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sinistra

Iran sotto attacco tra imperialismo e dinamiche sociali

di Nicola Casale, Raffaele Sciortino

2941b3f8e266a7eb10d3a07edef081afLa recente, nuova crisi delle relazioni tra Stati Uniti e Iran - innescata dall’omicidio preventivo di Soleimani e tutt’altro che conclusa nonostante la de-escalation in corso - permette di aggiornare lo stato di tre questioni cruciali. Innanzitutto, che cosa ci dice dello scontro dentro gli apparati di potere statunitensi in relazione alla direzione da dare alla politica estera? Secondo, le tensioni in Medio Oriente sono arrivate a un punto di rottura, e in che modo esse rispecchiano quelle globali? Infine, in che rapporto stanno lo scontro geopolitico e le dinamiche sociali, non solo in quel quadrante ma in termini più generali laddove le mobilitazioni sociali si confrontano con la realtà della pressione/intromissione imperialista? Di seguito alcuni spunti per una prima, parziale risposta.

 

Incontri ravvicinati in Medio Oriente

Ovviamente non sappiamo come siano andate effettivamente le cose nel momento in cui Trump ha “deciso” di alzare il livello dello scontro infliggendo un colpo duro quanto inaspettato alla dirigenza iraniana. Si possono comunque avanzare due ipotesi plausibili, rispettivamente sul perché della specifica decisione e sulla dinamica interna agli alti livelli dell’apparato statale yankee.

Sul primo versante, è plausibile che l’attacco statunitense abbia mirato a interrompere i canali di comunicazione apertisi tra Teheran e Riyadh, mediati dal governo dell’ex primo ministro irakeno Abdul-Mahdi, eliminando fisicamente lo stratega di parte iraniana di un rapprochement che, se realizzato, sconvolgerebbe letteralmente i rapporti di forza nell’area mediorientale a tutto svantaggio di Washington (qui e qui)1.

Che il regno saudita si sia deciso a questo passo non deve stupire se solo si guarda alle sue rilevanti difficoltà interne - contrastato cambio di guardia al vertice, prospettive economiche non rosee, ingresso non brillantissimo della compagnia petrolifera Aramco nel mercato azionario, tentativo tutt’altro che semplice di impostare una fuoriuscita dalla monocultura del petrolio con il piano Vision 2030, ecc. - ed esterne, coi gravi insuccessi in Siria e Yemen e conseguente problema di che fare dei jihadisti rimasti al momento senza missione, a fronte della dimostrata capacità militare iraniana di colpire i pozzi petroliferi senza alcuna efficacia degli strapagati sistemi U.S. di difesa antimissilistica, mentre il tacito riavvicinamento a Israele, interessato esclusivamente a giocare i paesi arabi sunniti contro Teheran, non ha recato alcun beneficio consistente. Di fondo, la questione è che per Washington il paese dei Saud deve continuare a dipendere dal petrolio venduto in dollari, resistendo anche alle richieste cinesi di pagare in yen quello diretto in Cina! Piani di frammentazione del paese sono da tempo pronti in quel del Pentagono (con la solerte consulenza israeliana), da mettere in pratica al primo serio accenno da parte di Riyadh di giocare una partita un po’ più autonoma, come sarebbe quella dell’agganciarsi alle Nuove Vie della Seta (e forse anche alla fornitura di missili cinesi, oltreché russi), o di un accordo stabile con la Russia sulla distribuzione delle quote petrolifere da produrre (cosiddetto Opec+) nonché, appunto, di un modus vivendi con Teheran.2

Quanto all’Iraq, sono noti i rapporti politici stretti con gli iraniani che hanno finora garantito la tenuta di un minimo di coesione statale anche grazie all’aiuto decisivo, tramite Soleimani, a organizzare una risposta militare e politica contro l’Isis, utilizzato dagli Stati Uniti per frammentare Iraq e Siria. Non meno importanti sono i crescenti legami economici con Pechino, cui va il 30% del suo petrolio: dagli ulteriori investimenti cinesi previsti in campo energetico all’adesione, lo scorso settembre, al progetto delle NuoveVie della Seta. Di fronte a ciò e alla decisione, per ora formale, del parlamento irakeno di chiedere il ritiro delle truppe statunitensi, non solo Trump ha minacciato sanzioni economiche durissime ma la Federal Reserve pare abbia ventilato la chiusura del conto del governo irakeno con il taglio delle forniture di dollari (https://www.zerohedge.com/geopolitical/if-us-does-itll-lose-iraq-forever-trump-threatened-cut-baghdads-access-its-ny-fed-cash).

 

Decide Trump?

Ciò rimanda dalla ratio della decisione di Washington alle condizioni della sua messa in pratica in questo specifico frangente. Può essere che Trump si trovi in questo momento particolarmente esposto alla pressione dei neocons (l’ala antiglobalista)3 e dei falchi repubblicani - ben presenti nel suo entourage anche dopo la cacciata di Bolton: dall’italo-americano Pompeo, nomem omen, all’esperta in torture della Cia Gina Haspel, al capo del Pentagono Esper, al vicepresidente Pence - anche a fronte della procedura di impeachment, che se non lo preoccupa più di tanto sul fronte elettorale lo costringe però a ricorrere al voto compatto dei repubblicani al Senato.4 Del resto, sul dossier Iran, Trump ha già all’attivo la rottura dell’accordo obamiano sul nucleare del 2015 oltre al varo di durissime sanzioni economiche, dirette e indirette, il che ha ovviamente aperto, a fronte di una non piegata resistenza iraniana, la strada all’escalation e al rialzare la testa della cordata favorevole alla resa dei conti con Teheran. Ma è vero che, finora, la sua tattica è stata quella di rimettere in discussione gli equilibri in essere per ricontrattarli da posizioni più favorevoli all’America First - non per andare allo scontro bellico ma, almeno a suo dire, per disimpegnare l’impegno militare eccessivo in Medio Oriente. In questa occasione, invece, si è arrivati vicini allo scontro vero e proprio, e solo il realismo pragmatico degli iraniani lo ha evitato: non prima di una manifestazione di efficienza militare come quella del precisissimo attacco missilistico a due basi yankee in Iraq, in cui solo il preventivo avvertimento ha evitato vittime americane, ma che (anche per Israele) ha suonato da deterrente per le prossime occasioni. Segnale che Trump ha prontamente raccolto non rilanciando sul piano della risposta militare.

Che si sia trattato di una rivincita dello stato profondo o meno, l’equilibrio di forze interne all’amministrazione si è dimostrato in questa occasione particolarmente precario e suscettibile di sfuggire di mano a Trump. Ma, al di là di come sono andate effettivamente le cose nella cabina di comando, il significato di quanto successo è tutt’altro che estemporaneo, rimanda a un contrasto di fondo insanabile che non potrà che sortire nuove profondissime crisi suscettibili di ripercussioni sull’insieme degli assetti mondiali. Il che ci porta alla seconda questione.

 

Prossimi al punto di rottura

La situazione nella cosiddetta mezzaluna sciita, da Beirut a Teheran passando per Baghdad, negli ultimi mesi non si presentava malissimo per gli Stati Uniti: crescente malcontento per la situazione economica in ampi strati delle popolazioni e mobilitazioni implicitamente o esplicitamente anti-iraniane in Libano e Iraq, probabilmente anche con le solite intromissioni degli apparati statunitensi e israeliani abili a lavorare sullo scontento reale. Lo strangolamento dell’Iran via sanzioni economiche così come la chiusura del rubinetto dei dollari alle banche libanesi ha così iniziato a dare i suoi frutti in direzione di possibili cambiamenti di regime. Prospettiva allettante che permetterebbe di ribaltare la débacle siriana - ancorché parzialmente compensata dal posizionamento di truppe a stelle e strisce nei territori controllati dagli alleati kurdi del Rojava. Non sembra però che ciò abbia dettato pazienza e realismo. Al contrario, Washington ha alzato di brutto la posta con una serie di attacchi militari a basi delle Milizie Popolari irakene credendo di lanciare un ponte alle proteste di piazza che chiedevano il ritiro dell’Iran. Si sono invece trovati contro una grande mobilitazione popolare che ha aggredito l‘ambasciata a Baghdad, un atto per gli Stati Uniti indigeribile che ha scatenato il ricordo dell’assalto all’ambasciata di Teheran del ‘79. Molto singolare che, nei giorni successivi, anche le manifestazioni anti-Iran hanno iniziato a chiedere il ritiro anche delle truppe Usa.

Il colpo contro Soleimani non è stato poca cosa per Teheran ma, anche per la reazione popolare suscitata in Iran e in Iraq, non sembra aver cambiato in maniera decisiva la situazione sul campo a favore di Washington. Che mostra così più un’attitudine reattiva che non una vera e propria strategia in grado di bloccare e invertire la marcia verso Est di alcuni degli attori decisivi per gli equilibri geopolitici e geoeconomici nell’area, come si diceva sopra.

Il punto è che Washington ha sempre più fretta di rovesciare l’estroversione cinese lungo le direttrici euroasiatiche di cui l’Iran è snodo fondamentale - in direzione di Siria, Turchia e Europa centro-meridionale. È questa la differenza essenziale, pur nella continuità, con la strategia di Obama, che portò all’accordo del ’15 sul (non) nucleare iraniano. Continuità perché l’obiettivo strategico è il medesimo: contro l’Iran, di cui si vuole impedire un autonomo sviluppo industriale, e contro l’ascesa della potenza cinese, la cui economia non deve risalire la catena del valore sì da mettere a rischio l’egemonia tecnologica statunitense e il comando globale del dollaro. Ma a questo fine Obama riteneva sufficiente guidare from behind, da dietro le quinte, l’equilibrio di forze in Medio Oriente senza impegnarsi in uno scontro diretto e defatigante con Teheran. Qui la differenza, appunto, col corso trumpiano perché l’obamiano Pivot to Asia si è rivelato inefficace e ora i tempi stringono, urge far saltare la pedina iraniana, con cui peraltro è dalla rivoluzione del ’79 che Washington ha i conti in sospeso. Del resto, la tregua nella guerra commerciale siglata proprio in questi giorni con Pechino è parziale e, appunto, solo una tregua, dettata dai segnali di recessione globale e dalle esigenze dell’anno elettorale negli States. (E, nelle more della ripresa della guerra, il conto è probabile che lo paghi l’Europa in termini di dazi e quant’altro).

Dunque, la contraddizione per Washington nel quadrante mediorientale sta al momento nel fatto che il regime change a Teheran appare sempre più come un obiettivo inaggirabile - se si devono bloccare le spinte eliotropiche di sempre più soggetti statali nell’area - ma al tempo stesso non sembra essere possibile senza guerra posto che il governo iraniano è ormai costretto a battersi, per la dinamica messa in atto dal nemico, per la sua stessa sopravvivenza. Ma una guerra provocherebbe proprio quell’impantanamento che Trump ha promesso di voler evitare e che la sua base, e più in generale l’elettore statunitense, al momento non vogliono5 né sono preparati ad affrontare immersi come sono in una crisi economica che continua a erodere benessere e certezze. Senza che peraltro il corso preventivato dello scontro con l’Iran garantisca gli esiti desiderati. Mentre, questo è certo, acuirebbe i rapporti con Russia e Cina, ma anche con i paesi del Golfo e la servile Europa.

Ciò non toglie che, dovesse deteriorarsi decisamente la situazione economico-sociale in Iran causa sanzioni, la possibilità di una caduta dello stato islamico dall’interno ha i suoi numeri. Strategia politica realista e notevole capacità di conduzione della guerra asimmetrica insieme al consenso tra i ceti medio-bassi che pare ancora reggere - benché oramai lontano dalla genuina spinta rivoluzionaria antimperialista del ’79 - si devono confrontare con la disparità complessiva di forze rispetto agli Stati Uniti e altresì con la crescente insofferenza di parte delle popolazioni dei paesi in cui Teheran ha cercato, finora con discreto successo ma pur sempre in postura difensiva, profondità strategica senza poter ovviamente dare in cambio molto in termini economici immediati. Inoltre, dato che sotto la visuale iraniana la guerra è già in atto sub forma economica, ciò non può che portare prima o poi le forze al governo a superare i limiti di “moderazione” finora autoimposti, con conseguenze tutte da verificare - come si è visto con l’abbattimento dell’aereo ucraino, un duro colpo che ha lesionato l’immagine appena data di efficienza e preparazione militare. Tanto più che Mosca e Pechino, sicuramente interessate a fare da sponda anche in caso di intervento diretto degli Stati Uniti - v. il segnale delle recenti esercitazioni navali congiunte al largo delle coste iraniane - non possono né vogliono però al momento stringere una vera e propria alleanza con Teheran.

Dunque, si prospetta o una débacle del paese - attenzione, non del solo governo come qualcuno crede o vuol far credere: il precedente dell’Iraq ricacciato nella frammentazione, nella quasi guerra civile permanente e nella condizione pre-industriale è il modello degli yankee - oppure un deciso indebolimento degli Stati Uniti, nell’area e dunque nel mondo. All’immediato la partita sembra giocarsi ancora in campo “neutro” intorno alla richiesta del ritiro delle truppe a stelle e strisce dall’Iraq, che l’assassinio di Soleimani ha innescato. Il che ci porta dai cieli della geopolitica alla terra delle dinamiche sociali e di classe.

 

Medio Oriente stretto tra pressione imperialista e lotte sociali

In astratto, esisterebbero nell’area le condizioni per un intreccio tra lotte sul terreno economico-sociale e antimperialismo. Ma la realtà è al momento assai diversa. Le manifestazioni degli ultimi mesi in Iraq e Libano contro il carovita e la corruzione sono state realmente di massa; al contempo hanno mostrato un'istanza decisamente filo-occidentale e anti-iraniana, in particolare dove forte, anche se non esclusiva, è stata la presenza dei “ceti medi” e degli studenti, soprattutto a Baghdad e Beirut, o dove si sono confuse con i giochi clientelari di capiclan sciiti (e di ambigue figure politiche come Moqtada al Sadr, avvicinatosi a Washington ma ora improvvisamente fautore di una pacifica “marcia di un milione di uomini” contro la presenza militare statunitense) nel sud dell’Iraq. Ma di massa sono state anche le proteste anti-Usa dopo le aggressioni alle milizie popolari in Iraq e le manifestazioni in Iran contro l’assassinio di Soleimani.

Pur trattandosi di soggetti sociali in parte diversi, non è che i primi si battono per migliori condizioni di vita e i secondi, invece, si accontentano di star male pur di non cedere all'imperialismo occidentale. Nei due paesi, peraltro, la situazione è più grave rispetto alla gran parte degli altri paesi oppressi. L'Iraq, infatti, sta subendo aggressioni economiche e militari statunitensi da circa trent’anni. Difficile pensare che sia solo una minoranza degli irakeni a pensare che le proprie condizioni di vita sono peggiorate a causa di quelle aggressioni. Consapevoli, probabilmente, lo sono tutti. Il problema è che farsene di questa consapevolezza quando non si vedono i requisiti politici, militari, economico-sociali per liberarsi dall'oppressione imperialista. Analogamente la grande maggioranza degli iraniani sa perfettamente che senza le sanzioni e le continue aggressioni di ogni tipo da parte dell'imperialismo nordamericano la situazione economico-sociale, e forse anche quella politica, sarebbe di molto migliore.

Da parte loro i governi, in primis quello di Teheran, e le forze politiche locali cercano in tutti i modi di evitare che la saldatura tra lotta alla miseria e lotta all’intromissione imperialista diventi esplicita e soprattutto che si manifesti con mobilitazioni di massa indipendenti. In buona sostanza cercano di evitare che si inneschino spinte che diventerebbero inevitabilmente rivoluzionarie spazzando via in ultima istanza le stesse classi dirigenti.

Quindi anche se in astratto non mancherebbero le condizioni per la saldatura tra lotta sociale e lotta antimperialista, questa grava oggi tutta sulle spalle delle masse richiedendo un percorso di mobilitazione e di sviluppo politico molto difficile da attuare al momento dato. Remano contro sia le condizioni generali dello scontro di classe mondiale - che non lascia al momento sperare in alleanze di lotta né in altri paesi oppressi né, soprattutto, all’interno dei paesi imperialisti - sia le esperienze recenti - Saddam in Iraq, il khomeinismo in Iran - non propriamente confortanti. In Iraq poi pesa ancora di più la terribile esperienza di distruzione subita che, peraltro, agisce sicuramente anche in Iran come temibile minaccia.

Al momento, dunque, governo e parlamento irakeni hanno chiesto la dipartita delle truppe nordamericane. Trump ha risposto picche e minacciato nuove sanzioni. Cosa prevarrà nelle masse? La lotta contro il governo, che pure si è schierato contro gli Usa, per accedere a fette di reddito che si vedono girare sul mercato globale e dalle quali ci si crede allontanati non dai meccanismi dell'imperialismo del dollaro ma dai politici corrotti, inetti, ecc.? Oppure la lotta contro gli Stati Uniti assieme al governo e all’Iran? Considerato che una lotta sui due fronti non pare nell'ordine delle possibilità attuali, le due istanze continueranno probabilmente a dislocarsi su due fronti sociali e territoriali - se non anche religiosi e etnici considerando sunniti e kurdi - diversi e anche contrapposti con il rischio di far sprofondare l'Iraq in una guerra civile. Che è esattamente ciò che a Washington desiderano, anche per Libano e Iran.

 

Il dilemma delle rivendicazioni democratiche

La questione è però più generale. Nei paesi oppressi o controllati dall’imperialismo il nodo consiste in che cosa è diventata la rivendicazione democratica a fronte della connessione, ben più profonda che in passato, tra sviluppo capitalistico locale-nazionale e globalizzazione imperialista. A grandi linee, due sono qui i campi geopolitici e sociali.

Il primo è quello dei paesi cosiddetti emergenti che, in un’ottica esclusivamente capitalistica, tentano un percorso di maggiore autonomia rispetto all’imperialismo finanziario del dollaro e alle sue subordinate europee. Ne è perno economico-politico la Cina, militare la Russia: facendo sponda su questi due attori globali altri paesi, eventualmente collocati su linee di faglia geopolitiche, provano a giocare un ruolo regionale (Turchia, Iran, Sudafrica, Brasile, Argentina, con l’India in posizione più ambigua). In questo gruppo la Cina è il paese che, per risorse e storia, mostra una chiara dialettica (social)democratica tra lotta di classe operaia e contadina, da un lato, e sviluppo capitalistico mediato dal partito-stato, dall’altro. Una dialettica intrecciata però con un potente fattore esterno: la pressione imperialista di Washington volta a bloccare senza mezzi termini l’ascesa cinese, e di cui i ceti medi interni - dovesse rompersi in caso di arresto della crescita economica il compromesso che li lega allo stato - potrebbero farsi vettore attraverso la richiesta democratica di liberalizzazione economica e politica (la vicenda Hong Kong, pur con caratteristiche peculiari legate alla sua storia di ex colonia, è un campanello d’allarme in questo senso). Questa avrebbe dunque un segno di classe nettamente contrapposto ad una rivendicazione democratica da parte del proletariato cinese come istanza di lotta e di potere che non sarebbe solo contro le classi possidenti cinesi e il loro stato ma anche, oggettivamente o anche soggettivamente, contro l'imperialismo che dal lavoro delle masse cinesi trae una parte fondamentale del valore messo in circolo a scala mondiale.

Il secondo campo è quello, ampiamente maggioritario, dei paesi non in grado di coagulare fronti socio-politici e alleanze internazionali in direzione di uno sviluppo più autonomo dall’imperialismo, e proprio per questo ne subiscono, nell’illusione di farvi leva, una dipendenza vieppiù accentuata a rischio della propria destrutturazione. Non si tratta, però, solamente della classica borghesia dipendente. A nutrire aspettative verso l'Occidente sono ampi strati di ceto medio e di "ceto medio in formazione", i giovani scolarizzati, se non anche settori semiproletari e proletari, che alla luce del fallimento dei tentativi postcoloniali mostrano di aver “interiorizzato” la dipendenza neocoloniale e dunque tendono ad attribuire a fattori esclusivamente endogeni - corruzione, casta politica, ecc. - la causa della loro miseria. La penetrazione occidentale ha qui profondi varchi davanti a sé, non solo per l’esercizio del suo soft power, ma per profonde ragioni materiali legate all’intreccio oramai inestricabile, in questi paesi, tra rapina imperialista e meccanismi capitalistici interni che hanno pervaso nel profondo queste società. La “liberazione” si configura allora come una variante locale della meritocrazia dell’intelligenza più che come un rovesciamento degli assetti socio-economici interni e internazionali, la democrazia viene rivendicata contro i vincoli dei regimi postcoloniali e non, insieme, contro l’Occidente. Emblematici a questo riguardo la Primavera Araba e il suo esito completamente detournato dall’Occidente, nonché quanto inizia a darsi nei paesi della mezzaluna sciita.

In entrambi i campi extra-occidentali - non separati peraltro da una muraglia cinese - il cuore del problema sta nell’estrema difficoltà a riformulare il nesso tra lotta sociale e lotta all’oppressione imperialista. Questo nesso è oggi più diretto e stringente che in passato, ma al tempo stesso si è fatto meno visibile alle masse di questi paesi, sia per la pervasività dei meccanismi finanziari, sia per il venir meno dell’aspirazione a un modello alternativo di società che, a torto o a ragione, aveva accompagnato e sorretto le lotte anticoloniali del passato. Queste, infatti, non si erano scontrate con la necessità quasi immediata, come invece oggi, di assumere una connotazione anche anticapitalistica, avendo al contrario davanti a sé ancora margini di sviluppo economico e sociale dentro quel quadro.

A questo impasse contribuisce in negativo la debolezza attuale della lotta di classe in Occidente. Il neopopulismo6 - sia quello per ora limitato a umori sociali e mobilitazioni elettorali sia quello di lotta tipo Gilets Jaunes - rappresenta qui una prima rottura soggettiva, ancorché debole, del proletariato rispetto al quadro globalista che ha imperversato per oltre un trentennio. Esso mostra, nella variante cittadinista come in quella sovranista, la ripresa della rivendicazione democratica plebea che faticosamente e confusamente si demarca dal terreno liberale. Ciò non toglie che preso a sé non è in grado di portare fino in fondo questa rottura né di sfuggire al montante clima anti-cinese (e anti-russo, anti-turco, anti-iraniano, ecc.) che, a partire dalla centrale statunitense, si sta propagando in tutto l’Occidente. Può anzi caderne preda così come, nelle sue pulsioni sovraniste, ridursi ad una variante della contrapposizione imperialista occidentale al resto del mondo.

 

Geopolitica e lotta di classe

Nei tre campi risulta evidente che la cerniera tra geopolitica e lotta di classe si è fatta più corta. È, questo, un intreccio che scardina nel profondo qualsivoglia esaltazione di una presunta “spontaneità” dei movimentidemocratici. A differenza di fasi nelle quali proprio la relativa stabilità del sistema internazionale permetteva margini più ampi per conflitti sociali anche aspri - tipico il caso del nesso tra bipolarismo postbellico, da un lato, e lotte dell’operaio massa e dei movimenti anticoloniali, dall’altro, confluite nella rivolta del Sessantotto - oggi siamo di fronte a un’immediata sovradeterminazione delle lotte da parte delle dinamiche geopolitiche, globali e regionali. Ma vale anche l’inverso: senza una ripresa forte del conflitto di classe gli smottamenti geopolitici in corso non precipitano da soli verso punti di svolta effettivi.

Non si daranno dunque rotture a freddo. Se e quando queste arriveranno, del resto, non sarà per semplice e lineare radicalizzazione delle tendenze oggi in atto, ma per ridislocazione complessiva dei termini dello scontro. L’intreccio oggi confuso tra spinte nazionaliste, tendenze alla frantumazione statuale, flebili segnali di possibile innesco futuro di processi rivoluzionari dovrà sciogliere le sue ambivalenze. Un indice di maturità di questi percorsi sarà probabilmente rappresentato dall’affermazione di ampie comunità di lotta effettiva in grado di coagulare, far crescere e chiarificare istanze generali di lotta al sistema mondiale dell’ingiustizia intrecciate con l’ostilità per l’imperialismo del dollaro (fin dentro l’Occidente!).

Un segnale in questo senso, minimo ma non insignificante se visto in prospettiva, è il moto di preoccupazione se non di vera e propria paura che ha scosso le popolazioni in Europa per quello che è stato percepito come il rischio dello scoppio della “terza guerra mondiale”. Mentre la classe dirigente europea manifesta tutta la sua vigliaccheria di fronte al padrone d’oltreoceano e invece la sua arroganza imperialista e razzista di fronte alla (modesta) risposta iraniana - i venti di guerra, così come il secondo tempo della crisi globale, si incaricheranno di rimettere in moto domande interessanti sui meccanismi che stanno conducendo questo misero pianeta alla catastrofe. E non sarà, questa volta, la Greta di turno a poter offrire risposte…


Note
1 Notizie non smentite dalla stampa occidentale, che ha però accuratamente evitato di riportarle; un accenno al tema anche qui: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/arabia-saudita-e-iran-tregua-nel-golfo-24678.
2 Sulle oscillazioni geopolitiche dell’Arabia Saudita v. R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, p. 269, nota 68.
3 V. Limes 12/19, p. 85. I neocons globalisti si sono invece avvicinati al Partito Democratico.
4 Come riferisce il Wall Street Journal del 10 gennaio.
5 Come emerge anche dagli interventi del trumpista Tucker Carlson, assai ascoltato dal presidente, su Fox News.
6 V. I dieci anni… cit., Parte Terza.

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