra spaventosa-  modernizzandolo e trasformando in profondità il ruolo dello stato in relazione non a un generico interventismo economico (già allora non una novità) ma al rapporto tra le classi che viene irreggimentato e “corporativizzato” (Pezzella vi accennava a proposito del fascismo italiano). Sono così gettate le basi per il pieno dispiegarsi, nel secondo dopoguerra, di fordismo e stato-nazione keynesiano. E’ intuitivo il perché nello scontro dei  fascismi contro le democrazie e l’Unione Sovietica la working class opera la sua spinta all’interno di questo secondo fronte, nonostante i richiami nazionalsocialisti. Il che di rimando influisce sull’esito finale del secondo conflitto mondiale. Meno evidente è che dietro questa complessa dinamica sta un passaggio di fase epocale verso quella che marxianamente si può chiamare la sussunzione reale del lavoro e via via della società intera sotto la logica e il dominio del capitale: dalla diffusione del fordismo e del taylorismo con la grande fabbrica alla infrastrutturazione via spesa statale, al welfare che investe la riproduzione sociale, fino al graduale assorbimento di tutti i residui non ancora mercificati della sfera culturale, comunicativa, formativa, ecc. Il punto nodale di tutto ciò è che la classe operaia non può più restare fuori dalla riproduzione capitalistica complessiva (ovviamente, in forme e regimi differenti: Usa, Europa Occidentale, più indietro l’Urss, ecc.).

Attenzione a non confondere questa dinamica reale con la tesi francofortese o, da tutt’altro punto di vista, terzomondista dell’integrazione del proletariato occidentale nel neo-capitalismo. La peculiarità del passaggio è, per dirla in una battuta, che sviluppo capitalistico e lotte operaie rappresentano un binomio inscindibile (ancorché pianificato né voluto da nessuno). Il capitale si fa “riformista”; la classe operaia entra dentro il capitale senza perdere la sua soggettività conflittuale, la sua organizzazione sindacale e politica, il suo programma alternativo. Il rapporto di capitale si fa per tutta questa fase “dialettico” (nel senso debole di scontro senza rottura). E’ ciò che permette, insieme alla fine del colonialismo storico e grazie alla disponibilità nell’ecosistema di vasti terreni vergini per l’accumulazione, quella incredibile crescita economica che configura il farsi totale del capitale(3). Un peculiare e nuovo totalitarismo - assai distante dalla vulgata arendtiana- che prelude all’odierna mercificazione spettacolare, alla comunità materiale del denaro.

 

2. Il ’68 mondiale per un verso suggella questa dinamica, per altro verso la incrina definitivamente. (Di qui, anche, l’oscillazione incredibile nello spettro delle interpretazioni). In particolare in Italia questa doppia valenza si rende più visibile con un decennio di lotte radicali su tutto lo spettro della vita sociale che si chiudono però, con il ’77, con una cesura complessiva -composizione di classe, rivendicazioni e organizzazione, vision- rispetto all’inizio. Non è qui possibile fermarsi sulla rottura degli assetti capitalistici in questo passaggio: Vietnam, crisi economica, crisi fiscale dello stato keynesiano, fine di Bretton Woods, rapprochement Cina-Stati Uniti, esaurimento delle coalizioni newdealiste, ecc. Importante è mettere a fuoco che il capitale (in primis statunitense) non ne esce con un ritorno all’indietro ma al contrario accelera la spinta alla propria internazionalizzazione (permane il comando mondiale del dollaro), e nell’approntare una risposta durissima alla ribellione dell’operaio massa pure non perde di vista la necessità di una dialettica con il lavoro.

Questo a sua volta risulta profondamente s-composto. A causa della reazione avversa; ma contestualmente a causa delle trasformazioni indotte con le lotte nella composizione di classe dalla piena generalizzazione del rapporto salariale e di capitale che oramai sussume pienamente anche il ceto medio iperproletarizzato(4). Il produttivismo industrialista dell’operaio massa realizzandosi tende a esaurirsi, mentre l’”interesse generale” della classe-nazione recede di fronte alla dispersione della produzione e del lavoro sull’intero tessuto sociale. La “fabbrica” non scompare, si diffonde, ma non è più il luogo in cui l’operaio (via via anche lavoratore cognitivo e relazionale) è sottratto al mercato, allo scambio. L’interiorizzazione delle ragioni del mercato acquisisce una base materiale che distrugge la precedente soggettività. Ne derivano atomizzazione e perdita del senso di classe sul lavoro mentre si costituiscono meccanismi di compensazione a livello di consumo e di riproduzione sulla base di una sempre più pronunciata e ambivalente individualizzazione. Si avvia così il passaggio “interminabile” al postfordismo e alle nuove forme di politica, muta radicalmente la soggettività del lavoro. Se è così, non c’è allora bisogno di nessuna teoria del “tradimento” per spiegare la parabola del riformismo politico (già partito “di lotta e di governo”) e dei valori della sinistra ben delineata da Bevilacqua.

 

3. Avviciniamoci per salti all’oggi. La tendenza alla mercificazione totale, sostanza sovrasensibile della globalizzazione produttiva finanziaria digitale, resta in contraddittoria tensione con le spinte alla riappropriazione di tempi, beni, relazioni sociali che è il grande lascito del ’68 e in particolare delle lotte sulla riproduzione. Questo non produce la generalizzazione immediata dei comportamenti di lotta della fase precedente sul nuovo terreno sociale e produttivo (secondo l’ipotesi politica dell’operaio sociale(5)). Ma nondimeno fa da base per l’incontro - di nuovo: contraddittorio e ambivalente - tra dinamica capitalistica e spinta dei nuovi soggetti sociali. La forma di questo incontro è, sui due versanti, la finanziarizzazione dei mercati e della vita sociale(6).

L’importante per il nostro discorso è che qui affondano le radici del consenso ampio e trasversale al discorso neoliberista. Questo ha saputo far sue alcune istanze profonde delle lotte e dei desideri del lungo ’68. Emblematicamente Reagan potrà dire che lo stato è parte del problema e non della soluzione! E se non è più possibile pensare, dopo il ’68, ad una emancipazione che non sia autoattivizzazione degli individui, il mercato rilancia l’autoimprenditorialità ai fini della valorizzazione del ”capitale umano”. Non vale solo per l’Occidente. In fondo, cosa è stato il nuovo corso cinese inaugurato da Deng se non l’appello alla “libera” attivizzazione delle risorse individuali (inizialmente attraverso il passaggio della famiglia de-collettivizzata che si fa impresa)? Si potrebbe continuare con gli esempi. Fatto sta che le basi del conflitto di classe ne escono totalmente mutate.

 

4. Mutate sono infatti, in parte, le forme dello sfruttamento. Mentre permangono e si approfondiscono, anche al di là del Sud del mondo, le forme più brutali che però restano nel nuovo contesto pubblicamente “invisibili” - emergono molteplici forme di autosfruttamento del lavoro (mentre parte di quello in rete inizia a subire processi di astrattizzazione e neotaylorizzazione) nonché i vincoli stringenti dell’indebitamento cui risultano sempre più condizionati consumi e riproduzione. E però persiste il richiamo non effimero all’autovalorizzazione delle capacità cognitive e relazionali così come quello della ricchezza virtuale che sembra consentire, in un primo momento, riscontri reali.

Il nodo da cogliere è qui che la finanziarizzazione è la faccia perversa ma non per questo meno effettiva del nuovo, incredibile livello di socializzazione del lavoro e della vita. In controluce traspare la costituzione dell’individuo sociale la cui ricchezza e produttività sta nelle relazioni sociali e nella capacità di autoprodursi in una cooperazione che non conculca le libere individualità(7). Di qui la profonda ambivalenza delle nuove modalità di lavoro e di vita: da un lato la messa a valore sul mercato dei legami sociali, della conoscenza, della vita intera con effetti di precarizzazione e di istupidimento sulla base del “valore d’uso negativo” (T. Perna); dall’altro la ricerca dell’autovalorizzazione non contrapposta a un nuovo modo di concepire i beni comuni, e le potenzialità per sciogliere l’ambivalenza nel conflitto. L’individualità, o comunque la si chiami, è il terreno nuovo dello scontro mentre è andato irreversibilmente incrinandosi il rapporto tra le lotte del “vecchio” movimento operaio e lo sviluppismo industrialista-capitalistico che aveva finora riassorbito gli antagonismi anche i più esplosivi. E’ per questo che le vecchie ricette oggi non sono più sentite credibili quand’anche abbiano avuto la loro ragion d’essere nel passato per soggetti che hanno lottato con sacrifici, sconfitte, parziali vittorie.

 

5. Concludo. Oggi la finanziarizzazione è in crisi profonda e non sarà facile per l’élite globale trovare una exit strategy risolutoria. Del resto la individualizzazione ha sfrangiato anche la borghesia come classe per sé (con qualche chances in più forse solo per paesi come la Cina) mentre l’assenza al momento di un conflitto dispiegato non la aiuta a trovare nuove prospettive e soluzioni. Il capitale spinge all’estremo, sempre più distruttivamente, i propri limiti ponendo il lavoro e la vita futuri come base dei profitti attuali. Nelle parole di Marx: “la valorizzazione consiste nella possibilità reale di una più grande valorizzazione”. Ora, la global crisis in corso è crisi di questo meccanismo. Quindi, da un lato, è un’occasione per le soggettività e i modi di esistenza finora socializzati sulla sua base “perversa” di aprirsi finalmente ad una cooperazione produttiva e relazionale; dall’altro ripropone ancor più la coazione all’arricchimento individuale costi quel che costi. I possibili, opposti esiti dell’“ingratitudine” delle nuove generazioni e dei nuovi soggetti verso quanto il passato sta loro lasciando si giocheranno su questo terreno.

_______

Note:

(1) Fredric Jameson, interprete critico del postmodernismo come logica culturale del postmoderno (fase del capitalismo), scrive che un ripensamento della periodizzazione è “una delle istanze teoriche ormai divenute centrali in quest’epoca profondamente antistorica, ma al tempo stesso avida di narrazioni storiche e di reinterpretazioni narrative di ogni sorta”.

(2) Messaggio suadente e potere consensuale: ritorna il tema di un precedente dibattito di Carta sul fascismo postmoderno o, con un termine differente, sulla post-democrazia contemporanea.

(3) Tra gli anni ’50 e ’60 le analisi di Jacques Camatte -dall’interno della sinistra comunista antistalinista- su Il capitale totale e di Guy Debord per il situazionismo sulla società dello spettacolo anticipano i futuri sviluppi.

(4) Definizione proposta da Romano Alquati, esponente di spicco negli anni Sessanta delle riviste Quaderni Rossi e Classe Operaia, per dar conto della trasformazione radicale della figura dell’operaio massa con l’iperindustrializzazione dell’insieme delle capacità umane.

(5) E’ l’ipotesi proposta da Toni Negri nella seconda metà degli anni Settanta a fronte del passaggio a un diverso ciclo di istanze e di lotte.

(6) Per una fenomenologia di questo processo lucidissima la ricostruzione di Christian Marazzi; per una riattualizzazione del concetto marxiano di capitale fittizio interessante il tentativo di spiegazione del marxista newyorkese Loren Goldner.
(7) Nei Grundrisse Marx parla di “individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono anche assoggettati al loro proprio comune controllo”. Marx non è un teorico della rozza eguaglianza ma del “libero sviluppo delle individualità” non più sottomesse a rapporti reificati di dipendenza dal denaro.

Add comment

Submit