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Nei magazzini di Amazon tra lavoratori e robot

di Isabella Consolati

Sono ventotto i nuovi magazzini Amazon inaugurati in Italia tra il 2020 e il 2021: in soli due anni il colosso di Seattle ha raddoppiato gli impianti, segnando un picco di crescita mai raggiunto da quando, nel 2011, ha aperto il primo centro di smistamento a Castel San Giovanni (PC). Di crisi in crisi, approfittando prima delle conseguenze del crash finanziario del 2008 e della precarizzazione a cui il jobs act ha dato il via libera e poi della situazione pandemica, Amazon ha trasformato la geografia della logistica anche in Italia. Altrettanto velocemente sono cresciute a livello globale le denunce sulle pessime condizioni di lavoro nei magazzini e nel delivery e, da entrambi i lati dell’Atlantico, si sono moltiplicate le lotte e i tentativi di organizzazione a livello non solo nazionale. Il libro di Alessandro Delfanti – The Warehouse. Workers and Robots at Amazon (London, Pluto Press, 2021, pp. 179), una preziosa incursione nel mondo per lo più invisibile che rende possibili le consegne a domicilio – esce dunque in un momento particolarmente propizio.

Nel corso degli anni le attività di Amazon si sono ampliate di molto rispetto all’e-commerce: oggi questo gigante multinazionale funziona come una piattaforma che fornisce prodotti digitali, organizza forza lavoro tramite crowdsourcing, domina il cloud attraverso Amazon Web Service ed è presente nell’industria culturale con Prime Video. Eppure, Jeff Bezos, CEO uscente dell’impero di Seattle, non avrebbe accumulato il capitale che oggi usa per sbarcare nello spazio senza il lavoro di 1,2 milioni di donne e uomini impegnati globalmente nei magazzini nelle operazioni di stoccaggio, raccolta, impacchettamento e consegna. Questa forza lavoro è il pilastro del successo di Amazon, irrinunciabile nonostante l’introduzione di sistemi robotizzati per la gestione e lo smistamento dei pacchi. A fronte delle innovazioni tecnologiche su cui Amazon investe una parte importante del suo capitale, Delfanti avanza una tesi molto chiara: l’automazione in cui Amazon è per molti versi un avamposto non significa fine del lavoro e nemmeno una riduzione del numero di persone impiegate nei magazzini. Tra le tante prove contenute nel libro, c’è il fatto che i magazzini più robotizzati non sono necessariamente i più nuovi, e in nessuno è prevista un’automazione completa, ma un rapporto variabile tra chi lavora e la tecnologia di volta in volta introdotta.

Nelle “fabbriche digitali” di Amazon, la catena di montaggio è sostituita da algoritmi che organizzano il lavoro, incorporando tutto il sapere relativo al modo in cui il lavoro è organizzato. I cosiddetti stower ripongono i prodotti negli enormi scaffali seguendo le istruzioni emesse tramite un algoritmo il quale registra i dati da loro forniti e trasforma i prodotti in codici a cui assegna una posizione secondo un criterio di inventariazione casuale, creando un ambiente imperscrutabile per chiunque. Coloro che ritirano le merci dagli scaffali sono guidati da un decoder che non solo indica loro le posizioni dei prodotti, ma misura anche la velocità con cui eseguono qualsiasi operazione. I ritmi altissimi che ciascuno deve rispettare sono regolati da standard decisi di volta in volta da algoritmi e a loro volta segreti, che lasciano ciascuno nell’incertezza rispetto sia al modo in cui il proprio lavoro sarà valutato, sia alla definizione di orari di lavoro o alla durata dei contratti. Appaltare all’algoritmo la conoscenza del funzionamento e l’organizzazione del processo lavorativo significa assegnare a chi lavora nel magazzino un lavoro comandato in ogni sua parte, oltre a rendere ciascuno altamente sostituibile. Bastano infatti poche ore di “formazione” per essere assunti da Amazon. Anche per questo, oltre che per i ritmi altamente usuranti e i frequentissimi infortuni, il turnover nei magazzini è altissimo e raggiunge in certe regioni il 200% all’anno.

Più che aprire le porte all’obsolescenza del lavoro in quanto tale, l’innovazione tecnologica produce quella che Delfanti definisce “un’obsolescenza pianificata”, in cui ciascuno è assunto con una data di scadenza di breve talvolta brevissimo corso la quale, più che indicare la superfluità quasi naturale del lavoro di fronte all’avanzare delle macchine, è mirata a creare flessibilità, sottomissione e isolamento. Inoltre, mentre alcune funzioni tradizionalmente eseguite da capireparto e manager sono appaltate ai sistemi algoritmici – assegnare mansioni, controllare, pianificare il lavoro –, il magazzino è tutt’altro che una grande macchina automatica che si governa da sé. Si tratta invece di una struttura gerarchica e dispotica in cui, proprio perché non svolgono più funzioni utili all’organizzazione del lavoro in quanto tale, i manager appaiono per quello che sono per così dire “in purezza”: figure di autorità che hanno come principale scopo di garantire la disciplina e impedire sistematicamente qualsiasi contatto tra colleghi che non sia quello comandato nello spazio fittizio dei briefing giornalieri. Non a caso si tratta di figure per lo più selezionate dal mondo militare. La loro funzione è tanto più autoritaria quanto più è perfezionata dalle possibilità di controllo di una serie di software che sorvegliano i singoli movimenti di ciascuno.

Un quadro, questo, che Delfanti supporta attraverso l’analisi delle migliaia di brevetti che Amazon patrocina. Anche nei più avveniristici progetti di robotizzazione è sempre prevista un’integrazione tra lavoro umano e macchina, decantata addirittura come una “sinfonia” in cui umani e robot lavorano insieme. Grande attenzione viene prestata invece al modo in cui è possibile far sì che gesti e comportamenti di chi lavora siano incorporati come conoscenza dalle macchine che in tal modo possono sempre più perfezionarsi.

Rispetto a figure a cui negli anni passati è stato assegnato il compito di rappresentare il futuro del lavoro – Delfanti menziona il precariato metropolitano che è stato al centro di una nuova immaginazione politica dei movimenti nei primi anni duemila – la situazione appare ora molto diversa: «il magazzino diventa oggi l’avamposto del capitalismo contemporaneo … L’attuale battaglia per il futuro del lavoro si combatte nei magazzini suburbani» (17). Per questo Delfanti dà rilievo sul finire del libro alle lotte che hanno attraversato i magazzini di Amazon negli ultimi anni e contrapposto al gigante di Seattle una forza collettiva e in alcuni casi coordinata a livello transnazionale. I magazzini, infatti, non sono isolati, ma parte di un sistema logistico i cui ingranaggi sono dispersi geograficamente ma interconnessi dalla circolazione di dati, denaro e merci. Questo fa sì che Amazon possa trovare strategie immediate di risposta a scioperi e blocchi se questi colpiscono solo un anello della catena logistica.

Alla luce dell’indagine di Delfanti, rimane aperta la domanda sull’opportunità di individuare un avamposto su cui concentrare l’attenzione analitica e politica e se questo non rischi inavvertitamente di produrre ulteriori zone d’ombra. L’illusione per cui i prodotti arrivano da soli nelle case dei consumatori si accompagna all’illusione secondo cui le merci che vengono movimentate si producono da sole. Proprio l’integrazione tra filiere industriali e logistiche costituisce oggi una componente essenziale dell’organizzazione transnazionale della produzione. D’altra parte, nello stesso comparto della logistica, è da dimostrare che esista un “modello Amazon”. Mentre Amazon sta senz’altro influenzando l’operato di molte compagnie di spedizione e avendo effetti a cascata sul sistema degli appalti nel campo del delivery, le situazioni rimangono molto differenziate, tanto a livello di investimenti tecnologici, quanto di composizione della forza lavoro, quanto di iniziativa sindacale. Proprio il caso italiano mostra anzi la strategia di Amazon di inserirsi nel contesto conflittuale dei magazzini della logistica facendo leva su un’immagine di efficienza e successo per offrire un ambiente di lavoro sulla carta migliore e su una gestione del reclutamento che punta sulle “opportunità” occupazionali per guadagnarsi il consenso delle comunità locali. Questo risulta particolarmente evidente se si considera l’altissimo numero di lavoratori migranti e richiedenti asilo che, invece, affollano gli interporti delle principali città italiane in una percentuale superiore rispetto a quanti siano impiegati nei magazzini di Amazon, per quanto Amazon si stia a sua volta affidando in maniera crescente al lavoro migrante per funzionare.

Come Delfanti non manca di mostrare, Amazon riesce a mettere a valore le diverse situazioni sociali e politiche in cui opera, così come i differenziali salariali tra Stati (prova ne è la sua crescita massiccia in Est Europa), per accrescere non solo la sua efficienza, ma soprattutto la sua capacità di comandare, indebolire e isolare il lavoro. Il magazzino funziona perché viene costruito in un ambiente propizio. A fronte di questo, l’altissimo tasso di turnover, più che essere letto solo come un esito della pianificazione aziendale o come un gesto di sottrazione individuale e una sfida alla capacità di organizzarsi dentro il magazzino, potrebbe consentire invece di seguire le direttrici che aprono il magazzino al suo ambiente esterno, un ambiente nel quale andare a colpire collettivamente le condizioni sociali in cui l’isolamento e la frammentazione si rinsaldano e riproducono.

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