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Circa Ada Colau, “Agenda Urbana e neomunicipalismo”

di Alessandro Visalli

58 1L’alcaldesa di Barcellona, Ada Colau, è certamente una star, ed è portatrice di una linea politica di successo nella grande e cosmopolita città metropolitana di Barcellona. Questa linea unisce creativamente assi portanti di lungo periodo nella politica del ayuntamiento catalano, come il conflitto con lo Stato centrale madrilista per l’attrazione -o la rivendicazione- di capitali pubblici, con temi consolidati della sinistra ‘radicale’ internazionale, come il carattere progressivo della modernizzazione e per essa dei centri “avanzati” nel capitalismo immateriale, in transizione verso la logica dei “commons”. Il secondo è un grande tema, con immenso portato di riflessioni, alcune di grande valore, verso il quale non intendo proporre una sommaria liquidazione, ma che appare in qualche modo confutato dagli eventi (la modernizzazione non ha portato avanzamento e le classi creative non hanno preso il comando del capitale, casomai è avvenuto il contrario).

Il primo è, mi sembra, la sostanza dell’operazione che la “città globale[1] di Barcellona, in linea, magari in parte inconsapevole, con una tradizione forte, porta avanti nel cercare di ottenere più risorse e più competenze dallo Stato Nazionale. Ma in estensione, e quindi con altre città globali, come vedremo, si tratta di proporre un nuovo e diverso equilibrio di sistema che veda, da una parte, maggiori competenze, ed in misura assai ridotta risorse, al livello sopranazionale europeo e, dall’altra, maggiori competenze e risorse al livello regionale e metropolitano, ovvero ai livelli alti della governance locale. Il tradizionale assetto fondato sullo Stato Nazionale viene ad essere in tal modo eroso in due direzioni: privato di capacità di direzione dell’economia dalla UE e contemporaneamente di capacità di spesa e quindi di capacità di svolgere un’azione equilibrante dalle sottostanti amministrazioni locali. In prospettiva, seguendo questa linea, la quota di risorse fiscali gestite dal centro nazionale potrebbe scendere sotto la metà del totale e con essa la capacità di mettere in campo politiche di riequilibrio rispetto alle tendenze polarizzanti spontanee del modo di produzione in essere.

È molto interessante che siano proprio città metropolitane, centrali nella organizzazione e gestione dei flussi finanziari e sede primaria delle capacità istitutrici della globalizzazione, a richiedere questa trasformazione in chiave reticolare ed orizzontale del flusso di potere e risorse. Non è certo una cosa né nuova, né rivoluzionaria, tra le grandi città, sedi delle capacità di ricombinazione, impacchettamento e mobilitazione, delle risorse (ovvero della loro trasformazione in “economiche”) è sempre passata, almeno dal medioevo, la rete strutturante del potere, orizzontale rispetto a quella della statualità che ha faticosamente cercato di istituire una ‘sovranità’ verticale. Prendiamo, ad esempio, l’analisi del 2008 di Saskia Sassen[2]: “a mio giudizio le città globali e i distretti ad alta tecnologia di oggi funzionano come territorializzazioni strategiche parzialmente denazionalizzate; la loro considerevole autonomia regolatoria è dovuta all’affermazione di regimi di governo privati” (p.70). Naturalmente “questo crea una geografia del controllo sovrano piuttosto irregolare, oggi come nel passato”. Sarebbe, insomma, un elemento “funzionale alla creazione di un’infrastruttura per le operazioni globali dei mercati e delle imprese e alla liberazione dalla responsabilità della spesa sociale che era parte dell’era precedente” (p.238).

C’è un elemento distintivo in questo spostamento di lungo periodo, caratteristico del movimento neoliberale e della globalizzazione: l’essere volto alla liberazione dalla responsabilità della spesa sociale e, soprattutto, la generalizzazione “di un concetto globale di regolamentazione come efficienza”. Quindi, “con l’efficienza come unico scopo, la privatizzazione diventa legittima in domini una volta terreno esclusivo dello stato.” Ma qui l’analisi prosegue: è la neutralità che viene attribuita ai mercati, come si vede benissimo, “a renderli critici per il conseguimento dell’efficienza e quindi del vantaggi pubblico generale”. Ora, “nel momento in cui l’efficienza diventa un obiettivo, essa tende a sostituire l’interesse pubblico oppure a funzionare come una sua controfigura: l’ideale dello stato regolatorio ha lasciato il posto a quello di uno stato competitivo la cui nuova norma è massimizzare l’efficienza” (p.251).

Del resto già nel 1991[3] appariva chiaro alla Sassen che le “città globali” sono “elementi di un unico sistema” funzionale e staccate dalla crescita della nazione, essendo piuttosto luogo di produzione di quegli specifici “manufatti” che sono i prodotti finanziari e i servizi immateriali (incluso i ‘beni’ culturali ed ideologici qui rivendicati). Più dettagliatamente, si erogano servizi specialistici alla produzione (che soppiantano la centralità dei servizi al consumo propri della fase precedente) e capacità di “mobiliarizzare” i valori fissi (cioè di trasformare attività e passività, in linea di principio qualunque, in strumenti negoziabili e dunque mobili, cfr. “CG” p. 84).

Si tratta, dunque, di una questione cruciale.

Nella linea politica proposta da Colau si incrociano quindi grandi temi, proviamo ad elencarli in modo sommario:

1- Si propone come progressivo, ed insieme inevitabile, che il processo di creazione di una statualità sovranazionale di tipo funzionale comporti una complessiva riarticolazione delle competenze e delle risorse economiche, avvicinandole ai rispettivi territori;

2- Si propone una logica di “cooperazione” volontaria, su base di parità ed orizzontale, ‘pattizia’, in sostituzione della logica verticale, gerarchica, che ha istituito lo Stato-Nazione come luogo di definizione dell’interesse generale nello scontro delle individualità;

3- Si propone di vedere l’interazione statuale, nell’arena europea, come il male da superare in quanto non cooperativa e influenzata dalla ‘pancia’ dei paesi, dalle aree più arretrate culturalmente e socialmente.

La riarticolazione del potere in senso orizzontale e spontaneo sarebbe dunque progressiva, come con altro linguaggio propone ad esempio un autore come Parag Khanna[4]. L’ipotesi di lettura che di questi complessi nodi proverei a dare è però diversa: il processo di creazione di un’entità sopranazionale è lo storico prodotto di una fase, quella dell’espansione della globalizzazione guidata dal capitale in cerca del ridisciplinamento del lavoro, che sta volgendo al tramonto per il peso delle sue contraddizioni. Non si tratta quindi affatto della necessaria direzione del progresso e tanto meno della modernità; più banalmente è il portato storico dell’egemonia neoliberale nella forma della presa di centralità della competizione e dell’egoismo sulla solidarietà e cooperazione. Avvicinare la programmazione delle risorse ai luoghi in cui queste sono generate (dalla leva fiscale), che è la sostanza del discorso dato, implica in questo contesto necessariamente l’accelerazione del processo di divergenza territoriale, che è la radice stessa delle ineguaglianze contemporanee[5]. Passare, in altre parole, dalla logica “dell’interesse generale” a quella “dell’accordo”, che è il cuore dell’argomento, pur riconoscendo tutte le critiche fondate al primo[6], è difficilmente presentabile come lotta al neoliberismo, dato che ne è uno dei focus principali, in particolare nelle scienze territoriali. Del resto anche lo spirito del terzo tema è uno dei tic più radicati della cultura di sinistra e causa tra le principali della sua marginalità politica attuale.

Mettiamo in gioco questa lettura confrontandola con due testi di Ada Colau: una intervista sul Corriere della Sera, e un documento firmato insieme a Manuela Carmena e Anne Hidalgo.

A Barcellona mancano due mesi alle elezioni del 26 maggio, che si presentano molto incerte e fortemente influenzate dalla dolorosa vicenda indipendentista, ma l’articolo sul Corriere evita di parlare di questioni locali e cerca di volare più alto; la Colau qui si propone come leader che indica una via alla sinistra, criticando la “terza via” (di cui Valls, suo competitore per l’elezione, è alfiere) e lo schiacciamento della sinistra con il neoliberismo. Quel che propone è tuttavia, in modo molto tradizionale, uno schema “progressisti” verso “retrogradi”, ovvero le destre ed i loro sostenitori (letteralmente parla di “tracciare una linea rossa fra le forze democratiche e quelle che partecipano al gioco democratico senza esserlo”).

Con un salto onirico potente, ovvero spostandosi sul piano essenzialmente retorico, prosegue proponendo l’organizzazione orizzontale e reticolare come soluzione: “ciò che mi sta più a cuore è un network di città europee democratiche che si caratterizzi per politiche concrete di coesione. Non possiamo regalare alla destra la bandiera dei diritti sociali, così è il mondo capovolto”.

In effetti ha ragione, siamo da molti decenni nel ‘mondo capovolto’.

Un mondo nel quale le sinistre si sono rifugiate tra i ceti ed i gruppi connessi e vincenti, per lo più presenti nelle grandi città globali o semi-globali, ad occuparsi delle politiche identitarie dei loro turbati abitanti, ed a organizzare al più movimenti collettivi di autodifesa individualista. Mentre le destre si sono occupate di coloro che, man mano, diventavano sempre più marginali, costretti a retrocedere da un ambiente che man mano si ‘liberalizzava’ e nel quale la competizione penetrava sempre più capillarmente. Per anni l’espansione del credito ha creato un effetto tampone ai falegnami ed artigiani spiazzati inesorabilmente dall’invasione di merci a basso prezzo prodotte dall’altra parte del mondo, dai mobili di Ikea a quelli prodotti in Cina, tanto economici da poter essere gettati e sostituiti. Gli elettricisti costretti dalle normative europee ordinate dalle grandi aziende e per esse a diventare assemblatori di pezzi prodotti negli stessi posti e sovraccaricati di costi di certificazione, formazione, etc… Gli avvocati ed i professionisti, disintermediati da procedure sempre più ‘free’ e da tecniche di messa in rete e piattaforme[7] (in particolare esplose con il lavoro debole di questi ultimi anni). I lavoratori autonomi e microimprenditori (negozianti, ristoratori, baristi, …) che soffrono il crollo della domanda interna. In particolare tutti questi ceti, il minestrone dei ceti medi, intrappolati nelle città marginali, dove le opportunità sono inferiori, dove il lavoro ben pagato non c’è, e quindi neppure i loro fornitori ben pagati.

E poi i veri ceti popolari, le vere periferie, quelle disperate ed abbandonate. I brutti, sporchi e cattivi di Sergio Leone. L’area nella quale la parte più debole del ceto medio impoverito si mischia con il sottoproletariati, talvolta immigrato, e sopravvive di pochi sostegni indiretti dallo stato e molto lavoro precario, saltuario, episodico ed ovviamente nero.

Tutti questi sono da anni regalati alla destra. Perché la sinistra si è occupata dei buoni e belli. Di coloro che hanno un buon lavoro e ottimi sentimenti, di chi abita i quartieri semicentrali (ormai spesso solo i centralissimi), di chi vuole soprattutto più libertà.

Cosa dice la Colau di questo “mondo capovolto”? Dice “fin dall’antica Grecia le città sono state luoghi più aperti”. Cosa che è sicuramente vera, ma da interrogare nella sua ambiguità e non da celebrare acriticamente (con lo stesso spirito, verrebbe da dire, con il quale un nobile rivendicava il suo stile ed il “noblesse oblige”).

È vero che subito dopo continua cercando di evitare la “contrapposizione”, ma resta per lei un fatto: “solo lo spazio della città ti consente di ‘vedere’ veramente l’altro, che sia il migrante o il povero. Per umanizzare l’altro abbiamo bisogno della città [globale, ovvero dominante]”.

In conseguenza è solo dove sta lei, la Colau, solo nei grandi municipi centrali che “si può rifondare la politica e la democrazia”.

Insomma, Ada Colau è sicuramente “di sinistra”[8].

Sulla sua pagina Carlo Formenti commenta in questo modo la sua intervista:

“Qualche riflessione sull'intervista alla sindaca di Barcellona, Ada Colau, pubblicata oggi a pagina 10 del Corriere. Colau dice sostanzialmente tre cose: 1) che l'avanzata della destra populista (anche lei continua a usare questo termine passe-partout che, al pari di sovranismo, è depistante e svuotato di senso, ma pazienza) è il risultato della conversione delle sinistre al neoliberismo e della loro indifferenza nei confronti delle ragioni delle classi subalterne vittime della globalizzazione (e fin qui perfettamente d'accordo); 2) che per contenere l'avanzata di una destra di tipo nuovo, abile e preparata, che non si lascia liquidare con vecchie argomentazioni ideologiche, occorre costruire alleanze progressiste che non regalino alla destra la bandiera dei diritti sociali (e qui concordo solo in parte: ok per il rilancio dei diritti sociali, ma le alleanze "progressiste" sono calderoni in cui proprio i diritti sociali passano inevitabilmente in secondo piano rispetto a diritti individuali, civili, stronzate politicamente corrette, ecc.); 3) che il fulcro di tale alleanza dev'essere un network delle grandi città ‘per natura’ più aperte e progredite di periferie e semiperiferie del mondo (e qui il dissenso è totale: l'assalto dei gilet gialli alla capitale francese è il simbolo dell'irriducibile conflitto di classe fra metropoli gentrificate, dominate dalle neoborghesie emergenti - creativi, manager pubblici privati, professionisti, ecc. - che disprezzano il resto dei loro Paesi, le periferie dove vivono gli ‘sdentati’). Quindi, cara Colau, la tua linea può solo accelerare il suicidio di una sinistra ‘progressista’ che prima tira le cuoia meglio è”.

Un giudizio drastico.

Passiamo quindi all’altro testo e vediamo se c’è spazio per un diverso ragionamento: si chiama “Una nuova agenda urbana per le città europee”, ed è tradotto a cura della “Libreria delle donne”. E’ firmato da tre sindache:Manuela Cardena, a Madrid una storica militante, già comunista, e giudice; Anne Hidalgo, di Parigi dal 2015, eletta con i socialisti; e, appunto, Ada Colau.

E’ dunque un documento importante, ed è parte di una strategia “municipalista”, che propone, in luogo della tradizionale strategia di cambiamento guidato dal Partito (pensiamo alla strategia del Partito leninista, ma anche alla variante del Partito massa gramsciana e togliattiana) come “unica opzione possibile” le azioni di cooperazione dal basso, il mutualismo, il lavoro che “pensa facendo”. In un altro intervento Colau dice “Il municipalismo è storicamente il luogo di rottura dal basso, dove la politica è più vicina alle persone, ha a che fare con la qualità della vita. La piazza è la culla della democrazia”.

L’idea è dunque semplice e chiara: rovesciare la piramide e dare più potere (e più soldi) ai municipi di scala internazionale.

Questa istanza decentratrice e deregolatrice, in fondo non è certo nuova, ma anzi ha una potente ‘aria di famiglia’ con il neoliberismo trionfante. Come questo è articolata ovviamente per dare spazio ‘dal basso’, che rinvia all’accesso diretto dei cittadini (qui non tanto come consumatori, quanto come fonte di un desiderio di libertà). Sarebbe qui, nello spazio decentrato che si possono creare spontaneamente, anche qui una mano invisibile in effetti, quelli che con una prosa altamente indicativa dell’ispirazione anarcoliberale che la ispira Steven Forti e Giacomo Russo Spena, chiamano nuove forme di vita. “Le nostre metropoli intese come lo spazio della resistenza e dell’invenzione di nuove forme di vita, libere e tendenzialmente egualitarie. Il luogo dove proliferano conflitti sociali nuovi, forme di cooperazione mutualistica, iniziative culturali indipendenti”.

“Neomunicipalismo”, sarebbe in altre parole tutto quel che è “fuori della vecchia politica”.

La nuova agenda urbana, autorevolmente firmata dalle sindache di Madrid, Barcellona e Parigi (di sinistra, ma su un ampio arco costituzionale), inizia lamentando che gli accordi sul clima si negoziano tra i duecento stati del mondo e non tra le forse ventimila città, oppure tra le principali. A voler prendere sul serio l’avvio retorico si potrebbe far accedere al negoziato le prime cinquanta (con oltre 2,5 milioni di abitanti). Sono 11 indiane, 9 cinesi, 6 brasiliane, 3 negli Stati Uniti, 3 in Sud Africa, 3 in Pakistan, 2 in Russia, 2 in Giappone, 2 in Corea del Sud, 2 in Egitto, 2 in Arabia Saudita, 2 in Australia, 2 in Bangladesh, 1 in Spagna, 1 in Italia, 1 in Germania, e via dicendo. Chiaramente in tal modo il tavolo negoziale perderebbe ogni rappresentatività e quindi si svuoterebbe. È evidente che si tratta di una mera retorica (tra l’altro né Barcellona, né Parigi, considerando solo l’area strettamente intesa, senza sobborghi, entrerebbero). Oppure si potrebbe far entrare le città per Pil (ma nominale o a parità di potere di acquisto?), o per presenza di servizi ‘centrali’, o per rilevanza geopolitica (ad esempio Washington può restare fuori anche se è relativamente piccola e non è sede di grandi banche o aziende?).

Ma, secondo le sindache, riproducendo un argomento piuttosto curioso: “questa situazione è urtante, considerando che sarà indispensabile la collaborazione dei governi locali per lo svolgimento della nuova agenda”. In sostanza il non detto sembra essere che perché un accordo sia valido ci devono essere in presenza e non per rappresentanza tutti quelli che collaboreranno ad esso; una concezione drasticamente assembleare (allora perché non anche tutti i cittadini? Perché non avere anche Lione, Bilbao, Cordova, Siviglia, Strasburgo, Marsiglia, …?).

Il testo continua in modo ancora più surreale:

nel corso di questi anni, le nostre città hanno partecipato a diverse reti urbane e fori internazionali dove si è reso evidente che sono i governi locali ad avere più facilità a giungere ad accordi e generare risposte innovatrici rispetto ai problemi globali. Laddove gli stati sono in competizione, le città cooperano”.

Considerando le migliaia di accordi parziali, allargati a volte a centinaia di Stati, che sono stati stipulati e gli innumerevoli forum, le reti, gli accordi parziali, praticamente ogni settimana, e considerando, d’altra parte, la feroce competizione per attrarre capitali, aziende, manifestazioni finanziate, risorse umane, le azioni di Lobby che sottostanno ad ogni nuova tornata delle olimpiadi, ad esempio, tra le grandi ‘città centrali’, questa frase è meravigliosa.

Ma andiamo alla sostanza, qui le città dominanti, metropolitane, e incidentalmente le più ricche dei rispettivi paesi, avanzano l’imprudente (e un poco impudente) tesi di non essere legate alla responsabilità determinata dalla partecipazione alle loro rispettive nazioni (evidentemente neppure, ed a maggior ragione, ad una futura e controfattuale nazione europea che sarebbe ancora più ‘distante’), chiamando in campo a giustificazione di questo rifiuto una concezione della democrazia piuttosto problematica[9], e contemporaneamente richiedono più risorse. Ovvero, è ovvio, richiedono di trattenere le proprie risorse.

“Nonostante il sottofinanziamento cronico che patiscono i governi locali, abbiamo abbondantemente dimostrato che le città possono fare di più con meno. Pertanto, la creazione di una nuova agenda urbana non può eludere il dibattito sul finanziamento degli enti locali. Gli stati dovrebbero assicurare risorse sufficienti perché le città possano svolgere le loro politiche in modo efficiente, destinando come minimo un 25% al finanziamento degli enti locali.”

Questa è la vera sostanza.

E l’altra è l’opportunità aperta dal processo europeo per indebolire come una tenaglia, dall’alto e dal basso, gli Stati Nazionali. Sottraendo competenze in alto e risorse in basso.

Dunque:

“La creazione di una nuova agenda urbana europea deve incorporare quelle problematiche comuni condivise dalle città del continente: dai grandi problemi globali – come l’incremento delle disuguaglianze, il cambiamento climatico e la popolazione che si sposta in cerca di rifugio – all’impatto del turismo, alla gestione pubblica dell’acqua, alla transizione energetica e al sostegno a una economia produttiva, diversificata e responsabile”.

Del resto la chiusa appare in perfetta linea “altreuropeista”: la strada, di fronte alla sfida posta dalle politiche di austerità, di ricentralizzazione e di xenofobia ed euroscetticismo, è rafforzare la cooperazione intermunicipale transnazionale “e costituirci in bastioni di difesa dei principi democratici che diedero impulso al progetto europeo”.

Peccato che a dare impulso al progetto europeo storicamente esistente non sono affatto stati i principi democratici, ma casomai il bisogno di farla finita con essi[10].


Note
[1] - Si veda in primo luogo il libro del 1991 di Saskia Sassen “Città globali”.
[2] - In Saskia Sassen, “Territorio, autorità, diritti”, 2008.
[3] - Saskia Sassen, “Città globali”, cit.
[4] - Cfr. Come si governa il mondo, 2011. L’autore indiano, direttore della Global Governance Initiative della New American Foundation (un importante think thank liberale), vede in arrivo un “medioevo postmoderno” senza egemoni e “ipercomplesso”, in cui nessuno sostituirà la funzione di ordine che con sempre maggiore difficoltà gli USA adempiono dal dopoguerra, ma si affermerà come si affermò nel rinascimento un equilibrio di diplomazie (per la verità sanguinoso). Per Khanna “stiamo vivendo la fase aurorale di una nuova età nella quale ogni individuo e ogni comunità possiedono la capacità di perseguire autonomamente i loro fini. La rivoluzione informatica ha messo ogni soggetto nella condizione di far valere la propria autorità, aprendo la strada a un mondo basato sulla reciprocità tra infinite comunità di vario genere e dimensione” (ivi, p.310). In quello che è sicuramente un entusiasta cantore dell’orizzonte neoliberale come liberazione, si vede un ruolo per tutti i soggetti e gruppi di pressione capaci di attivare la “megadiplomazia” al centro del nuovo mondo: ONG, multinazionali, partership pubblico-privato, “un bricolage di movimenti, esperimenti di governo, network, regolamenti ‘soft’ e tutti gli altri sistemi che possono emergere a livello locale, regionale e globale” (p.311). L’autore non si ferma neppure dal citare il “progresso umano”, vedendolo “proseguire” (e confermando la sottesa filosofia della storia del progetto neoliberale) al di là e contro i “tradizionali meccanismi centralizzati di governo”, sapendo che “ogni esperimento locale è comunque più denso di conseguenze di qualsiasi banale organigramma globale”. Dunque “interdipendenza” e “elasticità permanente”, network di sistemi elastici in quanto più adatti “ad un mondo che cambia con la rapidità di oggi”. Un mondo “autopoietico”, che si regola da sé e si reinventa costantemente. Concludendo: “un mondo ibrido, diffuso, fondato sul binomio pubblico-privato, non è ovviamente un mondo perfetto, e senza dubbio è assai più complesso dell’ordine in cui viviamo attualmente. Ma di certo è un miglioramento, e non un passo indietro. Se tutti i soggetti che popolano il pianeta possono essere sicuri di avere garantita la propria voce, direttamente o indirettamente, nelle politiche globali, la prossima fase diplomatica sarà migliore di quella che ci stiamo lasciando alle spalle” (Khanna, p.313).
[5] - Si veda Moretti, “La nuova geografia del lavoro”.
[6] - A partire da quelle indicate in “Dialettica dell’illuminismo”, da Adorno e Horkheimer.
[7] - Si veda Susskind, “La fine dei servizi professionali”, e “Platform capitalism”.
[8] - La battuta trova senso nella lettura dei libri di Jean-Claude Michéa, come “I misteri della sinistra”, o “In nostro comune nemico
[9] - La denuncia del principio della rappresentanza, per il quale un organo può rappresentare dei deleganti, secondo procedura legittima e stabilita sull’asse verticale ‘grandi città-stati nazionali’ potrebbe benissimo rovesciarsi verso il basso (e i municipi di Parigi, perché non potrebbero andare ognuno per conto proprio? E i quartieri? E i condomini?) e scalzare intanto la stessa autorità dei sindaci. Se questi non riconoscono i capi di stato, eletti per svolgere queste funzioni e compiti dagli stessi cittadini che hanno eletto loro, perché loro stessi sarebbero legittimi?
[10] - E’ sempre utile per ricordarsene rileggere i dibattiti che accompagnarono l’approvazione del Trattato di Maastricht.

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