Print Friendly, PDF & Email

cumpanis

La funzione dialettica del “Manifesto del Partito Comunista” nel processo storico

di Giannetto Edoardo (Nanni) Marcenaro

IMMAGINE PER HOME ARTICOLO MARCENARO«La lotta contro la frantumazione della classe operaia è al tempo stesso la lotta contro il pregiudizio nazionale o razziale» (Losurdo, Introduzione, “Manifesto del Partito Comunista”, p. XXIV)

1. Introduzione

Il 175° anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista cade in un’epoca nella quale lo sviluppo del processo storico, da una parte, ha dimostrato come – a dispetto dei trionfali proclami dei liberali all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica – il socialismo e l’ideologia Marxista-leninista siano ben vivi e abbiano acquisito più forza e ricchezza di quanta mai ne avessero creata prima, soprattutto nella Repubblica Popolare della Cina, e dall’altra parte, invece, ha segnato in Occidente l’inizio di una profonda crisi di credibilità, diffusione, e radicamento nelle popolazioni dei vari Stati europei, per quegli stessi movimento e pensiero.

Gli ultimi trent’anni hanno visto un ridimensionamento, non distante da una completa cancellazione dal panorama politico nell’Occidente capitalistico, delle formazioni comuniste o socialiste la cui influenza sulla società e sulle culture nazionali, nonostante il continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, si è sempre più ridotta, sotto l’attacco costante e sistematico del revisionismo storico e delle incessanti ondate contrarie dei prodotti culturali di massa.

La classe capitalista ha potuto prendere l’iniziativa in assenza di qualsiasi costrizione e trasformare a propria immagine e somiglianza l’intera società, disgiungendo gli aspetti politici dei rapporti sociali da quelli identitari, in modo da isolare “individuo” e “società”, disinnescando quindi qualsiasi portata rivoluzionaria dei movimenti dei diritti cosiddetti “civili”, e trasportando le questioni economiche nel loro insieme sul terreno della meccanica “celeste” del “libero mercato”, con i subdoli mezzi della retorica keynesiana di “imprese” e “famiglie”, nella quale dilegua qualsiasi nozione di conflitto sociale o di classe e la prospettiva unica sull’orizzonte degli eventi è quello del thatcheriano “there is no alternative”: è consentito soltanto appellarsi al lumicino della speranza che “un altro capitalismo” sia possibile.

Contesto nel quale, così come al tempo di Marx ed Engels, la popolazione lavoratrice risulta sempre più «un semplice insieme di singoli individui» (Marx/Engels 2018, p. XXIV) privo di qualsiasi coesione o consapevolezza della propria funzione sociale, a causa dell’incessante lacerazione, anche violenta, del tessuto sociale, in cui si «consacra il trionfo del ‘dispotismo’ padronale» – con nuove categorie di contratto di lavoro, in sempre più precarie condizioni, lasciate all’arbitrio dell’“imprenditore” – e «le riforme realizzate mediante il movimento dal basso […] possono essere annullate» (ibid), come abbiamo testimoniato, e ancora oggi stiamo vedendo, in particolare in Italia, con l’assalto neoliberista ai pochi residui superstiti dell’economia mista che caratterizzò il nostro Paese nel secondo dopoguerra.

Oggi il governo della classe capitalista appare regnare incontrastato in Occidente, e nessuna forza politica sembra in grado di opporsi alle dinamiche imperialiste e neocoloniali che imperversano sui questi Paesi, asserviti alle volontà del capitale statunitense, mentre non si intravede alcun significativo sussulto di consapevolezza politica nella popolazione, che ambisca a mettere in discussione l’ordine costituito.

È possibile, dunque, che una breve analisi di quanto Karl Marx e Friedrich Engels dicono nel Manifesto – documento che nella sua essenza più profonda è appunto un accorato appello a rovesciare il sistema capitalista – simultaneamente riflettendo, altrettanto brevemente, su quanto lo sviluppo del processo storico ci ha mostrato da allora, offra al nostro intelletto elementi utili per una comprensione più integrale e dialettica della situazione odierna e delle sue radici.

 

2. Frammentazione e unione del soggetto rivoluzionario

Va innanzitutto osservato che Marx ed Engels nel Manifesto si occupano in primo luogo di individuare e definire con chiarezza il soggetto rivoluzionario: il settore della società che, come classe, può e deve costituirsi in un blocco unitario consapevole della propria funzione e magnitudo, assumendo attivamente un ruolo politico ma anche sociale, determinante nell’influenzare le tendenze sociali in atto che stabiliscono la direzione presa da un Paese.

In questo senso, l’analisi da loro condotta li porta a concludere che, a quel tempo, «di tutte le classi che […] stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria», poiché essa è «il […] prodotto più autentico» della «grande industria» dal cui sviluppo la borghesia trae il suo profitto, mentre «le altre classi decadono e tramontano» (p. 20) con essa: questo perché il «proletariato» è la classe che mette in vendita la propria “forza-lavoro” come merce, in quanto mezzo di produzione a disposizione del capitalista, di cui costui si serve in qualità di “lavoro salariato” che è «condizione [dell’esistenza] del capitale» (p. 23).

Per ottenere il massimo profitto dalla propria attività imprenditoriale, la borghesia vuole porre le migliori condizioni perché nella produzione e commercio dei prodotti nella sua disponibilità si trovi nella posizione più vantaggiosa rispetto all’acquirente, o al suo concorrente: per questo necessita di spuntare il prezzo più basso possibile per i mezzi di produzione che consentono alla merce di essere realizzata.

Poiché, poi, il sistema di produzione capitalista si fonda sulla «moderna proprietà privata borghese», cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione, per cui si crea una separazione tra produttori e prodotti, tra lavoratori e risultato del lavoro da essi eseguito, e l’unica “proprietà” di questi ultimi non è che la loro “forza-lavoro”, in tanto che «il lavoro salariato, il lavoro del proletario [non] procura […] a quest’ultimo una proprietà» (p. 27), tutti questi «sono costretti a vendersi al minuto» ed essere quindi esposti «a tutte le vicissitudini della concorrenza» (p. 15) tra gli operai, su cui lo stesso «lavoro salariato si fonda esclusivamente» (p. 23).

Quello della concorrenza è un principio che crea isolamento tra i lavoratori: poiché l’unico modo che ha per sopravvivere è lavorare, il lavoratore disoccupato, qualora non disponga di una riserva sufficiente di valore-di-scambio con cui fare fronte alle necessità nel periodo in cui non riceve un salario, sarà sempre pronto, pur di guadagnare alcunché, ad accettare un compenso minore rispetto ad un altro lavoratore per compiere lo stesso lavoro, in questo modo ponendo le condizioni ideali per la realizzazione del massimo profitto da parte del capitalista, e della frammentazione della classe lavoratrice.

In un regime di concorrenza tra lavoratori infatti, ciascuno pensa per se stesso, senza avvedersi di rafforzare in tal modo la posizione di colui che lo sfrutta, e anzi spesso senza nemmeno avvedersi di essere sfruttato: il lavoro salariato infatti, in quanto tale, è per definizione compiuto da un individuo “libero”, non da uno schiavo. Non si tratta di lavoro coatto.

Ciò si inscrive appieno nella tradizione cosiddetta “liberale” del pensiero occidentale, per cui «il livello dei salari e le condizioni di lavoro rinviano a un contratto liberamente pattuito tra le parti», cosicché «la moderna schiavitù operaia» può «immediatamente dileguare in una sfera considerata priva di qualsiasi rilevanza politica». La cupa e feroce realtà dello spietato sfruttamento subìto, secondo un personaggio del calibro di Edmund Burke, infatti non è che «una parvenza, che non intacca sostanzialmente la realtà della libertà come ‘benedizione comune’» della quale a suo parere «nemmeno il più miserabile» (pp. XII-XIII) può dirsi privato.

Posizione che esprime nella sua essenza la tradizione liberale nel suo complesso, fondata sulla lettura selettiva degli eventi e sulla loro narrazione agiografica ed edulcorata, così strutturata da costruire una storia completamente falsificata, per mezzo della quale viene compiuta una mistificazione sistematica della cifra reale della mostruosità del colonialismo, della magnitudo e meccanismo consapevole del saccheggio sistematico dei popoli del Sud del mondo, dell’ideologia corrotta e degenerata che pervade la mente liberale e che ha giustificato senza alcuno scrupolo, sulla base delle perversa convinzione della superiorità della cultura occidentale e delle popolazioni europee, cioè bianche, su tutti gli altri, il massacro, la riduzione in schiavitù, fino al vero e proprio sterminio di intere popoli, come le Prime Nazioni del continente americano, la cui cancellazione dalla faccia della Terra, non fu altro che la prima forma fenomenale sotto cui il liberalismo mostrava il suo più puro distillato, nutrimento del terreno in cui poi sarebbe stato cullato il Nazismo nel ventesimo secolo.

Nelle prime pagine del Manifesto i due autori osservano, correttamente, che laddove la borghesia aveva ottenuto il potere, «ha posto come unica libertà quella di un commercio senza scrupoli», introducendo in questo modo, «in luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche […] lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido» (p. 9), imposto dall’imperativo categorico del massimo profitto.

Questo tuttavia richiede un progressivo aumento della scala della produzione, e quindi un numero sempre maggiore di lavoratori impiegati nell’industria, per cui il proletariato «viene concentrato in masse via via più imponenti» col risultato che «la sua forza cresce ed esso la avverte sempre di più» (p. 17, enfasi mia): in tale modo i lavoratori incominciano ad associarsi in «coalizioni contro i borghesi e si uniscono per difendere il loro salario», ma «il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma la loro unione, che sempre più si diffonde» (p. 18), ed ossia la formazione progressiva di una coscienza e di un movimento di classe che sfocia in lotta politica e sociale contro la classe dei proprietari dei mezzi di produzione.

Si tratta, evidentemente, di un movimento dialettico, poiché il progresso di questa unione è «agevolata dai mezzi di comunicazione in continua espansione», così come dai mezzi di trasporto moderni, che permettono di compiere «in pochi anni» quello per cui «ai cittadini del Medioevo […] occorsero dei secoli», ma entrambi questi mezzi, così come lo stesso proletariato, «sono prodotti dalla grande industria» (ibid.) nel suo impetuoso sviluppo, «del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo» (p. 23): dallo sviluppo delle forze produttive, secondo le modalità del progresso della conoscenza tecnica e scientifica, si producono due elementi opposti, quali aspetti principali della contraddizione principale nel sistema capitalista – la borghesia e il proletariato – i quali emergono simultaneamente, sebbene rispondano ciascuna ad una propria dinamica interna.

 

3. L’apparente evitabilità della rivoluzione

A Marx ed Engels dunque «appare chiaramente che la borghesia non è più in grado di restare la classe dominante della società», poiché riducendo alla miseria più abietta coloro del cui lavoro deve profittare, nemmeno «è in grado di garantire la vita al proprio schiavo», sicché «l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società» e pertanto, dal loro punto di vista, «il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili». Secondo Marx ed Engels, già alla loro epoca, «la società non può più vivere sotto il suo dominio» (pp. 22-23, enfasi mie), quello della borghesia.

I due espongono in maniera evidente le ragioni per cui tale deve essere la situazione nel momento in cui scrivevano, nella prima parte sottolineando in particolare la disumanizzazione e l’assimilazione a «semplice accessorio della macchina» subita dal lavoratore salariato, per cui il suo salario scende costantemente con ogni innovazione, ciascuna delle quali rende le sue mansioni sempre più meccaniche e meno qualificate, cosicché si ritrova «senza proprietà» alcuna tranne la propria forza-lavoro e la sua discendenza, e al quale nemmeno vengono assicurate «quelle condizioni che [gli] permettano di condurre la sua misera vita servile» (pp. 15, 20, e 22), in una società che non si cura minimamente di lui o dei suoi pari, ergendosi «sulla negazione della felicità terrena e del senso stesso della vita per la maggioranza della popolazione planetaria» (p. XLIII).

Ma è nella seconda parte che la loro tecnica retorica assume un carattere del tutto peculiare da meritare di essere brevemente analizzata, poiché dopo avere tratteggiato a grandi linee «le posizioni teoriche dei comunisti» (p. 26) ed avere esaminato «i due termini […] dell’antagonismo fra capitale e lavoro salariato» (p. 27) incomincia una lunga sezione in cui i due autori si rivolgono direttamente ai capitalisti, alla classe borghese, discutendo «le obiezioni della borghesia contro il comunismo» sia rispetto all’«appropriazione e produzione dei beni materiali», sia rispetto a quella dei «beni spirituali» (pp. 35 e 30) in seguito alla rivoluzione che ivi non è più semplicemente proletaria, ma diventa specificamente «comunista» e che è «la più radicale rottura con i rapporti di proprietà tradizionali», sicché «nel suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali» (ibid).

Nel momento in cui «la lotta di classe si avvicina al momento decisivo», infatti, la classe «dominante» va dissolvendosi per le proprie contraddizioni interne e «così ora passa al proletariato una parte della borghesia», cioè quella parte, gli «ideologi», che è giunta «a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme» (p. 20): questo implicherebbe che «in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova», per cui «la dissoluzione delle vecchie condizioni di vita procede di pari passo con la dissoluzione delle vecchie idee» (p. 34).

Ma è chiaro che nei termini in cui viene posta la questione, quegli «ideologi borghesi» che hanno compreso «teoricamente il movimento storico nel suo insieme», non possono essere altri che gli stessi Marx ed Engels – che entrambi erano parte della “borghesia”, in un modo o nell’altro, o lo erano stati – e coloro i quali si intendessero porre sulla loro scia.

I due autori, inoltre, presentano, nel Manifesto, la questione della rivoluzione del proletariato che «non può sollevarsi, non può ergersi in piedi, senza far saltare in aria l’intera […] società ufficiale» (ibid.) come un fatto che è in procinto di compiersi poiché «la Germania si trova alla vigilia di una rivoluzione borghese» e tale rivoluzione «non può che essere l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria» (p. 56, enfasi mia) che però si configura soltanto come primo passo della rivoluzione “comunista”.

Il Manifesto viene pubblicato nel febbraio del 1848: e in effetti, non passano che poche settimane prima che in tutto il subcontinente europeo erompano sommosse e moti rivoluzionari, che in particolare in Germania assumevano proprio il carattere evocato da Marx ed Engels, poi ripercorso nella serie di articoli del 1851-52 per il New York Tribune pubblicata in seguito con il titolo di “Rivoluzione e contro-rivoluzione in Germania”.

I moti del 1848, tuttavia, nel medio termine falliscono, e la realtà concreta di una rivoluzione “borghese” in Germania dovrà attendere ancora per quasi settanta anni, quando nel 1919, al termine del primo conflitto mondiale, sulle ultime consunte vestigia dell’“ancien régime”, verrà fondata la Repubblica di Weimar, che infine riunirà larghe porzioni del territorio del defunto Secondo Reich in uno stato nazionale retto da istituzioni fondate sulla sovranità del popolo (i cui destini e famigerato successore tutti ben conosciamo).

Ma tutto questo non sarà sufficiente a produrre in Germania, né in tutti gli altri Paesi dell’Europa occidentale i quali già dalla prima parte del 19° secolo in avanti si erano dotati di statuti e costituzioni pur rimanendo “monarchie” (p.es. Svezia, Norvegia, e Belgio, così come Paesi Bassi, e Regno di Sardegna nel 1848, e Danimarca nel 1849), né nella Francia delle numerose Repubbliche, quella rivoluzione proletaria che i due autori del Manifesto auspicavano e che ritenevano doversi imporre necessariamente nelle condizioni poste dallo sviluppo dell’industria che il “dominio” della borghesia avrebbe realizzato.

Ciò vuol dire che quando Marx ed Engels dicono che «le leggi, la morale, la religione, sono per [il proletario] altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi» (p. 21) non può trattarsi in effetti di una valutazione oggettiva delle condizioni materiali date nella situazione concreta, vissuta, in quei Paesi al tempo, ma, al massimo, di un ottimismo che si rivela infondato, e nel peggiore dei casi, invece, non è che la proiezione della consapevolezza dei due autori riguardo a tali elementi della sovrastruttura, su quella della massa di lavoratori, che invece, ovviamente, erano stati allevati, educati, ed istruiti, dalle istituzioni e nelle credenze di quelli che Marx ed Engels in effetti vedevano come nulla più che «pregiudizi borghesi».

Il fatto che l’evenienza prospettata da costoro nel Manifesto come «inevitabile» nelle condizioni già date non si sia mai verificata, è stato simultaneamente uno dei principali fattori nell’erosione della credibilità del pensiero che tale previsione presuppone, e nell’emersione e radicamento del cosiddetto “Marxismo” occidentale, sviluppo dialettico dell’affermazione conseguente del Marxismo-leninismo, e del successo delle strategie e rivoluzioni comuniste in Oriente, il quale, come aspetto della contraddizione tra colonialismo e anti-colonialismo, ha inteso negare il carattere socialista e Marxista di quella intera esperienza.

 

4. La transizione della classe capitalista in Europa da dominante a dirigente

È perfettamente chiaro ed evidente dunque che il fattore non considerato da Marx ed Engels nell’elaborazione degli argomenti esposti nel Manifesto è quello che invece distinguerà e definirà nel secolo successivo Antonio Gramsci, ed ossia l’egemonia culturale della classe che in un Paese detiene la proprietà dei mezzi di produzione e con essa anche il potere politico: ed è proprio per tale posizione predominante che è in grado di esercitare un controllo pressoché assoluto sull’intera popolazione, laddove l’organizzazione dello Stato sia tale da intercettare capillarmente la formazione intellettuale di ogni cittadino.

Marx ed Engels ripetono infatti più volte, come evidenziato sopra, che la classe che controlla il potere politico è «dominante», e che la «classe operaia» deve conquistare il proprio «dominio» sulla società, prima di sopprimere «le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe […] e quindi anche il suo proprio dominio di classe» (p. 37): da quanto poi ritengono sia l’atteggiamento del «proletario» verso le istituzioni culturali borghesi, è chiaro che non tengono in considerazione quel fattore. Ma può una classe conquistare e mantenere il “dominio” della società, laddove non si ponga anche come classe dirigente, cioè egemone? Il problema, è lampante, doveva porsi in sostanza anche per la borghesia a quel tempo.

Dopotutto, fino all’epoca contemporanea questa funzione di direzione della società, il cui operato forniva il materiale necessario per instaurare l’egemonia, era svolta principalmente dalle istituzioni religiose, p.es. con l’insegnamento del catechismo alle masse popolari, grazie al quale era possibile controllare la formazione intellettuale dei lavoratori senza che fosse necessario insegnare loro a leggere e a scrivere: ed ossia, imponendogli una ben precisa visione-del-mondo trasmessa per figure simboliche ed episodi esemplari – cioè una immagine trascendentale determinata da contenuti empirici le cui relazioni interne ed esterne forniscono alla mente un valore ed un senso del proprio essere nella sua comprensione esistenziale – sottraendo loro gli strumenti conoscitivi necessari alla sua analisi critica e alla discussione dei suoi fondamenti epistemologici.

All’inizio tale situazione era perfettamente adeguata anche agli scopi della classe borghese nell’esercizio delle sue funzioni di “dominio”: per il sistema di produzione che si era sviluppato durante la Prima Rivoluzione Industriale, l’assoggettamento psichico della classe lavoratrice imposto dalle “tradizioni” della “civiltà” europea produceva una disposizione individuale affatto incline alla sopportazione del «dispotismo […] meschino, odioso, esasperante» (p. 16) esercitato con «l’irreggimentazione degli occupati» (p. XXIII), ai quali d’altronde «si richiede soltanto un’operazione manuale estremamente semplice, monotona, facilissima da imparare» (p. 15). Così come il servo della gleba nel sistema di produzione feudale, nemmeno l’operaio nel sistema capitalista ha bisogno di sapere leggere e scrivere per svolgere la sua mansione, né necessita di sviluppare o esercitare le proprie spontanee facoltà di ragionamento, riflessione, e pensiero critico.

Epperò, l’introduzione di quello «sfruttamento aperto, spudorato» piuttosto che «velato da illusioni religiose e politiche» produceva una contraddizione nella dinamica dell’egemonia sociale, e promuovendo l’unione della classe operaia, mostrava a questa l’intrinseco conflitto, non tanto tra se stessa e la borghesia, quanto tra il carattere esplicito del sistema di produzione capitalista e la visione-del-mondo feudale che gli era stata venduta.

Il sistema di produzione industriale manifatturiero, che d’altronde era stato il mezzo per il rovesciamento dell’ordine sociale fondato sulle relazioni di produzioni feudali, poteva bensì essere biasimato e criticato, e dalla classe operaia, anche a partire dagli insegnamenti e nozioni fornite dalle forme di pensiero “tradizionali”, quelle cioè che la rivoluzione comunista avrebbe dovuto cancellare.

Per tale ragione nel corso del 19° secolo emergevano in modo sempre più prepotente molte forme di associazione e pensiero riguardo alla classe operaia e dentro di essa – che Marx ed Engels enumerano nella terza parte del Manifesto – tra le quali, senza che nessuna mai mettesse in discussione l’ordine costituito, alcune cercavano di conciliare, dogmaticamente, il conflitto distruttivo dei termini della contraddizione, altre invece erano apertamente reazionarie, opposte allo sviluppo dell’industria, obliquamente primitiviste, spesso nel tentativo di «dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista» (p. 41), posizioni che assai prosperarono in seguito, e ancora fino ad oggi, innanzitutto in Italia.

Queste correnti di pensiero non sono rivoluzionarie in nessun caso, e la loro funzione dialettica è quella di disinnescare le tensioni sociali che l’affermazione del sistema capitalista porta con sé, e che pongono le condizioni, quelle esposte da Marx ed Engels, per cui diventa «inevitabile» il rovesciamento del «dominio» della borghesia, ma allo stesso tempo con l’ambizione di limitare tale «dominio» e mantenere immutate le prerogative e la forza politico-sociale delle classi dominanti spodestate, epperò ancora dirigenti.

L’apparenza esplicita della realtà di quella contraddizione quindi mette in discussione il dominio della borghesia, naturalmente, poiché tale egemonia era quella che in precedenza garantiva il dominio delle classi feudali, per quanto nell’ambito di uno sviluppo limitato del sistema capitalista anche la borghesia se ne potesse avvalere: se infatti la classe “dominante” non è in grado di assicurare alla classe oppressa «almeno quelle condizioni che le permettano di condurre la sua misera vita servile» (p. 22) è senz’altro legittimo domandarsi se quella classe “dominante” sia in effetti adeguata a tale funzione nella società, poiché mancare di assicurare tali condizioni significa porre quelle del rovesciamento dell’intero ordinamento sociale, ciò di cui appunto Marx ed Engels nel Manifesto paventano l’imminente verificarsi.

Non poteva dunque essere sufficiente il solo dominio della società, l’imposizione di un ordine sociale per mezzo del monopolio dell’uso della forza e della repressione violenta dei movimenti popolari ed operai, con la giustificazione ipocrita e fasulla dello sfruttamento con l’argomento della libertà, alla maniera di Burke, in cui «il […] diritto è soltanto la volontà della […] classe [capitalista] innalzata a legge» (p. 31), ma era anche richiesto di rinnovare il carattere, la magnitudo, e il respiro della narrazione egemonica, perché la classe borghese potesse costituirsi propriamente come “classe dirigente” della società, e quindi produrre a sua volta, non soltanto un sistema di produzione, ma anche una società «nuova» in cui affermare la propria egemonia in modo distinto, del tutto differente rispetto a quella precedente, che era essenzialmente basata sull’ideale della privazione dal piacere e dall’abbondanza: non può essere minimamente nascosto all’occhio del Lettore attento il carattere propriamente dialettico di tali dinamiche.

È possibile, d’altronde, sorvolare sul fatto che quando Charles Darwin pubblicò il suo “Le origini della specie” nel 1859 la quasi totalità degli europei e i loro discendenti oltreoceano credevano fermamente in una o l’altra versione del mito contenuto nei testi “sacri” della religione cristiana? E che su tali testi si era retto per secoli il “dominio” e l’egemonia delle classi feudali, attraverso entrambi i quali avevano esercitato in modo efficace il potere politico, orientando in modo determinante le opinioni della stragrande maggioranza degli individui, e mantenuto inalterato l’ordine costituito e i propri privilegi sociali di classe?

Nemmeno, tuttavia, è possibile passare sotto silenzio che in quello stesso anno 1859, in Inghilterra, secondo i rilievi effettuati da David Cressy, la percentuale dei maschi e delle femmine in grado di apporre una firma alle dichiarazioni delle corti ecclesiastiche, superava il 70% e il 60% rispettivamente. La prima edizione del testo di Darwin, in 1,250 copie, venne esaurita nel primo giorno di vendite, e l’anno successivo ne fu stampata una seconda da ben 3,000. Il libro dello studioso inglese, a differenza di quello di Marx ed Engels, vide la bellezza di sei edizioni in soli tredici anni, oltre ad essere pubblicato negli Stati Uniti già nel 1860, ed essere tradotto nelle principali lingue europee entro la fine degli anni ‘70. Secondo l’autore stesso, come dichiara nella sua autobiografia (a p. 122 dell’edizione inglese), «fino ad ora (1876) sono state vendute in Inghilterra sedicimila copie».

Ben 500 copie della prima edizione poi furono acquistate dalla Mudie’s Library, una biblioteca privata, che dava in prestito libri un volume alla volta, a fronte del pagamento di un’iscrizione annuale, di cui lo stesso Darwin si era avvalso per gli studi necessari a scrivere il suo libro, e che consentiva una ampia circolazione delle opere. Questo tipo di biblioteche esisteva diffusamente nel Regno Unito, ma in ragione del loro costo rimanevano un servizio dedicato soprattutto ai ceti più abbienti.

Nello stesso periodo di tempo, tuttavia, nel corso della seconda metà del 19° secolo, veniva progressivamente istituito, in seguito all’approvazione di una legge apposita nel 1850, un sistema di biblioteche che non prevedeva alcuna tariffa per consultare o prendere a prestito i libri, che era aperto a tutti, e di cui a sua volta anche Marx si servì quando, esiliato in Inghilterra, poté usufruire della vasta collezione della Biblioteca del British Museum per la sua ricerca sull’economia politica: anche in questo caso al Lettore attento non può sfuggire la profonda essenza materialista dialettica di tali eventi.

Tale processo di estensione progressiva della diffusione e circolazione della letteratura e delle conoscenze, per quanto limitata dall’alfabetizzazione relativamente bassa, è evidentemente un movimento del tutto antitetico a quello in cui, per secoli, la conoscenza era stata gelosamente custodita dalle classi al potere, e un analogo discorso può essere fatto per l’istituzione graduale di sistemi di educazione su larga scala, controllati dallo Stato, o privati, ma sottratti all’influenza diretta delle istituzioni religiose.

Infatti, da una parte, la classe borghese stessa aumentava di numero, e intendeva educare i propri rampolli secondo un’ideologia che senz’altro non fosse quella delle classi feudali, o che, comunque, fosse impartita da esponenti di quelle classi, e dall’altra parte, con la crescente sofisticazione delle tecniche produttive, nonché degli apparati burocratici, amministrativi, e dirigenziali, si vedeva molto lentamente necessario un graduale incremento generale nella valorizzazione della forza-lavoro (i.e. nell’educazione e istruzione dei lavoratori).

Queste misure, osservate sotto la lente del materialismo dialettico, si rivelano apertamente come la strategia della classe borghese per strappare la dirigenza della società alle classi feudali, promuovendo un distacco netto dalle abitudini precedenti, necessario per diffondere la propria visione-del-mondo, facendola radicare nella popolazione, e conquistare l’egemonia, in modo analogo a come la fine delle restrizioni sugli apprendistati nelle corporazioni medievali aveva aiutato a rovesciare il sistema economico feudale.

Ma allo stesso tempo, nel contesto del periodo storico in cui si inseriscono, risultano a loro volta origine di un movimento contraddittorio a questa stessa strategia di conquista dell’egemonia da parte della classe capitalista, che fa crescere in questa stessa classe un settore di “ideologi” i quali si distaccano dalla borghesia, ancora in larga parte legata alle idee tradizionali, e passano al proletariato alimentando la risonanza delle lotte operaie e della brutalità impietosa e spudorata dello sfruttamento sotto il “dominio” della borghesia.

In questo percorso gli “ideologi borghesi”, gli ex “giovani Hegeliani” di sinistra, maturano una visione diametralmente, radicalmente, opposta a quella che era stata loro insegnata e sotto la cui lente erano stati educati, istruiti, e indotti ad osservare qualsiasi fenomeno, e che chiamava se stessa con i nomi di “religione”, “metafisica”, “idealismo”, anche “assoluto”, e naturalmente “creazione” dell’Universo intero da parte della “divinità unica” per mezzo di un proprio libero atto volontario: essi, pertanto, spontaneamente accolsero quelle posizioni che percepivano come contrarie a tale visione-del-mondo.

Queste ultime tuttavia erano quelle emerse all’interno della classe borghese, nel primo apparire fenomenale del suo tortuoso percorso di apparente emancipazione intellettuale dall’egemonia delle classi feudali, ed ossia quelle di individui come Darwin, appunto, o Herbert Spencer, e Lewis H. Morgan, i quali tutti erano ben lungi dall’affermare qualsiasi idea “socialista”, e che, in un modo o nell’altro, accettavano una forma di credenza nel pensiero “tradizionale” della civiltà europea, bollando i popoli di colore e del Sud del mondo, tutt’al più come “buoni selvaggi”, che possono essere educati ai modi della civiltà pur rimanendo essenzialmente inferiori ai bianchi, anche se non si può sfuggire al fatto, secondo Morgan, che «vi sono due soli mezzi di salvare l’Indiano dal suo incombente destino» (i.e. l’annientamento) e cioè «educazione e Cristianesimo» (in Morgan 1851, p. 447). Ciò non deve affatto stupire, poiché dopotutto la classe borghese non può rinnegare quella struttura mentale, cioè il pensiero dogmatico e le determinazioni delle relazioni intercorrenti tra gli elementi della visione-del-mondo a cui quel pensiero è sotteso che si stabiliscono necessariamente una volta poste le sue premesse fondamentali, senza rinunciare al proprio «dominio» sulla società, poiché è su tale “pensiero egemonico” che questo si regge.

Perciò, quella stessa struttura formale, quale unità, assume termini opposti ma equivalenti, la cui identità trascendentale si rivela nel corso dello sviluppo di quel certo peculiare pensiero nel processo storico, cosicché all’inizio appare come aspetto contraddittorio della tesi in opposizione a cui sorge, ed ossia la visione-del-mondo feudale, metafisica, idealistica, ma in seguito all’elaborazione di quei termini diventa evidente che il principio su cui essa si fonda, quale antitesi del pensiero precedente, è il medesimo, e si manifesta come visione-del-mondo, sì borghese, e materialista, epperò ugualmente a prima, come Lenin rilevava con grande acume, metafisica, cioè, in termini maggiormente precisi, “iperfisica”.

È logicamente escluso, dunque, che le «idee dominanti» per cui «avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali», durante lo sviluppo della «rivoluzione comunista», possano essere queste, poiché tale “rottura” dovrà necessariamente essere formulata come sintesi dei due stadi precedenti, che riassuma produttivamente quelle due posizioni in una nuova che le nega entrambe: sì perché la sintesi non è certo il movimento equivalente all’antitesi, altrimenti si tornerebbe al punto di partenza. Essa è il superamento dialettico compiuto della contraddizione essenziale che ha prodotto quei due stadi come suoi aspetti principali, l’interazione dei quali ha generato il principio della loro stessa obsolescenza.

 

5. Dinamica dialettica tra egemonia borghese e aristocrazia del lavoro

Così come, dunque, il Manifesto, nella sua stessa genesi e caratteri, fu un risultato dell’interazione produttiva dell’insieme dei fattori determinanti nella società al tempo, in quanto tendenze di classe contrapposte, non limitate a proletari e borghesi, ma coinvolgenti anche, almeno in Inghilterra, l’aristocrazia e il clero – in cui si profilava un aspro scontro, che in effetti non ha ancora visto conclusione, ed ha poi assunto la forme della divaricazione tra “progressisti” e “conservatori”– e i suoi due autori trassero dalle opere degli intellettuali borghesi, mezzi e nozioni, il cui valore, da loro estratto a beneficio delle proprie teorie, forniva sostegno alla forma embrionale di quella sintesi, altrettanto è del tutto evidente che la classe borghese, gli intellettuali borghesi, abbiano senz’altro studiato con attenzione il Manifesto, dopo il 1872 – quando i due autori colsero l’occasione della sua presentazione come prova d’accusa al processo contro Karl Liebknecht e August Bebel, per ripubblicarlo in Germania, e il testo incominciò ad essere più conosciuto – allo scopo di impedire che quanto Marx ed Engels preconizzavano con assoluta certezza, si verificasse.

La situazione sociale e politica in Europa, d’altronde, nella seconda metà del 19° secolo, continuava ad essere esplosiva, e nel periodo in cui il Manifesto incominciò ad essere largamente diffuso e letto, si venivano accumulando le tensioni geopolitiche internazionali che, appena tenute a bada dalla “Spartizione dell’Africa”, dopo la Conferenza di Berlino del 1883, sarebbero infine sfociate nella Prima Guerra Mondiale, al termine della quale, l’incubo peggiore dei capitalisti dell’intero pianeta si era materializzato proprio nel primo Stato, ed unico in quel momento al mondo, veramente libero e democratico, l’Unione Sovietica, fondata proprio sulla base dell’opera e del pensiero dell’acuto uomo tedesco.

Né avrebbe senso che la classe capitalista non si fosse interessata di almeno questo testo, una volta che i movimenti e partiti politici che si richiamavano al Marxismo incominciavano a guadagnare visibilità, e con essi anche il Manifesto, proprio nei decenni precedenti al “massacro imperialista” del 1914-1918: da una parte, per la brevità, incisività, e chiarezza, con cui in esso sono esposti i principi teorici essenziali e il programma politico-economico che i comunisti intendevano usare come strumenti per combattere la borghesia – e grazie a cui si dicevano sicuri che l’avrebbero sconfitta – e dall’altra parte proprio perché, come osservato sopra, si rivolge direttamente a loro. È altrettanto evidente però, che fino alla fondazione del primo Stato degli Operai e dei Contadini, sulle ceneri dell’impero zarista, questo testo fu considerato più con scherno che con timore, come invece i suoi due autori si auguravano, e che solo dopo la sconfitta degli eserciti colonialisti nella Guerra Civile del 1919-1922 le sue parole vennero realmente prese sul serio.

Il Manifesto del Partito Comunista d’altronde – soprattutto nella sua parte finale, dove i due autori «dichiarano apertamente» che gli obiettivi dei comunisti «possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale», e suggeriscono che le classi dominanti «tremino pure davanti a una rivoluzione comunista» (p. 57, enfasi mia) – non può che apparire come una sfida che Karl Marx e Friedrich Engels lanciarono alla classe capitalista nel suo insieme, riguardo a tutti gli aspetti dell’organizzazione della società, sia dal punto di vista della produzione materiale, che da quello della «produzione spirituale», perché quest’ultima «si trasforma insieme a quella materiale» (p. 34).

Un passaggio, questo, che mostra il problema logico nell’argomentazione di Marx ed Engels evidenziato nella parte precedente: poiché, se la «produzione spirituale», ed ossia «le idee dominanti di un’epoca» (ibid), viene modificata contestualmente «a quella materiale», e quest’ultima è modificata in seguito «[al]l’elevarsi del proletariato a classe dominante», come «primo passo» in quella rivoluzione, è evidente che, nel momento in cui quel primo passo viene compiuto, quella «produzione spirituale» non può essere già stata trasformata, e perciò, ben difficilmente il «proletariato» avrebbe potuto considerare quelle credenze ed istituzioni, diffuse e consolidate nella società del tempo, come semplici «pregiudizi borghesi».

Se dipoi leggiamo quanto Marx ed Engels scrivono alla fine della parte seconda, nell’elenco delle «misure» che «per i paesi più progrediti potranno […] essere applicate», in seguito alla rivoluzione in cui il proletariato diventa «classe dominante», diventa assai chiara quella dinamica, apparentemente contorta e paradossale, per cui la cosiddetta “sinistra” dei partiti liberali, imbevuta di “Marxismo” occidentale, è stata spesso e volentieri tacciata di essere “comunista”, in modo del tutto assurdo, non avendo storicamente mai in nessun caso sostenuto alcuna delle premesse e principi fondamentali del pensiero socialista o Marxista-leninista.

È perfettamente conseguente dunque, alla luce di quanto detto, che nell’immediato secondo dopoguerra i Paesi dell’Europa occidentale coinvolti nel conflitto adottassero una serie di provvedimenti, ancora una volta, dialetticamente, affatto antitetici alle modalità di governo che erano state vigenti fino ad allora in quegli Stati, e che nei tre decenni successivi – pomposamente chiamati il “Trentennio Glorioso” – si venne a diffondere in essi, da una parte un’abbondanza significativa di beni materiali, nel corso di una profonda modernizzazione infrastrutturale e produttiva dei Paesi, e dall’altra parte una trasformazione radicale dei costumi e delle abitudini, nello sviluppo sfrenato di una sempre più estesa società dei consumi, e dunque dei piaceri: esattamente quanto l’egemonia precedente teneva segregato, e metteva all’indice.

Così come lo è che di tali misure quelle più significative – la cui adozione e sostegno da parte di quella fazione politica, “progressista”, sono stati origine di quella dinamica – siano elencate anche da Marx ed Engels, ciascuna delle quali, per quanto affatto integrale alla proposta fatta da questi ultimi, una volta isolata dalle altre che ne definiscono la portata appunto come rivoluzionaria, piuttosto che controrivoluzionaria, risulta, ancora e sempre dialetticamente, anche funzionale agli scopi della classe borghese, per mantenere sia l’egemonia che il dominio, ed ossia fornire «almeno quelle condizioni» per cui il lavoratore salariato possa condurre la propria «vita servile», e far sì che non appaia affatto come «misera», che sia cioè resa tollerabile.

Una «imposta fortemente progressiva» (p. 36), infatti, è senz’altro un elemento irrinunciabile nella sovrastruttura di uno Stato socialista, epperò anche quello borghese ne può assai beneficiare, laddove, p.es. voglia intaccare grandi concentrazioni di capitali, o patrimoni, delle classi feudali, che possono essere mobilitati, ma che ciononostante non vengono investiti, oppure per prevenire, in regime di semi-concorrenza, un accentramento monopolistico della produzione.

Esattamente allo stesso modo, l’«accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale a capitale di Stato e con monopolio esclusivo» dell’emissione della moneta, insieme all’«accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», e all’«aumento del numero delle fabbriche nazionalizzate e degli strumenti di produzione» (p. 36), naturalmente sono misure che sono proprie dell’essenza del pensiero e dello Stato socialista.

Eppure allo stesso tempo è chiaro che, soprattutto nel momento in cui prende avvio la modernizzazione di un Paese – ed ossia, la costruzione di infrastrutture di trasporto e comunicazione che coprano l’intero territorio, lo sviluppo dell’approvvigionamento e distribuzione delle fonti di energia, la diffusione all’intera popolazione di canoni uniformi di misura e valuta – la borghesia vorrà senz’altro favorire un tale movimento di accentramento, per far sì che lo Stato, traendo dalle risorse ottenute per mezzo delle «imposte fortemente progressive» – che infatti in larga misura sono contribuite dalla classe lavoratrice, poiché quest’ultima rappresenta sempre la maggioranza assoluta (i.e. >90%) della popolazione – si prenda sulle spalle il compito di eseguire tali lavori, che sono dopotutto necessari perché i capitalisti possano condurre senza ostacoli o rallentamenti i loro affari.

Infine, certo, se è ovvio che, per rompere la segregazione della conoscenza che garantisce il “dominio” dei capitalisti imponendo la loro “egemonia”, sia indispensabile l’organizzazione di un sistema capillare di «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini» – e di conseguenza anche l’«abolizione del lavoro infantile nelle fabbriche» (p. 37) – come già osservato, anche la borghesia, con lo sviluppo delle forze produttive, e una progressiva trasformazione dell’economia di un Paese verso il settore dei servizi, innanzitutto nell’aumento delle attività produttive, amministrative, e di assistenza sociale da parte dello Stato con quell’accentramento, intenderà adottare una tale strategia, che, inoltre, le consentirà di esercitare un controllo assai stretto sulla diffusione della visione-del-mondo sulla cui presa si regge la propria egemonia.

Ma allora che “non appaia affatto come «misera»” nel contesto della società capitalista sotto l’egemonia della classe borghese, non significa affatto «universalizzare e rendere concreta la stessa libertà negativa» che la classe padronale ha sempre reclamato esclusivamente per se stessa, ma vuole soltanto denotare quella vita nella quale si abbiano i mezzi per il consumo di un quantità crescente di un numero sempre maggiore di categorie di merci, che diano l’impressione dell’abbondanza, ma la cui produzione, distribuzione, e consumo, risulterà nel lungo termine nella concentrazione di sempre più ricchezza e potere nelle mani della classe proprietaria dei mezzi di produzione di quelle merci, sottraendo costantemente risorse alla somministrazione di quei servizi che sono forniti dallo Stato, in seguito a quell’accentramento, per mezzo del quale erano state poste le basi per la creazione di un ampio settore di aristocrazia del lavoro.

Il punto di svolta in questa vicenda è il discorso pronunciato da Harry S. Truman, presidente degli Stati Uniti d’America, il 12 marzo 1947.

Proprio al termine della sua delirante invettiva contro il comunismo e l’Unione Sovietica, nella quale in un discutibile capolavoro di mistificazione retorica è in grado di operare un completo rovesciamento della realtà dei fatti, attribuendo al sistema socialista il «modo di vita» in cui «la volontà di una minoranza [è] imposta con la forza sulla maggioranza», e che si affida a «terrore e oppressione, una stampa e radio controllate, elezioni truccate, e la soppressione delle libertà personali», ed ossia in larga misura, quello che Marx ed Engels denunciano della società capitalista, e che Michael Parenti, nel suo “Inventing Reality: the politics of mass media”, dimostrerà esistere ancora nel 1986 proprio e soprattutto negli USA; ebbene, al termine di tale impressionante sequela di inversioni della realtà, l’uomo politico statunitense fa alcune affermazioni estremamente indicative, nelle quali peraltro rivela subito la realtà di quella mistificazione, e le misere capacità retoriche dell’autore.

Egli, infatti, dice che «i semi dei regimi totalitari», cioè, chiaro, quelli che non intendono permettere alla classe dirigente statunitense di usufruire come se fossero proprie delle ricchezze di quegli Stati (i.e. l’Unione Sovietica), «vengono nutriti dalla miseria e dal bisogno» – proprio quella condizione in cui, Marx ed Engels osservano essere stata gettata la classe lavoratrice dal dominio borghese nella società capitalista– e «si diffondono nel malvagio terreno della povertà e del conflitto» – cioè di aperta lotta di classe provocata dall’emersione spudorata e aperta dello «sfruttamento», che giustappone immense ricchezze e abissali miserie per poi «raggiungere la loro massima crescita quando la speranza di un popolo per una vita migliore è morta», ed ossia la condizione in cui gli oppressi «non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene [e] hanno un mondo da guadagnare» (Marx/Engels 2018, p. 57).

Il sig. Truman conclude: «dobbiamo mantenere viva quella speranza». Ma senz’altro qui non può che stare parlando di quegli Stati in cui quei «semi» stavano germogliando, e sembravano essere più vigorosi che mai, e cioè quei Paesi che ancora in quel momento erano soggetti al sistema di produzione capitalista, non certo a quello socialista, ed è pertanto perfettamente consapevole che quel «malvagio terreno» e nutrimento erano proprio il frutto avvelenato che quel sistema e la classe dirigente degli Stati Uniti d’America, e dell’Occidente liberale tutto, avevano riservato alle classi lavoratrici nelle metropoli imperiali.

Così facendo, tuttavia, smaschera in un sol colpo la cruda ipocrisia dell’inversione compiuta, perché certamente solo un tale «modo di vita», in cui pochi impongano alla stragrande maggioranza le proprie volontà con la forza, il terrore, e l’oppressione, fisica e psichica, impedendo loro qualsiasi tipo di concreta «libertà personale», sicché si trovano destituiti di qualsiasi proprietà che non la loro stessa capacità di lavorare, può produrre quel «terreno» e «nutrimento», e infallibilmente otterrà questo risultato.

Truman dunque, in quel famoso discorso – che segnò ufficialmente l’inizio della Guerra Fredda, e stabilì i presupposti ideologici del Piano Marshall e della NATO, la cui stessa esistenza deve presupporre una tale immagine egemonica – sta dando un avvertimento alla classe dirigente, non solo degli Stati Uniti d’America, ma dell’intero fronte degli Stati colonialisti, cioè quelli europei, a cui si rivolge in qualità di rappresentante del Paese guida dichiarato di tale coalizione, e quindi portavoce ufficiale, burocratico, di quella stessa classe dirigente, il quale proclama la strategia generale da seguire per il blocco della metropoli imperiale: un avvertimento che impone a tutti questi Paesi l’adeguamento immediato all’egemonia borghese, intesa quella liberale, e quindi un repentino cambio di rotta rispetto ad abitudini, costumi, e cultura diffusi nelle società capitaliste al tempo.

 

6. Polverizzazione e rinascita del soggetto rivoluzionario in Occidente

Alla luce di quanto detto finora dunque, l’essenza più profonda del movimento del processo storico nella seconda metà del secolo scorso non può che essersi spontaneamente rivelata alla mente del Lettore che abbia affrontato la comprensione dell’analisi qui esposta dalla prospettiva dello sviluppo dialettico degli eventi, come relazione di elementi interdipendenti che costituiscono nel loro insieme un processo strutturato, la cui dinamica caratteristica procede per sostituzione di fattori contrari, il cui svolgimento alla propria forma più semplice (i.e. “normale”, come nel caso di una equazione) ne determina il superamento.

Lo sforzo compiuto dalla classe dirigente borghese in Occidente e dai suoi servi-lacchè, dalle borghesie “compradore” dei regimi semicoloniali dell’Europa centrale e meridionale, e dal sistema di produzione culturale, che ha abbracciato senza alcuna riserva quella egemonia, contestualmente assicurandosi di non introdurre alcuna «rottura» radicale con le «idee tradizionali», è stato imponente, e ha coinvolto forze sociali e produttive di considerevole magnitudo, applicate costantemente e con una sempre crescente diffusione per decenni: si tratta in sostanza di una immensa operazione psicologica di massa che, almeno in Italia, è possibile dimostrare avere avuto inizio in modo ufficiale il 18 agosto 1943, quando la Sicilia cadde in mano alle truppe angloamericane e inglesi, e da lì a poco sarebbero incominciate le trasmissioni di Radio Palermo, «settore del Pwb, lo ‘Psychological Warfare Branch’ […] che fa propaganda e controlla l’informazione sul territorio italiano» già conquistato dagli “Alleati”, emittente dai cui microfoni opera con zelo ineccepibile «Mikhail Kamenetzki, Misha per gli amici» che un giorno «sarà noto con il nome di Ugo Stille, uno dei più grandi giornalisti italiani» (Vasile 2004, p. 42).

Il controllo esercitato sull’intero fronte colonialista dalle istituzioni culturali statunitensi (i.e. la pressione soverchiante dell’egemonia della classe borghese e dell’ideologia liberale), doveva assicurare alla narrazione agiografica del liberalismo una posizione di assoluto vantaggio nell’istruzione pubblica, sui mezzi di informazione e di intrattenimento di massa, per le autorità accademiche e per gli intellettuali, una volta sospesa l’occupazione militare aperta delle truppe d’invasione (i.e. l’apparenza scoperta del dominio della classe dirigente USA) che i presupposti di quella stessa narrazione potevano ammettere solo come “stato d’eccezione”.

L’intenzione di non eseguire alcuna vera «rottura» con le «idee tradizionali», dipoi, è ancora un aspetto dialettico della questione: da una parte, infatti, non implica affatto il tentativo di eliminazione immediata da ciascun Paese dell’ideologia concorrente nel campo egemonico, e dall’altra parte è lo stesso retroterra culturale nel quale il “liberalismo” prese forma e che ha fornito a questo i suoi caratteri determinanti.

Quelle «idee», infatti, rappresentano il portato dialettico dell’egemonia precedente, e sono complementari a quella presente, ma sono anche uno strumento per cui è possibile rappresentare l’egemonia della borghesia come quella “progressista”, ed ossia opposta a quella “conservatrice”, presentata come retaggio “arretrato”, “discriminatorio”, “autoritario”, della società feudale, della quale invece è complementare: si tratta soltanto della scissione dogmatica dell’apparenza dei due aspetti complementari di quella contraddizione, nella quale uno dei due ha preso il sopravvento, e la sopravvivenza dell’altro è funzionale soltanto a fornire un termine fittizio di paragone di quel “progresso”, dal tempo in cui la «libertà personale» di cui parla Truman – che è quella che il liberale John Locke invocava per giustificare l’istituzione della schiavitù – era soffocata dall’“assolutismo”.

È ovvio, dunque, che nel prendere possesso delle istituzioni culturali, e incominciando a radicare la propria egemonia, la classe capitalista borghese abbia provveduto ad operare una revisione completa e approfondita della narrazione della storia e dell’ideologia liberale, in particolare certo negli Stati Uniti d’America, presentati come “nazione indispensabile” il cui “destino manifesto” ha posto alla guida della “missione civilizzatrice” dell’Occidente, oggi nella declinazione dell’“esportazione della democrazia”, fino agli anni ‘40 del secolo scorso conosciuta invece come, la “lotta ariana per il dominio del mondo”.

Il carattere proprio di questa narrazione non è affatto cambiato rispetto a prima, e assegna all’Occidente capitalista, e per estensione ai bianchi angloamericani, esattamente la medesima posizione sociale e politica che in precedenza era assegnata all’aristocrazia feudale, e ai bianchi europei, epperò, sulla scorta di quell’inversione di senso operata dagli scrittori del discorso di Truman, presentata come la massima espressione della “libertà negativa”, della “democrazia politica”, e dei “diritti umani”, unico presunto baluardo contro il “totalitarismo” e l’“assolutismo”, e quindi detenuta dagli alfieri della “indipendenza” dei popoli, che come quello statunitense si sarebbe scrollato di dosso il giogo della monarchia britannica.

Un movimento ancora una volta dialettico – che negli anni ‘60 del secolo scorso venne intuito oscuramente da Guy Debord, il quale riconosceva l’essenza falsificatrice del discorso pubblico in Occidente, ma esprimendola confusamente nel tipico linguaggio mistificante proprio del materialismo metafisico – inteso a nascondere la brutale realtà della storia statunitense, il ruolo primario degli USA nel sistema colonialista, derubricato a bagattella di poco conto, e la trasformazione del sistema di sfruttamento internazionale da parte degli Stati imperialisti da colonialismo a neocolonialismo, ed ossia: dalla pratica dell’occupazione militare dei territori sottoposti all’autorità della metropoli e del loro assoggettamento politico diretto al capo di Stato del Paese invasore, a quella dell’indipendenza formale di tutti quegli Stati, le cui personalità politiche sono così selezionate e formate da rispondere in modo perspicuo e consistente alle volontà e agli interessi del padrone imperiale, e le cui autorità politiche sono strutturate in modo da favorire in tutto e per tutto quegli stessi volontà e interessi, e da potere subire facilmente una efficace coercizione economica, finanziaria, o sociale, in caso si dimostrino recalcitranti a concedere le migliori condizioni possibili di investimento alle corporazioni occidentali, perché estraggano dal Paese tutto il plusvalore possibile, senza farlo fallire, poiché in tal caso rischierebbero di perdere il proprio investimento; il tutto poi viene presentato con mirabile sfoggio di ipocrisia come promozione della “libertà”, della “democrazia”, dei “diritti”, senza mai precisare che si tratta della libertà, democrazia, e diritti, sì, ma solo quelli che spettano al “popolo dei signori”.

Ciò che cambia qui, rispetto all’egemonia feudale, è la speranza di cui parla il sig. Truman, di una «vita migliore», rappresentata dalle condizioni di esistenza nella metropoli imperiale, poi venduta a tutti i popoli neocoloniali e occidentali come “sogno americano”: ed ossia l’idea soggiacente che nell’esistenza terrena è possibile elevare la propria condizione sociale, il che vuol dire, nella società capitalista, passare dalla classe lavoratrice a quella degli sfruttatori.

Guadagnare più del necessario lavorando meno del necessario, e anzi, idealmente, non lavorando affatto, e perciò ottenere di che vivere dal frutto del lavoro altrui, facendo apparire tutto ciò come un profitto risultante dall’“iniziativa” di un “libero individuo”, qualsiasi costrizione della quale deve essere denunciata come illiberale, autoritaria, antidemocratica.

La nostra analisi materialista dialettica ha mostrato come tale inversione – che per lo scrittore francese dipenderebbe da indefinite forze impersonali che assumerebbero volontà apparenti in dinamiche sociali autonome – è una conseguenza perfettamente logica di una vasta gamma di fattori materiali, dati come attuali e comprovati nella situazione concreta del processo storico, la cui interazione ha determinato quel certo sviluppo degli eventi, e non un altro, in una modalità che non può che essere definita a sua volta dialettica, ed ossia secondo l’alternanza di fasi apparenti della distribuzione di tali fattori le cui relazioni definiscono ciascuna di quelle fasi come tesi, antitesi, e sintesi.

Considerando poi questa stessa dinamica, secondo il criterio da noi seguito in questo scritto, dialetticamente, diventa lampante come le relazioni reciproche dei fattori da noi considerati abbiano scatenato un processo di polverizzazione del soggetto rivoluzionario in Occidente, provocando la situazione descritta nella prima sezione di questo scritto.

Nella valutazione equilibrata degli accadimenti testimoniati nel corso degli eventi storici infatti, è del tutto chiaro che le parole scritte nel Manifesto hanno svolto un ruolo determinante anche in questo processo, e l’influenza che hanno avuto va ben oltre a quella esercitata su coloro che ad esse si sono ispirati come esempio di pratica politica per promuovere la «rivoluzione comunista», estendendosi anche a coloro che invece tale rivoluzione intendevano evitarla a tutti i costi.

Le trasformazioni succedutesi nell’Occidente capitalista nei decenni successivi alle dichiarazioni del 12 marzo 1947, d’altronde, parlano ben chiaro, ed evidenziano una precisa convergenza degli indizi a nostra disposizione, per cui le condizioni materiali dei rapporti di forza nella società al termine della Seconda Guerra Mondiale, hanno richiesto alla classe dirigente borghese di adottare una strategia che tenesse in considerazione la presenza più o meno radicata, e in crescita, del proprio concorrente egemonico, come osservato all’inizio di questa sezione, e dunque di sfruttare tale situazione a proprio vantaggio.

Se, infatti, nel Manifesto Marx ed Engels escludono che i comunisti possano adottare altro mezzo del «rovesciamento violento» dell’ordine costituito, ecco che in Occidente da una parte negli anni ‘60 emerge l’ideologia della “non-violenza” – e i mezzi di informazione e intrattenimento generalisti creano le sue icone e le promuovono come figure da prendere a modello, invocate dalla “sinistra” – come strada maestra delle rivendicazioni sociali, e dall’altra parte invece le operazioni speciali dei servizi segreti della NATO, provvedono a infiltrare le formazioni politiche di area socialista, ad alimentare, e promuovere, il terrorismo sotto l’insegna della “sinistra” rivoluzionaria, che richiama con scaltrezza alle parole del Manifesto, e a quella esplicita dichiarazione di intenti, giustificando in questo modo la loro eliminazione, spesso violenta, senza incontrare opposizioni di massa.

Se nel Manifesto Marx ed Engels dichiarano che i comunisti intendono abolire la «proprietà privata» dei borghesi poiché «essa esiste proprio per il fatto che per i nove decimi non esiste», una «proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per la stragrande maggioranza della società» (p. 29), ecco che nei Paesi occidentali una percentuale sempre maggiore di lavoratori, per mezzo dei benefici risultanti dalla creazione dell’aristocrazia del lavoro, può permettersi una piccola “proprietà privata”, e il sistema di produzione capitalista, grazie allo sfruttamento neocoloniale, può creare un’economia di scala, materiale e culturale, che fornisca abbondanza di merci, per quanto scadenti, e liberalità dei costumi, modellato sulla necessità del consumo delle merci prodotte dai capitalisti, e sull’imitazione dello stile di vita della classe dei veri proprietari, chi possiede i mezzi di produzione (i.e. la classe dirigente) che inorridiscono all’idea «della pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo», epperò «per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro principali diletti nel sedursi a vicenda le mogli» (p. 32).

Ancora: se nel Manifesto Marx ed Engels denunciano il «dispotismo […] meschino, odioso, esasperante» che vige nella «grande fabbrica del capitalista industriale» nel quale gli operai, oltre ad essere «servi della classe borghese, dello Stato borghese», sono «asserviti anche dalla macchina» (pp. 15-16), perdendo qualsiasi «dignità personale nel valore di scambio» e dunque qualsiasi reale, concreta «libertà negativa», ecco che emergono prepotentemente i movimenti dei diritti civili come tensione «a universalizzare e rendere concreta la stessa libertà negativa» (p. XIX) proprio come «la lotta operaia invocata dal Manifesto» doveva fare.

Epperò, secondo la “dottrina Truman”, soltanto quale speranza, cioè come prospettiva futura, la cui soddisfazione dovrà risolvere qualsiasi tensione sociale, per cui la classe dirigente fa concessioni tattiche in tale direzione per ragioni strategiche, e consolidare la propria egemonia senza mettere a rischio il proprio dominio, impedendo, anche esercitando quest’ultimo, che tali movimenti possano deviare dalla direzione in cui una volta sorti e ammaestrati, sono stati incanalati.

Speranza che, come osservato in precedenza, non è, come nella società del passato “assolutista”, proiettata in un tempo irraggiungibile se non dopo il decesso, ma nell’esistenza terrena, in cui la “felicità”, cioè la «libertà negativa» sia garantita per tutti, che tuttavia, nel presente, in ragione di una parte politica, o di un Paese, che non rispetta i principi della “democrazia” e della “libertà”, non si riesce mai a realizzare.

Così, la stampa cosiddetta “generalista” si vuole sempre presentare come “progressista”, ed ossia, in larga misura “liberal”, per i “diritti”, a favore delle “minoranze”, della “scienza”, della “teoria dell’evoluzione”, e un quotidiano come “The Washington Post”, che definire selvaggiamente reazionario non è inesatto, può titolare (alla p. F6 dell’edizione dell’11 maggio 2023): “The Right’s new culture-war target: ‘Woke-AI’”. La stampa generalista infatti è la voce del padrone egemonico, e quest’ultimo è la classe capitalista, borghese, la cui ideologia, per quanto reazionaria, continua a porsi contro a quella presentata come feudale, aristocratica, associata a “creazione”, “superstizione”, “fede”.

Se, infine, nel Manifesto Marx ed Engels dichiarano che «ora passa al proletariato una parte della borghesia, in particolare una parte degli ideologi borghesi» (p. 19), ecco che vengono poste le condizioni perché una parte del proletariato passi dalla parte della borghesia, cioè l’aristocrazia del lavoro di cui Lenin vide acutamente la perniciosità, e una parte degli ideologi, o meglio, degli intellettuali di area socialista in Occidente, venga assorbito nelle sovrastrutture del potere egemonico e produca la lettura revisionista della storia e della realtà del socialismo e degli Stati socialisti, consentendo il radicamento del già nominato “Marxismo occidentale”.

Intellettuali i cui nomi sono ben conosciuti – da Hannah Arendt a Michel Foucault, da Toni Negri a Theodore Adorno, da Perry Anderson a Max Horkheimer – sebbene la palma di maggior esponente di tale movimento, rappresentante esemplare della funzione di questi individui va senz’altro assegnata ad Herbert Marcuse: assoldato dall’Office for Strategic Services durante la Seconda Guerra Mondiale, con il compito di redigere rapporti sulla situazione politica e sociale in Germania, ne rimase parte fino al suo scioglimento nel 1947, per poi entrare a fare parte della CIA, nella quale, dagli Stati Uniti, era a capo dell’Ufficio per gli Affari dell’Europa Centrale, da cui si ritirò nel 1951, per diventare quindi insegnante nelle principali università degli Stati Uniti, assurgere a intellettuale e scrittore di fama internazionale, ed affermarsi come figura cardine negli ambienti di “sinistra” degli anni ‘60 e ‘70, fondando ed animando la cosiddetta “Scuola di Francoforte”, che insieme a tutto quel movimento svolse un ruolo fondamentale nell’eclissi della questione coloniale e nazionale dall’orizzonte del dibattito politico e sociale in Occidente, in questo modo permettendosi di esprimere ingiustificate condanne completamente arbitrarie verso tutte le rivoluzioni socialiste e gli Stati da essa fondati, arrivando all’assurdo e oltraggioso paragone tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista.

Il Marxismo occidentale è una conseguenza ovvia della “dottrina Truman”, poiché per costruire un settore di aristocrazia del lavoro coeso e stabile è necessario sorvolare sulla questione coloniale, sì che tale settore può esistere – in quanto esponente del “noi” tra i quali secondo il “liberale” non deve esserci schiavitù – solo qualora la classe dirigente riesca, per mezzo dello sfruttamento dei Paesi neocoloniali, ad ottenere sufficienti sovraprofitti (i.e. plus-plusvalore), da mantenere o accrescere il proprio guadagno pur concedendo alle classi lavoratrici nelle metropoli imperiali i benefici di quella condizione privilegiata, cioè facendo partecipare la classe lavoratrice del ricavato delle proprie attività imprenditoriali nella periferia, e rendendola in tale modo complice del saccheggio e dei propri crimini.

In tale modo la classe lavoratrice lega dissennatamente, sebbene in modo sempre più inconsapevole, i suoi destini a quelli della borghesia, la quale tuttavia non indugerà nemmeno un attimo ad abbandonarla nella miseria (i.e. a “terzomondizzare” quel Paese, nei termini del prof. Parenti) qualora le condizioni cessino di essere favorevoli al suo profitto.

Ciononostante, tanto più l’egemonia borghese si consolida, tanto più l’intera popolazione è condotta a vedere il mondo con gli occhi del capitalista, e ad essere convinta, falsamente, che l’unico mezzo di migliorare la propria condizione sia, come osservato prima, diventare un capitalista, cioè un “imprenditore”: è infatti questa la figura sociale più ossequiosamente riverita nella società capitalista borghese, al quale, quando è “di successo”, tutto, o quasi, è consentito, a seconda della massa di capitale che è in grado di controllare.

Non esiste alcuna alternativa alla società borghese nell’egemonia borghese – essa è presentata come un fatto naturale da cui non ci si può discostare pena la rovina e la distruzione – e l’intera società è composta da singoli individui isolati che sono tutti potenziali “imprenditori”, cioè aspiranti sfruttatori del lavoro altrui.

L’operazione compiuta dalle classi dirigenti capitaliste in Occidente ha avuto un esecutore fondamentale nel “Marxismo occidentale”, che ha assolto al compito di fornire un sostegno a quella inversione di senso dall’interno del campo politico della “sinistra”, in cui si ponevano i partiti comunisti e socialisti occidentali nel contesto della “democrazia rappresentativa” liberale, offrendo argomenti, per quanto speciosi, a tali partiti per distaccarsi dalle linee politiche dei paesi socialisti – che si trattasse dell’Unione Sovietica, dal 1956 in poi, o in seguito della Repubblica Popolare della Cina, o la Repubblica di Cuba – giustificando tale distacco sulla base del Manifesto stesso, ed ossia intendendo rinnegare il Marxismo-leninismo, e dunque con esso l’anti-colonialismo e l’anti-imperialismo, in questo modo ponendo le basi per una transizione di massa delle classi lavoratrici di inclinazione socialista sotto la presa dell’egemonia borghese, nel campo dei “progressisti”.

Il punto che il “Marxismo occidentale” ha sfruttato infatti – che è lo stesso a cui si appellavano le dissennate idee di Lev Davidovich Bronstein, detto “Trotsky” – per denunciare gli Stati socialisti come non Marxisti ed autoritari, traditori del vero pensiero del “maestro”, è la formulazione, che Marx ed Engels danno al termine della seconda parte del Manifesto, del processo per cui «allorché il proletariato […] diviene classe dominante» ne consegue che «sopprime con la forza i vecchi rapporti di produzione», e con essi «anche […] le classi in generale, e quindi il proprio dominio di classe», per cui «al posto della vecchia società borghese […] subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno [i.e. la “libertà negativa”] è la condizione del libero sviluppo di tutti» (p. 37).

Questo passaggio è stato interpretato dal Marxismo occidentale in modo del tutto tendenzioso, come se volesse intendere che, una volta compiuta la «rivoluzione» e conquistata la posizione di «classe dominante» contestualmente ciò dovrà portare senza una latenza percepibile, alla dissoluzione della società di classe e allo stesso dominio di classe dei proletari, e quindi a una società senza Stato, poiché «il potere politico […] è il potere organizzato di una classe per opprimere l’altra» (ibid): in questo modo calunniando gli Stati socialisti come “totalitari”, “autoritari”, addirittura “imperialisti”, per il solo fatto di essere tali, degli “Stati”, cioè organizzazioni politiche, sorvolando del tutto sulle condizioni materiali in cui quelle organizzazioni erano state formate, e non potevano che essere formate dai comunisti, nello sviluppo della contraddizione tra (neo)colonialismo e anticolonialismo, incarnata innanzitutto dalla grande Rivoluzione dell’Ottobre.

Ma da nessuna parte in effetti Marx ed Engels affermano alcunché del genere, poiché, all’inizio di quello stesso capoverso, scrivono che è «nel corso dell’evoluzione» che «le differenze di classe saranno scomparse», poiché «l’elevarsi del proletariato a classe dominante», come avevano chiarito esplicitamente appena due pagine prima, non è che «il primo passo» della «rivoluzione comunista» (pp. 35 e 37), nella quale il percorso per la costruzione del socialismo non può che essere lungo e tortuoso, da una parte per l’opposizione e l’aggressione delle potenze imperialiste e colonialiste, e dall’altra parte per la riforma e modernizzazione del Paese, e l’educazione della popolazione secondo l’egemonia della classe proletaria –sebbene sia comunque necessario da parte dei comunisti oggi riconoscere i limiti filosofici e logici, che abbiamo evidenziato in questo scritto, di questa formulazione e del Manifesto in generale, nella considerazione attenta della situazione concreta della sua redazione, al tempo della quale i due autori non erano ancora trentenni, per quanto risulti sorprendente che non si siano soffermati su una sua revisione quando venne ripetutamente ripubblicato, limiti che appunto hanno permesso di strumentalizzare quel testo.

L’estensione e il radicamento dell’egemonia borghese nelle società occidentali dunque ha avuto come risultato la distruzione completa del soggetto rivoluzionario in questi Paesi, la sua riduzione a un pulviscolo sociale, che si anima nelle volatili tendenze sollevate ad arte dai mezzi di comunicazione, in cui nella massa degli individui si distinguono adulatori dell’ordine costituito – la cui massima aspirazione è entrare a far parte del settore che percepisce come privilegiato nella società, ossia i ceti più abbienti, i più danarosi, e così ambisce a diventare “ricco” – e denigratori di tale ordine, ossia gli anarchici, la cui massima aspirazione è l’estinzione dello Stato e del loro “lavoro”, ma verso cui non mai faranno nulla, poiché non mai si insozzeranno con il “potere” dello Stato, il loro più acerrimo nemico.

A questo ha sicuramente contribuito la descrizione che Marx ed Engels fanno del “lavoro” in fabbrica, ritratto come «ripugnante» (p. 15), e le condizioni di “abbrutimento” a cui esso riduce il “proletario”, che è stata sfruttata per produrre un’idea reazionaria sulla figura dell’operaio, come un “nobile selvaggio”, uomo di “buona volontà”, ma incapace, a causa dello sfruttamento impostogli, di ottenere da sé i mezzi della propria emancipazione, sia intellettuali che materiali. Potrebbe in tal caso ottenere risultati positivi laddove gli sia affidata la gestione, non solo della sua esistenza, ma, come classe, dell’intera società?

La nozione d’altronde, “da sé”, è essenzialmente inesatta: qualsiasi mezzo o strumento, frutto dell’elaborazione intellettuale del materiale empirico da parte della mente umana, risulta come prodotto, il quale è, per definizione, combinazione di distinte componenti organiche, una costante, e l’altra variabile, dove la prima è la conoscenza e i beni accumulati e tramandati dalle generazioni precedenti, la quale, naturalmente, eccede di gran lunga quello che qualsiasi individuo, o classe, possa produrre “da sé”, nell’esecuzione del proprio lavoro vivo, sia nella produzione di conoscenza, relativa o assoluta, sia in quella dei mezzi di sussistenza.

Ancora una volta, dialetticamente, pertanto lo “Stato” è anche il più acerrimo nemico dichiarato dei presunti antagonisti degli “anarchici”, cioè dei “liberali” e dei “capitalisti”, i quali tuttavia sono ben consapevoli dell’importanza della sua funzione per sostenere il proprio dominio ed egemonia. Siccome però questi ultimi non intendono lasciare in mano quel “potere” a nessun altro, ma quegli altri dopotutto non lo vogliono affatto detenere, non può sorprendere che i due convivano armoniosamente, ed ecco che l’anarchismo si rivela per ciò che è: il contraltare perfetto alla narrazione dell’egemonia liberale, utilizzato per neutralizzare le forze sociali di sinistra, smembrare la solidarietà e la coscienza di classe dei lavoratori, rastrellandoli in masse di idealisti nullafacenti, che li rende innocui “ribellisti” i quali possono essere messi a cuccia con piccole concessioni “libertarie”, nell’ambito dei costumi sociali, e delle politiche identitarie, e con ciò assicurarsi di cancellare anche la sola concepibilità della messa in discussione dell’ordine costituito, senza dovere ricorrere ad esplicite misure di censura.

È perfettamente evidente, quindi, che la principale piaga sociale che oggi bisogna combattere, allo scopo di promuovere una rinascita del soggetto rivoluzionario in Occidente, è l’indifferentismo politico, di cui lo stesso Marx fece una penetrante analisi.

Tale atteggiamento è un risultato perfettamente ovvio della egemonia del pensiero liberale, l’ideologia borghese, e si riduce in sostanza a conformismo: è appunto l’ideologia del piccolo proprietario, o del libertario anarchico – magari dedito alla coltivazione di qualche concezione esoterica orientalista – il quale, finché non viene disturbato nell’intimo del proprio giardino (zen) nella propria casa (“eco-friendly”), dove appunto può sentirsi “il padrone”, non trova un bel nulla da obiettare al fatto che nel frattempo il suo vicino (i.e. le popolazioni dei paesi neocoloniali) venga depredato di qualsiasi sua proprietà, e anzi, nemmeno probabilmente se ne accorge.

 

7. La superiorità del metodo dialettico è il vantaggio dei comunisti

In conclusione, il problema di fondo che il Marxismo-leninismo, almeno in Occidente, deve affrontare è quello di chiarire nei dettagli e popolarizzare in modo significativo con tutti i mezzi disponibili, le ragione per cui il capitale ha trovato le risorse per combattere la tendenza della crisi e lo sviluppo dialettico del proprio superamento, non solo dal punto di vista strettamente tecnico del funzionamento dell’economia, ma anche da quello dell’efficacia e persistenza dell’ideologia liberale nella sua diffusione e radicamento nelle classi lavoratrici (i.e. che non partecipano della proprietà dei mezzi di produzione).

La crescita esponenziale delle economie capitaliste, la loro finanziarizzazione, ha reso possibile l’estensione logaritmica della leva del credito, creando una dinamica inflattiva persistente e costante, chiamata “crescita”, nella quale la magnitudo di massa della produzione ha controbilanciato simultaneamente la caduta tendenziale del saggio di profitto, e la perdita di potere d’acquisto delle valute, il tutto ottenuto grazie allo sfruttamento neocoloniale dei territori oggetto di spartizione delle potenze colonialiste europee fino al 1945, da parte degli Stati Uniti d’America, con il concorso di quei Paesi a cui venne permesso, a condizione di legarsi in modo indissolubile ai destini economici del padrone imperiale, di entrare a fare parte della coorte semicoloniale entro il perimetro della metropoli.

Tali risorse poi sono innanzitutto quelle della conoscenza, quelle culturali, in tutte le loro distinte declinazioni ed aspetti: ed ossia da una parte, l’applicazione delle macchine nella ricerca di una sempre maggiore produttività del lavoro – un operatore di un moderno macchinario industriale infatti, può, con una adeguata preparazione tecnica, essere istruito ad eseguire tale-e-tale procedura, relativamente semplice, di supervisione, che guidino il macchinario nell’esecuzione simultanea di ben più d’una procedura, che egli o ella da sola non avrebbero mai modo di eseguire, quand’anche ne avesse la conoscenza – dall’altra parte, la realizzazione compiuta di una egemonia sociale totalitaria, fondata sulla diffusione capillare ed incessante di una ben precisa visione del mondo, che vuole comprendere nella propria cornice ideologica l’intero campo del sapere umano quali corollari dimostrativi, del carattere indiscutibile, naturale, ed astorico, dei rapporti sociali ed economici, su cui quelle stesse sovrastrutture si reggono.

A propria volta, tale egemonia trova le sue radici nella segregazione di quella stessa conoscenza, ed ossia nella sua amministrazione esclusiva da parte di istituzioni sovrastrutturali la cui gestione è affidata a individui appartenenti alla classe dirigente, e che ne condividono in tutto e per tutto la visione-del-mondo: è proprio su tale principio, d’altronde, quello della segregazione della conoscenza, ciò su cui si fonda l’affermazione della proprietà privata, e lo sviluppo delle sovrastrutture sociali ad essa conseguenti, durante il processo storico nel suo complesso.

Ma è ovvio allora: sono proprio queste ultime innanzitutto le armi fornite dal processo di sviluppo dell’industria e dell’accumulo del capitale, che la classe lavoratrice deve rivolgere dialetticamente contro gli stessi capitalisti, e cioè non semplicemente «elevarsi […] a classe dominante» (p. 35, enfasi mia), ma porre le condizioni per cui abbia i mezzi che le permettano di raggiungere la dimensione di classe dirigente, come condizione necessaria del «primo passo nella rivoluzione operaia», cioè comunista.

Questo significa che la classe lavoratrice deve essere in grado di instaurare una propria egemonia, e quindi avere a disposizione, a portata di mano, una visione del mondo in tutto e per tutto superiore a quella offerta dal pensiero liberale borghese, cioè il pensiero dogmatico e idealista: una visione del mondo pertanto fondata direttamente ed inequivocabilmente sui principi essenziali del materialismo dialettico, al cui concetto è necessario ricondurre in modo conseguente l’intero campo dei fenomeni, riassumendo in una sintesi organica, integrale, compiuta, logica, ed empirica, cioè scientifica, il valore conoscitivo tramandato dalle generazioni precedenti, e raffinandolo in una nuova forma determinata da un genere superiore che lo rende un tutt’uno coerente dalla cui analisi non avanzi alcun resto.

Il fulcro e la superiorità del metodo dialettico rispetto a quello dogmatico giace nel considerare il proprio oggetto da molteplici punti di vista simultaneamente.

La stessa idea di una tale comprensione può riuscire difficile anche solo da immaginare nella sua realizzazione concreta, eppure si tratta semplicemente dell’osservazione nella mente (i.e. del contemplando) di una nozione, un concetto, i cui elementi costitutivi compongano una unità organica dotata di un valore trascendentale che risulta dai fattori della composizione di quella conoscenza, in quanto combinazione produttiva dell’interazione tra i fattori distinguibili dalla mente nella situazione concreta dell’esistenza materiale e la misura della comprensione di qualsiasi fenomeno quale funzione primaria della mente stessa (i.e. l’intelletto).

Ottenere questa comprensione significa possedere nella mente un oggetto trascendentale – un concetto – il quale nel suo insieme offra a quella mente che lo possiede una rappresentazione completa di un fenomeno in generale, cioè di qualsiasi fenomeno: questo concetto è quello esposto da Lenin, l’unità nella congiunzione dei due contrari, che tuttavia non sono in senso stretto opposti, ma vanno considerati quali complementari, ed ossia sì contrari, ma non esclusivi uno dell’altro (altrimenti non potrebbe esistere la loro sintesi).

Questo oggetto nella mente, questa conoscenza, è la comprensione di una procedura nella sua interezza, la quale può dunque essere contemplata nel suo dispiegarsi, nel momento in cui ci si sofferma a riflettere su di essa, quale che sia il suo contenuto fenomenico: per questa ragione Ἀριστοτέλης riteneva, erroneamente, che nel “ricevendo” della “conoscenza” a partire dai “sensi”, l’intelletto cogliesse la “forma”, la “qualità” stessa, che era “attuale” come “anima” a un certo “essente vivente”, in un suo proprio “modo-di-essere trascendentale” e dunque ammettesse l’“intuizione intellettuale” che invece Immanuel Kant dimostrava non essere possibile.

La questione cruciale da tenere a mente è la seguente: bisogna acquisire la comprensione della dinamica dialettica in quanto rappresentazione formale dello sviluppo di qualsiasi fenomeno, la cui apparenza fenomenica corrisponde ad un moto il cui andamento si sviluppa secondo la figura della doppia spirale. Per acquisire tale comprensione è a sua volta necessario adottare la prospettiva materialista dialettica di quella dinamica, ed ossia essere in grado di osservare con la mente tale dinamica nella forma di un’onda che si sviluppa nelle tre dimensioni.

Bisogna, quindi, ottenere la rappresentazione generale di quella figura i cui caratteri definiscono nella sua completezza la dinamica dialettica, enucleando così tre magnitudo: (1) il momento angolare calcolato rispetto al centro semi-simmetrico della traslazione; (2) il valore differenziale tra i momenti angolari delle due tendenze apparentemente opposte, che in realtà procedono lungo lo stesso asse di sviluppo; (3) il momento assiale dello sviluppo armonico delle due tendenze calcolato rispetto al punto zero (cioè, y = 0) di quel processo, cioè la magnitudo fenomenale minima di quella contraddizione materiale, e dunque la misura del movimento compiuto dall’origine prima di quella certa dinamica dialettica (i.e. il “tempo”, ma se riflettete attentamente, scoprirete che il “tempo” non esiste come “sostanza”, e non si tratta altro che appunto della nozione della misura del movimento, per la precisione, quello della Terra su se stessa).

È perfettamente chiaro come tale rappresentazione strutturale esprima in modo compiuto il concetto del materialismo dialettico, nella misura in cui può offrire alla mente la percezione chiara dell’andamento concreto della dinamica dei fenomeni, rappresentando la figura della contrapposizione tra tesi ed antitesi (i.e. i due momenti angolari contrari nel vettore rispetto al centro) che produce una sintesi (i.e. il progresso del momento assiale) per cui il movimento ritorna sulle coordinate geometriche precedenti, ma ad un livello più elevato, in cui appaiono una nuova tesi e una nuova antitesi: queste riassumono in se stesse i valori precedenti e li superano esprimendo una forma più compiuta del potenziale contenuto in quella contraddizione.

Il pensiero dogmatico, invece, non è in grado di comprendere la dinamica reale dei fenomeni nelle magnitudo delle tre dimensioni, ed è sempre limitato ad una comprensione bidimensionale di tale sviluppo, imprigionato dalla separazione tra i suoi due aspetti contrapposti, che effettua per costituzione propria (i.e. per esso vale la relazione “+x ≠ –x”, i due non possono coincidere in nessun caso), e dunque può soltanto comprendere quella struttura o come serie di cerchi concentrici, che rappresenta come piramide conica (i.e. a cui rimanda l’organizzazione della sovrastruttura sociale), o come onda sinusoidale, che rappresenta come variazioni di magnitudo dell’uno o dell’altro fattore nel corso di un movimento rettilineo (i.e. a cui rimanda lo sviluppo della storia e degli eventi).

L’intrinseca superiorità del pensiero dialettico dunque non può che portare necessariamente al trionfo della pratica del socialismo e dell’ideologia fondata sul Marxismo-leninismo, ma solo nella misura in cui esso si liberi dalle catene dogmatiche che ne imprigionano la potenzialità, e si costituisca come visione-del-mondo autonoma proponendosi in modo conseguente e credibile quale unica vera scienza dimostrativa dell’economia, della politica, della società, nonché della vita e dell’intero Universo.


Bibliografia
Casarrubea, Giuseppe – Storia segreta della Sicilia, 2005
Cressy, David – Literacy and the social order, 1980
Darwin, Charles – Autobiography, 1958 (1887)
Lenin, Vladimir Ilic – On the question of dialectics, 1915
Lightman, Bernard – Darwin and the popularization of evolution. Notes and Records of the Royal Society, 64(1), 5–24, 2010
Losurdo, Domenico – Controstoria del Liberalismo, 2005
Losurdo, Domenico – Il Marxismo occidentale: come nacque, come morì, come può rinascere, 2017
Marcuse, Herbert et al. – Secret Reports on Nazi Germany, 2013
Marx, Karl; Engels, Friedrich – Manifesto del Partito Comunista, 2018 (1848)
Morgan, Lewis Henry – League of the Ho-dé-no-sau-nee, or Iroquois, 1851
Vasile, Vincenzo – Salvatore Giuliano, bandito a stelle e strisce, 2004

Add comment

Submit