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manifesto

Lo Stato della Globalizzazione

 

Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen

Un'intervista con Saskia Sassen, in Italia su invito de Il Mulino e alla vigilia dell'uscita del suo ultimo libro «Territori, autorità, diritti». Il mutamento dello stato nazionale e l'emergere di una terra di nessuno «né globale né locale» dove si sviluppa l'azione dei movimenti sociali

Un testo ambizioso quello di Saskia Sassen su Territorio, autorità, diritti tradotto da Bruno Mondadori (pp. 596, euro 42. Quando il libro uscì negli Stati Uniti ne scrisse Sandro mezzadra il 3 Febbraio 2007). Ambizioso perché l'autrice si pone due obiettivi: da una parte spiegare la formazione dello stato moderno; dall'altra cercare di definire i contorni e le forze operanti in quel processo che vede lo stato-nazione essere uno dei maggiori protagonisti della globalizzazione, all'interno però di un paradosso: rimanere un protagonista rinunciando ad alcuni aspetti della sovranità nazionale. Per la studiosa di origine olandese vanno quindi respinte le tesi che annunciano la prossima e irreversibile scomparsa dello stato nazionale, ma allo stesso tempo muove forti critiche verso le posizioni che considerano lo stato-nazione l'ultima trincea per respingere l'attacco del capitalismo neoliberista, salvaguardando così le specificità economiche, sociali e politiche «locali», che comprendono gli istituti del welfare state. Né crede, come afferma in questa intervista, che l'attuale crisi economica favorisca una brusca frenata alla globalizzazione. Anzi, considera i provvedimenti presi dai vari governi nazionali, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia, propedeutici al mantenimento dello status quo, accelerando tuttavia quelle forme di coordinamento sovranazionale che individuano nei governi nazionali lo strumento per applicare localmente decisioni prese a livello globale.


In Italia su invito dell'«Associazione di cultura e politica Il Mulino», Saskia Sassen ha tenuto la lectio magistralis che la casa editrice bolognese organizza ogni anno attorno all'emergere di uno spazio politico, giuridico e economico «Né globale, né nazionale» all'interno del quale alcune componenti dello stato moderno e dei i movimenti sociali favoriscono la costituzione di un ordine politico mondiale in cui l'esercizio del potere vede l'interazione, la negoziane e il conflitto tra istituzioni, imprese e movimenti locali, regionali, globali.

Saskia Sassen tiene però a precisare che in tutti i suoi libri, compreso quest'ultimo, si prende la libertà di offrire sì il sottofondo empirico della sue tesi, ma anche di fare «pura teoria». Una libertà che non sempre è apprezzata nel mondo universitario anglosassone. Con un sorriso sornione tiene comunque a a sottolineare che lei è una «nomade intellettuale», perché è nata in Olanda, ma che è stata influenzata della cultura latinoamericana, visto che ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Buenos Aires. Inoltre, per la sua crescita intellettuale è stata significativa la frequentazione della realtà intellettuale italiana,, dato che è vissuta a Roma, mentre la Francia è stata determinante per prendere familiarità con quel marxismo strutturalista che ha condizionato tantissimo il saggio The Mobility of Labor and Capital. Allo stesso modo, il pragmatismo statunitense ha mitigato la sua tendenza all'astrazione. «Sono una straniera che si sente a casa in ogni posto che visito», dice con ironia E alla affermazione che questa sensazione ricorda molto la figura dell'apolide di Edward Said, sorride divertita dal paragone.

Un nomadismo intellettuale, tuttavia, che viene gestito con rigore, come testimoniano i suoi libri sulle Città globali o sulla globalizzazione (Fuori controllo, Globalizzati e scontenti, Sociologia della globalizzazione), dove Saskia Sassen dosa sempre sapientemente l'eterogeneità della sua formazione intellettuale. Una caratteristica che accompagna anche questo ultimo libro, dove la formazione dello stato moderno è vista come un «assemblaggio» di diversi territori retti da autorità spesso in conflitto le une con le altre. Un processo lungo secoli e assai contradditorio. Più o meno come la globalizzazione, considerata a ragione come un work in progress che vede diverse istituzioni, imprese, movimenti sociali che lavorano per assemblare ciò che è distinto per storie, tradizioni culturali, realtà produttive.

 

Sono molti gli studiosi che sostengono come la crisi finanziaria rappresenti il de profundis della globalizzazione e che Barack Obama sarà costretto a una politica più attenta allla dimensione nazionale che non il suo predecessore George W. Bush, attento invece ad affermare la supremazia imperiale americana nel mondo. Lei che ne pensa?

Non credo proprio che la crisi attuale coincida con la fine della globalizzazione. Penso infatti il contrario. Se guardiamo alle misure prese per reagire alla crisi finanziaria vediamo che c'è un attivo coordinamento dei diversi governi nazionali per affrontarla. L'obiettivo dichiarato è infatti salvare la globalizzazione, mica ritornare al passato.

Negli ultimi venti, trenta anni abbiamo assistito a una trasformazione profonda dell'attività economica, nel rapporto tra gli stati, nell'azione politica dei movimenti sociali. C'è chi dice che l'interdipendenza tra le diverse realtà nazionali è l'elemento che caratterizza la globalizzazione. Questo è indubbio, ma la globalizzazione è anche altro. Le imprese, ad esempio, progettano il processo lavorativo a livello globale, i capitali ignorano i confini nazionali, le migrazioni coinvolgono centinaia di milioni di uomini e donne, modificando il panorama delle società che lasciano e di quelle che accolgono i migranti. Le città diventano globali, cioè rispondono più a una dimensione sovranazionale che allo stato nazionali in cui sono collocate. Ci sono inoltre istituzioni sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Wto che stabiliscono regole che ogni stato nazionale deve poi far sue.

Sono questi cambiamenti irreversibili, che non devono però alimentare una lettura lineare della globalizzazione. La globalizzazione è, infatti, un processo segnato da continuità, ma anche da forti discontinuità. Per queste ragioni non credo che Barack Obama privilegerà il cortile di casa, perché gli Stati Uniti sono parte integrante della globalizzazione. Obama è un leader politico intelligente e sa benissimo che se attuerà una politica «nazionalista» andrà incontro a un insuccesso. C'è ovviamente la pesante eredità che George W. Bush gli lascerà.

Durante la campagna presidenziale Obama ha detto che vuole favorire un grande cambiamento, che lo stato deve intervenire per attenuare le diseguaglianze sociali accentuate del libero mercato. Ma Obama non è un radical, né un roosveltiano; crede nel libero mercato, ma pensa che il mercato lasciato a se stesso è destinato a fallire. Nel vostro paese sarebbe definito un «centrista». Ciò che è importante, tuttavia, non sono i suoi programmi, quanto la diffusa mobilitazione sociale per la sua elezione a presidente. Gli invisibili, i senza potere, le minoranze, i migranti hanno preso la parola e hanno occupato la scena politica. È difficile che tornino a casa senza cercare di condizionare le scelte politiche che farà. Non ho il dono delle preveggenza, ma è abbastanza realistico affermare che Barack Obama dovrà fare i conti anche con loro.

 

Il suo ultimo libro è in realtà un libro su come sta cambiando il concetto di sovranità. Nel passato, i governi nazionali avevano il monopolio della decisione su un territorio ben definito. Ora non è più così. Spesso le decisioni vanno prese a livello sovranazionale e gli stati-nazionali eseguono. Mi sembra che lei punti a radiografare questo mutamento....

L'idea che io stia lavorando a sviluppare un nuovo concetto di sovranità mi piace. Allo stato attuale delle mie ricerche mi limito a dire la sovranità moderna prevedeva un monopolio della decisioni politica, ma che tale decisione doveva avere il consenso e la legittimazione dei sudditi del sovrano. Nella fase attuale tutto è molto più complesso, perché le decisioni prese dal Wto, dalla Banca mondiale, dal G8 o dal Fondo monetario non hanno né il consenso che la legittimazione dei popoli oggetto di quelle decisioni. Eppure questi organismi istituzionali o informali continuano a operare e che la legittimità avviene assemblando territori, autorità e diritti. Il problema che mi sono posta è quale ruolo possono svolgere gli stati nazionali in questo processo, giungendo alla conclusione che stiamo assistendo a un processo di denazionalizzazione che ha come protagonisti gli stati nazionali.

La globalizzazione non significa tuttavia fine dello stato-nazione, quanto una modificazione dell'equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Il potere esecutivo, ad esempio, acquista un ruolo decisivo nel tradurre localmente le decisioni prese globalmente. Allo stesso tempo il potere giuridico deve armonizzare la legislazione nazionale alle norme internazionali. Inoltre, lo stato-nazione esprime un sofisticato know how indispensabile a sviluppare quelle Authority indispensabili a negoziare con gli attori nazionali le decisioni globali. In ogni paese europeo ci sono oramai le Authority per la concorrenza, per le telecomunicazioni, per la privacy o altro ancora. Spesso sono composte da uomini e donne molto competenti che provengono dalla burocrazia statale. Dunque, nessuna scomparsa dello stato-nazione, ma un cambiamento nel suo funzionamento.

 

Ci troviamo però di fronte a un paradosso: lo stato-nazione che lavora per cedere parte della propria sovranità a istituzioni sovranazionali; oppure uno stato-nazione che diviene il guardiano sul proprio territorio per conto sempre di organizzazioni sovranazionali....

È un paradosso come dice lei, ma che consente ai movimenti sociali di rafforzare la propria azione. Prendiamo la carta delle Nazioni Unite sui diritti umani: può essere impugnata dai movimenti sociali per contrastare delle politiche nazionali; oppure possono rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia e chiedere che l'operato di un governo locale sia sanzionato. La globalizzazione è un processo all'interno del quale lo stato-nazione può anche rinunciare alla propria sovranità, ma questo non significa che sia una situazione che inibisce il conflitto sociale. Anzi, per molti aspetti l'aiuta. Prendiamo i forum sociale di Porto Alegre. Tutti ora dicono che sono finiti, che hanno perso la loro forza propulsiva. Sarà anche così, ma hanno favorito azioni globali, all'interno delle quali tanto le organizzazioni sovranazionali che gli stati nazionali hanno dovuto negoziare con i movimenti sociali globali. I conflitti che li hanno visti protagonisti non sono stati però conflitti antisistemici, per riprendere un'espressione cara a Immanul Wallerstein, bensì conflitti interni alla globalizzazione. Non puntavano cioè a uno sganciamento di questo o quello stato dall'economia e dall'ordine mondiale, quanto ad assumere che la globalizzazione era il contesto dove sviluppare la propria azione politica.

Prendiamo il movimento dei migranti negli Stati Uniti. Erano sans papiers che rivendicavano il fatto che erano loro, gli invisibili alla legge, uno dei motori propulsivi dell'economia statunitense. Erano dei «senza potere» che rivendicano il potere derivante dal loro fare, facendo leva proprio su quella terra di nessuno che non è né globale né nazionale.

 

Vuole dire che il potere non riesce a fare una mappa esaustiva della realtà sociale e che qualcosa gli sfugge?

Quello che mi preme sottolineare con la la tesi della «denazionalizzazione» è l'insufficienza dei linguaggi dominanti sulla globalizzazione. Negli anni passati abbiamo letto o sentito parlare di una omologazione culturale, dell'avvento di media globali, dell'egemonia di un pensiero unico. Ora abbiamo sì dei media globali, ma devono poi articolare forme locali nella produzione culturale. Il rap è considerato un altro esempio di omologazione culturale, visto che è suonato a Ramallah come a Los Angeles, a Parigi come a San Paulo. Ma, mentre il rap dei giovani palestinesi parla di autodeterminazione nazionale, a San Paulo descrive le favelas come una forma di vita «indipendente» dallo stato. Prendiamo Internet, il simbolo per eccellenza della globalizzazione.
Il web deve necessariamente essere globale e al tempo stesso locale. E tuttavia, nonostante tutti i tentativi di armonizzare le legislazioni nazionali, ci sono esperienze che non sono né globali, né locali e che hanno il potere di modificare la Rete, come testimoniano le esperienze di condivisione di informazione, musica e film. Quello che voglio dire è che nella globalizzazione ci sono appunto terre di nessuno né globali né locali all'interno delle quali i movimenti sociali sviluppano la loro azione che ha il potere di condizionare il suo sviluppo.

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