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Nel nuovo capitalismo ammortizzatori da ripensare

Bruno Amoroso*

La cassa integrazione era funzionale all’economia com’era prima della globalizzazione e della finanziarizzazione. Un obiettivo importante è quindi quello di sostenere un sistema di economie di comunità (già economia sociale) che si facciano carico di dare risposta ai problemi che emergono dal nuovo quadro

fiat terminiGli eventi ed il dibattito politico-sindacale sviluppatosi di recente a partire dalla cassa integrazione e poi estesosi al sistema degli ammortizzatori sociali mettono bene in evidenza la rilevanza del problema ed il bisogno di ripensare ed ampliare strumenti e politiche al riguardo. Tuttavia questo avviene tuttora con un approccio che considera fondamentalmente immutato il paradigma produttivo e politico generale e propone mutamenti tutti in chiave di ampliamento e quantità, ma non di qualità. Un approccio che attribuisce tuttora al sistema degli ammortizzatori sociali il ruolo di garantire un reddito minimo ai lavoratori in caso di disoccupazione e di consentire il mantenimento del loro livello di professionalità e del legame con il luogo di lavoro.

Entrambe queste funzioni, pensate prevalentemente per i lavoratori della grande industria e solo di recente estese ad altri gruppi di lavoratori, sono state ispirate dal contesto generale di funzionamento dell’economia capitalistica nei primi due decenni del dopoguerra e, quindi: 1) limitate al mercato del lavoro capitalistico ed ai gruppi più forti di questo; 2) guidate dal principio del ciclo capitalistico caratterizzato da fasi di recessione e da fasi di ripresa in un contesto di crescita economica.

L’ammortizzatore sociale consentirebbe la copertura dei redditi e della professionalità del lavoratore nell’impresa nelle fasi brevi della recessione, per poi riaffidare all’imprenditore la gestione del ciclo produttivo. Spettava allo Stato fornire mezzi e politiche per aree del bisogno sociale e del lavoro non coperte dall’economia capitalistica.

Oggi ci troviamo di fronte ad un cambiamento strutturale dell’economia che agisce mediante e dentro un meccanismo di accumulazione che non persegue più - almeno nelle economie più avanzate - il profitto mediante l’ampliamento della produzione e dei servizi (il capitalismo fordista della produzione di massa per il consumo di massa), ma realizza i propri utili di impresa mediante la rendita. Questo avviene con l’esproprio dei risparmi (finanza), ed il controllo dei circuiti di produzione (tecnologia ed innovazione mediante i copyright e la redistribuzione dell’attività industriale a livello mondiale) a vantaggio esclusivo delle fasce ricche del mercato.

Questo spiega l’abbandono di interi settori del mercato e della domanda di beni e servizi per i ceti popolari, oltre che di interi mercati negli altri paesi. Siamo cioè in presenza di un processo di dismissione industriale e produttiva in genere che non ha nulla di ciclico ma costituisce invece l’abbandono definitivo dell’imprenditorialità capitalistica come da noi conosciuta fino agli anni Sessanta.

Su ciclo e sviluppo c’è da dire che dall’insegnamento keynesiano abbiamo imparato che il ciclo in un’economia monetaria e finanziaria è connaturato al sistema. Le politiche keynesiane hanno moderato i picchi ed evitato conseguenze più pesanti. La finanziarizzazione, la globalizzazione e il progresso scientifico e l’innovazione tecnologica  degli ultimi anni hanno modificato molto le cose:

1.   la finanziarizzazione ha accorciato drammaticamente l’orizzonte delle scelte e stravolto la stessa concezione dell’azienda come comunità che produce nel tempo;

2.   l’innovazione e il progresso scientifico fanno sì che dal ciclo non si esce con la stessa composizione produttiva (come poteva essere almeno in parte una volta), ma richiede modifiche della struttura produttiva stessa (sostenibilità, divisione del lavoro con altri paesi, ecc.) con tutti i problemi occupazionali quantitativi e qualitativi;

3.   la globalizzazione è stata utilizzata per delocalizzare e desertificare tessuti produttivi e sociali, nel mettere in concorrenza milioni di lavoratori occidentali con i miliardi dei lavoratori dei paesi esterni all’area occidentale. La finanziarizzazione e globalizzazione hanno inoltre indebolito molto il governo dell’economia degli Stati nazionali.

Il modello di “efficienza produttiva ma soprattutto finanziaria” perseguito in questo contesto da una parte e la filantropia di Stato dall’altra è un modello criticabile per quella stessa concezione di produttività ed efficienza, ma anche per l’esclusione e la deresponsabilizzazione per coloro che sono tenuti ai margini del lavoro sociale. E quindi anche antidemocratico. Questo modello di crescita capitalistica - le cui esigenze sono peraltro introiettate dalle classi dirigenti e dalla loro politica economica - comporta una sistematica redistribuzione del reddito e della ricchezza tra paesi e all’interno degli stessi tra ceti sociali, a scapito dei settori più deboli della società; i riflessi a livello sociale sono la maggiore e crescente disuguaglianza e la frammentazione del legame sociale.

Lo stesso modello del reddito minimo garantito di per sé se non collegato al diritto/dovere del lavoro ha gli stessi limiti prima ricordati. D’altra parte è il modello democratico della nostra Costituzione che richiede di rendere effettivo il riconoscimento del diritto e dovere al lavoro. Occorre quindi pensare a nuovi modelli di inclusione sociale.

Per queste ragioni ogni ragionamento e proposta che si soffermi sulla riforma ed il miglioramento del sistema degli “ammortizzatori”, facendone un problema di ingegneria finanziaria e istituzionale, è condannato al fallimento perché non più funzionale agli scopi che si prefiggeva ed è destinato ad esaurire le proprie fonti di sostegno (politico) e di finanziamento (economico) in una situazione nella quale con la scomparsa della grande impresa nazionale e dei lavoratori a questa collegata drena le fonti del prelievo fiscale che costituiscono la condizione per il funzionamento dello Stato del benessere. Si è così dissolto il dualismo funzionale sul quale fu costruito lo Stato del benessere, tra un capitalismo virtuoso che produceva occupazione e redditi, e soddisfaceva gran parte della domanda di mercato, ed uno Stato che grazie al prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta copriva gran parte della domanda di servizi.

Qualsiasi intervento per un “nuovo” welfare deve tener conto della forte complementarietà tra i tre livelli - economico (lavoro), politico (ammortizzatori) e civile (impresa sociale) - se si intende attivare un processo efficace di contenimento della redistribuzione in atto e fornire una rete di protezione ai settori sociali più esposti al fine di garantire un contesto di maggiore partecipazione. Un obiettivo importante è quindi quello di sostenere un sistema di economie di comunità (già economia sociale) che si facciano carico di dare risposta ai problemi che emergono da questo quadro (occupazione, reddito, beni e servizi utili) ricollegando tutto ciò che il mercato globalizzato e il ridimensionamento del welfare sta separando.

Il mercato capitalistico di oggi è una realtà complessa e articolata con variegate forme di transizione - verso la globalizzazione alcune e altre verso la riscoperta del valore nazionale e locale delle economie - alla quale il nostro progetto non intende essere alternativamente esaustivo, bensì complementare ed aggiuntivo con le altre realtà di mercato che, in modo crescente, comprendono sistemi produttivi e mercati locali dentro il sistema delle relazioni sociali, ed imprese di comunità impegnate nella produzione ed offerta di servizi utili alle comunità. Queste tendenze sono già presenti in varie forme sul territorio nazionale e andrebbero potenziate mediante la transizione che si rende necessaria ed ancora in corso dal mercato del lavoro capitalistico in via di smantellamento e nuove forme di impresa e di occupazione.

Questa ricerca si propone di prendere in esame esperienze e proposte oggi esistenti e di rileggere le esperienze storiche del passato che si sono confrontate con risposte alternative all’economia capitalistica e di sostegno alla creazione dell’economia sociale (movimenti cooperativi e non profit; proposte per fondi di solidarietà e di investimento, ecc.). Proposte ed esperienze, oggi espresse anche intorno al concetto di “impresa sociale”, che devono però uscire dalla nicchia del “terzo settore” – terzo tra Stato e Mercato – e proporsi invece come agenti della costruzione di un nuovo modello sociale di accumulazione, di economia e di mercato.

In questo contesto il nostro progetto si propone di rileggere l’esperienza degli ammortizzatori sociali per una loro ristrutturazione in direzione di forme nuove che, insieme alla garanzia del reddito minimo dei lavoratori, consentano l’avvio di forme nuove di imprenditorialità e di impresa sociale che sostituiscano il vecchio ciclo economico – da disoccupazione a occupazione nel mercato capitalistico – con uno nuovo da disoccupazione nel mercato capitalistico a nuove forme di occupazione nella grande impresa pubblica per i settori strategici e nell’impresa sociale. Esperienze pilota già fatte in questi ambiti saranno oggetto di attenzione e riflessione.
 

* Bruno Amoroso per il Gruppo di ricerca, nato da una collaborazione tra il Centro Studi Federico Caffè e l’Associazione per i diritti sociali, promosso da Giuseppe Amari, Claudio Gnesutta, Renato Greco, Pierluca Ghibelli e Nino Lisi.

 

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