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Humboldt: natura, giustizia e libertà

di Telmo Pievani

La biografia del viaggiatore scienziato Alexander von Humboldt svela un personaggio molto influente nell’Ottocento ma poi totalmente dimenticato, dalla vita avventurosa e piena di incontri sorprendenti. Mise insieme Goethe e Simón Bolívar, illuminismo e romanticismo, ambientalismo e anticolonialismo. Darwin lo lesse con ammirazione per tutta la vita, prendendolo a modello

Alexander von Humboldt 499Da una parte, un giovanotto prussiano che preferiva stare nella Parigi di Napoleone piuttosto che nella provinciale e austera Berlino, che di prussiano aveva solo l’educazione rigorosa e il reddito di famiglia, già famoso in tutta Europa per il suo avventuroso viaggio di quattro anni in Sudamerica, tra fiumi, cataratte, foreste pluviali e vulcani. Nel cuore, le idee del 1789. A suo modo figlio della rivoluzione francese, Alexander von Humboldt dopo aver ammirato la scenografia sublime della natura voleva adesso “godersi lo spettacolo di un popolo libero”.

Dall’altra, il terzo presidente degli Stati Uniti d’America, un uomo di 61 anni, vedovo da venti, dimesso e rustico nei modi e nel vestiario, che aveva scritto la Dichiarazione di Indipendenza nel 1776 ed era circondato ora da sette nipotini nella sua tenuta di Monticello in Virginia. Thomas Jefferson aveva molto in comune con Humboldt: la capacità di fare sempre tre cose contemporaneamente, le poche ore bastanti di sonno, un’ansia irrequieta di conoscenza, la smania di misurare tutto, l’amore per la botanica, per il giardinaggio e per le scienze naturali.

L’economia commerciale statunitense girava forte, il Presidente aveva appena comprato dalla Francia la Louisiana e ambiva a espandersi verso occidente, in quel selvaggio west che avrebbe voluto trasformare in una terra di piccole fattorie autosufficienti a gestione familiare. Aveva appena spedito in esplorazione al di là del Mississippi Meriwether Lewis e William Clark per raccogliere informazioni oltre la frontiera e valutare la fattibilità del progetto (ma anche per controllare se esistevano ancora nascosti da qualche parte i mastodonti, cioè i mammut americani dei cui fossili era appassionato raccoglitore). Quando Humboldt sbarcò a Filadelfia nel maggio del 1804, dopo che da L’Havana aveva già scritto al segretario di Stato James Madison esprimendo il desiderio di conoscere Jefferson, quest’ultimo non si lasciò sfuggire l’occasione di carpire preziose informazioni da colui che conosceva meglio di chiunque altro la natura e le società dell’America Latina.

I due si incontrarono a Washington, che a quel tempo assomigliava più a una fangosa cittadina rurale che a una capitale imperiale. La Casa Bianca era un cantiere, con stanze semi-arredate e la biancheria intima del Presidente ad asciugare sulla staccionata. Humboldt divenne per una settimana l’attrazione principale della capitale, invitato a cene e ricevimenti, dove profondeva generosamente i suoi racconti sulle avventure di viaggio in Sudamerica. Ai collaboratori del Presidente diede informazioni decisive sul confinante Messico: organizzazione politica, struttura della società, risorse, clima, flora e fauna (in particolare del vasto territorio conteso che poi diventerà il Texas). Li aiutò a rifare tutte le mappe (pentendosene quarant’anni dopo, quando definirà la guerra degli Stati Uniti contro il Messico un atto di imperialismo).

Jefferson era soddisfatto e grato, al punto da definire Humboldt “l’uomo con le maggiori conoscenze scientifiche del nostro tempo”. I due avevano in comune anche gli ideali di libertà e gli interessi pratici per un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e non intensiva, in quanto prerogativa di libertà e di attaccamento alla repubblica. Non andavano invece per nulla d’accordo sull’istituto della schiavitù: sgradevole ma tutto sommato tollerabile per Jefferson; un’infamia da abolire per Humboldt, al pari del colonialismo. A suo dire, era inutile e sciocco discutere su chi trattava con più umanità i suoi schiavi - se gli inglesi, i francesi o gli spagnoli - perché la schiavitù è una barbarie di per sé (la stessa tesi sarà sostenuta con vigore qualche decennio più tardi da Charles Darwin, influenzato anche da Humboldt).

Liberando gli schiavi, gli Stati Uniti nel breve periodo avrebbero avuto un calo della produzione nazionale, ma giustizia e libertà avrebbero regalato a lungo andare un maggior benessere sociale diffuso. Argomentando queste idee nei salotti buoni di Washington, Humboldt era leggermente in anticipo sui tempi. Così come lo era sulla discriminazione razziale, poiché secondo questo prussiano liberale le razze umane nemmeno esistevano e dunque non potevano essercene di “superiori o inferiori” come quasi tutti pensavano sulla East Coast. Le differenze esteriori erano dovute ad adattamenti al clima, come succede per piante e animali, ma la radice dell’umanità era una sola. Indios e africani facevano parte dell’unica famiglia umana e avevano uguale diritto alla libertà poiché - aggiungeva Humboldt - “la natura stessa è il regno della libertà”.

Rientrato nel 1804 nella Parigi napoleonica, divenne un protagonista della vita culturale della capitale francese, amico del chimico Joseph Louis Gay-Lussac, dell’anatomista e paleontologo Georges Cuvier e del biologo Jean-Baptiste Lamarck, del matematico e astronomo Pierre-Simon Laplace, ma anche di un ricco venezuelano creolo di Caracas in viaggio per l’Europa, il giovanissimo e allora piuttosto dissoluto Simón Bolívar. Le conferenze e le conversazioni con Humboldt furono un’illuminazione per il futuro Libertador, perché mescolavano gli ideali delle rivoluzioni americana e francese, la denuncia per le efferatezze dei colonialisti e degli schiavisti, la descrizione poetica e ispirata della maestosità della natura sudamericana come segno di identità e di riscossa.

Bolívar cominciò a parlare di rivoluzione all’amico tedesco, al quale il venezuelano sembrava però più che altro un sognatore da salotto, inconsapevole dei terribili sacrifici di sangue richiesti da una lotta di indipendenza. E invece dal 1807 Bolívar, tornato in Venezuela, mostrò di fare sul serio. Infervorando i suoi compagni di lotta con discorsi presi paro paro dai libri di Humboldt, e usando le sue preziose mappe, diede inizio alla guerriglia sul Rio Magdalena (esplorato da Humboldt) che lo portò in pochi anni a liberare dal giogo spagnolo gli attuali Venezuela e Colombia, non senza alterni rovesciamenti di fronte e cruente guerre civili interne tra creoli, meticci, schiavi e indigeni.

I testi costituzionali bolivariani e le poesie del Libertador traboccheranno di metafore humboldtiane, intrecciando la bellezza e la saggezza della natura sudamericana, l’abolizione della schiavitù e l’orgoglio dell’indipendenza. Nelle lettere dei primi anni venti, Humboldt si complimenta con il suo amico ex-sognatore per aver conquistato finalmente la libertà per la sua patria e per le leggi bolivariane sulla protezione delle foreste (anche se qualche anno dopo dovrà ricredersi e criticherà Bolívar per i modi troppo autoritari nel governo e per la decisione di auto-definirsi dittatore). Per Bolívar il vero “scopritore del Nuovo Mondo” era stato Humboldt, che ancor oggi in America Latina è citato ovunque.

Tra i libri che più ispirarono il giovane Charles Darwin durante la sua circumnavigazione del globo dal 1831 al 1836 vi era proprio l’avvincente Personal Narrative di Alexander von Humboldt (il cui primo volume era uscito nel 1814), che campeggiava sulla mensola dell’angusta cabina del Beagle. Il naturalista inglese ne ammirava la curiosità intelligente, la prosa immaginifica e l’estrema cura dei dettagli osservativi, tanto da prenderlo come modello metodologico. Ne recitava a memoria interi passi. Era la guida intellettuale e sentimentale alla natura che anche lui stava scoprendo. Quando rientrato a Londra pubblicherà il suo Viaggio di un naturalista intorno al mondo, nulla lo gratificherà più del giudizio “eccellente” espresso nel 1839 da Humboldt (che era stato a sua volta un ammiratore del nonno di Charles, lo scienziato e libertino Erasmus Darwin).

Ma chi era esattamente quest’uomo così influente da essere riverito tanto da scrittori come Samuel T. Coleridge, Henry D. Thoreau, Edgar Allan Poe, Walt Whitman e Jules Verne (che lo cita in molte sue storie), quanto da rivoluzionari come Simón Bolívar, tanto da Darwin quanto dal Presidente Jefferson? E perché oggi Darwin e Jefferson sono molto più conosciuti e studiati di lui?

Nato a Berlino da una ricca casata prussiana, educato ai valori dell’Illuminismo, una gioventù irrequieta scandita da tre rivoluzioni (l’americana, la francese e l’industriale), Alexander von Humboldt diede i suoi primi contributi alla repubblica delle lettere come ispettore delle miniere. Era veloce di mente e di parola, un lavoratore infaticabile. Il tarlo del viaggiatore già gli faceva compulsare con bramosia i diari di James Cook e Louis Antoine de Bougainville. Tra Jena e Weimar, Humboldt nel 1794 divenne amico intimo di Goethe, suo compagno di bevute, passeggiate e discussioni su poesia, natura, galvanismo, geologia e scienze naturali. Goethe diceva che quel venticinquenne era così pieno di sfrenata energia e desiderio di conoscenza che da lui si imparava in un’ora quello che sui libri si poteva apprendere in una settimana (il personaggio di Faust presenta molte somiglianze caratteriali con Humboldt).

Dopo aver percorso mezza Europa in cerca di mecenati, l’occasione per il grande viaggio della sua vita gli venne offerta a Madrid da Carlo IV di Spagna nel 1799. In cambio di un passaporto per le colonie sudamericane, avrebbe rifornito di meraviglie faunistiche e floristiche il gabinetto reale. In Venezuela risalì l’Orinoco scoprendo che il leggendario canale Casiquiare lo collegava al bacino del Rio delle Amazzoni. Avventurandosi a piedi o su canoa per migliaia di chilometri in regioni impervie dove pochissimi europei si erano inoltrati fino ad allora, Humboldt misurava tutto: altitudine, gravità, umidità, temperatura, anche l’azzurrità del cielo. Insieme all’amico francese Aimé Bonpland e ad altri selezionati compagni di viaggio, annotava ed elencava sui taccuini tutte le specie animali e vegetali che incontrava. Raccoglieva campioni di acqua e di aria, insieme a migliaia di reperti minerali e biologici (riportò in Europa gli esemplari di più di 2000 specie botaniche sconosciute a quel tempo). Lui, figlio agiato dell’aristocrazia prussiana, aveva deciso di spendere l’eredità materna nelle durezze delle esplorazioni, di rischiare più volte la vita tra gorghi di fiumi, burroni, uragani, febbri e veleni, di sopportare stoicamente zanzare e ogni altro flagello naturale.

Addentrandosi nella foresta pluviale e arrampicandosi sui vulcani (arrivato nel 1802 quasi in cima al Chimborazo, sulle Ande, fu il primo uomo a sfiorare l’inusitata altezza di 6000 metri), Humboldt sviluppò l’idea che la Terra fosse un unico grande organismo vivente dove tutto era interconnesso, come una forza globale, un’immensa “rete della vita” (metafora che Darwin mutuerà nei suoi taccuini giovanili). Presentato nella bellissima e pluripremiata biografia della scrittrice e storica inglese Andrea Wulf come antesignano dell’ecologismo e inventore del concetto moderno di “natura”[1], Humboldt fu il primo a denunciare le devastazioni ambientali causate dai colonizzatori (“foreste decimate”, brutale sfruttamento delle risorse, caccia e pesca indiscriminate), ad associarle ai cambiamenti climatici (capì che la foresta era cruciale per evitare l’erosione del suolo e rinfrescare il clima) e anche alle indicibili sofferenze inflitte ai popoli indigeni (a suo dire, i migliori geografi e naturalisti, per nulla “selvaggi”). Il lato oscuro della civiltà, scriveva in quegli anni, sta spezzando i fili della natura, creando ingiustizie. Per lui i problemi ambientali erano legati a quelli sociali ed economici in un sistema globale di connessioni tra natura, giustizia e libertà.

La meticolosa registrazione dei fenomeni naturali in Humboldt si accompagnava a una romantica partecipazione emotiva: la natura andava misurata, ma anche abbracciata con le sensazioni e l’immaginazione. Frutto di una memoria visiva prodigiosa, i suoi libri, diari e atlanti traboccano di dettagli analitici, ma tenuti insieme da un continuo sentimento di stupore e meraviglia. In vetta alle montagne diceva di provare l’estasi. Adorava i vulcani e in occasione di un viaggio in Italia ebbe la fortuna di assistere all’eruzione del Vesuvio del 12 agosto 1805. Nettunista convinto, pensava che i vulcani fossero tutti connessi sotterraneamente uno all’altro, in una rete di fuoco e lava che poteva muovere e squassare la crosta terrestre sovrastante. Nella foresta profonda capisce che la natura è anche lotta spietata, un insieme di relazioni collaborative e conflittuali che nel 1866 Ernst Haeckel, rifacendosi proprio a Humboldt e a Darwin, chiamerà “ecologia”.

Dobbiamo a Humboldt scoperte scientifiche fondamentali. Intuì l’esistenza di zone climatiche e di fasce di vegetazione che si ripetevano in tutti i continenti in base a latitudine e altitudine (influenzando su questo il fondatore della geologia moderna, Charles Lyell, che nel 1823 andò a trovare Humboldt a Parigi). Ipotizzò un’antica connessione geologica tra Africa e Sud America. La sua geografia delle piante fu importante per la formulazione della teoria evoluzionistica di Darwin (i due si incontrarono una volta sola, nel 1842, in occasione di una visita di Humboldt a Londra al seguito della corte prussiana, ma la riunione si ridusse a un monologo sconclusionato di quest’ultimo, con gran delusione di Darwin). La visione dinamica e totalmente laica della natura di Humboldt in effetti anticipava alcune idee darwiniane.

Humboldt poi capì il ruolo delle specie chiave negli ecosistemi. Inventò le linee di temperatura e pressione dette “isoterme”. Fu il primo a proporre di collegare l’Atlantico e il Pacifico con un canale attraverso l’istmo di Panama. In marcia da Quito a Lima scoprì l’equatore magnetico e mentre navigava da Lima a Guayaquil notò la corrente oceanica fredda che dall’Antartide sale lungo la costa sudamericana occidentale e che oggi prende il suo nome. In una conferenza a San Pietroburgo del 1829 propose, con successo, la realizzazione della prima rete mondiale di stazioni di rilevamento del magnetismo terrestre.

Nonostante i libri venduti in tutto il mondo e lo stipendio come ciambellano del re di Prussia dal 1806 (un ciambellano alquanto indipendente e molto filo-francese, sospettato da ambo le parti, compreso da Napoleone stesso, di essere una spia), Humboldt morì in povertà il 6 maggio del 1859 dopo aver speso ogni bene in viaggi, ricerche e costose edizioni illustrate. E dopo aver dato alle stampe i primi volumi del suo infinito progetto enciclopedico, dal titolo “Cosmos”, dedicato all’unità organica universale della natura e alla sua trama di relazioni, un tutto intrecciato che desta meraviglia e ammirazione sconfinata senza alcun bisogno di vedere in esso alcun piano trascendente.

Non gli era riuscito di convincere la Compagnia delle Indie Orientali a spedirlo in esplorazione sull’Himalaya. Tornato a Berlino nel 1827 in piena reazione, l’illuminista che era in lui si era messo a tenere conferenze divulgative affollatissime, gratuite e aperte a tutti, comprese le donne. Nel 1828 aveva riunito a Berlino 500 scienziati da tutta Europa affinché imparassero a conoscersi e a lavorare insieme, nel nome di una fratellanza scientifica interdisciplinare e internazionale che ben pochi prima di lui avevano sognato. L’anno successivo aveva avuto finalmente l’occasione per una seconda grande spedizione, questa volta in Russia, su invito dello zar Nicola I. In sei mesi, a quasi 60 anni di età, con la scusa dei rilievi minerari (predisse e scoprì la presenza di diamanti in Siberia) fece 15.000 chilometri in carrozza e a piedi: all’andata, lungo la transiberiana fino ai Monti Altai, al confine con la Cina e la Mongolia; al ritorno, attraverso le steppe passando per il Mar Caspio (e facendo amicizia a Miass con il nonno di Lenin, con il quale forse parlò di tutte quelle rivoluzioni che nella sua vita aveva visto finire nell’autoritarismo e nel culto personale).

Non si era mai sposato, preferendo amicizie maschili che ardono di passione nei suoi epistolari. Nel centenario della nascita, il 14 settembre 1869, si tennero celebrazioni gloriose, con 80.000 persone a Berlino e 25.000 a Central Park a New York. Humboldt era una star mondiale. Il re di Prussia Federico Guglielmo IV esagerò, definendo Humboldt “il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio Universale”. Poi lentamente una coltre di oblio spense la popolarità di questo eclettico poeta della natura che provò a dar voce allo “spirito della natura” sintetizzando illuminismo e organicismo romantico nei suoi “quadri della natura”. Nell’età degli specialismi, passò presto di moda. I sentimenti anti-tedeschi della prima metà del Novecento completarono l’opera di rimozione. Nel frattempo ogni sorta di luogo sulla faccia della Terra gli è stato dedicato. Oltre a parchi, contee e città, sono stati battezzati con il suo nome fiumi, laghi e ghiacciai, baie e promontori, geyser, cime in ogni dove e intere catene montuose, molti minerali, ben 300 piante e 100 animali, e persino un mare sulla Luna. Se un giorno lontano resteranno di noi soltanto i nomi che avremo dato alle cose, la fama di questo eroe perduto della scienza non tramonterà.


Note
[1] Andrea Wulf, 2015,  L’invenzione della natura, LUISS University Press, Roma. Il sito di Andrea Wulf:  http://www.andreawulf.com/

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