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ilcomunista

Essere marxista, essere comunista, essere internazionalista oggi

di Samir Amin

Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [estratto dal libro di Samir Amin LA CRISI. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto Rosso 2009].
Samir Amin è stato un economista, politologo, accademico e attivista politico egiziano naturalizzato francese

samiraminIo sono marxista. Per me vuol dire “partire da Marx”. Sono convinto che la critica che Marx ha messo nell’agenda del pensiero e dell’azione – la critica del capitalismo, la critica della sua rappresentazione centrale (l’economia politica del capitale), la critica della politica e del suo discorso – costituisce l’asse centrale e imprescindibile delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.

Io non sono “neo-marxista”. Per esserlo, bisogna confondere Marx e i marxismi storici, il che non è il mio caso. I “neo-marxisti” vogliono rompere con il marxismo storico e pensano che bisogna andare “oltre Marx”. Di fatto, essi si oppongono solo a quelli che io definisco “paleo-marxisti”, cioè ai seguaci acritici del marxismo storico, in particolare il “marxismo-leninismo” nelle sue diverse versioni. Essere marxista come intendo io non significa essere “marxiano” (che trova “interessante” una qualche “teoria” di Marx, isolata dal resto dell’opera), né essere “marxologo”.

Significa necessariamente essere comunista.

Marx non dissocia teoria e prassi. Non si può seguire la scia di Marx se non ci si impegna nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Essere comunista significa anche essere internazionalista. L’internazionalismo non è solo un’esigenza della ragione umanista. Non si cambierà mai il mondo se si dimentica l’immensa maggioranza dei popoli che lo costituiscono, quelli delle periferie.

Questi popoli hanno la responsabilità del proprio avvenire. Non sono i popoli dei centri imperialisti opulenti che possono da soli “cambiare il mondo” (in meglio). La carità, gli aiuti, l’umanitarismo, che si vuole sostituire all’internazionalismo, inteso come solidarietà nelle lotte, contribuiscono solo a consolidare il mondo come è, o, peggio, ad avviarlo verso la costruzione di un apartheid su scala mondiale.

Nel testo che segue, tento di esplicitare le conclusioni cui sono giunto oggi, rispetto alla critica del capitalismo e alle lotte intraprese dalle sue vittime. Non si tratta di “conclusioni definitive”, termine estraneo al mio pensiero (che, penso, si unisce qui a quello di Marx). Un buon numero delle tesi qui presentate hanno la loro storia nel percorso del mio lavoro. Da una prima formulazione alla seguente, ho evidentemente beneficiato di nuove letture – o riletture – ma ho anche tentato di tener conto dell’evoluzione del capitalismo e delle nuove lotte. Ho voluto che il testo restasse di facile lettura e per questo non ho fatto riferimento al percorso dei concetti e delle proposte in questione.

 

1. Conflitti politici, conflitti sociali. Realtà e rappresentazioni

1. Ho insistito sul rovesciamento della relazione fra istanza politica e istanza economica con cui definisco il capitalismo.

Tale rovesciamento – l’istanza economica diventa dominante e in quanto tale si sostituisce all’istanza politica – indica una trasformazione qualitativa nella storia. Il sistema sociale del capitalismo non è un sistema di classi “come” il precedente, solo fondato su un grado più avanzato di sviluppo delle forze produttive. La borghesia non è in rapporto conflittuale con il proletariato “come” l’aristocrazia lo era con i contadini. Il rapporto non è solo un rapporto di sfruttamento (come in entrambi i casi); è un rapporto qualitativamente nuovo. Insisto anche sulla trasformazione qualitativa dell’ideologia (preferirei il termine di “rappresentazione” – vedere più in là) dominante, “metafisica” nei regimi antichi, “economicista” nel capitalismo.

La lettura dell’opera – convincente – di Isabelle Garo (Marx, une critique de la philosophie, Point, 2000) mi conforta nella mia lettura di Marx, che è anche quella della filosofa citata, ma che non è stata dominante nei marxismi storici.

Lo Stato capitalista non è soltanto uno Stato di classe “come” lo Stato dell’Ancien Régime. E’ anche uno Stato nuovo, qualitativamente nuovo. La politica non è la ricerca dell’esercizio del potere, a beneficio della classe dominante, “come” era prima. E’ una politica qualitativamente diversa. In questo senso si trova confortata la mia insistenza sulla “rottura” rappresentata dall’invenzione della “modernità”.

2. Il rapporto fra i conflitti politici (lo Stato) e le lotte di classe (nella sfera della gestione economica e sociale) è specifico del capitalismo, diverso da ciò che era prima del capitalismo.

Al centro di questa trasformazione io ritrovo la novità introdotta dalla modernità: la proclamazione che l’essere umano (individualmente e collettivamente) fa la sua storia e la vuole fare a modo suo, in luogo e al posto di Dio, degli antichi o delle consuetudini. Questa trasformazione rende necessaria e possibile la democrazia, che è dunque una dimensione nuova della vita sociale e ha solo rapporti lontani con la “democrazia ateniese” o con tutte le forme di consultazione e di organizzazione del dibattito intorno alle decisioni da prendere, nelle società antiche. Né la “shura” islamica, né “l’albero delle parole” africano, né i “consigli di villaggio” indiani sono paragonabili alla democrazia moderna, che per la prima volta si permette di “inventare” e non più soltanto di “interpretare” (la religione o gli usi). La modernità e la democrazia avviano la liberazione dell’individuo e potenzialmente della società. Ma l’avviano soltanto, perché restano rinchiuse nelle esigenze della riproduzione capitalistica. Questo avvio non manca di importanza. Lungi dal disconoscerlo. La democrazia permette alle lotte sociali (lotte di classe) di affermarsi come tali, di espandersi ed eventualmente di permettere la trasformazione decisiva, la concezione del socialismo – oltre il capitalismo – e il rafforzamento della lotta in questa prospettiva.

Nello stesso tempo, la modernità e la democrazia trasformano lo Stato e la politica, luoghi di conflitti sul potere e di conflitti sull’articolazione fra il suo esercizio e gli interessi sociali, anch’essi a loro volta in conflitto sul proprio terreno. La complessità delle “lotte politiche” diventa una realtà

importante e produce una differenziazione e una moltiplicazione delle rappresentazioni della realtà e delle poste in gioco, da parte di attori anch’essi continuamente in corso di differenziazione e moltiplicazione.

3. Come nota l’acuta analisi della Garo, Marx è estremamente attento alle complesse interferenze delle “rappresentazioni”, dei sistemi di idee (delle “ideologie”) generali o particolari di un settore particolare di lotta sociale e/o politica (e di entrambe).

Marx usa a questo proposito un vocabolario dal ventaglio molto ampio. Isabelle Garo ne segnala sedici: apparenza, rappresentazione, presentazione, astrazione, espressione, significato, ideologia, finzione, riflesso, analogia, visione, feticismo, illusione, metodo, produzione intellettuale, immaginazione.

 

2. Marx, critica del pensiero sociale, centralità della “rappresentazione”

1. Marx non è “un” filosofo, “un” economista, “un” sociologo, “uno” storico. Non è neppure un sapiente che riunisce tutte queste competenze. E’ più di questo, egli è “il” critico della filosofia, dell’economia politica, della sociologia, delle rappresentazioni della storia.

Egli è il critico del pensiero sociale, che trova le sue formulazioni diversi segmenti della conoscenza che vanno sotto i titoli enunciati.

Tutte queste conoscenze “specializzate” (economia, storia sociale, storia politica) o “generali” (filosofia) hanno in comune il fatto di essere tutte delle “rappresentazioni della realtà”, o di voler esserlo.

Sono dunque delle produzioni intellettuali.

Anche la filosofia, tutte le filosofie, sono delle rappresentazioni.

Che si tratti della filosofia greca, di quella dei Lumi o dell’Europa classica, delle filosofie “moderne” (posteriori a Marx), sono tutte produzioni intellettuali e perciò stesso non si possono capire fuori dalla realtà sociale (la formazione storica economica e sociale sulla quale tornerò più avanti) nel cui ambito hanno trovato la loro formulazione.

E’ il caso anche delle religioni che hanno svolto il ruolo (e ancora lo svolgono) di filosofie.

Sono delle rappresentazioni che hanno trovato il loro posto come rappresentazioni dell’Universo, della società e dell’essere umano nelle formazioni sociali dell’epoca in cui si sono costituite. A mio parere, sono anche state “le” rappresentazioni principali e fondamentali adatte alle esigenze della riproduzione delle formazioni sociali che ho definito “tributarie”, anteriori alla modernità capitalistica. Ma hanno dimostrato anche la loro plasticità, cioè la loro capacità di reinterpretarsi per sopravvivere alle trasformazioni della formazioni sociali. In questo, esse condividono con molte, se non tutte le rappresentazioni, la capacità di evolvere per conto proprio. Le evoluzioni sono governate dalla loro logica interna e dalla logica che regge la formazione sociale nel suo insieme.

Una conciliazione che può essere fruttuosa o meno, possibile o meno, vantaggiosa e positiva oppure negativa secondo i casi (tornerò su questa questione che ho definito di “sottodeterminazione”).

Succede lo stesso con le filosofie, o sistemi di pensiero, delle altre società “non europee”. Il confucianesimo è una rappresentazione.

E’ stato anche una rappresentazione forte e flessibile, forte perché flessibile. Ha avuto una prima formulazione originaria, poi è stato conciliato con il buddismo (dei Tang in particolare), poi è stato riformulato (all’epoca dei Song e dei Ming, prima dell’intrusione occidentale nella storia della Cina) in uno spirito risolutamente iniziatore della modernità, con l’abolizione della religione (buddista) di Stato e l’invenzione di una prima laicità. In questo momento, la “filosofia cinese” precede quella dei Lumi (che ne è stata ispirata molto più di quanto si creda in generale, come ha dimostrato Etiemble). Il confucianesimo trova ancora un posto nuovo nel tentativo della Cina moderna nazionalista di conciliarlo con il capitalismo, tentativo “disgraziato”, a mio avviso, che apre la porta alla penetrazione del marxismo/maoismo e del comunismo. Una conciliazione che si tenta di nuovo in quest’epoca post-maoista? Questione seria e importante.

Questo confucianesimo (o pseudo tale, non importa) è sempre l’ideologia dominante a Taiwan, e anche in parte del Giappone (in una versione deformata per l’innesto sullo scintoismo) e in Corea.

Ciò che diciamo qui della filosofia come “rappresentazione” (generale) è valido anche per le rappresentazioni parziali, in particolare per l’economia politica e le ideologie politiche (liberismo e altre).

2. Marx non vuole essere soltanto un critico delle rappresentazioni. Vuole essere anzitutto un critico della realtà, poi delle sue rappresentazioni, per poi essere il critico delle prassi, in primo luogo delle scelte compiute dai protagonisti della storia sulla base delle rispettive rappresentazioni.

In Marx queste tre dimensioni della critica sono indissociabili.

L’ambizione di una critica della realtà viene per prima. Con questo Marx intende che è possibile una rappresentazione corretta della realtà. La scoperta – progressiva – della realtà (di ciò che sono veramente le società di ieri e di oggi) costituisce la sua prima e continua preoccupazione.

In altri termini, Marx pensa che la rappresentazione può diventare scientifica, cioè può permettere di scoprire la realtà reale. Ne propone una formulazione (la sua personale “produzione intellettuale”) fondata sul concetto (astratto) di formazione sociale storica. Questa formulazione (a mio modesto avviso e quali ne siano i limiti) è ampiamente superiore a tutte le altre “teorie” della società e della storia proposte fino a oggi.

Per giungervi, Marx fa due scelte.

La scelta del materialismo: cioè dell’esistenza di una realtà al di fuori (e prima) della sua rappresentazione, che sia corretta (forse parzialmente) o meno (illusoria).

La scelta della dialettica: la realtà è indissociabile dal suo movimento, governato dalla contraddizione (A e B in conflitto) e il suo superamento con l’invenzione di C, che non è la vittoria di A su B o viceversa, né un nuovo miscuglio dei due. Questa dialettica materialista (termine che preferisco a “materialismo dialettico”) supera qualitativamente la logica formale. Qui rinvio a ciò che ho già scritto a questo proposito.

Il “prodotto” dell’esercizio di questo metodo da parte di Marx (“l’opera di Marx”) va allora considerato con tutta la serietà che merita. Nei “marxismi storici” è stato troppo spesso considerato un “prodotto finale”. Non c’è nulla da aggiungere, nulla da correggere.

Non è il mio punto di vista; per me essere marxista significa “partire da Marx”, non fermarsi a lui.

Marx non si ferma alla critica della realtà e delle sue rappresentazioni. Egli constata che gli esseri umani, individualmente e collettivamente, sono impegnati in un’attività permanente che agisce, trasforma e vuole trasformare la realtà. Essi agiscono attraverso e per mezzo delle rappresentazioni che si fanno di questa realtà. Anche i “conservatori” che pretendono di non cambiare nulla, agiscono se non altro per impedire il cambiamento. Marx si pone in questa attività permanente, e sceglie il suo “campo, non solo quello degli sfruttati e degli oppressi (chi oserebbe dire che non esistono!) per ragioni morali e umane (del tutto rispettabili). Egli sceglie il campo di coloro che vogliono “cambiare il mondo” aiutandolo a “partorire” ciò che obiettivamente è in gestazione: l’abolizione dello sfruttamento e dell’oppressione, l’abolizione delle classi, la sostituzione del comunismo al capitalismo, che sono necessari (nel senso che il movimento va in quella direzione) e dunque possibili.

3. Questa opzione, alla quale aderisco totalmente, pone tuttavia tre serie di interrogazioni imprescindibili.

In primo luogo: l’emancipazione, configurata come l’avvenire comunista, si definisce come liberazione dalle alienazioni che sono al-l’origine della distanza che separa le rappresentazioni del mondo dalla sua realtà. Da parte mia, a questo proposito ho proposto una classificazione che ordina le varie alienazioni in categorie distinte e ho scelto una soluzione più modesta: il comunismo permette alla società di liberarsi dell’alienazione economicista-mercantile che è la condizione che permette la riproduzione del sistema capitalista, ma forse non delle alienazioni che ho definito antropologiche. Rinvio qui a quanto ho scritto in proposito altrove.

In secondo luogo: il capitalismo nel suo sviluppo produce il suo “affossatore” (il proletariato) e quindi è gravido del suo superamento comunista, che è possibile. Ma è anche ineluttabile? Mi guardo bene dal trarre questa conclusione, che neppure Marx raggiunge.

L’aborto, cioè l’autodistruzione di una società, è considerato ugualmente possibile. Per capirlo e dunque definire le ipotesi necessarie sia al successo sia all’insuccesso della trasformazione possibile/necessaria, ho proposto il concetto di “sotto-determinazione”, cui rinvio. In epoche di transizione come la nostra, l’intrecciarsi di determinazioni multiple avvia il sistema verso una traiettoria che può essere sia “rivoluzionaria”, sia “caotica” (“rivoluzione o decadenza”, ho scritto).

In terzo luogo, che pensare della rappresentazione della società prodotta dalla costruzione di Marx (una produzione intellettuale come le altre che egli critica)? Non bisogna sottoporre il marxismo a una critica marxista? La questione è sempre stata presente allo spirito di Marx. La rappresentazione che egli propone non è dunque una “teoria chiusa e definitiva” (il “marxismo”), ma un insieme di interrogazioni aperte, senza alcuna chiusura possibile. Non credo che lo sforzo compiuto da Karl Mannheim in Ideologia e utopia ci aiuti a progredire su questo problema perché si tratta di una critica – notevole – del marxismo storico, non di Marx.

 

3. Marx critico della realtà capitalistica e della sua rappresentazione borghese

Marx non separa mai la sua ricerca instancabile sulla vera realtà del capitalismo nel suo fondamento – l’economia capitalista – e nel suo funzionamento politico in cui si intrecciano le lotte di classe (al plurale, ben oltre il conflitto centrale fra borghesia e proletariato), dai conflitti politici. Marx scopre progressivamente la realtà della formazione sociale storica del capitalismo sezionando le rappresentazioni che essa dà di se stessa.

Aggiungo che la realtà in questione, che Marx vuole riuscire a capire (per rendere efficace la lotta necessaria a superarla positivamente), è quella delle “leggi economiche” che governano la riproduzione (preferirei dire le “esigenze” piuttosto che le “leggi”, che suggeriscono un determinismo estraneo a Marx) e nello stesso tempo delle esigenze di sviluppo della sua forma politica. Le due facce della realtà sono indissociabili.

Anche qui condivido l’opinione di Isabelle Garo, che non vede alcuna “contraddizione” fra le analisi storiche concrete della politica in Francia dal 1848 al 1871, e le tesi del Capitale, come fa a torto Raymond Aron, male attrezzato per cogliere lo spirito della ricerca di Marx, distinguendo artificiosamente Marx “economista”, “sociologo” e “protagonista politico”.

1. Marx ha dunque prodotto una “critica dell’economia politica”, sottotitolo fondamentale del Capitale, cioè una critica del discorso economico del capitalismo. E’ in questo spirito che bisogna leggere il Capitale, non come una “buona scienza economica” che faccia da contrappunto alle cattive (o imperfette) scienze economiche degli altri (classici e volgari), ma come la scoperta della rappresentazione costituita dall’economia borghese, della sua genesi, della sua funzione (attiva) nella riproduzione del sistema. Ma anche dei suoi limiti, delle contraddizioni interne che non può superare, del suo carattere in definitiva non scientifico ma ideologico. Il termine di ideologia qui va inteso in uno dei sensi che Marx gli attribuisce, non semplicemente come “sistema di idee” “visione”, “Weltanschauung” (costruzione del mondo), ma nel suo senso “peggiorativo” di falsa coscienza, di illusione che maschera le alienazioni che ne condizionano le formulazioni.

Il continuo passaggio dal concreto all’astratto, dal fenomeno apparente all’essenza nascosta, costituisce il corpo vivo della dialettica materialista posta in azione. Il lavoro, il valore, la merce diventano allora le forme dell’astrazione scoperta, che permettono di definire il capitale come rapporto sociale, il plus-lavoro (il plus-valore) e lo sfruttamento che trova origine nel modo di produzione (e non nella circolazione e distribuzione del reddito). La discesa dall’astratto (il modo di produzione capitalistico) al concreto (la formazione sociale) integra allora le forme prodotte dalla genesi del capitalismo storico (la proprietà della terra, la rendita), quelle prodotte dalle esigenze della gestione politica (lo Stato, le politiche economiche, la gestione del credito e della moneta), e infine quelle prodotte dall’inserimento di ognuna delle formazioni sociali del capitalismo storico nel sistema capitalista mondializzato (il “commercio estero”).

Il prodotto di questo sforzo è non solo notevole, ma ineguagliato.

Tutta la “scienza economica” borghese, anche la più sofisticata dei tempi moderni, dopo Marx, anche la più critica (come quella di Keynes) fanno scarsa figura, a mio parere, di fronte al monumento costituito dal Capitale.

Ciò non impedisce che questo prodotto non sia “finale”, non può esserlo. Non solo perché Marx non ha avuto il tempo di “finirlo”, ma perché l’idea stessa del “finirlo” è estranea allo spirito e al metodo di Marx.

Marx è malgrado tutto, in qualche punto, limitato dal suo tempo.

Non si può dire che egli abbia preso una medicina miracolosa che lo ha vaccinato contro l’errore, le illusioni e le opinioni del suo tempo.

Marx non lo ha mai preteso, anche se la lettura data dai marxisti storici ha talvolta invitato a pensarlo.

Io ho dunque “osato” proporre di continuare questa critica all’economia politica, restituendo alla sfida rappresentata dal sistema capitalistico mondiale tutta l’ampiezza che merita. Perciò ho proposto di prolungare la “teoria del valore”, colta al livello più astratto della sua formulazione (nel modo di produzione capitalistico, esso stesso un’astrazione), verso la formulazione della “legge del valore mondializzata”. Oggetto centrale della mia ricerca per un mezzo secolo! Per farlo, io beneficiavo della prospettiva temporale, di un angolo di visione posto fuori del “centro” (il capitalismo sviluppato), localizzato a partire dalle sue “periferie” (il prodotto stesso della mondializzazione capitalistica), da un punto di vista che spero liberato dall’eurocentrismo. Non potevo farlo se non ponendomi nell’oggi, dopo Marx, nella nostra epoca di capitalismo degli oligopoli. E per farlo ero avvantaggiato da quanto iniziato da Lenin in questo campo.

Non tornerò quindi su tutto ciò.

La conclusione cui era giunto Marx, e che io sottoscrivo, è che l’economia politica borghese, diventata necessariamente “volgare” (e non è mai più uscita da questa volgarità) è una “ideologia” nel senso più stretto del termine: una rappresentazione “funzionale” – come dice Isabelle Garo – direttamente utile per servire la “proprietà” legittimandone la pretesa necessità. Ciò implica fin dall’inizio che la sua analisi si svolga solo sulla realtà immediata mediante la quale si esprime la vita economica. Il capitalismo intasca dei profitti in base al capitale che mette in gioco, dunque il capitale è produttivo. Nel mio libro Du capitalisme à la civilisation io ricordavo l’importanza della produttività del lavoro sociale, che oggi viene ignorata dagli “economisti di sinistra” (magari anche marxisti!), e sottolineavo che la rappresentazione dell’economia che essi propongono resta una rappresentazione “volgare”.

Non sorprenderà scoprire che alla critica di Marx dell’economia politica si sia sostituita una economia politica “marxiana” – positiva.

La deriva è stata provocata soprattutto da economisti universitari anglo-americani, prima di essere adottata da altri, e la cosa non dovrebbe sorprendere sapendo che la loro cultura è caratterizzata dall’empirismo. A questo punto viene posta la falsa questione della trasformazione dei valori in prezzi. La trasformazione implica un tasso di profitto espresso nel sistema dei prezzi di produzione che è diverso dal tasso di profitto espresso nel sistema dei valori. I nostri “marxiani” vedono qui un “errore” che abolisce la validità della legge del valore. Ma nello spirito di Marx non vi è alcuna contraddizione e tanto meno errore: il tasso di profitto apparente (espresso nel sistema dei prezzi) deve essere diverso dal suo tasso reale, esso stesso direttamente associato al tasso del plusvalore che misura lo sfruttamento del lavoro. La scienza impone sempre di andare oltre le apparenze, come Marx ha detto e ripetuto. Per i nostri economisti invischiati nell’empirismo, la conoscenza si limita alle apparenze immediate. Io insisto su questo punto, sempre incompreso dai nostri marxisti che purtroppo hanno ormai fatto scuola anche sul continente europeo.

Io ho anche proposto, sempre in questo spirito, di leggere il Marx del marxismo storico del XX secolo (il marxismo della pianificazione sovietica) e il Keynes della socialdemocrazia del welfare state come due rappresentazioni (entrambe deformate) della realtà (quella della società sovietica, quella delle società occidentali del dopoguerra). E malgrado il genio – autentico – di Keynes, il suo “economico” resta volgare. Naturalmente una volgarità diversa da quella dei “liberali”.

Ma i concetti di preferenza per la liquidità e di efficacia marginale del capitale restano letture dirette delle apparenze attraverso le quali si manifesta la riproduzione del capitale.

La sofisticazione dell’economia moderna, partita dalle università americane, non cancella il carattere volgare del metodo che rivela il fondamentale empirismo su cui si basa. Un metodo che si propone di radunare dei “dati” (cioè dei fatti come si presentano nella realtà immediata) poi di ricercarne le correlazioni che permettano di stabilire delle “leggi”.

A mio parere, la funzionalità di questa economia volgare è di un’evidenza lampante, al punto che mi è sembrato possibile stabilire un parallelo fra questa funzione e quella del discorso degli stregoni antichi (“l’economia pura o la stregoneria del mondo contemporaneo”). Leggendo i discorsi pronunciati a Davos nel 2009, quando gli economisti si agitano in contorsioni sulla crisi – “inattesa”, “inspiegata”, “inspiegabile” – mi sento molto confortato.

La rappresentazione costituita dal discorso economico (dall’economia politica dei tempi di Marx all’economia pura di oggi) ha certo un ruolo attivo per la riproduzione del sistema. Non è una “scenografia” inutile. Alla sua realtà “scientifica” credono non solo gli imprenditori, ma anche l’“opinione pubblica” tutta intera. Gli uni e gli altri pensano che i governi debbano ispirarsi alla conoscenza scientifica prodotta da questa rappresentazione per “trovare la soluzione” ai problemi, che oggi sono in particolare la crisi finanziaria, la disoccupazione ecc. La politica economica costituisce quindi il prodotto attivo di questa rappresentazione. Io non dico che questa politica economica sia sempre e necessariamente inefficace. Le “conoscenze” su cui si fonda possono beneficiare di un certo grado di “affidabilità”. La prova ne è data talvolta dall’effettiva efficacia di alcune azioni di politica economica. Ma metto molto interrogativi su questa reputazione di efficacia.

Il New Deal per esempio non ha fatto altro che attenuare l’ampiezza della crisi, e soltanto la seconda guerra mondiale vi ha posto termine. Si sa che la politica economica di Hitler, tanto vantata, non è stata realmente efficace. Si potrebbero moltiplicare gli esempi. Il capitalismo resta sempre nei fatti un sistema difficilmente padroneggiabile da parte dei suoi agenti attivi (gli “uomini d’affari”) e da coloro che, nel mondo della politica, tentano di mettervi ordine.

2. Marx ha prodotto anche una critica della politica, dello Stato e della democrazia, dei conflitti politici e delle lotte di classe.

Marx non si era posto l’obiettivo di scrivere un manuale accademico di scienza politica, come Raymond Aron. Per la critica della politica ha usato lo stesso metodo della critica del capitale.

Il terreno scelto da Marx – la politica in Francia dal 1848 al 1871 – non è frutto del caso.

Come Marx aveva scelto l’Inghilterra (il paese allora faro dello sviluppo dell’economia capitalista) per fare la critica dell’economia politica, così ha scelto la Francia per quella della politica. Perché è la Francia che ha inventato lo Stato e la politica moderna, del capitalismo. La rivoluzione inglese del 1640, seguita dall’assai poco “gloriosa” rivoluzione del 1688, la non-rivoluzione che è stata la guerra di indipendenza americana, di certo hanno innovato, ma solo a metà. E’ la Rivoluzione francese che inventa la politica moderna, e con essa lo Stato moderno. E’ una grande rivoluzione, autentica, perché si proietta molto più avanti delle “esigenze oggettive” del suo tempo, come più tardi faranno anche la rivoluzione russa e quella cinese. Questo dramma delle grandi rivoluzioni – per me di valore paradigmatico e essenziale – spiega anche i loro arretramenti ulteriori e l’instancabile continuazione dei conflitti politici intrecciati ai conflitti di classe, che costituiscono la politica moderna.

L’attenzione particolare che Marx ha dedicato alla Francia corrisponde dunque a una scelta precisa. Partendo dalla lettura dei conflitti politici e delle lotte sociali in Francia, Marx può fare la critica dello Stato e della politica e scoprire (o avvicinarsi a scoprire, per restare modesti come era Marx) la realtà dello Stato e della politica moderni. Questi scritti di Marx riguardano la rivoluzione del 1848, il 18 brumaio di Napoleone il piccolo, la Comune di Parigi, ma non sono scritti di circostanza, come pensa Raymond Aron. Non sono meno fondamentali del Capitale per comprendere insieme la realtà della formazione sociale capitalistica nella sua interezza (cioè economica, politica e sociale) e la natura delle rappresentazioni che gli attori della storia si fanno.

Marx si dedica qui a dipanare l’intreccio dei “discorsi” (delle rappresentazioni) degli attori della storia e delle lotte di classe. Egli non dimentica alcuna rappresentazione, e a tutte dà piena forza per giungere a spiegare le scelte effettuate e i risultati che ne sono emersi.

Egli attribuisce ad ognuno il posto che gli compete - agli eredi dei giacobini e dei montagnardi, alla rappresentazione “blanquista”, ai corifei della borghesia degli affari (Guizot e altri), agli avventurieri del potere (Luigi Napoleone Bonaparte), ai portavoce dei lavoratori che si organizzano, ai contadini apparentemente muti, e perfino a quelli più insignificanti (Lamartine). Più tardi, con la creazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori e poi con la Comune di Parigi “partita all’assalto del cielo”, egli incrocerà la lama con le rappresentazioni anarco-comuniste di Bakunin, con quelle esitanti di Proudhon, con quelle stataliste di Lassale, con quelle meschine del sindacalismo inglese.

La “teoria” dello Stato tracciata da Marx e Engels, e più tardi da Lenin, e quelle della democrazia e della politica moderna sono il prodotto di questa critica. O più esattamente, hanno gettato le basi di questa “teoria” che, come quella del capitale, non può essere “finita” né in teoria né in pratica. Le analisi infatti vanno indefinitamente rimesse in discussione, ripensate, riformulate. E lo Stato e la politica continuano la loro evoluzione, cambiano con la trasformazione permanente della realtà capitalistica.

Il contrasto fra l’analisi della nuova realtà compiuta da Marx e quella – prodigiosa – dell’antica realtà politica fatta da Machiavelli dovrebbe colpire i lettori attenti. Machiavelli parla della realtà di un altro tempo, di un altro potere.

La critica della politica e dello Stato proposta da Marx è fondamentale per tutta la storia del capitalismo, compresi gli sviluppi ulteriori, e nello stesso tempo “limitata” dal suo tempo. Bisognava continuare questa critica, e Lenin lo ha iniziato, ma soltanto iniziato, mentre il marxismo storico si è ampiamente invischiato nella ripetizione di ciò che Marx aveva detto al suo tempo.

Io ho tentato di continuare la critica nel mio Virus liberale.

 

4. Il virus liberale

1. Nel mio libro recente che porta questo titolo (ma con un sottotitolo importante: l’americanizzazione del mondo e la guerra permanente) mi sono proposto di fare un aggiornamento del discorso (della rappresentazione) oggi dominante, che viene definito “neo-liberale mondializzato”, e che è entrato ormai in aperta crisi.

La critica di questo discorso ha come base una rappresentazione (la mia) di ciò che è la realtà del capitalismo di oggi. Esso resta capitalismo e perciò resta valido tutto ciò che Marx ha detto di essenziale in questa materia; lavoro e sfruttamento, alienazione mercantile in espansione, feticismo del denaro, false rappresentazioni dell’individuo (alienato) e della “competizione”, Stato al servizio del Capitale, rappresentazioni alienate degli attori politici (illusione della democrazia), intreccio di lotte sociali e conflitti politici.

Non esito peraltro a completare queste rappresentazioni e la loro critica come Marx ha proposto per il suo tempo, mettendo l’accento su ciò che è nuovo nel capitalismo contemporaneo.

Il Virus liberale associa dunque due discorsi, due “rappresentazioni”: il discorso della nuova “economia pura” (la forma moderna dell’economia volgare) e il discorso sulla “democrazia americana modello”. Sono due discorsi perfettamente funzionali per servire (e dare apparenza di legittimità) al dominio degli oligopoli su scala dei centri diventati l’imperialismo collettivo della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) e su scala mondiale (con la militarizzazione della mondializzazione e la trasformazione in compradores delle classi dirigenti delle periferie). Un discorso meno scientifico che mai, puramente “ideologico”, ma tuttavia attivo. L’espressione del declino del pensiero borghese, della “fine dei Lumi”.

Il virus liberale si esprime nella separazione della gestione dell’economia dalla gestione politica della società; nella riduzione della “razionalità economica” al mito dei “mercati generalizzati” che dovrebbero produrre un “equilibrio generale” (per di più “ottimale” perché risponderebbe alle preferenze degli individui); nella dissociazione fra la gestione politica, ridotta alla pura formula “democrazia elettorale rappresentativa pluripartitica”, e le questioni del progresso sociale; nella limitazione dei diritti umani, cui è vietato superare il limite del valore supremo rappresentato dalla “proprietà privata”; nel giudizio “globalmente positivo” della mondializzazione.

Non tornerò su questi punti già discussi nel mio volume Il virus liberale.

Ricordo soltanto, insistendo sul fatto, che la filosofia liberale in questione elimina l’elemento essenziale dalla definizione del capitalismo realmente esistente (“storico”) in generale, e di oggi in particolare.

Il capitalismo è diventato un capitalismo di oligopoli che dominano tutto il sistema produttivo e finanziario. La classe dominante su scala mondiale che corrisponde a questa centralizzazione del capitale senza alcuna misura con le tappe precedenti della sua storia, è costituita da una vera “plutocrazia”, che è perciò il “nemico di tutta l’umanità”. Il potere delle oligarchie non è un monopolio della Russia, come si vorrebbe farci credere. E’ un fatto non meno reale negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone.

Questo sistema è “finanziarizzato” nel senso che il mercato monetario e finanziario (anch’esso mondializzato) è diventato il mercato dominante che struttura a sua volta tutti gli altri mercati che regolano il lavoro, l’accesso alle risorse naturali, gli sbocchi delle produzioni.

Il discorso liberale non riesce allora a capire perché la crisi in corso sia iniziata con il crollo del mercato monetario e finanziario, che è il “tallone d’Achille del sistema; il crollo era perfettamente prevedibile e previsto (non dagli economisti convenzionali) perché questa è una crisi di sistema del capitalismo senescente (“obsoleto”, “senile”).

Per di più questo discorso ignora la contraddizione fra centri e periferie, prodotto intrinseco dell’espansione polarizzante (imperialista) del capitalismo storico mondializzato.

Oggi, questa cancellazione investe più particolarmente i nuovi monopoli sui quali si fonda il dominio dei centri (controllo della tecnologia, dell’accesso alle risorse naturali, della finanziarizzazione globale, delle comunicazioni e delle informazioni, degli armamenti di distruzione di massa) che si sostituiscono al vecchio privilegio dell’industrializzazione esclusiva dei centri.

Il conflitto centri/periferie è aggravato dalle nuove condizioni per cui le risorse naturali hanno oltrepassato la soglia della rarità relativa, dando al conflitto per il loro controllo su scala mondiale una dimensione decisiva nella geopolitica/geostrategia dei centri.

Il virus liberale deriva da una cultura politica del “consenso”, fondata sulla cancellazione della realtà delle classi sociali e delle nazioni e che proclama l’individuo come soggetto della storia.

2. Nel mio Capitalismo senile e nella Critique de l’air du temps, io ponevo l’accento sulle trasformazioni relative alla dimensione economica del capitalismo moderno. Nel Virus liberale pongo l’accento sulle dimensioni politiche. Ma le due critiche sono indissociabili. In altri termini: capitalismo degli oligopoli, mondializzazione approfondita, finanziarizzazione, crisi del modello di gestione economica (crollo dei mercati finanziari, depressione in corso), crisi di sistema (energia, cambiamento climatico, scomparsa dei contadini, crisi agro-alimentare, rarefazione delle risorse naturali), declino della credibilità democratica, auge delle illusioni passatiste, illusioni dell’individuo-re che non esiste, regimi di “partito unico degli oligopoli”, imperialismo collettivo della triade, pauperizzazione relativa e assoluta su scala mondiale, militarizzazione della mondializzazione, corsa al controllo delle risorse naturali del globo, apartheid su scala mondiale costituiscono tutti insieme il quadro della realtà che la rappresentazione economicista/liberale esclude dalle sue considerazioni.

Gli altri discorsi, le rappresentazioni che i movimenti in lotta si fanno della realtà sono, nell’insieme, frammentati, cioè riguardano in generale solo una delle dimensioni della realtà totale i cui elementi costitutivi ho appena rammentato.

Bisogna qui sottolineare l’“americanizzazione” della rappresentazione funzionale di cui trattiamo. Il contrasto di cui ho voluto delineare i contorni fra la (o le) cultura politica europea (il cui modello è la Francia 1848-1871) e quella degli Stati Uniti è essenziale, a mio modesto avviso, per capire quali fatali pericoli comporti l’americanizzazione dell’Europa. Essa chiude la porta a una trasformazione progressiva in direzione del socialismo, a vantaggio di un caos sempre crescente, portatore del peggio, cioè dell’autodistruzione della civiltà.

Il dibattito sulla “democrazia in America” non è certo nuovo. Ho già preso posizione contro i commenti del reazionario Tocqueville, e contro quelli di Raymond Aron, che non ha colonna vertebrale, e si proclama “tecnologista” (la società industriale si sarebbe sostituita alla società capitalistica). Ho anche espresso un punto di vista che non è quello di Marx, di ammirazione per il capitalismo nordamericano, “spoglio di vestigia feudali”. La mia tesi è che più il capitalismo è “puro”, più forte è la corrispondenza fra le esigenze di riproduzione del potere del capitale (oggi degli oligopoli) e le espressioni della rappresentazione politica che gli conviene. Il “consenso” chiude la porta alla coscienza socialista.

L’Europa - a partire dalla Francia - ha dunque inventato una forma di politica (e di Stato) moderna, gli Stati Uniti una del tutto diversa.

Le grandi rivoluzioni compiute in nome del socialismo, in Russia e in Cina, avevano posto nel loro programma l’invenzione di un nuovo Stato e di una nuova politica, quelli della transizione socialista. Vi si erano impegnate subito dopo la loro vittoria, ma in seguito si sono impantanate e sono perfino tornate indietro. I primi tentativi di costruire la politica del futuro sono dunque falliti. E’ un compito che resta di fronte a noi. L’altra dimensione dello sviluppo dello Stato e della politica del capitalismo è quella che ho definito il risveglio del Sud (titolo di un altro mio libro). Prodotto dalle vittorie di liberazione nazionale in Asia e in Africa subito dopo la seconda guerra mondiale, “l’era di Bandung” (1955-1980) ha portato la modernizzazione del nuovo Stato (o al rinnovamento delle Stato antico, pre-moderno, pre-coloniale), una fioritura della vita politica fino allora sconosciuta in quelle società, associata evidentemente ai progetti di “sviluppo” impostati all’uscita dalla notte del dominio del vecchio imperialismo, coloniale e semicoloniale. Ispirandomi ampiamente alle lezioni che ho tratto dalla lettura di Marx, dei marxisti storici e di altri, io ho tentato di dipanare il nuovo intreccio di lotte sociali, conflitti di poteri e loro rappresentazioni ideologiche.

3. Che cosa c’è di nuovo qui circa lo Stato, la politica e la democrazia, rispetto a quel che diceva Marx a questo proposito? C’è del “vecchio”, del “permanente” caratteristico del capitalismo in tutte le tappe del suo sviluppo, ma c’è anche del nuovo.

Lo Stato resta uno Stato di classe, in ultima analisi sempre il servo della proprietà, del capitale. La democrazia borghese rafforza questo carattere definendosi come forma rappresentativa, sia parlamentare – nella tradizione europea oggi in erosione – che presidenziale (l’invenzione geniale dei “padri fondatori” coscienti del suo potere di annullare il pericoloso potenziale della democrazia). Il suffragio universale – sopravvenuto tardivamente – su cui Marx fondava qualche speranza, non ha minacciato il potere del capitale ( Marx e la democrazia) perché si è associato all’emergere del social-imperialismo (vedere più avanti).

Il pluripartitismo, venuto anch’esso piuttosto tardi, largamente in risposta alla costituzione di “partiti operai”, non ha rimesso seriamente in questione il potere del capitale. E neppure il riconoscimento di diritti moltiplicati e allargati, fino a includervi alcuni diritti sociali, tutti peraltro subordinati all’obbligo di rispettare la linea rossa del diritto di proprietà.

Questi progressi democratici non si sono inseriti in una prospettiva di transizione al socialismo, ma al contrario hanno rafforzato la democrazia borghese in ciò che ha di più essenziale, l’associazione al potere della borghesia. Quei progressi peraltro hanno dato luogo a una vita politica costruita sul moltiplicarsi dei conflitti per l’esercizio del potere. Conflitti sempre dispersi, frammentati, che producono all’infinito discorsi (e rappresentazioni) sempre ugualmente frammentari. L’intrecciarsi di questi conflitti con le lotte di classe indebolisce la potenziale portata rivoluzionaria delle lotte e chiude la strada alla transizione socialista.

Oggi, con l’affermarsi del potere degli oligopoli, lo Stato è più che mai lo Stato del capitale di questi oligopoli. Non si dovrebbe quindi essere sorpresi della deriva del suo modo di gestione della democrazia politica, che inclina verso un “meno di democrazia” e più “consenso”, secondo la moda statunitense.

Questo Stato del capitale è stato d’altra parte anche uno “Stato sociale”. Il compromesso storico socialdemocratico “capitale/lavoro” dopo la seconda guerra mondiale ne costituisce l’esempio per eccellenza. Ma ancora una volta questo compromesso, imposto dalla disfatta del fascismo e dalla legittimità acquisita dai partiti della classe operaia, è stato possibile solo grazie alla rendita imperialistica.

Ci sono invece maggiori novità nelle periferie del sistema. Qui lo Stato “funzionale” al capitale imperialistico dominante è lo Stato “comprador”. Non mancano i modelli nelle epoche precedenti: il sultano ottomano, il khedivé egiziano, lo scia dell’Iran, l’imperatore della Cina, gli Stati dei latifondisti latinoamericani. Questo Stato trova la sua base sociale locale nelle classi che, beneficiano dell’espansione imperialistica: vecchi signori feudali riconvertiti al semi-capitalismo agrario, borghesie di intermediari (i “compradores” nel senso più proprio del termine). Sono modelli che non possono adattarsi alla democrazia borghese. In Africa, in epoche più vicine a noi, si sono inventate forme nuove dello Stato “comprador” (definite “neo-coloniali”), ma ugualmente incapaci di rispettare i requisiti minimi della democrazia borghese.

Ma precisamente per queste ragioni lo Stato comprador non ha mai potuto acquisire la stabilità degli Stati del capitale dei centri imperialisti. E’ stato quindi o decisamente abbattuto da rivoluzioni che hanno issato le bandiere del socialismo e del marxismo (diventando marxismo-leninismo) in Russia, in Cina, in Vietnam e a Cuba. Oppure si è profondamente trasformato – a gradi diversi – per l’azione dei blocchi nazionali popolari che hanno realizzato la liberazione nazionale.

Anche nelle periferie, l’intrecciarsi dei conflitti di potere e delle lotte di classe non è stato meno complesso che nei centri. Risulta anche evidente come le lotte di classe radicali siano state subordinate ad “altri obiettivi” – reali o pretesi tali – derivanti dalle esigenze dello sviluppo. Ma la trama di questi intrecci è diversa da quella dei centri: nelle periferie, i conflitti per la conquista del potere, non potendosi basare sulla proprietà del capitale, hanno trovato altri assi si cui articolarsi. Sono state create rappresentazioni particolari, che hanno dato espressione ai conflitti e hanno prestato credibilità e legittimità ai loro discorsi. Ho tentato di dipanare la matassa di alcuni intrecci particolari nei paesi d’Asia e d’Africa all’epoca di Bandung (L’éveil du Sud).

4. In definitiva, mi sembra che il merito di tutti questi apporti, che io credo assolutamente “marxisti” e non “neo-marxisti”, sia di aver fatto risaltare la dimensione mondializzata del capitalismo/imperialismo realmente esistente, storico. Una dimensione forse sottovalutata perfino da Marx, ma in ogni caso abolita dal marxismo storico della Seconda Internazionale e dai partiti social-imperialisti che la costituivano. Ristabilita a metà dalla Terza Internazionale, per venir subito costretta nei limiti delle esigenze della coesistenza preconizzata dall’Unione Sovietica (non dalle potenze imperialiste). E portata molto più avanti dal maoismo.

Il marxismo storico (o i marxismi, in gradi diversi) ha sempre avuto la tendenza a ridurre il sistema mondiale a una giustapposizione di formazioni capitalistiche (o avviate a diventarlo), anche se “sviluppate in misura ineguale” e perciò eventualmente dominate.

Da parte mia mi sono sistematicamente opposto a questo punto di vista e ho cercato di intendere il sistema mondializzato come un insieme di centri e periferie reciprocamente indissociabili.

In questa prospettiva il concetto di “legge del valore mondializzata” e il suo corollario – la rendita imperialistica – fecondano i risultati decisivi e determinanti di Marx. Non li negano affatto. Al contrario.

Infatti ciò che Marx aveva derivato dalla sua costruzione (la realtà capitalista) trova, sulla scala del sistema mondiale, una conferma evidente nei fatti. La polarizzazione centri/periferie è semplicemente sinonimo di una gigantesca legge della pauperizzazione relativa e anche assoluta, su una scala ancor più drammatica di quella intravista da Marx al suo tempo. L’aumento accelerato della proletarizzazione a un polo (le periferie), associato al suo apparente decremento nei centri (dico apparente perché qui la proletarizzazione generale assume altre forme) conferma parimenti le tesi di Marx.

Comunque una corretta analisi della mondializzazione capitalistica arricchisce il ventaglio di rappresentazioni che possono orientare l’azione delle forze sociali in lotta. I discorsi specifici sono importanti. A volte decisivi. Perché il contrasto centri/periferie comporta l’intreccio classi/nazioni (o popoli). Nei centri, l’intreccio è indissociabile dalla rendita imperialistica e dai suoi effetti su tutta la società interessata (e non soltanto sul volume dei profitti del capitale). Nelle periferie, presta una nuova dimensione più ampia all’obiettivo dell’indipendenza nazionale.

Per dare alla realtà imperialistica del capitalismo tutta l’importanza che gli va accordata, è necessario introdurre i conflitti geopolitici e geostrategici nell’analisi delle esigenze della riproduzione della realtà economica e politica e della loro traduzione nelle rappresentazioni attive, dividendo l’espansione mondializzata del capitalismo in fasi significative da questo punto di vista.

 

5. La geopolitica del capitalismo/imperialismo in crisi

1. La tesi centrale che ho avanzato a questo proposito è che l’imperialismo, che una volta si coniugava al plurale, è ormai diventato “l’imperialismo collettivo della triade”. La trasformazione qualitativa corrisponde precisamente al grado di centralizzazione del capitale, come ricordato prima.

Tuttavia la gestione politica resta ancora largamente “nazionale” (anche entro l’Unione Europea, a fortiori nella triade) creando perciò una potenziale contraddizione fra la gestione economica del sistema mondializzato/finanziarizzato ad opera dell’imperialismo collettivo e la gestione politica da parte degli Stati della triade.

Voglio però precisare, e lo sottolineo, che la conciliazione fra gestione economica mondializzata e gestione politica nazionale è stata garantita con facilità per tutto il periodo della fioritura neo-liberista (1980-2008). La conciliazione ha ridotto l’ampiezza dei potenziali conflitti intra-atlantici fra l’Europa e gli Stati Uniti e intra-europei entro l’Unione Europea e nella zona dell’euro. Più oltre, essa ha attenuato i conflitti Nord-Sud nella misura in cui i paesi del Sud “emergenti” si sono allineati sulle esigenze della mondializzazione e ne hanno anche tratto profitti a breve termine (con l’accelerazione della loro crescita), mentre gli altri paesi del Sud sono stati costretti a subire passivamente quelle esigenze.

2. Questo periodo è definitivamente tramontato con l’attuale crisi della mondializzazione, a

partire dalla crisi finanziaria.

Si pongono allora nuove questioni: lo sviluppo della crisi porterà a un indebolimento dell’atlantismo, alla revisione dei suoi termini, al suo crollo? Oppure al contrario, al suo rafforzamento? L’Unione Europea e in particolare la zona Euro, sono destinate a loro volta a esplodere? Oppure alla “stagnazione”? O ancora a riprendersi per rafforzarsi? Il conflitto fra l’imperialismo e i principali paesi emergenti (in particolare la Cina, ma anche la Russia e forse altri) è destinato ad acuirsi? Oppure nella crisi gli uni e gli altri si accontenteranno di compromessi praticabili? Gli altri paesi del terzo mondo usciranno dal letargo o vi sprofonderanno sempre più?

Le risposte a queste domande, forzosamente diverse, dipenderanno dalle lotte in corso e da quelle future: lotte sociali (classi dominate contro classi dominanti locali) in tutte le loro dimensioni politiche, conflitti internazionali fra i blocchi dirigenti dei singoli Stati e delle nazioni. Non ci sono pronostici palesi o possibili. E’ necessaria l’analisi concreta di tutte le contraddizioni e dei conflitti che esse comportano.

 

6. La suddivisione dell’espansione capitalistica in fasi significative

Ci sono diverse maniere di proporre la suddivisione, che dipendono dal criterio centrale su cui si pone l’accento.

La tradizione economicista è “tecnologista” nel senso che definisce i periodi in base alle principali rivoluzioni tecnologiche della storia moderna. Ciò non manca di validità. Ma bisogna relativizzarne la portata e soprattutto non farne una lettura “assoluta”: la tecnologia deciderebbe tutto (sarebbe “in ultima istanza” il motore della storia), e il resto si aggiusterebbe alle sue esigenze.

I cicli di Kondratieff si adattano a una lettura tecnologista ed economicista (fasi successive di espansione e di stagnazione, fasi di inflazione e deflazione ecc. .).

Non voglio tornare sulle critiche che ho già fatto di queste letture. I. Wallerstein, G. Arrighi e in parte A. G. Frank preferiscono parlare di cicli egemonici (Province Unite, Gran Bretagna, Stati Uniti). Un’interpretazione che a me è sempre sembrata forzata.

Gramsci propone dei cicli politici lunghi definiti dalla composizione delle alleanze egemoniche che determinano le condizioni economiche e sociali della riproduzione capitalistica.

Per esempio, Gramsci propone per la Francia la successione di due fasi: 1789-1870; poi 1870-1930, che egli analizza come fasi successive del progetto di stabilizzazione dell’egemonia borghese in conflitto con le vestigia – ancora potenti – delle egemonie dell’Ancien Régime. La prima fase corrisponde a un capitalismo “concorrenziale”, la seconda a quella dei “monopoli” (Gramsci riprende qui la lettura di Lenin). Le alleanze egemoniche che caratterizzano ogni fase sono specifiche: durante la prima, la borghesia fa delle concessioni alle forze dell’Ancien Régime (aristocrazia, Chiesa) e trascina dietro di sé i ceti rurali usciti dalla Rivoluzione per isolare la nuova classe operaia; nella seconda, essa inizia il compromesso storico con le classi di salariati.

E’ mia convinzione che il metodo di Gramsci sia più incisivo degli altri, nel senso che pone in primo piano le forze essenziali che determinano la trasformazione – le lotte di classe.

Ho tentato di utilizzare lo stesso metodo per caratterizzare le culture politiche specifiche delle diverse nazioni imperialiste più importanti, mettendo l’accento sui compromessi d’origine, a volte pesanti, fra la borghesia e le forze politiche dei diversi Ancien Régime. Ho tentato anche di far agire questo metodo nelle mie analisi riguardanti il conflitto centri/periferie, caratterizzando i centri per la capacità di attuarvi il compromesso storico capitale/lavoro nel capitalismo maturo (il welfare state), da cui il “social-imperialismo”. E le periferie per l’incapacità della borghesia compradora di costruire un “capitalismo stabilizzato” per via della sua subordinazione ai centri imperialistici.

Lenin ci ha proposto – come si sa – una distinzione (fine del XIX secolo) fra il capitalismo “concorrenziale” e il capitalismo/imperialismo dei monopoli, entrato quindi nella sua fase di senilità distruttiva che poneva all’ordine del giorno la rivoluzione socialista. La tesi mi sembra valida, ma va relativizzata.

2. La suddivisione che io propongo per il periodo del capitalismo moderno è fondata sull’idea che il XX secolo costituisca la prima grande fase (io la definisco ondata) di avanzata delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.

Il secolo si compone poi di momenti successivi.

Dal 1890 al 1914 assistiamo a una prima “belle époque” (mondializzazione liberista finanziarizzata sulla base dell’imperialismo coniugato al plurale) che sfocia nella guerra interimperialistica e nella Rivoluzione russa. Questa “belle époque” è essa stessa la risposta alla “grande crisi di sistema” che l’ha preceduta, dal 1873 alla fine del secolo.

Alla fine di questo primo insuccesso del liberismo mondializzato, le potenze dominanti si impegnano a restaurare la “belle époque”, fra il 1920 e la seconda guerra mondiale, portando alla grande crisi e alla guerra. Il periodo è anche quello della “guerra dei trent’anni” fra Stati Uniti e Germania per la successione all’egemonia della Gran Bretagna. La guerra si conclude con la vittoria della democrazia sui fascismi, quella dell’Armata rossa, dei partiti operai e dei movimenti anticolonialisti. Si determinano delle condizioni del tutto nuove, le classi lavoratrici e i popoli coloniali conquistano una rispettabilità di cui mai fino allora avevano goduto. Ciò permette – fra il 1945 e il 1980 – lo sviluppo concomitante del welfare state nei paesi della triade imperialista (social/imperialismo), la seconda grande rivoluzione (in Cina) e la vittoria delle liberazioni nazionali in Africa e in Asia (l’epoca di Bandung).

L’esaurirsi di questo modello a partire dal 1980, dopo la nuova crisi sistemica che si apre fra il 1968 e il 1971, rende possibile l’illusione di un ritorno al liberismo mondializzato (associato questa volta all’imperialismo collettivo della triade). Siamo entrati allora in una seconda “belle époque”, che introduce la “seconda ondata”, possibile e augurabile, di lotte per l’emancipazione dell’umanità.

La storia si ripete in una maniera che mi è sembrata evidente e che ho analizzato come tale fin dalla fine degli anni 80.

La pagina di questa seconda “belle époque” (1980-2008), fondata sull’imperialismo collettivo della triade, l’erosione e poi il crollo dell’Unione Sovietica, il passaggio al post-maoismo in Cina, il crollo dei modelli nazionali popolari di Bandung, la deriva sociale liberale della socialdemocrazia, oggi è definitivamente chiusa. Il che non esclude il tentativo delle oligarchie al potere di procedere a una restaurazione.

Gli ideologi liberali hanno letto la “mondializzazione finanziarizzata” come “la fine della storia”. Da parte mia, la mondializzazione mi è sembrata fin dagli inizi come necessariamente instabile e non suscettibile di sviluppo. Dicevo che io non avevo a disposizione una sfera di cristallo che mi permettesse di prevedere la data del crollo, ma che sarebbe sopravvenuto prima di dieci anni (eravamo allora nel 2002). L’avvenimento ha potuto cogliere di sorpresa i liberali, non me e alcuni altri, purtroppo assai pochi allora.

La crescita delle lotte a partire dal 1995 dimostra quella instabilità nella sua dimensione sociale e politica; mentre il crollo finanziario del settembre 2008 ne dimostra l’incapacità a superare le contraddizioni interne del suo modo di gestione economica. Ritornerò sull’importanza che hanno quei due modi di crollo dei sistemi. Dal 2008 noi ci scontriamo ormai con questioni molto serie cui solo lo sviluppo e la radicalizzazione delle lotte daranno le risposte.

 

7. Lotte sociali e conflitti politici oggi

1. Oggi come ieri, le lotte per la trasformazione della società e i conflitti politici non costituiscono certo delle realtà estranee l’una all’altra. Ogni rivendicazione sociale appena un poco conseguente diventa oggetto di conflitto politico, e nessuno di questi resta senza ripercussioni sociali.

Può essere utile peraltro fare una distinzione fra i due aspetti della realtà, quasi due facce della stessa medaglia. Si può partire dalla diversità delle aspirazioni che motivano la mobilitazione e le lotte sociali, e raggrupparle in cinque categorie: l’aspirazione alla democrazia politica, al rispetto del diritto e della libertà individuale; l’aspirazione alla giustizia sociale; l’aspirazione al rispetto dei gruppi e delle comunità diversi; l’aspirazione a una migliore gestione ecologica; l’aspirazione a occupare una posizione più favorevole nel sistema mondiale.

Si riconoscerà facilmente che i protagonisti dei movimenti che corrispondono a queste aspirazioni sono raramente identici. Per esempio, la preoccupazione di dare al paese un posto migliore nella gerarchia mondiale, definito in termini di ricchezza, di potenza e di autonomia di movimento, è più presente fra le classi dirigenti e i responsabili del governo, anche se un obiettivo del genere potrebbe riscuotere le simpatie popolari. L’aspirazione al rispetto – nel senso pieno del termine, cioè a un trattamento realmente uguale – può mobilitare le donne come genere, o un gruppo culturale, linguistico o religioso che sia oggetto di discriminazioni. Movimenti così ispirati possono essere trans-classisti. Invece l’aspirazione a una maggiore giustizia sociale, definita come si voglia (come vogliono i movimenti che vi si ispirano) – per un maggior benessere materiale, una legislazione più pertinente e più efficace, o un sistema di rapporti sociali e di produzione radicalmente diverso – si inserirà quasi necessariamente nella lotta di classe. Può trattarsi di una rivendicazione dei contadini o un ceto rurale per una riforma agraria, una redistribuzione della proprietà, una legislazione favorevole ai conduttori dei fondi, dei prezzi più favorevoli ecc. Può trattarsi di diritti sindacali, di legislazione del lavoro, o anche dell’esigenza di una politica statale che determini interventi più efficaci a favore dei lavoratori, fino alla nazionalizzazione, la cogestione o la gestione operaia. Ma può trattarsi anche di rivendicazioni di gruppi professionali di imprenditori che chiedono un alleggerimento della fiscalità. Possono essere rivendicazioni che riguardano l’insieme dei cittadini, come dimostrano i movimenti per il diritto all’istruzione, alla salute o alla casa, e – mutatis mutandis – a un’opportuna gestione dell’ambiente. L’aspirazione democratica può essere limitata e precisa, in particolare quando ispira un movimento in lotta contro un potere non democratico. Ma può essere inclusiva e venir usata come una leva per promuovere il complesso delle rivendicazioni sociali.

Una mappa dei movimenti attuali mostrerebbe indubbiamente enormi disparità nella loro presenza sui territori. Ma noi sappiamo che la mappa non è fissa e che laddove esiste un problema, vi è quasi sempre un potenziale movimento per trovare la soluzione.

2. Bisognerebbe dar prova di un ottimismo ingenuo e debordante per immaginare che il risultato della mappatura delle forze operanti sui terreni più diversi possa determinare un coerente movimento d’insieme che faccia avanzare le società verso una maggiore giustizia e democrazia. Il caos appartiene alla natura nella stessa misura dell’ordine. Bisognerebbe dar prova della stessa ingenuità per ignorare le reazioni dei poteri costituiti rispetto ai movimenti. La geografia della ripartizione dei poteri, le strategie che sviluppano per rispondere alle sfide sia sul piano locale che su quello internazionale, rispondono a logiche diverse da quelle che governano le aspirazioni in questione.

In altri termini, le possibilità di derive dei movimenti in questione, della loro strumentalizzazione o manipolazione sono delle realtà possibili in grado di condurli all’impotenza o di costringerli a inserirsi in una prospettiva che non era la loro.

Sarebbe forse utile, nella giungla delle lotte e dei conflitti che oppongono i poteri ai movimenti sociali, o che oppongono i poteri fra loro ed anche i movimenti sociali fra loro, fare l’inventario dei casi più eclatanti che dominano la scena mondiale. In questa prospettiva, bisognerebbe senza dubbio privilegiare l’analisi attenta delle strategie dell’oligarchia nei paesi della triade, degli interessi economici in gioco, della geopolitica e della geostrategia degli Stati che ne sono i difensori sistematici. Ma anche delle strategie dei poteri dominati nel sistema mondiale attuale, sia nei paesi dell’ex Est socialista che in quelli del Sud. Si riuscirà allora a redigere la mappa dei conflitti che oppongono i diversi poteri. Queste strategie si impegnano a distruggere certi movimenti o a strumentalizzarli per subordinarli a fini che non gli sono propri. Uno dei mezzi più efficaci utilizzati a questo scopo consiste nel favorire, sostenere e incoraggiare altri movimenti, diversi da quelli elencati prima, o nel procurare la deriva di alcuni verso direzioni favorevoli ai poteri in conflitto. L’etnicità, il comunitarismo su base nazionale o religiosa rispondono molto bene a queste esigenze, perché le loro rivendicazioni – di fatto vuote – si sostituiscono alle aspirazioni democratiche e sociali, con grande vantaggio dei poteri locali e/o di quelli dominanti su scala mondiale. Sono ugualmente utili degli alibi di “sinistra”.

Per decifrare la geografia dell’insieme di questi giochi complessi è necessario prendere la misura esatta della sfida rappresentata dall’imperialismo contemporaneo. Si potrà così sperare di riuscire a far avanzare il dibattito e la teorizzazione delle esigenze di un’alternativa efficace e coerente.

 

8. Il linguaggio dei discorsi

La critica delle rappresentazioni suppone la critica del loro vocabolario, quello di Marx come quello dei liberisti.

Conosciamo i termini in uso corrente nella tradizione operaia e socialista, associati a teorie certo diverse ma spesso almeno ispirate agli scritti di Marx – Stato e politica, classi e lotte di classe, cambiamento sociale, riforma e rivoluzione, potere, ideologia. Questi termini sono spariti dal linguaggio, perfino da quello di molti dei “movimenti” in lotta. Al loro posto sono subentrati altri vocaboli: società civile, governance, partenariato sociale, comunità, alternanza, consenso, povertà.

La sostituzione non è neutra: implica un’adesione alle esigenze fondamentali della riproduzione capitalistica.

Proporrò quindi una rilettura del vocabolario di Marx e rammenterò la critica che ho portato ai termini che vi si vogliono sostituire.

In Marx, il termine di proletario ha un senso scientifico preciso, quello dell’essere umano costretto a vendere la propria forza lavoro (sua unica proprietà) al capitale. I lavoratori “non utilizzano i mezzi di produzione”, è il capitale che impiega il lavoro (lo sussume e lo sfrutta) che lo fa.

In questo senso, la proletarizzazione e l’espansione continua del campo dei rapporti sociali subordinati al capitale sono sinonimi. La fine del “proletariato”, la fine del “lavoro” (subordinato al capitale) sono solo delle fole.

La proletarizzazione però non è mai stata uniforme, ma sempre multiforme, in tutte le tappe dell’espansione capitalistica. La subordinazione formale degli artigiani nei primi tempi del capitalismo (il putting out), quella degli agricoltori moderni, quella delle masse contadine nelle periferie del sistema, quella dei “lavoratori liberi” (che si credono tali) di oggi il cui moltiplicarsi deriva dalle nuove forme organizzative del capitale, quelle dei “lavoratori informali” delle periferie, costituiscono la manifestazione della molteplicità delle forme di proletarizzazione generale. La diversità è prodotta poi, almeno in parte, dalle politiche attuate dal capitale e dallo Stato al suo servizio allo scopo di frammentare il fronte del lavoro. Tali politiche permettono inoltre che ogni frammento sviluppi le proprie rappresentazioni specifiche, e perciò rendono più complesso il passaggio dalla coscienza di sé alla coscienza per sé di questo proletariato generale. La dialettica teoria/pratica delle lotte (sempre “spontaneamente” settoriali) – e non quella della teoria “introdotta dall’esterno” o quella della “spontaneità pretesamente creatrice” – costituisce l’asse centrale inderogabile della lotta di classe e della sua necessaria “politicizzazione”, necessaria per il suo successo sia immediato che più lontano.

“L’addio al proletariato” deriva da una semplificazione, operata dal marxismo storico, che – in una lettura eurocentrica, economicista e operaista - ha ridotto questa classe al suo frammento costituito dagli “operai” della grande industria del XIX secolo, poi della fabbrica fordista del XX. L’operaismo trova qui il suo fondamento oggettivo: l’organizzazione viene facilitata dalla concentrazione sui luoghi di lavoro, e su questa base si costituiscono i partiti operai e i sindacati.

L’offensiva politica del capitale, sviluppata a partire dalla seconda “belle époque” prima ricordata e che prosegue, si è posta l’obiettivo di frammentare il fronte del lavoro su basi nuove che si aggiungono a quelle tradizionali. Il contrasto fra il trattamento riservato ai lavoratori che ho definito “stabili” e quelli che non lo sono, su cui ho posto l’accento (e di cui ho tentato di misurare l’ampiezza) è una politica deliberatamente scelta, non la conseguenza “naturale” e “inevitabile” dell’evoluzione “oggettiva” delle tecnologie moderne. Questa politica è ormai associata alla finanziarizzazione del sistema. Ha l’obiettivo di creare un “fronte di creditori” costituito dai pensionati beneficiari di fondi pensionistici privatizzati (e quindi solidali con il capitale finanziario) e dai lavoratori “stabili”, per opporlo a quello degli “emarginati” (precari, disoccupati, informali, lavoratori cosiddetti liberi).

L’insieme dei frammenti del proletariato generale costituisce ciò che ho definito la “base sociale” (in opposizione alla “base elettorale”) del socialismo. La convergenza delle loro lotte implica che si riconosca la diversità non solo dei loro discorsi frammentati, ma anche – in una certa misura – dei loro “interessi”, almeno immediati.

L’esempio di questa situazione è dato dal conflitto fra gli interessi del proletariato urbano (nella sua qualità di consumatore di prodotti alimentari) e dei contadini proletarizzati (che li producono). Non si può trasformare la realtà – cioè produrre delle convergenze – senza prima riconoscerne le manifestazioni in tutta la loro diversità. I discorsi frammentari, da parte loro, favoriscono la volatilità della base elettorale dei partiti e movimenti che si dichiarano di “sinistra”.

Su scala globale – lo abbiamo già detto – la proletarizzazione avanzante è sinonimo di pauperizzazione, come Marx aveva ben capito.

2. La diversità delle forme di proletarizzazione generale interpella l’analisi di classe e le strategie di lotta.

Bisogna allora sostituire all’espressione “espansione del proletariato generale” (che io sostengo) quella di “classi popolari”, distinte dalle “classi medie”?

Le teorie sociali borghesi, sempre vincolate a un metodo rigorosamente empirista, favoriscono questo slittamento. La Banca mondiale non conosce che la forma immediata di espressione della realtà – la piramide dei redditi. La classificazione proposta per le categorie “socio-professionali” dell’INSEE francese è meno rudimentale. Permette fra l’altro di mettere in correlazione le diverse rappresentazioni con le diverse scelte elettorali. Ma non per questo risulta meno empirista nella sua impostazione.

Non è dimostrato che, nella lunga durata dell’espansione del capitalismo storico, la proporzione delle classi medie sia stata in crescita continua (come afferma il discorso oggi di moda) o in decrescita (come una definizione di proletarizzazione diversa da quella di Marx inviterebbe a credere). Si ritrovano piuttosto delle fasi di espansione (per esempio il dopoguerra) e delle fasi di contrazione (i momenti di grande crisi, come la nostra). Ma in ogni caso, la composizione delle classi medie è sempre stata soggetta a trasformazioni della natura dei suoi componenti. Per semplificare, ieri si trattava di piccoli produttori indipendenti in realtà o meno; oggi, i quadri dagli alti salari, le professioni liberali e, qui e là, in particolare nelle periferie, i nuovi piccoli produttori integrati e subordinati al processo di riproduzione del capitale.

Nei paesi al centro del sistema, l’incremento delle nuove classi medie è legato alla rendita imperialistica. André G. Frank e io già nel 1974 pensavamo che fosse possibile una nuova divisione

del lavoro fra i centri e le periferie, fondata sulla concentrazione nei centri delle produzioni associate ai monopoli con cui si manifesta il loro dominio su scala mondiale (ricerca e tecnologia, armamenti, comunicazioni, sistemi finanziari) e l’emigrazione nelle periferie delle produzioni industriali banali, subordinate e dominate con quei mezzi.

Dopo trent’anni, la realtà dimostra la giustezza delle nostre previsioni. La rendita imperialistica, di cui i centri si appropriano mediante l’esercizio di quei monopoli, e rafforzata dal prelievo delle risorse naturali del pianeta – altro monopolio dei centri – trasforma così l’architettura della struttura di classe e le rappresentazioni che vi sono associate.

La struttura delle classi medie nelle periferie è stata anch’essa oggetto di trasformazioni permanenti. Ma presenta altresì delle particolarità che dipendono dall’evoluzione del capitalismo globale.

Nelle regioni periferiche, l’integrazione nel sistema globale delle masse contadine ha prodotto una grande varietà di trasformazioni sia delle nuove classi beneficiarie dell’espansione imperialistica (latifondisti in America Latina, in Asia e nel mondo arabo, nuovi contadini “ricchi”, gruppi dirigenti riciclati), sia delle sue vittime (contadini senza terra, microfondisti poveri). L’urbanizzazione nuova, o rinnovata, ha dato luogo all’emergere di nuove classi, compradores beneficiari del sistema, classi popolari che ne sono vittime, ceti medi diversi.

Di fronte alla diversità delle situazioni, amplificata dalla diversità dei discorsi e delle rappresentazioni, si può pensare che sia possibile formare un fronte di “classi popolari” (sinonimo di proletariato generale costituito nelle sue forme diverse)?

Nei centri, si potrebbe pensare che la rendita imperialistica, che ha fatto allineare la socialdemocrazia sul social-imperialismo fin dalla prima costituzione delle “sinistre moderne”, vieterebbe di ritenere possibile la credibilità di una prospettiva socialista. Lo slittamento verso l’ideologia del consenso “all’americana” rafforza questa possibile evoluzione, che sarebbe disastrosa e farebbe accettare l’apartheid su scala mondiale. Senza sottovalutare la realtà di questo pericolo, mi sembra utile segnalare la ragione per cui non mi sembra fatale. La centralizzazione oligarchica del capitale e il suo modo di gestire la crisi del capitalismo senile ha impresso all’evoluzione generale dell’umanità una torsione distruttiva che investe il futuro dell’umanità e forse della vita sul pianeta. Una presa di coscienza di questa possibilità è già iniziata; permetterà di costituire un “blocco anti-oligarchico” alternativo? La sua formazione verrà facilitata dal degrado delle condizioni delle classi popolari e di ampie frazioni delle classi medie che la crisi produrrà quasi certamente? Ritroviamo qui l’importanza attiva delle rappresentazioni. Esse daranno credibilità a risposte para-fasciste (“è colpa degli immigrati”, è il “terrorismo internazionale”) o non ci riusciranno?

Nelle periferie, l’emergere di blocchi alternativi nazionali (antimperialisti), popolari (“antifeudali, anti-compradores) e democratici si scontra anche qui con difficoltà evidenti. Le derive passatiste – manipolate dall’imperialismo e dai neo-compradores locali - non hanno perduto il loro vigore. Anche là è necessario dar battaglia sui fronti ideologici e analizzare in profondità i discorsi.

Oltre l’analisi delle realtà riguardanti le classi popolari e le classi medie, il concetto di “popolo” potrebbe aiutarci a elaborare delle strategie di costruzione della convergenza socialista?

Direi che per “fare politica” (nel senso buono del termine) questa è una necessità. Il “popolo” in questione non è definito in anticipo, può esserlo solo nella sua relazione con gli obiettivi immediati e più lontani della strategia di lotta per aprire la via del socialismo. Un “popolo anti-oligarchico” al Nord? Un “popolo antimperialista” al Sud? Questa realtà è già esistita, nei suoi momenti di radicalizzazione della lotta per la liberazione nazionale e il “socialismo”. In Vietnam, era diventato il soggetto attivo della storia. Si trattava di un popolo che riuniva varie classi, ad esclusione delle classi feudali e compradoras.

3. L’analisi concreta delle condizioni della lotta per far emergere un’alternativa tendenzialmente socialista impone di prestare un’attenzione tutta particolare ai “gruppi” sociali più attivi. Si tratta di quelle che sono definite – non correttamente – “classi politiche”.

Si entra qui in una giungla di cui non si possono dipanare le matasse se non caso per caso. Io ho tentato di farlo soltanto per qualche paese del periodo di Bandung.

E’ sempre stata grande la tentazione di sostituire all’analisi delle rappresentazioni e delle reali scelte di azione un discorso “generale” sulla “piccola borghesia”. Si dimentica che il vocabolo non definisce in genere una “classe” ben definita per mezzo di criteri oggettivi di status all’interno del sistema produttivo. Il termine è stato introdotto nella Francia del XIX secolo dal vocabolario popolare rivoluzionario e da Marx, per indicare un “atteggiamento di pensiero” piuttosto che una classe. L’uso ne è sempre peggiorativo, a volte ironico. Il “piccolo borghese” è l’individuo che non è un borghese (non ha accesso al capitale, neppure su scala modesta) ma si crede tale. Errore di giudizio personale.

Il modo di pensare “piccolo borghese” è d’altra parte molto diffuso, non è riservato a una o più “classi medie” in particolare. Si può identificare individuando le conclusioni cui è condotto dalle rappresentazioni di cui si nutre. Da qui l’abuso frequente del termine, che viene attribuito a chiunque non sia d’accordo (con voi, o con il partito che pretende di essere rivoluzionario e agguerrito).

Quegli abusi ne hanno determinato l’abbandono.

4. La moda venuta d’oltre Atlantico ha sostituito, ai concetti formatisi attraverso le lotte sociali e che il marxismo ha cercato di sistematizzare, una nuova lingua: “società civile”, “buona governance”, “lotta contro la povertà”, “giustizia sociale”.

Nel sesto capitolo ho proposto una critica radicale di questa “novlangue”, espressione di un’ideologia perfettamente funzionale, destinata a imprigionare entro le esigenze della riproduzione capitalistica.

 

9. Verso una seconda ondata di lotte anticapitalistiche vittoriose?

Farò qui solo una rapida menzione delle idee più recenti che ho elaborato su questo punto, sottolineando ciò che mi pare nuovo ed essenziale.

Il passaggio dal capitalismo mondiale al socialismo mondiale non si può immaginare se non nella forma di “ondate successive” di avanzata (seguite purtroppo eventualmente da regressi) delle lotte per l’emancipazione umana, proprio come il capitalismo non è stato il prodotto di un “miracolo europeo” manifestatosi in un tempo breve nel triangolo Amsterdam-Londra-Parigi, bensì di una serie di ondate sviluppatesi in spazi geografici diversi del mondo antico, dalla Cina all’Europa delle città italiane passando per l’Oriente musulmano.

Il capitalismo “storico”, quello prodotto dall’ultima ondata europea, si è imposto annullando la possibilità di cristallizzare altre forme di capitalismo, fondate su culture storiche diverse da quella dell’Europa atlantica, in particolare su quella della Cina “confuciana”.

Il pensiero borghese, per sua natura lineare ed eurocentrico, non dispone degli attrezzi necessari per pensare un “oltre il capitalismo”.

Il solo futuro dell’umanità che riesce a pensare è governato dal “recupero”, visto che i paesi “sottosviluppati”, “in ritardo”, non potrebbero prospettarsi alcun futuro se non l’imitazione del modello capitalistico dei centri sviluppati. Da Rostow ai “paesi emergenti”, la tesi borghese resta immutata. La mia critica di questa tesi è stata scritta molto in anticipo, prima della pubblicazione di quella di Rostow.

I marxismi storici, dominati malgrado tutto dalla stessa visione riduttiva e lineare della storia, hanno dato una valutazione solo parziale della sfida, quali che siano le sfumature da apportare a questo giudizio.

Io ho letto dunque il XX secolo come quello dello svolgersi di una prima ondata. Si sono registrati notevoli passi avanti nei centri, nella forma di gestione socialdemocratica (autentica, non social-liberista) con un compromesso storico capitale-lavoro, associato a un allargamento della democratizzazione della società (emergere delle donne in particolare). I tentativi reazionari di infrangere queste avanzate (i fascismi) sono stati alla fine sconfitti. Le rivoluzioni in nome del socialismo scoppiate prima nella semi-periferia russa, poi nella periferia cinese (e qualche altra) hanno costituito senza dubbio le avanzate più radicali del secolo La mondializzazione delle lotte per la riconquista dell’indipendenza dei popoli d’Asia e Africa ha imposto all’imperialismo di aggiustarsi al nuovo sistema multipolare del dopoguerra.

Questi passi avanti hanno veramente trasformato le società del Nord e del Sud, dell’Ovest e dell’Est a ritmi senza precedenti e non necessariamente “in peggio” come racconta la propaganda liberista.

Ma sono stati traversati da contraddizioni e hanno sperimentato limiti che hanno preparato il terreno ai regressi successivi alle prime vittorie. Senza tornare all’analisi di questi flussi e riflussi proposta dall’autore di queste righe, sottolineo soltanto quel che mi pare si trovi alla loro origine e che la seconda ondata di lotte dovrebbe porre al centro delle preoccupazioni.

In primo luogo la “fascinazione statalista”, non solo del leninismo ma anche della socialdemocrazia e dei nazional-populismi di Bandung. La pratica della democrazia (quando esiste) è rimasta limitata dal concetto di “progresso dall’alto”, ostacolo fatale alla socializzazione della gestione economica.

C’è poi anche la sottovalutazione, ed è il meno che si possa dire, dell’ampiezza della sfida prodotta dalla profondità del divario fra centro e periferia. Bisogna peraltro introdurre delle sfumature. Fin da Baku (1920) Lenin prevedeva che il movimento rivoluzionario anti-capitalistico si spostasse verso Est. Ma qui trova posto soprattutto il contributo decisivo del maoismo: Mao concepisce la rivoluzione all’ordine del giorno come una rivoluzione nazionale (antimperialista), popolare e democratica (antifeudale, anti- compradores) che apra la strada alla lunghissima transizione possibile verso il socialismo.

 

10. Le condizioni per l’emergere di una seconda ondata (i “socialismi del XXI secolo”)

Al centro della sfida: la questione democratica, la ricostruzione del sistema mondiale.

(1) La questione democratica

1. Parto dalla critica che Marx rivolge al sistema borghese inteso nella sua totalità. L’attrezzo che usa Marx per la sua analisi è la sua teoria della “rappresentazione”. Gli esseri umani non solo vivono in un sistema (una formazione sociale storica) ma anche se la “rappresentano” (con la loro ideologia) e tale rappresentazione viene essa stessa governata dalla natura della formazione oggettiva nella quale vivono. E’ “religiosa” (io dico “metafisica”) nei sistemi antichi, “economica” (io dico “economicista”) nel capitalismo. Non ritorno su questo contrasto sul quale ho scritto molto. La “rappresentazione” distingue le società umane da quelle animali. Essa determina le strategie di azione dei soggetti della storia, classi e nazioni.

Nel capitalismo, Religione, Diritto, Denaro costituiscono le tre facce della rappresentazione alienata della realtà capitalistica, come ricorda Isabelle Garo. Le tre facce sono indissociabili: il “monotei-smo” è sostituito o accompagnato dal “money teismo”.

Ma anche il Diritto, che diventa fondamento del nuovo Stato, eventualmente “democratico”, è parte importante dell’alienazione economica. Esso si trasforma per passare dal servizio del potere (dell’Ancien Régime) a quello della proprietà. Le conquiste democratiche trovano qui il loro limite, che non si può superare senza uscire dal capitalismo. La democrazia borghese è essa stessa una democrazia alienata, cui è vietato oltrepassare la linea rossa della sacrosanta proprietà. Diritto e Denaro sono quindi indissociabili. E tale associazione accompagna la dissociazione fra la gestione politica della società per mezzo della democrazia rappresentativa elettorale e pluripartitica (quando esiste) e la gestione dell’economia, abbandonata alla Ragione attribuita al “mercato”. In politica, i cittadini sono uguali a livello di diritti. Nella realtà sociale, dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati non lo sono più. Il progresso sociale è esteriorizzato, non costituisce il fondamento del diritto e della democrazia.

La lotta per la democrazia borghese si giustifica perfettamente nelle situazioni in cui essa non esiste. Si può capire la legittimità della rivendicazione che chiede il rispetto dei diritti fondamentali (libertà di opinione, di organizzazione, di lotta ecc.). Passi avanti sul terreno democratico permettono di sviluppare le lotte e di rappresentarsi correttamente le sfide. Ma questa lotta non risolve in alcuna maniera il problema. La vera sfida impone di inventare un diritto e una democrazia che associno libertà degli individui e progresso sociale.

Non ci si può impegnare in questa direzione se non detronizzando il Denaro, cioè uscendo dal capitalismo.

Invece di parlare di democrazia (che evoca sempre la democrazia borghese), bisogna discutere della “democratizzazione” (considerata come un processo senza fine), che è sinonimo di emancipazione (degli individui e dei popoli).

La seconda ondata rappresenterà un progresso rispetto alla prima solo se permetterà reali passi in avanti in questa direzione.

La democratizzazione non potrà progredire se non si riuscirà a raccogliere la “base sociale” (social constituency), diversa dalla “base elettorale” ( electoral constituency), nelle lotte “convergenti nella diversità”.

La base sociale in questione esiste obiettivamente, e raccoglie l’immensa maggioranza dei popoli a Nord e a Sud. Hanno un unico avversario, ed è l’oligarchia che governa il capitalismo contemporaneo. Passaggio difficile dall’esistenza in sé all’esistenza per sé, che definisce i nuovi soggetti della trasformazione. Associato alla formulazione, incerta, lenta e difficile, di strategie efficaci. Non ci sono alternative alle lotte condotte con questa ispirazione e questi obiettivi. La base elettorale delle “sinistre” attuali (quando esistono) è naturalmente instabile perché funziona entro i limiti della democrazia borghese. L’espressione leninista – il “cretinismo parlamentare” – conserva tutta la sua forza, confermata ogni giorno dall’esperienze delle “delusioni elettorali”.

2. Questione preliminare: la prospettiva dell’emancipazione che abbiamo evocato è possibile (“utopia critica”) oppure utopica nel senso volgare del termine (“sogno senza alcuna possibilità reale di attuazione”)?

Dunque, è “possibile” l’emancipazione? La questione reale è il superamento delle alienazioni. Per alienazione io intendo il comportamento di esseri umani che attribuiscono a forze esterne la situazione obbligata in cui dovrebbero agire come di fatto agiscono. Il caso più patente è l’alienazione economicista prodotta dal dominio del capitale (oltre il “mercato”) che imporrebbe le sue esigenze come una forza della natura esterna alla società, mentre l’economia esiste solo per i rapporti sociali che ne definiscono la cornice.

La mia lettura del Capitale di Marx (“Critica dell’economia politica”) è fondata sulla centralità dell’alienazione. Ma che ne è delle altre forme di alienazione? Come quelle definite dalle credenze religiose?

In maniera più generale, l’alienazione è o non è una condizione che definisce l’essere umano? E’ evidente infatti che se la risposta è che l’alienazione è intrinseca all’essere umano, le possibilità di liberazione per mezzo della gestione democratica dell’“economia” e del “potere” sono per definizione limitate. Ma dove sono i limiti?

Propongo dunque di distinguere le forme di alienazione che definisco sociali (e dunque localizzabili nel tempo e nello spazio, tipiche di una società concreta in un momento preciso della sua storia – come l’alienazione economicista propria del capitalismo, o le alienazioni religiose vissute da altre società) da quelle che sarebbero “antropologiche” (equivalenti a sovra-storiche, nel mio vocabolario). Su questa base, mi limiterò modestamente a definire l’emancipazione offerta dalla prospettiva comunista come la liberazione dalle alienazioni sociali. Si possono allora precisare concretamente le forme “istituzionali” di gestione dell’economia e della politica che permettano di andare avanti in questa direzione.

L’utopia critica si pone in questo contesto ed entro questi limiti.

Per utopia critica intendo una visione del futuro notevolmente più realistica di quanto pensino i suoi avversari. Un passo avanti anche limitato nella sua direzione produrrebbe una grande mobilitazione di forze disposte a spingersi più lontano. Rinunciare all’utopia critica significa accettare la deriva barbarica del capitalismo. Io rifiuto l’appello al cosiddetto “realismo” che è di fatto un assoggettarsi a una realtà essa stessa effimera.

L’emancipazione, sinonimo di democratizzazione, deve allora abolire i termini dell’alienazione (Religione, Diritto e Democrazia, Denaro) come immaginano le ideologie dell’ateismo anarchico e comunista? Oppure formulare le maniere di governarli: laicità radicale, democrazia sociale, socializzazione della gestione economica? Opto per questa seconda, modesta interpretazione del senso a lungo termine del “comunismo” futuro.

3. I “popoli” in esame vogliono questa “democratizzazione” che proponiamo? Vogliono la “democrazia” limitata che gli si propone?

Si ritrovano qui le rappresentazioni che essi si fanno del sistema in cui vivono, dei limiti delle azioni che giudicano possibili, in altri termini, la questione della “coscienza lucida” (o delle loro illusioni), del passaggio dalla coscienza in sé alla coscienza per sé delle classi dominate.

Nell’immediato, la domanda di democrazia non è evidente. Vittime delle alienazioni ideologiche proprie del capitalismo e delle sfide immediate della vita (a volte per la pura “sopravvivenza”), i popoli non sono necessariamente convinti che gli sia possibile fare altro che adattarsi e barcamenarsi giorno per giorno.

Nei centri, i guasti dell’alienazione sono ben visibili. I “giovani” e gli altri vogliono qualcosa di più che non l’accesso a ciò che non hanno e che altri hanno? Che auspichino meno diseguaglianza e più solidarietà non modifica fondamentalmente il dato di questa forma di depoliticizzazione. Nelle periferie, vivere è spesso sinonimo di “sopravvivere”, la priorità è data - lo si capisce bene - al “mangiare”, ma anche ad avere scuole che offrano ai giovani una possibilità di ascesa nel sistema come è. Questa seconda forma di depoliticizzazione non è meno evidente della precedente. Di fronte a questa sfida, si può fare qualche cosa di efficace?

La dialettica teoria/pratica è inevitabile. Una teoria corretta deriva dall’analisi della realtà, la correttezza delle proposte che ne vengono tratte viene poi sperimentata dall’azione. L’elaborazione teorica non è mai un prodotto spontaneo del “movimento”, checché ne dicano alcuni. Essa ha bisogno di “teorici” (termine troppo accademico e pretenzioso), di “avanguardie” (termine irritante perché ricorda l’uso che ne hanno fatto coloro che si sono auto-proclamati tali), di “élites” (termine da rifiutare perché usato dall’ideologia del sistema per indicare i propri servitori). Il vocabolo russo di intellighentzia è certo il più appropriato.

4. Teoria e pratica sono indissociabili. Non ci sarà alcun passo avanti verso il progresso democratico e sociale senza prima formulare un “programma di costruzione di convergenze nella diversità”. La sua definizione è imprescindibile. Lo riassumo in una sola frase: “socializzare la gestione economica”. Nei centri, l’operazione non può neppure iniziare senza l’esproprio dell’oligarchia. Non solo in Russia l’oligarchia domina il sistema, come ho già detto, ma anche negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. La nazionalizzazione (o forse statizzazione) costituisce una prima misura imprescindibile.

Dopo verrà la socializzazione, se il movimento apre la strada. Una via lunga, costruita man mano che si procede, che si inventa.

Nelle periferie, il programma nazionale, popolare e democratico comporta delle contraddizioni interne. Non soltanto perché qui la base sociale è composta di segmenti sociali i cui interessi non sono sempre convergenti. Ma anche perché il compito storico qui è doppio e conflittuale: “recuperare” nel senso di sviluppare le forze produttive (ed è grande la tentazione di farlo riprendendo le ricette del capitalismo) – compito imprescindibile per “uscire dalla povertà” – e “fare una cosa diversa”, avviare relazioni sociali fondate sulla solidarietà invece che sulla competizione. La rivoluzione russa e quella cinese lo hanno fatto con forza nei primi tempi, al loro inizio vittorioso, dopo sono progressivamente regredite per impantanarsi nella prospettiva del “recupero” soltanto. Una lezione decisiva da trarre dalla prima ondata: non impantanarsi in questa contraddizione, deve essere al centro delle preoccupazioni della seconda ondata.

Naturalmente i momenti successivi della lunga transizione nazionale, popolare e democratica sono fondati su compromessi conflittuali che oppongono l’aspirazione al socialismo alle forze a vocazione capitalistica. Rinvio qui ancora all’esperienza del maoismo e all’analisi che ne ha fatto Lin Chung. Aspetto positivo: invenzione della “linea di massa”. Limiti alla lunga paralizzanti: mancata istituzionalizzazione dei diritti (anche dell’individuo) e della giustizia. Si potrebbero ricordare anche le proposte e le esperienze di “autogestione”, di “democrazia partecipativa” e altre. Da leggere e rileggere con lucidità e spirito critico positivo. Il ricorso allo strumento del “dispotismo illuminato” risulta a volte inevitabile. Costringere i padri recalcitranti a mandare a scuola le figlie, per esempio, costituisce un esempio “antidemocratico”, oppure il solo mezzo per aprire la strada della democratizzazione? Nel quarto capitolo ho analizzato alcuni di questi aspetti della nostra epoca (in Afghanistan e nello Yemen “comunisti”).

5. La “nuova economia” non si può ridurre alla dimensione di socializzazione della gestione.

Essa deve integrare il rapporto società/natura e ridefinire “lo sviluppo delle forze produttive” tenendo conto di tale rapporto. La dimensione distruttiva dell’accumulazione è ormai è molto più ampia della sua dimensione costruttiva. L’accumulazione, nella forma dettata dal capitalismo, distrugge l’individuo, la natura, popoli interi. Il socialismo non è sinonimo di “capitalismo senza capitalisti”. Il “socialismo solare” di Altvater trova qui il suo posto, secondo me molto convincente.

(2.) La questione della mondializzazione

Sarò molto breve su questo capitolo, avendo scritto molto sull’argomento. Voglio solo rammentare le mie conclusioni fondamentali in materia.

La mondializzazione liberale si propone di costruire un “altro mondo” che sta emergendo, fondato sull’apartheid su scala mondiale, ancora più selvaggio di quello in cui abbiamo vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Le politiche attuate in risposta alla “crisi finanziaria” dalle potenze ormai senza via di scampo, cercano esclusivamente di restaurare l’ordine della mondializzazione liberista. Come nel 1920, il motto è il ritorno alla “belle époque”. Con le stesse minacciose certezze di nuovi crolli del sistema, ancora più gravi.

Continuare, malgrado tutto, il dominio dell’oligarchia della triade imperialista sul sistema mondiale impone di ricorrere alla violenza armata permanente, con il controllo militare di tutto il pianeta. Finché questo progetto non sarà definitivamente sconfitto, tutti i progressi possibili, in luoghi diversi, resteranno estremamente vulnerabili. La costruzione della convergenza nella diversità delle lotte non può non darsi l’obiettivo di eliminare la militarizzazione globale, dandogli un posto centrale nelle sue strategie. Insisto su questo punto fin dal 1990, ancor prima dell’inizio dei Forum sociali. Una Bandung 2, la Bandung dei popoli (ma anche in prospettiva necessaria e possibile quella degli Stati) costituisce il mezzo per eccellenza per eliminare nello stesso tempo lo schieramento militare dell’imperialismo collettivo della triade e lo sviluppo della mondializzazione liberista restaurata.

 

11. Da Marx ai marxismi storici

Marx, come è noto, si era dichiarato “non marxista” appena aveva intravisto il pericolo di quel che sono diventati i marxismi storici dei partiti che si sono ispirati al suo pensiero.

Non è qui il luogo per sviluppare una critica, sia pur rapida, dei marxismi storici. Mi limiterò a segnalare cinque serie di questioni a mio parere imprescindibili se uno si dichiara “marxista”. Non nel senso di aderire a uno dei marxismi storici del passato, ma nello spirito di “partire da Marx”.

1. La questione della “articolazione delle istanze” (base e sovrastruttura, economia, politica, ideologia e cultura) per utilizzare il nostro linguaggio ben noto, ha determinato una deriva contro la quale mi è sembrato necessario reagire.

Mi pare che Marx abbia stabilito che la “base” (l’organizzazione della produzione e del lavoro) sia sempre “determinante in ultima istanza”. Essa lo è all’alba dello sviluppo delle forze produttive, nei sistemi comunitari (linguaggio mio) che si fondano su una ideologia della parentela nella gestione della nascita delle classi sociali, poi lo è nel lungo periodo dei sistemi tributari di classi pre-moderne, poi ancora naturalmente nel capitalismo.

Ma Marx ha preso la precauzione di incardinare su questa base la “sovrastruttura politica e ideologica” in una maniera che è specifica del capitalismo, diversa da quella che definiva i sistemi precedenti.

Nel nostro linguaggio (che io condivido con altri) la base economica diventa dominante (o direttamente dominante) solo con il capitalismo. Nei sistemi precedenti, l’istanza direttamente dominante è il potere (la politica). Ho riassunto questo rovesciamento con la frase: nel capitalismo la ricchezza è fonte di potere; nei sistemi precedenti, viceversa. Il potere dominante esige un’ideologia che favorisce la sua riproduzione (la “religione di Stato”), quello del capitale esige l’economicismo (l’alienazione mercantile).

Ma in ogni caso è necessario esplicitare il modo di funzionamento di queste articolazioni.

Marx non ha proposto una “teoria generale” (necessariamente trans-storica), perché il suo metodo glielo vietava.

Si è dunque limitato ad analizzare concretamente questo modo di funzionamento in diversi tempi e luoghi. Scoperte poi avvalorate o meno, ma questo non mi importa.

I marxismi storici invece hanno proposto una teoria generale decretando che le diverse istanze costituiscono sempre e necessariamente una architettura coerente. Teoria sviluppata fino alle sue estreme conseguenze da Althusser con il suo concetto di “sovradeterminazione”.

La mia critica a questa deriva dei marxismi storici in direzione di una specie di determinismo storico mi conduce a proporre invece un concetto di “sotto-determinazione”. Cioè le diverse istanze sono governate non esclusivamente dalle esigenze della loro coerenza globale, ma anche da logiche interne loro proprie. Il caso delle “logiche religiose” mi sembra possa offrire esempi particolarmente interessanti. Più importante però è ciò che ho dedotto dal mio concetto di “sotto-determinazione”: cioè che il conflitto delle istanze può concludersi con una trasformazione rivoluzionaria positiva, ma può anche rinchiudere la società in un vicolo cieco, se non portarla alla regressione. La rivoluzione e il caos sono entrambi risultati diversi e possibili dei conflitti.

L’osservazione invita dunque a dare un posto importante alle logiche interne proprie dei diversi segmenti della realtà sociale.

2. La “sovra-determinazione” ha portato a una deriva semplificatrice forse dominante nel “marxismo popolare” (volgare).

Si tratta della falsa teoria della “ideologia riflesso”, cioè espressione diretta delle esigenze della riproduzione della base economica.

Marx ha utilizzato in vari luoghi il termine di riflesso ma – mi sembra – per indicare dei casi limite, quando l’ideologia diventa puramente “funzionale”. A mio parere, è il caso di quella veicolata dal virus liberale. Ma non è certo la regola che governa il rapporto fra le istanze.

Coscienti forse che la semplificazione non permetteva sempre di progredire nell’analisi della realtà, le autorità dei marxismi storici hanno fatto ricorso a un vocabolo poco preciso – “l’autonomia delle istanze”. Fuga davanti alla difficoltà reale! Quale è il senso e il contenuto esatto di questa “autonomia”? Non è forse solo una resistenza passeggera, mentre poi dovrebbe prevalere la subordinazione alle esigenze della base? Questo è probabilmente il senso che le è stato dato. Io propongo invece di andare molto oltre.

3. Lo Stato moderno, capitalista, non esisterebbe se non fosse ben articolato alle esigenze del dominio e della riproduzione capitalistica. Conquista di Marx per me ben acquisita.

Ma da qui a concludere che lo Stato, perché non è mai stato altro che uno Stato di classe, non può che essere tale e che quindi sia destinato a “sparire” nella società senza classi, mi pare problematico.

Marx ed Engels lasciano a volte intendere questa conclusione rapida, a volte invece altro: cioè che il proletariato non può impadronirsi dello Stato borghese per metterlo al proprio servizio, che deve di-struggerlo. E sostituirlo con un “altro Stato” – “l’amministrazione delle cose e non il governo degli uomini”, come lo definivano i socialisti utopisti dai quali Marx riprende la formula? Io sono arrivato a una formulazione un poco diversa: lo Stato come organizzatore della socializzazione della gestione di un sistema produttivo avanzato e complesso. E perciò ho posto la cultura (la cultura comunista, molto più di una “ideologia”) ai posti di comando, facendola diventare la nuova istanza dominante.

Ma la deriva semplificatrice contribuisce a oscurare soprattutto l’analisi delle esigenze dello Stato della transizione. E se si ammette che si tratta di una “transizione lunga” (secolare), la questione assume un’importanza particolare. Non riguarda soltanto lo Stato “nazionale popolare democratico” della lunga transizione a partire da progressi rivoluzionari realizzati nelle periferie del sistema. Essa riguarda anche lo Stato della non meno lunga transizione nei centri “sviluppati”. Essa interpella l’articolazione fra le esigenze della socializzazione della gestione economica e quelle dello sviluppo della democratizzazione nella società. Essa interpella l’articolazione fra le politiche degli Stati (“nazionali”) e lo sviluppo di una mondializzazione multipolare.

4. Io credo che quest’ultima dimensione del capitalismo realmente esistente - cioè la mondializzazione capitalistica e polarizzante - è stata quanto meno sottovalutata dai marxismi storici nella sua realtà e nelle conseguenze che comporta. Non torno sulla questione semplicemente perché appunto su questo si sono articolate tutte (o quasi tutte) le mie riflessioni e le mie proposte, da cinquant’anni in qua.

5. Marx non ha prodotto una “teoria generale del genere umano”.

E neppure una teoria generale della storia. Se ne è ben guardato. Ciò dovrebbe significare che la riflessione oltre Marx (il che lascerebbe intendere una “revisione” fondamentale delle affermazioni di Marx), ma “al di fuori” di Marx, sul terreno dell’antropologia, sia vietata?

Credo che sarebbe vano proporlo.

Da parte mia, ho “osato” (senza vantare alcuna qualifica che mi accordi il “diritto” di farlo) proporre qualche riflessione riguardante la piramide delle alienazioni, che effettivamente esce dal campo visivo di Marx.

Penso che una riflessione della stessa natura sulla questione del “potere” non sarebbe del tutto inutile, fra l’altro per leggere meglio le sue rappresentazioni, “scientifiche” o “deformanti”. I militanti conoscono bene il problema, per la loro pratica: sanno distinguere “la logica dell’organizzazione” dalla “logica delle lotte”. Antropologi, filosofi, in particolare psicanalisti, hanno posto la questione del “potere” nell’essere umano. Non credo che il “marxismo” imponga di ignorarlo.

Marx crede di riconoscere l’aspirazione al comunismo nel movimento reale della società. E’ la ragione per cui egli diffida di una sua mutazione in un progetto di una organizzazione politica, utopica o pretesamente realistica. Marx lascia che la classe nel suo insieme – il proletariato generale – inventi la sua strada verso il comunismo.

Aderisco a questa tesi che suppone una visione a suo modo ottimista della Ragione umana. Altri teorici – al di fuori di Marx (e non a partire da Marx) – non condividono questa impostazione. Freud ne è un esempio. Malgrado la grandezza – incontestabile - del pensatore, le sue tesi non mi convincono perché una lettura che cerchi di scoprire la “rappresentazione” del mondo che esse propongono (come fa Marx per tutti i pensatori) non può, a mio modesto parere, non rivelare le rappresentazioni della borghesia viennese in crisi.

Tento di leggere anche Keynes nella stessa maniera, ancora una volta quella di Marx. Keynes non è solamente un “economista” Naturalmente lo è, e anche un grande economista. E’ grande precisamente perché non è solo un economista. Keynes è un teorico. Gilles Dostaler e Bernard Maris lo hanno capito e hanno presentato la sua opera sotto questo punto di vista (Capitalisme et pulsion de mort). In Keynes la visione dell’avvenire dell’umanità è improntata all’ottimismo. Egli accerta che il livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto permette all’umanità di emanciparsi dalla “questione economica” (nel suo bel discorso ai nostri pronipoti).

Una società liberata dalle catene del lavoro necessario è possibile. Una società che passerebbe il tempo a coltivare i rapporti umani, una società veramente emancipata e colta. Questo obiettivo non è altro che – a modo suo – il comunismo di Marx.

Questa è la ragione per cui il capitalismo è un sistema ormai obsoleto, una parentesi che ormai deve chiudersi. Il pensiero di Keynes costituisce, a mio parere, uno degli esempi che dimostrano la giustezza della visione di Marx: l’umanità aspira al comunismo. Non solo le “classi popolari” (che Keynes disprezzava) ma anche i teorici più grandi. Keynes non è certo il primo ad aver concepito questo “avvenire radioso”. Prima di lui, lo avevano fatto gli utopisti. La lettura di Keynes economista, ugualmente necessaria, per me è deludente. Certamente Keynes supera di molto gli economisti convenzionali volgari del suo tempo (e i loro discendenti, gli “economisti puri” di oggi). Ma i concetti che egli propone per una lettura diversa della realtà economica (in particolare, la preferenza per la liquidità) non superano l’osservazione empirica e diretta dei fenomeni, anche se l’approccio keynesiano alla realtà resta infinitamente più valido di quello dei nostri miserabili liberali. Marx va molto più lontano: attraverso la “preferenza per la liquidità”, che Keynes giustamente associa all’“adorazione del denaro”, si esprime l’alienazione mercantile, che è fondamentale per la riproduzione del sistema.

Keynes ignora la tendenza alla pauperizzazione, che è un prodotto necessario della logica dell’accumulazione. L’effetto di questa tendenza non era visibile nell’Inghilterra della sua epoca, ma lo era perfettamente su scala dell’impero britannico, come allora scriveva il Partito comunista sudafricano. Ma Keynes lo ha trascurato. Il Keynes teorico, utopista comunista, è certamente dotato di grande sensibilità, ma resta pur sempre prigioniero dei suoi “pregiudizi di classe”. Il disprezzo per le classi popolari, secondo lui incapaci di battersi per quell’avvenire radioso al quale aspirano lui e i suoi amici di Bloomsbury, tradisce l’educazione che ha ricevuto. Un po’ come i “bobo” parigini di oggi, egli pensa che il compito di “cambiare il mondo” sia appannaggio esclusivo delle “élites”.

E’ fuor di dubbio che le osservazioni di Keynes sugli “operai” inglesi della sua epoca (e della nostra) non sono del tutto prive di perspicacia. Ma per capire questo fatto, bisogna uscire dal quadro dell’osservazione delle classi popolari dei soli centri opulenti per guardare la realtà del sistema capitalista mondializzato. La rendita imperialista spiega i comportamenti notati in Inghilterra. Lo sguardo sul sistema mondiale nel suo complesso invita invece, sulla base di Marx, a porre in altri termini la questione della rimessa in discussione del capitalismo, sottolineando l’importanza delle lotte di emancipazione dei popoli delle periferie, ciò che Keynes neppure immaginava.

 

12. I “movimenti sociali” sono all’altezza della sfida?

Anche qui sarò molto breve e rammenterò solo le mie conclusioni. I movimenti sociali progressisti, ancora ampiamente frammentati e in posizione difensiva, sono minacciati di ristagno o anche di regresso, a vantaggio dei movimenti reazionari fondati sulle illusioni para-religiose, para-etniche, para-populiste e altre. Non mancano gli esempi di “religioni-politiche”, di nuove sette, di etnocrazie.

In questa situazione, è importante distinguere i possibili crolli del sistema per l’acuirsi delle proprie contraddizioni interne da una parte, dai regressi del sistema sotto i colpi di lucide avanzate popolari e democratiche dall’altra. Io ho proposto di definire alcune transizioni del passato (per esempio, dall’impero romano al feudalesimo europeo) come “via della decadenza”, in contrasto con la “via rivoluzionaria” caratteristica del passaggio al capitalismo storico e al socialismo: “rivoluzione o decadenza” (la mia lettura), “socialismo o barbarie” (Rosa Luxemburg), o ancora “transizione lucida o caos” (la mia espressione più recente in risposta alla crisi in corso) sono sinonimi. Fino a oggi, il mondo è avviato sulla strada del caos perché i “movimenti in lotta” non sono (ancora?) all’altezza della sfida.

Bisogna perciò dare grande importanza alla battaglia ideologica.

Rinvio qui alle critiche che ho rivolto al “discorso post-modernista”, in particolare di Negri. Fole circa il “capitalismo cognitivo”, sulla “morte di Marx”, ripiegamenti sull’ideologia borghese della libertà dell’individuo-già-diventato-soggetto-della-storia (alla Habermas), tecnologismo (che attribuisce le sfide e le trasformazioni in corso esclusivamente alla “rivoluzione tecnologica”), eliminazione della realtà di fondo del capitalismo contemporaneo (il dominio dell’oligarchia), formulazioni ingenue (la comunicazione orizzontale che si sostituisce alle gerarchie verticali), sono tutti elementi che ritardano la presa di coscienza lucida delle sfide autentiche che abbiamo di fronte, sia a breve termine (precarizzazione e subordinazione accentuata del lavoro, guerre ai popoli del Sud) che a più lungo termine.


Riferimenti
La mia intenzione non è quella di ripercorrere le tappe della formazione dei concetti e delle conclusioni che sono qui presentate; mi accontenterei di indicare brevemente i miei testi che potrebbero aiutare la lettura per ricostruire il percorso proposto, seguendo una presentazione cronologica.
1. L’Accumulation à l’échele mondiale è stato redatto in una prima versione nel 1954-1956 (thèse de doctorat, 1957, tr. it. L' L'Accomulazione su scala mondiale, Jaca Book 1969); e in una forma più didattica nel 1973 in Le Développement inégal (tr. it. Lo sviluppo ineguale, Einaudi 1977).
2. Sulla questione della legge del valore e sul problema della “trasformazione”, vedi La loi de la valeur et le matérialisme historique (1977).
3. Circa le tematiche teoriche e ideologiche, vedi:
a) Classes et Nations dans l’histoire et la crise contemporaine (1979)
b) L’Eurocentrisme (1988) e la sua nuova edizione argomentata, Modernité, Religion, Démocratie, Critique de l’eurocentrisme, critique des culturalismes (2008).
c) Critique de l’Air du Temps (1997), tr. it. Le fiabe del capitale (1997, coedizione Punto Rosso-La meridiana).
4. Sulla crisi, il neoliberismo e la geopolitica
a) Au-delà du capitalisme sénile (2002), tr. it. Oltre il capitalismo senile. Per un XXI secolo non americano (Punto Rosso, 2002).
b) Le Virus libéral (2003), tr. it. Il virus liberale, (coedizione Asterios-Punto Rosso 2004)
c) Pour un Monde multipolaire (2005), tr. it. Per un mondo multipolare (Punto Rosso 2006)
d) Pour la cinquième Internationale (2006), tr. it. in Altermondialista. Delegittimare il capitalismo. Ricostruire la speranza. Per la “Quinta Internazionale” (con François Houtart, Punto Rosso 2007).
e) Du capitalisme à la civilisation (2008) f) L’Éveil du Sud (2008)
Altri riferimenti
Samir Amin, André Gunder Frank, Réflexions sur la crise économique mondiale, n’attendons pas 1984 (1978).
Cinquante ans après Bandoung, Recherches Internationales n° 73 – 04, 2004.
Empire et Multitude, La Pensée n° 343, 2005.
Marx et la démocratie, La Pensée, n° 328, 2001.
Isabelle Garo, Marx, un critique de la Philosophie, 2000.
Elmar Altvater, The Plagues of Capitalism, 2008.
Étiemble, L’Europe chinoise, 1988.
Gilles Dostaler, Bernard Maris, Capitalisme et pulsion de mort, 2009.

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Mario Galati
Thursday, 13 August 2020 17:51
Dimenticavo di evidenziare che anche nello scritto di Samir Amin del 2013 sulla Cina si possono trovare affinità e convergenze con gli approdi di Domenico Losurdo.
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Mario Galati
Thursday, 13 August 2020 17:46
Questioni decisive quelle poste da Samir Amin.
Trovo che alcune correttissime enunciazioni teoriche presentate quasi come una novità rispetto ai marxismi storici, anche se presenti in Marx, così nuove non lo siano poi tanto.
Per es., la centralità della cosiddetta "rappresentazione" (ossia la coscienza della realtà, l'ideologia non solo in senso stretto) nell'agire nel mondo, ossia l'ideologia come modo di essere del soggetto che ne determina la prassi in relazione ai fini che si pone, che non costituisce un segmento separato della realtà materiale, un mero riflesso passivo (la sovrastruttura come meccanica conseguenza e forma di una pura struttura materiale), è concetto sempre presente nei marxismi storici, anche se oscurato o distorto nella pratica semplificatrice delle esperienze statali socialiste e di massa.
Mi sembra che in alcuni punti la ricerca di Samir Amin converga con quella di Domenico Losurdo. Per es., sulla necessità di riconsiderare la questione dell'estinzione dello stato (Samir Amin parte dalla novità storica dell'uguaglianza giuridica alla base dello stato borghese, comunque fattore irreversibile di universalizzazione progressiva. A proposito di non novità, questo concetto era presente già in Gramsci; Domenico Losurdo parte da premesse teoriche, antianarchiche, testuali marxiane e ontologiche sociali).
E ancora, sulla questione delle cosiddette "sottodeterminazioni", ossia di quelle istanze dell'essere umano che non sarebbero regolate dal movimento complessivo della società, dipendenti dall'esterno, ma da logiche interne loro proprie: in pratica, istanze ontologiche. Anche Domenico Losurdo, sulla scia di Lukàcs, credo, afferma l'esigenza di riconsiderare alcune istanze ontologiche se si vuole impostare una giusta azione di trasformazione politica e storica. I concetti di Amin e Losurdo non saranno coincidenti, ma vi è almeno una qualche affinità di esigenza. La questione se sia più corretta questa impostazione ontologica rispetto a quella dell'autonomia relativa della sovrastruttura rispetto alla struttura è da verificare.
Mi convince la lettura mondializzata della legge del valore e la centralità della rendita imperialistica, sulla scia di Lenin, nella definizione delle società periferiche e della metropoli capitalistica. Personalmente trovo conferma nella mia convinzione della necessità della cosiddetta Grande Convergenza tra Cina-ex mondo coloniale e occidente capitalistico avanzato ai fini di una ripresa della lotta per il socialismo in casa nostra. Mi sembra che, senza ciò, l'altra ipotesi di una possibile autonoma lotta contro le oligarchie oligopolistiche da parte delle masse occidentali pauperizzate non si stia confermando, a tutto vantaggio dell'ipotizzata alternativa reazionaria fascisteggiante di massa.
Questo denso e importante scritto di Samir Amin andrebbe completato con un altro suo scritto del 2013 sulla Cina, pubblicato di recente da Contropiano e ripreso da Sinistra in Rete, se ben ricordo.
Ho accennato solo alcuni spunti offerti dallo scritto di Amin, ma in realtà essi sono tanti e inscritti in una visione unitaria, totale, lucida e coerente, di alto tenore teorico.
Attenta lettura consigliata.
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