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moneta e credito

Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo

La lezione di John Maynard Keynes

di Maria Cristina Marcuzzo*

Abstract: Questo articolo prende spunto da due episodi dell’opera di Keynes in cui egli fece un forte appello a una logica di cooperazione piuttosto che al perseguimento dell’interesse individuale. Il primo è legato alle conseguenze economiche del Trattato di Versailles del 1919 e il secondo alla restituzione dei debiti agli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale. Invece del principio di razionalità, che sta alla base del comportamento individuale ottimizzante, Keynes si appella alla “ragionevolezza”, da applicare alle situazioni in cui un comportamento apparentemente razionale (da un punto di vista astrattamente economico) può avere risultati che possono rivelarsi contro gli interessi individuali. La lezione di Keynes è che il perseguimento dell’interesse individuale da parte delle singole nazioni, dovrà cedere il passo alla costruzione di regole e istituzioni che sorveglino il libero flusso dell’iniziativa privata e la libertà dei mercati, andando oltre il punto di vista individuale per guardare al benessere collettivo.

607bf97f e6a3 4de7 af23 b7273adfae63 largePer introdurre il tema che ho scelto di affrontare, “Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo. La lezione di John Maynard Keynes”, inizierò ricordando tre episodi recenti.

Il primo ha come protagonista, Özlem Türeci che, con il marito Uğur Şahin, ha sviluppato il vaccino anti-Covid, con l’azienda farmaceutica da loro fondata in Germania, BioNTech, e l’americana Pfizer. In una recente intervista dello scorso marzo Özlem Türeci ha dichiarato – la cito – “quanto sia importante la cooperazione e la collaborazione internazionale”.

Il secondo episodio risale al maggio 2021, quando 25 leader di paesi e organizzazioni mondiali hanno espresso l’intento di firmare un “trattato internazionale sulle pandemie”, nella convinzione – si legge nella dichiarazione congiunta – che “le sfide possano essere superate solo affrontandole insieme, in uno spirito di collaborazione”. Il Presidente Draghi nel presentare il Global Health Summit di Roma del maggio 2021 ha riaffermato la necessità di una “stretta e costante collaborazione internazionale” per vincere non solo questa ma anche altre sfide future.

Infine il terzo episodio riguarda l’intenzione – annunciata nell’aprile del 2021 – da parte della nuova amministrazione americana di avviare una riforma della tassazione societaria, rivolta in particolare ai profitti delle multinazionali. Per porre fine alla dilagante concorrenza fiscale, ha dichiarato la Segretaria del Tesoro, Janet Yellen, “è indispensabile la collaborazione internazionale”. Poco dopo è arrivata la notizia che i ministri finanziari del G7 hanno raggiunto un accordo per impegnarsi a introdurre, paese per paese, una tassazione minima globale di almeno il 15%.

Questi tre episodi sono significativi di un cambiamento nel clima di opinione, di un segnale che il meccanismo della concorrenza internazionale e la partecipazione in una globalizzazione senza regole, non sono più ritenuti sufficienti per affrontare problemi di dimensione mondiale. Dopo decenni di retorica liberista, sembra vi sia di nuovo posto per l’idea che il benessere collettivo debba essere perseguito al di fuori dei meccanismi spontanei della concorrenza e del mercato, e che sia necessaria la cooperazione internazionale dei governi e degli stati.

Fin dagli albori del capitalismo gli economisti si sono sforzati di dimostrare che la concorrenza aumenta l’efficienza dei produttori e i vantaggi per i consumatori, portando benefici all’interno di ciascun paese, e che il libero scambio nel commercio internazionale promuove lo sviluppo economico delle nazioni. Anche se nella corsa competitiva solo alcuni, per definizione, sono i vincitori, i benefici si estendono a tutta la società. Questo argomento è stato ripreso e ben riassunto nel cosiddetto Washington Consensus, secondo il quale i principi di libertà di commercio, di capitali e concorrenza sono validi e generalizzabili al mondo intero.

Gli argomenti contro questa conclusione – espressi nel corso dei secoli dai paesi o dai settori industriali più deboli – sono stati avanzati di nuovo, a volte insieme a rinnovate spinte nazionaliste e protezioniste, in risposta ai timori degli eccessi di quella che è stata chiamata una sfrenata corsa al ribasso (race to the bottom) per accaparrarsi il vantaggio individuale.

I sostenitori della concorrenza e del libero mercato obiettano che i paesi che rimangono indietro nella corsa competitiva dell’offerta di prodotti, possono avvantaggiarsi offrendo a più bassi costi il lavoro; lo sviluppo e il benessere economico – questa è la tesi – sarebbero comunque garantiti.

È chiaro tuttavia che l’esistenza di un conflitto di interessi nella corsa competitiva, nell’arena dei mercati, non può essere ignorata e si è visto che riemerge periodicamente in molte occasioni. Casi diversi, ma esemplificativi di conflitti di interessi, avvengono quando si apre un solco tra un blocco tra paesi creditori e paesi debitori, quando i paesi non obbediscono a regole di comportamento rispettose dell’impatto o delle esternalità negative sugli altri, come nel caso del riscaldamento globale e dello sfruttamento delle risorse naturali, o quando si infrangono regole o si esercitano pratiche commerciali che impediscono la libera concorrenza.

Ci sono quindi ragioni forti per cui l’intervento dei governi e la cooperazione internazionale appaiono necessari. Nel caso delle pandemie, gli argomenti per favorire la collaborazione tra i paesi si basano su evidenti ragioni etiche e di giustizia sociale ed è perciò più facile trovino consenso, mentre gli argomenti che colpiscono gli interessi di natura squisitamente economica non sono facilmente accettabili, specialmente da coloro che ne verrebbero colpiti.

È su questo aspetto che la lezione di John Maynard Keynes può aiutare a mettere meglio a fuoco la questione. Lo farò prendendo spunto da due episodi del suo operato in cui Keynes fece un forte appello ad una logica di cooperazione invece che di perseguimento dell’interesse individuale.

L’obiettivo del libro, pubblicato nel 1919 e che lo rese famoso, Le conseguenze economiche della pace, era di mostrare come la Grande Guerra avesse danneggiato il delicato meccanismo economico, grazie al quale – almeno dall’angolo di visuale di Keynes – l’Europa era riuscita a prosperare nei decenni precedenti; il Trattato di Pace, negoziato a Versailles, non avrebbe rimesso in moto quel meccanismo, ma al contrario lo avrebbe definitivamente compromesso.

L’armistizio del 1918 aveva incluso la clausola del pagamento agli Alleati, da parte della Germania sconfitta, di una ingente somma per i danni arrecati alla popolazione civile. Keynes obiettò che non c’era nessun motivo per cui i danni inflitti e la capacità di pagare dovessero coincidere; secondo sue stime nel caso specifico non coincidevano affatto. Quindi l’accordo di pace prospettato non era in pratica, nelle sue parole, “né giusto né possibile”. Propose invece che gli Stati Uniti rinunciassero alla restituzione dei prestiti concessi alla Francia e al Regno Unito, per il comune sforzo bellico, come contropartita della richiesta a queste due nazioni di rinunciare alle “riparazioni” chieste alla Germania e inoltre che si optasse per un prestito agli alleati per risollevare le economie distrutte da quattro anni di guerra.

Spiegava la sua posizione con queste parole:

Qui a me interessa soprattutto non la giustizia del trattato – né l’esigenza di giustizia penale contro il nemico, né l’obbligo di giustizia contrattuale del vincitore – bensì la sua saggezza e le sue conseguenze (CWK II, p. 40; trad. it. p. 86).

Vorrei qui soffermarmi sulle parole “saggezza” (wisdom) e “conseguenze”, che sono il metro che Keynes adopera sempre per valutare ogni intervento nella sfera economica, particolarmente nei momenti di crisi e di grandi sconvolgimenti. La parola saggezza, per quanto possa apparire vaga, in realtà ha un riferimento preciso, e riguarda quello che dovrebbe essere il principio-guida del comportamento umano che si discosta da quel calcolo utilitaristico individuale, che solo in apparenza porta sempre dei vantaggi soggettivi, ma che invece talvolta va contro l’interesse del singolo.

È un principio che serve a comporre gli interessi contrapposti, appellandosi alla logica della convivenza sociale ed è invocato per sconfiggere le forze che minacciano di rompere l’ordine sociale. Invece del principio della razionalità, che sta alla base di ogni comportamento individuale ottimizzante, almeno secondo la teoria economica tradizionale, Keynes si appella alla “ragionevolezza”, da applicare a situazioni in cui comportamenti apparentemente razionali (dal punto di vista astrattamente economico) possono avere risultati disastrosi.

Va detto con chiarezza che Keynes non abbandona mai l’ideale di una civiltà fondata sulla libertà individuale, ma ritiene che il suo perseguimento non debba avvenire a prescindere da considerazioni sulle conseguenze per il benessere collettivo, dal momento che la guida senza limiti e senza regole dell’interesse individuale non lo garantisce sempre e necessariamente. È celebre un passo del suo libro più famoso e importante, La teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta del 1936, dove afferma:

L’individualismo, se lo si può purgare dei suoi difetti e dei suoi abusi, costituisce la migliore salvaguardia della libertà personale, nel senso che, in confronto a qualsiasi altro sistema, amplia enormemente il campo delle scelte personali. È inoltre la migliore salvaguardia di quella varietà di modi di vivere che emerge proprio dal vasto campo delle scelte personali, e la cui perdita è la conseguenza più grave di uno Stato omogeneo o totalitario. È questa varietà, infatti, a preservare le tradizioni in cui si incarnano le scelte più sicure e più felici delle generazioni passate; colora il presente con la diversificazione della sua fantasia; e poiché è l’ancella della sperimentazione, oltre che della tradizione e della fantasia, è lo strumento più potente per migliorare il futuro (CWK VII, p. 380; trad. it. pp. 434-5).

Tuttavia Keynes ha sempre accompagnato la sua difesa della libertà individuale con la convinzione che il benessere collettivo non si ottiene affidandosi esclusivamente al perseguimento dell’interesse privato, sia esso quello degli individui, delle imprese o dei governi. Ne Le conseguenze economiche della pace questa idea è riassunta così: “Bisogna che gli interessi e i diritti particolari, per quanto ben fondati nel sentimenti e nella giustizia, cedano a una superiore convenienza (sovereign expediency)” (CWK II, p. 60; trad. it. p. 86).

Nel primo dopoguerra, la follia degli Alleati si mostrava nell’errato calcolo di quale fosse l’effettiva possibilità della Germania di pagare, nella miopia dei governanti, le cui preoccupazioni non erano il futuro dell’Europa o del mondo occidentale, ma esclusivamente “le frontiere, gli interessi nazionali, i rapporti di forza e le mire imperialistiche”. Non vedevano le conseguenze della distruzione economica e politica di un paese che sarebbero ricadute inevitabilmente sui suoi partners commerciali, che sarebbero stati anch’essi risucchiati nel circolo vizioso di una stagnazione generale.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, come capo delegazione inglese nei negoziati con gli Stati Uniti, Keynes prese una posizione molto simile a quella descritta ne Le conseguenze economiche della pace; in nome di un principio di giustizia e di saggezza chiese agli Stati Uniti di cancellare i debiti contratti dalla Gran Bretagna, il paese “che aveva per lungo tempo sopportato da sola” – ricordò Keynes – “i costi della guerra”. Non solo Keynes non ottenne quanto richiesto nel negoziato, ma si trovò a dover difendere davanti al Parlamento inglese condizioni peggiori di quelle sperate.

In preparazione di quella occasione, nel marzo del 1945, Keynes scrive un Memorandum, in cui evoca tre scenari per il futuro dell’economia britannica e li chiama, rispettivamente: la Fame, la Tentazione e la Giustizia. La Fame rappresenta le conseguenze degli sforzi di essere finanziariamente indipendenti dagli Stati Uniti, imboccando la via dell’autarchia economica e dell’isolazionismo con una politica di razionamenti e controlli. La Tentazione è la scelta di chiedere agli Stati Uniti un prestito commerciale in cambio di un impegno al multilateralismo e all’abbandono delle preferenze imperiali. La terza soluzione – la Giustizia – è per Keynes la sola alternativa definita “ragionevole” (CWK XXIV, p. 291).

Come atto di Giustizia gli Americani dovevano concedere un finanziamento sotto forma di “dono”, consentendo al Regno Unito di ritornare alle condizioni di produzione e consumo del tempo di pace, di intraprendere la strada del multilateralismo nel sistema dei pagamenti e del commercio internazionale. Se il pagamento dei debiti del Regno Unito fosse invece stato negoziato su pure basi commerciali, come richiesto dagli Americani e come in effetti riuscirono ad ottenere, il Regno Unito avrebbe dovuto comprimere drasticamente la domanda interna e questo avrebbe creato una deflazione con ripercussioni a livello mondiale. Come sappiamo bene, queste conseguenze furono in parte poi evitate grazie al Piano Marshall e ai massicci aiuti americani per la ricostruzione in Europa.

L’argomento del “dono” è presentato seguendo il filo di un ragionamento molto simile a quello svolto ne Le conseguenze economiche della pace. Scrive Keynes nel Memorandum del marzo 1945:

È solo attraverso un accordo più complessivo, che tenti di offrire a tutti quello che è ragionevole, e per quanto riusciamo, giusto che le conseguenze finanziarie della guerra possono essere liquidate (CWK XXIV, pp. 291-292, mia traduzione).

Qui ancora una volta Keynes fa un appello al rispetto della verità dei fatti, alla presa coscienza di tutte le conseguenze, utilizzando le armi della persuasione contro l’opacità della politica, l’ignoranza della realtà e l’intreccio degli interessi individuali. Gli esiti negativi di un eventuale rifiuto alle richieste inglesi da parte americana, sono l’eco del giudizio sull’intransigenza degli alleati nel richiedere riparazioni alla Germania; in questo caso le sue parole sono altrettanto forti:

Gli Americani perderebbero l’occasione di essere magnanimi in cambio di un beneficio finanziario totalmente inutile e forse anche dannoso. Questo risultato avrebbe l’approvazione solo da parte di coloro che credono che il dovere verso Dio e l’umanità sia che ogni azione umana debba avere la natura di un rapporto di affari (CWK XXIV, p. 293, mia traduzione).

Keynes ha sistematicamente impiegato il termine “ragionevole”, spesso contrapponendolo alla “ragione” dei vincitori o dei creditori, per connotare una guida all’azione non caratterizzata da quel calcolo utilitaristico, cosiddetto “razionale”, che a volte solo apparentemente è nell’interesse individuale. L’azione ragionevole è guidata da una valutazione che tiene conto delle circostanze contingenti, mutevoli, nella misura in cui siamo in grado di conoscere la realtà dei fatti.

Mentre la razionalità economica sembra autorizzare le richieste dei creditori di una restituzione dei debiti, imponendo sacrifici, ignorando le esigenze dei più deboli, invocando regole rigorose e minacciando la coesione sociale e la sicurezza. Al contrario, la ragionevolezza di Keynes chiama in causa una valutazione delle circostanze, invita ad esercitare immaginazione e creatività alla ricerca di soluzioni caratterizzate dal fatto di essere analizzate da un punto di vista generale invece che individuale.

In conclusione, la caratteristica che distingue l’approccio di Keynes è una concezione dell’economia come estensione di possibilità, invece che un gioco di scelte alternative entro vincoli dati, una concezione che si contrappone a quella basata su una visione di interessi opposti, e che propone soluzioni volte a salvaguardare l’interesse collettivo, la sola che possa portare alla prosperità e all’armonia sociale. Per questo fine è necessaria la cooperazione internazionale attuata attraverso la creazione di istituzioni apposite.

Abbiamo almeno due esempi concreti in cui Keynes propone istituzioni di questo tipo: nel 1938 con lo schema di Buffer Stocks e nel 1944 con la Currency Union. In entrambi i casi fu sconfitto, perché la logica che li ispirava era troppo in contrasto con singoli interessi, soprattutto degli Stati Uniti.

Nel periodo tra le due guerre, la variabilità del prezzo delle materie prime è al centro dell’attenzione di Keynes, che la spiega con la mancanza di incentivi per i privati a detenere scorte. A differenza di altre forme di ricchezza, come gli assets finanziari, le materie prime non attraggono l’investimento degli agenti economici perché non danno rendimenti e hanno costi di stoccaggio. Per supplire alla scarsità di scorte private adeguate e per avere una quantità che consenta di adeguare produzione e offerta a consumi e domanda, Keynes propone di mettere a disposizione pubblica una quantità di scorte di materie prime da amministrare attraverso l’istituzione di una organizzazione sovranazionale. Attraverso l’intervento di acquisto e di vendita delle merci prescelte, all’interno di un corridoio prefissato nel quale mantenere il prezzo di ogni data materia prima, si sarebbe ridotta la volatilità e si sarebbe reso più fluida l’offerta. Il punto è che queste politiche non dovevano interferire con le forze di mercato di lungo periodo, ma solo prevenire fluttuazioni di prezzo di carattere temporaneo o speculativo. Tra il 1942 e il 1944 le proposte di Keynes sul controllo delle materie prime, attraverso un accordo di collaborazione internazionale chiamato Commod, furono ampiamente discusse e dibattute, ma alla fine lasciate cadere, perché andavano contro gli interessi particolari.

Il secondo episodio è anch’esso coevo e di fatto collegato negli scopi che Keynes si prefiggeva di raggiungere, ovvero una nuova architettura del sistema degli scambi commerciali e del sistema dei pagamenti internazionali.

Nel 1940 a Keynes fu affidato dal governo inglese l’incarico di preparare un piano per il nuovo ordine monetario internazionale per il periodo post-bellico, e da qui nacque la sua proposta di una International Clearing Union per promuovere il libero scambio, l’armonizzazione degli interessi dei singoli paesi, e lo sviluppo economico globale. La Clearing Union doveva accreditare a ciascun paese una somma proporzionale al loro volume di commercio internazionale. Questa somma sarebbe stata espressa in Bancor, una pura unità di conto, una moneta mondiale distinta dalle valute nazionali emesse da ciascun paese, riservate all’uso interno.

Ai paesi in deficit strutturale della bilancia dei pagamenti sarebbe stato consentito di svalutare in maniera ordinata, evitando quel tipo di mosse unilaterali, che avevano contribuito a sovvertire il commercio internazionale negli anni Trenta. I paesi in surplus, invece, avrebbero dovuto discutere con il direttivo della Clearing Union come pareggiare i propri conti, in piena libertà di scelta tra un aumento della domanda interna, una rivalutazione, un abbattimento delle tariffe e un prestito internazionale da concedere. L’aspetto innovativo delle proposte di Keynes sta nel mettere sullo stesso piano i paesi in surplus e quelli in deficit, anche in questo caso contro la logica economica tradizionale, che fa cadere l’onere dell’aggiustamento esclusivamente sui debitori.

Come è noto anche in questo caso, Keynes fu sconfitto e il sistema monetario che emerse sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale non fu il Piano di Keynes, ma il Piano del Segretario del Tesoro Americano, Harry Dexter White, basato sul dollaro.

A Keynes fu rimproverata ingenuità politica: tentava con la persuasione di mostrare una via per superare interessi contrapposti, una via che appariva ad alcuni come impossibile. Il suo biografo scrive che Keynes si rifiutava di accettare che poiché gli interessi inglesi e americani erano in quel momento opposti, il ricorso alla logica e alla retorica della persuasione – in cui Keynes certamente era insuperabile – non li avrebbe potuto rendere conciliabili.

A Keynes va il merito – anche se non riuscì nel suo intento – di aver presentato i termini della soluzione del problema, fornendoci una lezione da cui poter imparare. Il richiamo alla collaborazione e alla cooperazione internazionale trova la sua ragione d’essere non nella negazione dell’esistenza di interessi contrapposti, ma nella comprensione del loro implicito potere deflagrante e, dunque, della loro componibilità in un’ottica lungimirante. Ci sarà sempre un prevalere di chi è più forte all’interno di qualunque negoziato o istituzione, ma la lezione di Keynes è che questo non ci deve fermare nello stabilire regole e incentivare comportamenti che rendano la collaborazione possibile e raggiungere un risultato più giusto ed efficiente.

Quest’anno l’Italia ospita il G20 e l’Accademia dei Lincei è la capofila di un evento importante: la predisposizione di due documenti da sottoporre ai governi, elaborati dalle Accademie dei paesi coinvolti, il cosiddetto S20 e, per la prima volta, anche di un documento elaborato dalle Accademie che operano nel campo delle Scienze Sociali e Umanistiche, il neo- istituito SSH20.

Quando questi documenti saranno resi pubblici, si vedrà che la filosofia che li ha ispirati e le raccomandazioni che vengono suggerite vanno tutte nella direzione della cooperazione internazionale, di un forte richiamo a collaborare in una comune ricerca di soluzioni e rimedi. Sia che si tratti di affrontare una pandemia, che di cogliere le opportunità create dalle crisi e dagli sconvolgimenti sociali in atto, il perseguimento di un interesse individuale, da parte delle single nazioni, attraverso la concorrenza e la rivalità commerciale di imprese multinazionali, dovrà lasciare spazio alla costruzione di regole e istituzioni che vigilino sul libero svolgimento dell’iniziativa privata e della libertà dei mercati, superando il punto di vista individuale per guardare al benessere collettivo.

Il principio di “ragionevolezza” invocato da Keynes speriamo possa essere la guida per perseguirlo.


* Questo è il testo integrale della lezione da me tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei il 1 Luglio 2021, per la cerimonia di chiusura dell’anno accademico.

Riferimenti bibliografici
CWK II – Keynes J.M. (1919), The Economic Consequences of the Peace, London: Macmillan; come rist. in The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. II, a cura di E. Johnson e D. Moggridge, London: Macmillan, 1971; trad. it. Le conseguenze economiche della pace, Milano: Adelphi, 1971.
CWK VII – Keynes J.M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money. London: Macmillan; come rist. in The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. VII, a cura di E. Johnson e D. Moggridge, London: Macmillan, 1973; trad. it. Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta e altri scritti, Milano: Mondadori, 2019.
CWK XXIV – Keynes J.M. (1945), “Overseas financial policy in stage III”, in The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. XXIV, a cura di E. Johnson e D. Moggridge, London: Macmillan, 1979.

Sapienza Università di Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Per citare l’articolo:
Marcuzzo M.C. (2021), “Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo.La lezione di John Maynard Keynes”, Moneta e Credito, 75 (297): 3-9.
DOI: https://doi.org/10.13133/2037- 3651/17739
JEL codes: B27, B3, B49
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