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rizomatica

Pensiero e umanità

di M. Parretti

Fumetto VecchioLibraio 11A metà del 1800, Marx ritenne che fossero maturi i tempi per sostituire la filosofia con la scienza, anche nella conoscenza del pensiero umano giungendo alla geniale formulazione del paradigma del materialismo storico. Al tempo stesso formulò il criterio per distinguere la filosofia da quella che d’ora in avanti sarebbe stata la scienza, e lo identificò con la capacità di cambiare consapevolmente la realtà.

La sintesi marxiana fu dunque che la politica, cioè l’attività umana che cambia le stesse relazioni sociali, dovesse d’ora in poi basarsi sulla “scientificità”, cioè fare i conti con i cambiamenti sociali, che l’umanità avrebbe potuto realmente produrre, in relazione al livello effettivo di produttività raggiunto e non sulla “ideologia” dell’antropos di se stesso, cioè sulla “utopia”. Per questo sostenne l’idea di un comunismo “scientifico”, contrapposto a quello “utopistico” di quelli che ritenevano che gli esseri umani fossero capaci, per natura, di cooperare tra loro.

L’opera di Giovanni Mazzetti rivela gli elementi comuni delle analisi economiche di Marx e di Keynes, entrambe basate sulla produttività e, al tempo stesso, riprende il paradigma del materialismo storico, ne ridefinisce con precisione i contorni evidenziando la simultaneità tra i processi di “formazione delle (nuove) relazioni sociali produttive e riproduttive” e la “autodeterminazione del pensiero”. Con questa operazione culturale, Mazzetti riporta lo storicismo dall’ambito filosofico a quello scientifico e lo ripropone come chiave dell’analisi dello sviluppo della civiltà umana.

 

1 – Il materialismo storico è un paradigma scientifico

Quando Marx formulò il paradigma del materialismo storico, alcune scienze umane appena cominciavano ad essere abbozzate, come l’economia politica e la sociologia.

In precedenza, era stata la filosofia, che aveva cercato di proporre le teorie che spiegassero la realtà, sia quella fisico naturale, che quella umana, soprattutto il pensiero. Dopo che Newton era riuscito a formulare una teoria che spiegava la realtà fisica e la gravitazione universale, era ormai diventato senso comune che la scienza dovesse sostituire la filosofia nella conoscenza della realtà fisico naturale. Marx sostenne però che era tempo che la scienza sostituisse la filosofia anche nella conoscenza della realtà umana e del pensiero stesso. Questo però suggeriva varie questioni:

  • il “pensiero” dell’antropos diventa al tempo stesso soggetto ed oggetto della conoscenza.

  • Poiché la motivazione ad acquisire la conoscenza della realtà è costituita dal desiderio di cambiare la realtà per sottometterla ai propri scopi, le scienze umane, finalizzate a (e permettendo di) cambiare alcuni aspetti dell’antropos stesso, dovrebbero studiare un “oggetto” che cambierebbe proprio perché oggetto di conoscenza e dunque sarebbero intrinsecamente “insature”, cioè mai “definitive”, perché conoscere implica “cambiare” l’oggetto stesso della conoscenza.

  • Poiché nella prassi i soggetti della conoscenza umana (tecnici e scienziati), almeno inizialmente, sono diversi dagli oggetti della conoscenza (le grandi masse di persone, studiate, ma ignare), questo genera un’inevitabile, quantomeno iniziale “asimmetria conoscitiva”, che può permettere agli “esperti” di “manipolare” le masse, a meno che la conoscenza tecnico scientifica non diventi scopo principale e patrimonio condiviso dell’attività umana, cioè l’attività prevalente del tempo “libero” dalla “produzione” della soddisfazione dei bisogni necessari.

  • La volontà di sottomettere ai propri scopi la realtà da parte di un numero elevatissimo di soggetti determina che gli eventi della realtà umana non possano essere mai spiegati deterministicamente in senso stretto, cioè con un determinismo meccanicistico, ma solo spiegati come “nessi causali aleatori”, dove cioè non si può più dedurre che un “evento causa” produce con certezza un “evento effetto”, ma solo che un “evento causa” produce un rilevante “aumento della probabilità” dello “evento effetto”.

Inoltre già la filosofia, con Kant, aveva affrontato il problema se la realtà fisico naturale (esterna al pensiero), il “noumeno”, fosse rilevata dal pensiero con i sensi e non c’era possibilità di verificare se il risultante “fenomeno percepito” costituisse, per così dire, “veramente” la realtà o se l’atto della percezione operasse una qualche “distorsione” della realtà stessa. Questa kantiana “inconoscibilità” della realtà “esterna al pensiero” anticipava già il principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui “osservare” e/o “misurare” è “disturbare” e questo, a sua volta, era come la punta di un iceberg molto più grande, rilevato dalla moderna epistemologia, per cui la realtà oggettiva è e non può che essere soltanto quella “osservata” dal soggetto, il quale rileva della realtà nient’altro che quello che “decideattivamente di osservare e non quello che “sentepassivamente. Di lì, il passo ad Hegel, per il quale ogni vestigia della realtà in sé, al di là dell’attività del pensiero, scompare, per così dire, ed è il pensiero, che “produce la realtà”, anticipazione dell’osservazione novecentesca di Einstein, per cui <è la teoria che decide cosa osservare> e dunque che la realtà si va presentando come una realtà “prodotta dal pensiero”.

Dall’altra parte c’era il materialismo di Feuerbach, per il quale il pensiero era soltanto il risultato di ciò che l’antropos è fisicamente, come ogni altro essere vivente, organico, fino ad affermare che <noi siamo ciò che mangiamo>. Nello stesso periodo, Darwin, spiegando “scientificamente” l’evoluzione genetica delle specie animali, rivelava che gli umani sono una specie animale, evoluta geneticamente fino ad acquisire la peculiare capacità di avere un pensiero, acquisito dalla precedente generazione, nel corso di una lunghissima giovinezza, modificato ed “arricchito” dall’esperienza nella propria vita e trasmesso alla generazione successiva.

Quando Marx affermava che il pensiero è “storicamente determinato dalle relazioni sociali produttive e riproduttive” intendeva rilevare la “dinamica” di questo pensiero, trasmesso intergenerazionalmente, che spiegasse il perché la specie umana, a differenza delle altre specie animali, fosse in grado di cambiare la realtà (comprese le altre specie animali e perfino se stessa), per sottometterla ai suoi scopi.

In quanto il materialismo storico era stato posto da Marx come un paradigma scientifico, doveva costituire almeno l’abbozzo di una “scienza dell’antropos” capace di sostituire la filosofia, che finora aveva affrontato la questione della conoscenza della realtà (compreso il pensiero umano stesso), ma, osservava Marx, cercando solo di “interpretare la realtà”, mentre il punto era “cambiarla” (XI tesi su Feuerbach). Infatti osservava che, nel continuo tentativo di sottomettere la realtà ai suoi scopi, cioè alla soddisfazione dei suoi bisogni materiali, l’antropos andava “producendo” dei “modelli mentali” o, se vogliamo, formulava nella scienza moderna una “teoria”, un “modello”, che poi era “verificato e validato”, “producendo” ripetuti esperimenti, che sono ripetute “azioni” sulla realtà e che “verificano e convalidano” se queste “azioni”, cioè queste “interazioni” con la realtà, producono gli effetti previsti dal “modello”, cioè se la “teoria formulata” rappresenta un “modello veritiero” della realtà. Eppure da sempre, cioè anche quando il “pensiero magico” e la “superstizione” rappresentavano la forma prescientifica della conoscenza, l’interazione con la realtà per cambiarla, la prassi, costituiva la misura di quanto quel modello, prodotto dal pensiero, fosse o meno in grado di orientare la capacità di “cambiare la realtà”, una capacità, che solo con la scienza veniva “messa alla prova della realtà”, mentre prima la filosofia, come rilevava Marx, aveva soltanto un modello che poteva interpretare la realtà, cioè darne una rappresentazione coerente, ma non sottoposta ad alcuna “verifica e convalida”. Il positivismo suggeriva di sottoporre le nuove scienze umane alla verifica con numerosi esperimenti ripetuti.

Marx invece poneva come “criterio di scientificità” la “capacità di produrre tecniche adeguate a cambiare la realtà secondo i propri scopi” (II tesi su Feuerbach <La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero>). È allora interessante verificare se l’enorme sviluppo delle scienze umane, che si è prodotto dal tempo di Marx ad oggi, confermi, smentisca o aggiorni il paradigma del “materialismo storico”.

 

2 – Il materialismo storico alla luce delle scienze umane

La paleoantropologia ha stabilito che circa 7,5 milioni di anni sia stato il tempo dell’evoluzione genetica degli ominidi, durante il quale essi acquistarono una postura stabilmente eretta e l’uso degli arti “anteriori” (diventati “superiori”) svincolato dalla deambulazione, che permise di proteggere i cuccioli per un periodo di giovinezza enormemente più lungo, rispetto agli altri animali, nel quale il cucciolo, che dipende dalla generazione precedente, impara tecniche e comportamenti sociali, sviluppa la capacità di comunicare e deve acquisire geneticamente la capacità di procrastinare le “spinte animali” fondamentali, che negli altri animali chiamiamo “istinti” (improcrastinabili) e nell’antropos chiamiamo “pulsioni” (procrastinabili).

Senza dilungarsi troppo sulla natura dei meccanismi di difesa psichici, sulle configurazioni edipiche e sugli aspetti inconsci del pensiero, si può però rilevare che i comportamenti sociali acquisiti trasformano le pulsioni fondamentali, geneticamente ereditate, cioè la libido e l’aggressività.

L’acquisizione genetica nei milioni anni di storia degli ominidi

  • di questa capacità di procrastinare le pulsioni,

  • di avere meccanismi di difesa psichici,

  • di assumere configurazioni edipiche e

  • di farlo all’interno di un pensiero prevalentemente “inconscio”,

appare “funzionale” a poter vivere una lunghissima giovinezza con i genitori e nel proprio nucleo familiare, sapendo reprimere, spostare o sublimare le pulsioni ed interiorizzando i comportamenti sociali necessari alla convivenza, come, ad es., i tabù e le proibizioni che disciplinano i comportamenti sociali, necessari a questa lunghissima permanenza, cioè le censure, che si stratificano nel pensiero inconscio, si sovrappongono all’Es e vanno a formare una “seconda natura”, acquisita dalla trasmissione intergenerazionale della morale sociale, come spiega la metapsicologia freudiana.

Questa lunga evoluzione genetica degli ominidi produsse, circa 200.000 anni fa, l’attuale “Homo Sapiens”, l’antropos, la cui caratteristica genetica dunque, pur nell’ambito delle differenze casuali tra vari individui e gruppi sociali diversi, è identica da allora ed include le pulsioni fondamentali, libido ed aggressività, cioè le spinte istintuali comuni al resto del mondo animale, quella “animalità”, usualmente necessaria alla sopravvivenza ed alla continuazione delle specie animali.

Ma nell’antropos sono spinte “procrastinabili” e soprattutto sono accompagnate da una “seconda natura” specifica, la “umanità”, costituita dal “pensiero” trasmesso intergenerazionalmente.

Questo pensiero evolve e tendenzialmente progredisce, perché ogni generazione lo acquisisce dalla precedente, lo modifica e lo ritrasmette, arricchito dalla propria esperienza storica, alla seguente.

L’evoluzione del pensiero umano dunque ha permesso di acquisire una capacità crescente (ogni generazione apporta il proprio contributo, ma non cancella ciò che ha ricevuto dalle precedenti) di conoscere e cambiare la natura, quindi anche se stesso, che è parte della natura.

L’aggressività è un elemento geneticamente presente da sempre nell’antropos, inizialmente essenziale per la sopravvivenza della specie umana, come per quelle degli altri animali, ma, in seguito, lo sviluppo della “civiltà umana” ha operato per “limitare” questa aggressività e sviluppare la capacità di cooperazione tra una quantità crescente di persone, perché l’antropos sperimentava che questa era “complessivamente” più produttiva, in quanto permetteva di soddisfare una maggiore quantità di bisogni senza sprecare risorse e fatica in rapine e guerre, dove chi è prevaricato affronta fatiche, pericoli e patimenti e subisce danni e distruzioni e chi prevarica quasi sempre ottiene dalla stessa prevaricazione una quantità di risorse minore di quella che avrebbe ottenuto affrontando pacificamente una analoga quantità di fatiche, pericoli e patimenti, di quelli affrontati nell’uso della violenza, anche quando coronato dal successo. Per questo lo sviluppo della civiltà nelle società umane si presenta in due modi:

  1. come un ampliamento della quantità di individui che ne fanno parte “organicamente” del gruppo sociale (cioè secondo una “struttura sociale” predefinita), quindi il branco, la tribù, l’etnia, il popolo, la nazione e, talvolta, l’impero, cioè cooperando tra loro “pacificamente”, con funzioni diverse (governanti, sacerdoti, guerrieri, artigiani, contadini, servi ecc.), sostituendo la lotta tra i vari membri della società con un “ordine interno”, minimizzando le fatiche ed i rischi, connessi alla prevaricazione violenta diretta per sottrarre le risorse produttive e riproduttive agli altri membri del gruppo sociale e riservando le fatiche ed i rischi allo scontro con gli altri gruppi sociali nemici.

  2. Come un arricchimento di regole comportamentali comuni tra popoli e gruppi sociali diversi, per “limitare” le violenze dei vincitori sui vinti, favorire il dialogo e lo scambio “pacifico” di prodotti tra popoli e gruppi sociali diversi.

In entrambe le modalità, lo sviluppo della civiltà è consistito nel “limitare” l’aggressività umana, in quanto il pensiero sperimentava nella prassi che tale “limitazione” minimizzava le fatiche, i danni ed i rischi per tutti.

Questo sintetico e necessariamente schematico discorso ci porta a specificare che i modi di produrre e di riprodursi contemplano le possibilità di miglioramenti, dovuti all’aumento delle conoscenze della realtà fisico naturale, che dunque aumentano la produttività “tecnologica”, cioè il “rapporto tra la quantità di bisogni soddisfatti e la fatica impiegata a produrre tale soddisfazione”, ma i cambiamenti tecnologici possibili, talvolta, permettono un grande aumento della produttività solo a condizione di cambiare le relazioni sociali produttive e riproduttive. Ad es., una accresciuta capacità di navigazione, in una “società tribale”, può aumentare la capacità di procurarsi risorse razziando più facilmente popolazioni, colte di sorpresa da un attacco inatteso, ma quella stessa accresciuta capacità di navigazione produce una soddisfazione di bisogni molto maggiore ed un impiego di fatica e pericoli molto minore, se quella società tribale impara a scambiare pacificamente prodotti con altri gruppi sociali, che possano produrli più facilmente, cioè se diventa una “società mercantile”. Allora scopriamo che, accanto alla produttività “tecnologica”, esiste anche una produttività “complessiva”, cioè il “rapporto tra la quantità di bisogni soddisfatti e la fatica complessivamente impiegata dalla società”, inclusa quella per gestire l’aggressività interna (ordine sociale interno) ed esterna (guerra e difesa dai nemici). È questa “produttività complessiva” l’indice del livello di civiltà raggiunto ed implica non solo l’aumento della capacità di cambiare la realtà fisico naturale, ma anche la capacità di cambiare la realtà sociale o umana, adottando “relazioni sociali produttive e riproduttive”, che riducano l’uso della violenza e determinino una soggettività (individuale e collettiva) ed un pensiero più “civili”.

Il pensiero quindi risulta effettivamente “determinato” in rapporto alle “relazioni sociali produttive e riproduttive”, confermando il paradigma del materialismo storico, ma, al tempo stesso, questo processo di “determinazione storica del pensiero” rivela quella caratteristica di “aleatorietà” e “problematicità”, per cui l’effettivo cambiamento del pensiero e della soggettività collettiva retroagisce nel permettere o meno che le “nuove relazioni sociali produttive e riproduttive” si realizzino effettivamente. Questo punto è centrale nell’analisi di Mazzetti, che riprende analiticamente i contributi delle scienze umane attuali, per sottolineare l’intrinseca “simultaneità” tra il processo di “cambiamento del pensiero e della soggettività” e quello di “cambiamento delle relazioni sociali (ri)produttive”. La sua osservazione è che, se “le relazioni sociali (ri)produttive determinano il pensiero” è altrettanto vero che adottare nuove relazioni sociali (ri)produttive in una società richiede che esse siano prima immaginate dai membri della società stessa e poi effettivamente adottate, per cui anche

il pensiero determina le relazioni sociali (ri)produttive”, quindi “pensiero umano” e “relazioni sociali (ri)produttive” non possono essere considerati l’uno causa dell’altro in una concezione puramente deterministica, per cui la storia del pensiero è già “scritta nel genoma” dell’antropos.

Allora il paradigma del materialismo storico, formulato più precisamente, diventa: “il pensiero si determina storicamente in coerenza con le relazioni sociali (ri)produttive”. Questo significa che il “pensiero”, soggetto ed oggetto della conoscenza e del cambiamento “storico”, è “dialettico” e la “materialità” o “animalità” rappresenta la “motivazione” (comune agli altri animali, cioè la sopravvivenza della specie) al “processo di formazione del pensiero”, che poi però riesce ad andare oltre questa base “animale”, arrivando a “produrre la conoscenza della realtà”, che, con il procedere della civiltà, diminuisce il tempo e la fatica dedicati a produrre la soddisfazione degli improcrastinabili bisogni primari, comuni alla “animalità”.

 

3 – Storicità del pensiero e dell’umanità e trasformazione delle pulsioni fondamentali

Quando quel tempo e quella fatica (in latino “labor”, da cui “lavoro”), cioè quello, che nella storia più recente dell’umanità è il tempo di lavoro, sarà così ridotto, da cessare di essere “alienante fatica” e diventare il “primo bisogno della vita”, piacevole attività, non più alienata, ma simbolo identitario di ciò che è l’essere umano, accompagnata da altre attività, nel complementare tempo “libero”, compiute per il piacere di farle, ma senza più sottostare al dominio delle pulsioni fondamentali (la iniziale animalità), allora la “umanità” avrà pienamente soppiantato o trasformato quella sua iniziale “animalità”.

Riassumendo, abbiamo osservato che lo sviluppo della “civiltà”, che abbiamo espresso con un parametro, la produttività “complessiva” (rapporto tra quantità di bisogni totali soddisfatti e fatica di tutti i componenti del gruppo sociale), determina una progressiva “limitazione” della aggressività, cioè di quella condizione, usualmente descritta come “homo homini lupus”.

La “limitazione” della pulsione aggressiva avviene secondo meccanismi come la rimozione, lo spostamento e la sublimazione, sui quali non ci dilunghiamo per brevità di esposizione. Più complessa risulta la “limitazione” della pulsione libidica, operata dallo sviluppo della civiltà. Poiché la selezione naturale ha operato in modo da favorire la procreazione e quindi la sopravvivenza della specie, essa ha prodotto nell’antropos, come nella stragrande maggioranza degli animali evoluti, i mammiferi, che la femmina fosse meno forte del maschio, in modo da non potersi sottrarre al desiderio di accoppiamento del maschio. Questo ha determinato che la donna fosse inizialmente “appropriata”, come spesso avviene nel mondo animale, in modo analogo ad ogni altra risorsa, quindi dapprima con la violenza e la rapina, come nel famoso “ratto delle Sabine”, operato dai Romani, e poi con una forma ritualizzata di compravendita, come un prodotto che soddisfi un bisogno umano, come se fosse una “merce”. Questo determina anche che alcune caratteristiche genetiche della psiche, sono diverse tra donne ed uomini ed anche su queste sorvoliamo, per brevità di esposizione.

Ciò premesso, possiamo constatare che i nostri “antenati”, geneticamente identici a noi (ed altrettanto “intelligenti”), avevano un livello di “capacità di conoscere e cambiare la natura” inferiore al nostro perché “noi” abbiamo potuto acquisire un pensiero arricchito dall’esperienza delle numerose generazioni successive nei millenni che ci separano da loro. L’analisi antropologica rivela che la velocità di arricchimento del pensiero umano dipende da una serie di fattori “casuali” (determinati da particolari situazioni ambientali, indipendenti dalle caratteristiche della psiche) ed ha condotto al fatto che gruppi sociali e popoli diversi, in assenza di contatti diretti tra loro, hanno sviluppato, nello stesso tempo storico, un diverso livello di “civiltà” o “produttività complessiva”. Questo spiega perché gruppi umani e popoli diversi, in assenza di contatti diretti per vari millenni, possano ritrovarsi a livelli di civiltà molto diversi, senza avere nessuna differenza genetica della psiche e questo chiarisce come le ipotesi razziste non abbiano nessuna base scientifica, come mostrano ormai le ricerche genetiche moderne. Questo ci permette di affermare ragionevolmente che, ad es., se scambiassimo due neonati, uno di una “primitiva” tribù amazzonica ed un altro della “civilizzata” società svedese, vent’anni dopo, il neonato amazzonico si comporterebbe come un cittadino svedese ed il neonato svedese come un membro della tribù amazzonica e lo stesso avverrebbe scambiando un neonato del neolitico ed uno di un paese sviluppato del cd primo mondo. Ciò detto, constatiamo come la civiltà permetta ad una moltitudine crescente di individui di cooperare senza esercitare la violenza nelle relazioni sociali e, con il capitalismo, basato sullo scambio tra soggetti reciprocamente indifferenti (e perfino nemici) tra loro, pone le basi per una modalità di relazioni umane, in cui diventa ormai evidente che l’esercizio della violenza è distruttivo ed irrazionale e di un pensiero, che concepisce le attività umane come “merci” (quello che Marx definì il feticismo delle merci), cioè attività compiute per gli altri e non per se stessi, cioè “alienate”, ma, pertanto, non più appropriate con la violenza, ma con il denaro.

La soddisfazione dei bisogni umani ottenuta “collettivamente”, cioè con la cooperazione ordinata tra una quantità crescente di individui, mostra nella prassi (cioè esercitandola) che le relazioni sociali della cooperazione pacifica sono complessivamente più produttive e ciò determina l’emergere di una morale che “limita” (disciplina o reprime) l’aggressività e sostituisce il “potere della violenza” con il “potere del denaro”.

Quando i prodotti “che soddisfano i bisogni” non sono più acquisiti con la violenza, ma col denaro, diventano merci e questo già determina una limitazione dell’aggressività, che esprime lo stesso prevalere dell’uomo sull’uomo con il potere economico e non più con l’uso della violenza. Allora, la prospettiva di un mondo, in cui le risorse producibili per soddisfare i bisogni di tutti i membri della società, necessitino complessivamente di una quantità di lavoro, minore di quella che i membri della società intenderebbero compiere come realizzazione di se stessi (cioè perseguendo quello che è diventato “il primo bisogno della vita”), implica la inutilità di accaparrare le risorse, quindi conduce la società a constatare che la sopraffazione diventa dannosa alla sopravvivenza della specie, quindi quelle pulsioni aggressive, che all’inizio della storia umana, erano funzionali alla sopravvivenza, oggi sono diventate dannose ad essa.

La forma di “merce”, che assumono le risorse produttive e riproduttive, incluse le stesse attività umane, rappresenta la forma “intermedia” nel processo di civilizzazione tra l’appropriazione violenta delle stesse e la fase, prossima futura, ma ormai già matura, in cui la stessa tendenza al loro accaparramento sarà inutile, superflua e quindi nociva.

Se infatti le attività nel “tempo di lavoro necessario” cessano di essere “fatica alienante”, a maggior ragione, c’è d’attendersi che lo siano pure quelle nel “tempo libero”, quindi:

  • Se le attività umane, sia nel tempo di lavoro, sia nel tempo libero, sono eseguite per il piacere stesso di svolgerle, non ha più alcuna funzione, né utilità, svolgerle in ragione dello scambio tra equivalenti, mediato dal denaro.

  • La fine dello scambio tra equivalenti supererebbe definitivamente la condizione di merce delle attività umane, che quindi non dovrebbero più essere “alienate” (cedute ad altri), in cambio di denaro, ma svolte per il piacere di farle.

  • A maggior ragione ciò implica che, in un rapporto di scambio erotico e/o affettivo, l’attività di una delle due parti non possa più essere una merce, alienata in cambio di denaro, ed ancor meno appropriata con la violenza.

Ora però il mondo si trova in una situazione in cui le condizioni suddette sono potenzialmente raggiungibili, ma non ancora raggiunte. Anzi le relazioni sociali produttive attuali continuano ad apparire capitalistiche e solo una analisi macroeconomica adeguata è in grado di svelare come e perché l’enorme produttività “tecnologica” non riesca a diventare produttività “complessiva” ed a determinare un nuovo “livello di civiltà”.

 

4 – Il teorema marx-keynesiano e lo stallo del capitalismo

Abbiamo osservato, seguendo lo svolgimento storico del capitalismo, che negli anni ’20 del secolo scorso, nei principali paesi capitalistici, si è giunti ad un livello della produttività tecnologica per cui il sistema capitalistico è entrato in crisi irreversibile di potenziale sovrapproduzione con simultaneo sottoconsumo della classe lavoratrice. Questa condizione è evidenziata tanto nell’economia marxista, che in quella keynesiana e deriva dal fatto che, come è rilevato da Marx, i “proletari” non hanno accesso al credito ed ai mezzi di produzione e non possono produrre se non in quanto salariati, cioè vendendo la propria forza lavoro a chi possiede i mezzi di produzione.

Poiché la forza lavoro è una merce sovrabbondante (offerta sempre superiore alla domanda) ed i lavoratori non possono astenersi dall’offrire sul mercato la propria forza lavoro in quanto è l’unico modo per ottenere il denaro necessario a soddisfare i bisogni inderogabili, la concorrenza tra i lavoratori spinge il prezzo della forza lavoro al suo “costo di produzione”, il salario di sussistenza.

Allora l’aumento della produttività tecnologica, nelle condizioni di salario di sussistenza, provoca:

  1. l’aumento del saggio di plusvalore (rapporto tra surplus e costo del lavoro produttivo usato)

  2. l’aumento della composizione organica del capitale anticipato (rapporto tra il valore dello stock di mezzi di produzione e lo stock di lavoro in processo)

L’aumento simultaneo di questi due parametri conduce ad una situazione di sovrapproduzione potenziale, cioè di prodotto potenziale (offerta) di mezzi di produzione aggiuntivi superiore al loro prodotto reale (domanda effettiva), dovuta alla “insufficiente crescita dei consumi”.

La spiegazione è un po’ tediosa, ma, seguendo il filo logico di Marx, dimostra che, all’aumentare della produttività tecnologica, la produzione che servirebbe ad aumentare lo stock di capitale anticipato, cioè all’accumulazione di capitale, diventa problematica perché tende a generare un’offerta (potenziale) di mezzi di produzione, che non riesce a realizzarsi (a vendersi) perché maggiore della domanda che si genera di mezzi di produzione e questo determina lo stallo del sistema capitalistico.

 

5 – L’ipotesi marxiana dopo lo stallo del capitalismo

Marx non riteneva possibile che la borghesia potesse accettare di sottrarre il lavoro alla condizione di merce sovrabbondante sul mercato e di negoziare il salario collettivamente. Perciò riteneva che l’unico modo per superare questa condizione di stallo del sistema economico, dove il capitalismo sarebbe diventato “ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo”, fosse la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Quando allora i lavoratori avessero accesso al credito ed ai mezzi di produzione, cosa che riteneva possibile solo mediante una “rivoluzione violenta”, si sarebbe avviato un processo che avrebbe condotto a raggiungere due condizioni ulteriori: dapprima una produttività tecnologica che permettesse la soddisfazione dei bisogni primari (improcrastinabili) dei lavoratori e poi una produttività tecnologica che avrebbe soddisfatto i bisogni della società con un orario di lavoro così ridotto da trasformare il lavoro necessario da “fatica alienante” a “primo bisogno della vita”. L’aumento della produttività tecnologica avrebbe quindi determinato, in sequenza, il raggiungimento di tre condizioni:

1. condizione di stallo del capitalismo (per insufficiente crescita dei consumi),

2. condizione di soddisfazione dei bisogni primari (improcrastinabili),

3. condizione di soddisfazione dei bisogni con orario di lavoro minore di quello desiderato.

Per il superamento della condizione 1, Marx riteneva necessario ricorrere, per la “ultima volta” nella storia dell’umanità alla “violenza levatrice della storia”, poiché la borghesia non avrebbe mai permesso “pacificamente” che il lavoro cessasse di essere una “merce sul mercato”.

Che dovesse essere la “ultima volta” lo si deduce dal fatto che l’abolizione delle classi sociali avrebbe consentito di “dedicare” gli aumenti di produttività tecnologica, prima alla soddisfazione dei bisogni primari di tutti i membri della società, poi alla riduzione del tempo di lavoro necessario, infine alla soddisfazione dei bisogni di tutti.

Quando le relazioni sociali produttive e riproduttive tenderanno al superamento del rapporto di valore nello scambio e dell’alienazione del lavoro, cioè tenderanno a riconoscere che la stessa “tendenza all’accaparramento di risorse” rappresenta l’ultimo grande ostacolo al processo di trasformazione di una produttiva “tecnologica”, che aumenta ormai più velocemente dell’aumento dei bisogni, in produttività “complessiva”, la civiltà umana sarà in una fase, in cui questa “tendenza all’accaparramento di risorse” non sarà più necessaria e diventerà perciò nociva. Allora sarà necessario che si affermi un pensiero umano, coerente e conseguente alle suddette nuove relazioni sociali produttive e riproduttive, capace di “espellere l’uso della violenza nelle relazioni sociali”, in quanto non più motivato dall’utilità di “accaparrare le risorse” e perciò necessario per favorire il consolidamento di quelle nuove relazioni sociali produttive che superano il rapporto di valore nello scambio e l’alienazione del lavoro.

Dunque la “rivoluzione proletaria” avrebbe dovuto essere seguita da una fase del socialismo (proprietà collettiva dei mezzi di produzione) in cui si sarebbero soddisfatti i bisogni primari della popolazione, cioè raggiungendo la condizione 2. Allora ci sarebbe stata la seconda fase del socialismo, in cui, oltre alla soddisfazione dei bisogni secondari (procrastinabili), crescenti più lentamente della capacità di soddisfarli, l’aumento della produttività tecnologica avrebbe determinato una progressiva riduzione del tempo di lavoro necessario, fino al raggiungimento della terza condizione 3, cioè “la soddisfazione dei bisogni con un orario di lavoro minore di quello desiderato”, che avrebbe costituito la possibilità di nuove relazioni sociali (ri)produttive ed una società in cui <ciascuno dà [liberamente] secondo le proprie capacità e [questo permette che] ciascuno riceve secondo i propri bisogni> (comunismo).

A questo punto, secondo Marx, cessa di avere una qualunque utilità e diventa pertanto nociva ogni residua “tendenza all’accaparramento di risorse” a danno di altri soggetti, individuali e collettivi, persone e popoli, ed il livello di civiltà, la soggettività umana ed il pensiero devono prevedere l’espulsione di ogni uso della violenza nelle relazioni sociali (perfino la “fine dello stato” perché sarebbe venuta a mancare la motivazione alla violenza contro gli altri membri della società e l’internazionalismo, poiché il tenore di vita di un popolo non avrebbe potuto crescere se i popoli vicini fossero rimasti nel degrado o ad uno stadio di civiltà minore). Indubbiamente Marx ipotizzava che, nella seconda fase del socialismo, alla progressiva riduzione del tempo di lavoro necessario ed al complementare progressivo aumento del tempo “libero”, questo sarebbe stato dedicato all’appropriazione di massa della cultura, arte, scienza e tecnica, quel “general intellect”, che sarebbe stato ormai il fattore produttivo fondamentale, sostituendo il lavoro “fatica alienante” e lasciando posto alla umanità.

La fine della condizione di merce delle attività umane avrebbe sancito la fine della loro alienazione ed il raggiungimento della piena umanità, patrimonio comune di tutti.

Dunque Marx riteneva che le “rivoluzioni proletarie” sarebbero state le ultime occasioni in cui sarebbe stato necessario ricorrere alla “violenza levatrice della storia”, in quanto poi sarebbe diventato inutile perfino il ruolo (repressivo) dello stato, che avrebbe potuto anche “essere abolito”, riconoscendo che la fine della “utilità” di “accumulare risorse” avrebbe reso la violenza nelle relazioni sociali, sia tra individui, che tra popoli, possibile soltanto come sintomo, espressione di una “grave infermità psichica”.

 

6 – Sviluppo storico dopo il primo stallo del capitalismo: lo stato sociale keynesiano

La storia dello sviluppo economico dopo il raggiungimento della condizione di “stallo del capitalismo”, certamente dovuta alle drammatiche vicende, come

  • la prima violenta rivoluzione proletaria nell’impero russo,

  • la terribile devastazione della grande depressione,

  • la violenta affermazione dei nazifascismi e

  • la inaudita bestiale violenza della seconda guerra mondiale,

ma anche alla constatazione empirica che effettivamente

  • se non aumentano i consumi, non ci può essere domanda sufficiente per maggior capitale e dunque cessa l’accumulazione capitalistica per potenziale sovrapproduzione”,

nei paesi più sviluppati capitalisticamente, ha prodotto lo “stato sociale” keynesiano, in cui l’aumento della spesa pubblica soddisfaceva progressivamente quei bisogni primari che il capitale privato aveva difficoltà a soddisfare (prodotti “etici” o “intrinsecamente monopolistici” – scuola, sanità, trasporti, energia elettrica, gas, acqua, telecomunicazioni) e, puntando alla piena occupazione delle risorse e quindi del lavoro ed accettando la negoziazione collettiva del salario e la protezione sociale dei disoccupati, determinava in larga misura, anche se non totalmente, il superamento per il lavoro della condizione di merce eccedente (offerta maggiore della domanda) sul mercato. Questo, per la borghesia,

  • eliminava lo spettro della rivoluzione proletaria e della fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, ed

  • otteneva il superamento della condizione di stallo del capitalismo,

mentre, per la società nel suo complesso,

  • otteneva il raggiungimento dell’obiettivo 2, cioè la soddisfazione dei bisogni primari della popolazione.

7- L’ipotesi di Keynes dopo il secondo stallo del capitalismo

Keynes era ben consapevole che questa condizione avrebbe comportato che i successivi aumenti di produttività tecnologica avrebbero dato luogo ad una certa propensione marginale al risparmio anche da parte dei lavoratori, che avrebbe riproposto l’eccesso di risparmi rispetto al possibile aumento dello stock di capitale, quindi o un nuovo secondo stallo dell’economia o avrebbe richiesto due misure di politica economica:

  1. l’eutanasia del risparmiatore (rentier) e

  2. la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Questa progressiva riduzione del tempo di lavoro a parità di salario avrebbe determinato il complementare progressivo aumento del tempo “libero”, e questo secondo Keynes ed in sintonia con Marx, avrebbe dovuto essere dedicato all’appropriazione di massa della cultura, arte, scienza e tecnica, sostituendo la fatica del lavoro “alienante” con la fatica “non alienante” dello studio, dell’arte e della conoscenza, che contraddistinguono la “umanità”.

Keynes, con il suo celebre esempio dell’epitaffio della domestica, che concepiva ingenuamente il tempo “libero” come tempo “vuoto” di attività, ripropone la profonda differenza tra il classico “otium litteratum” o “scolh (ozio, da cui il termine “scuola”), in cui si è liberi dalle attività economiche (negotium – nec otium – senza ozio) per occuparsi dell’arte, estetica (sublimazione della libido) e della conoscenza (filosofia nei classici, scienza e tecnica nei moderni, cioè conoscenza come capacità di cambiare consapevolmente la natura, compreso l’antropos stesso, cioè il socratico “conosci te stesso” come “capacità di cambiare se stesso”, consapevolmente), e la opposta pratica dell’ozio come tempo “vuoto”, nel quale eventualmente seguire soltanto le spinte pulsionali fine a se stesse, cioè l’edonismo o il sadismo, come quando la classe aristocratica nella Roma imperiale offriva alla plebe “panem et circenses”, per manipolarla e lasciarla nella condizione di animalità, “intrattenendola” e spingendola alla ricerca della violenza e del piacere.

È utile ricordare che Freud evidenziò nello sviluppo della civiltà la possibilità che emerga il cosiddetto “istinto di morte”, che si manifesterebbe, quando c’è un “eccessivo abbassamento del livello di energia pulsionale” (eccessiva scarica libidica), in due modi possibili, legati alla combinazione delle pulsioni fondamentali:

1 –“depressione” dovuta all’azzeramento della libido (eccesso di edonismo);

2 – “sociopatia” sostitutiva e trasformazione dell’aggressività in “distruttività” sadica.

Se lo “stato sociale keynesiano” ha prodotto risultati analoghi alla “prima fase del socialismo” e se tanto Keynes, quanto Marx, ipotizzano la diminuzione progressiva del tempo di lavoro e la simultanea appropriazione della cultura da parte delle masse nel complementare, progressivamente crescente, tempo libero, una eventuale “seconda fase” di un rinnovato “stato sociale” potrebbe produrre risultati analoghi alla seconda fase del “socialismo”, ipotizzato da Marx, cioè portare la società alla “condizione di soddisfazione dei bisogni con orario di lavoro minore di quello desiderato”.

Proprio Keynes esplicita le condizioni necessarie alla realizzazione della seconda fase dello stato sociale, in cui tutti i membri della società avrebbero dovuto perseguire

  1. la appropriazione della cultura con la “riduzione dell’orario di lavoro” a parità di salario e l’aumento del tempo libero e

  2. la fine dell’accaparramento di risorse con l’eutanasia del risparmiatore, “consegnando l’avidità umana alle cure dello psichiatra”.

 

8 – L’esperienza del “comunismo reale” e l’egemonia del marxismo leninismo

Pochi anni prima che i paesi capitalistici più sviluppati (Inghilterra, Germania, Francia, USA) si trovassero in una grande crisi del sistema capitalistico (cioè di stallo per insufficiente crescita dei consumi), Lenin, che aveva teorizzato la possibilità della rivoluzione proletaria e della conseguente abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione anche in paesi nei quali non ci fosse un elevato livello di produttività tecnologica, approfittando della crisi del vecchio, decrepito ed anacronistico regime aristocratico dell’impero zarista, delle drammatiche condizioni della prima guerra mondiale e della rivoluzione di tutto il popolo, borghesi e proletari, riuscì ad impadronirsi del potere e portò i mezzi di produzione sotto il controllo dello stato centrale.

Questo approccio, cd “marxista leninista”, di fatto però cancellava il comunismo “scientifico” di Marx ed Engels, che identificava il momento del “rintocco funebre” del capitalismo proprio nel raggiungimento di quel livello di produttività, che avrebbe determinato lo stallo del capitalismo e che dunque ipotizzava che il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione potesse avvenire solo quando la produttività sarebbe stata così elevata da richiedere l’eliminazione della mediazione produttiva del capitale, in quanto ormai “ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo”. Invece, l’ipotesi di Lenin che il momento della rivoluzione proletaria potesse dipendere dallo stato di organizzazione del proletariato e dal seguito del partito tra le masse popolari e non dalle “condizioni materiali oggettive della produttività” (che, secondo Marx, dovevano già esistere, magari occultate nella realtà così com’è, altrimenti tentare di far saltare i rapporti di classe <sarebbe risultato uno sforzo donchisciottesco>), significava ritenere che i membri di ogni società, solo in quanto “esseri umani”, sarebbero disposti spontaneamente a cooperare secondo le proprie capacità e a ripartire il prodotto sociale ottenuto secondo la quantità di lavoro erogato. Chi avesse letto le critiche impietose di Marx a Proudhon ed alla sua proposta

  • di un prezzo delle merci equivalente alla quantità di lavoro usato e

  • di un salario pagato in cedole orarie, pari al lavoro erogato dal lavoratore,

saprebbe che Marx considerava tale ipotesi semplicemente ridicola, anche se le cedole orario si fossero chiamate “rubli” o altro nome di denaro. Ma soprattutto Marx, come abbiamo osservato, riteneva necessario un elevato livello di produttività tecnologica, tanto da richiedere stabilmente che, da quel livello in poi, la produzione dovesse essere principalmente rivolta al consumo ed eventuali nuovi investimenti dovessero essere rigorosamente quelli strettamente necessari per aumentare eventualmente i consumi. Prima del raggiungimento di quel livello di produttività, l’unico obiettivo della lotta di classe poteva essere soltanto il “temporaneo” superamento della concorrenza tra i lavoratori e la contrattazione collettiva, per cercare di superare “temporaneamente” la condizione del lavoro di merce sovrabbondante sul mercato.

Se dunque il livello di produttività, tecnologica e complessiva, ed il livello di civiltà, raggiunti da una certa società, non doveva rappresentare una condizione necessaria per superare la mediazione (ri)produttiva del capitale, allora anche una società primitiva o tribale o feudale e non solo una a capitalismo maturo, doveva avere le condizioni per poter instaurare una società comunista.

Ignorando la necessità di rilevare scientificamente la verifica delle condizioni oggettive di produttività, da raggiungere storicamente, il leninismo basava dunque l’azione politica su una presunta intrinseca “tendenza umana a cooperare con tutti gli altri membri della società”, indipendente dalle condizioni storiche di “elevatissima produttività tecnologica”, dunque “scritta nel genoma” e non “nelle condizioni storiche della produttività”.

Dunque, se non importasse il “livello di civiltà” possibile, cioè il “livello di produttività storicamente raggiunto”, ogni società avrebbe potuto esprimere la presunta “tendenza umana a cooperare” sarebbe stata geneticamente presente nell’antropos, quindi qualunque cultura avrebbe potuto esprimerla. Per cui occorreva teorizzare che “tutte le culture sono equivalenti”. Per questo tale bizzarra tesi dello strutturalismo di Levy Strauss (relativismo culturale) ha potuto entrare a far parte degli stereotipi dell’intellettuale collettivo della sinistra alternativa.

È peraltro utile osservare che, nell’esame della realtà, si può trovare in generale solo quello che si cerca, in barba alla serendipity, ed è evidente che, se si cerca l’intrinseco carattere “strutturale” della “psiche collettiva” che “produce la cultura” in generale, si troverà ciò che si cerca, cioè solo quella “struttura” universale che produce qualunque cultura. Sarebbe davvero singolare allora che questa “struttura” non risultasse universale e non fosse patrimonio genetico di tutti gli esseri umani. Se poi si cerca di esportare il pensiero liberale nella società tribale dell’Afghanistan, senza aver prima estensivamente introdotto le relazioni capitalistiche, ci si scontra con la realtà e si deve riconoscere che, incredibilmente, vincono proprio quei talebani che sembrano uscire dal medioevo. Questo dovrebbe convincere, non dico i liberali, ma almeno parte di coloro che hanno studiato Marx che “il pensiero si determina storicamente in coerenza con le relazioni sociali (ri)produttive” e dunque il pensiero liberale non può determinarsi in coerenza a relazioni sociali (ri)produttive tribali, ma solo in coerenza con relazioni sociali (ri)produttive di tipo capitalistico. Eppure per esportare il capitalismo è necessario avere un livello di produttività tecnologica che permetta lo scambio con altri paesi, cioè occorre che le società pre-capitalistiche abbiano accesso alla tecnologia (general intellect), che invece, come vedremo, è rigorosamente “capitalizzata” nei paesi più sviluppati.

 

9 – La crisi dello stato sociale e l’ascesa del neoliberismo

Abbiamo osservato come Keynes stesso avesse previsto che una certa propensione marginale al risparmio anche da parte dei lavoratori avrebbe riproposto l’eccesso di risparmi rispetto al possibile aumento dello stock di capitale, quindi o un nuovo stallo dell’economia o la necessità della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Abbiamo avuto modo di osservare che tanto la sinistra marxista, quanto quella keynesiana, avessero smarrito il teorema marx-keynesiano della crisi per eccesso di produttività. Questo condusse tanto i cd marxisti, quanto i cd keynesiani, a ritenere erroneamente che la crisi fosse dovuta ad investimenti insufficienti perché i costi erano troppo elevati ed i profitti troppo bassi, mancando i nuovi investimenti perché mancavano i profitti reinvestiti. Allora sarebbe stato necessario ridurre i costi, quindi bisognava abbassare i salari. Inoltre, poiché “ridurre il costo di una merce fa aumentare la sua domanda”, era necessario “abbassare i salari per aumentare l’occupazione”. Questa evidente sudditanza della sinistra, sia socialdemocratica, che alternativa, ai dogmi ed agli stereotipi del pensiero economico liberista, si rivelò in tutti i paesi, specialmente in Italia, dove la borghesia aveva una lunga tradizione a competere con quelle degli altri paesi dell’Occidente con il basso costo dei salari e con le rimesse degli emigrati. Infatti tutta la classe politica italiana, di fronte alla deregulation dei mercati internazionali, teorizzò che il lavoro italiano dovessero competere con quello dell’Europa dell’Est e del terzo mondo ed il centrosinistra arrivò a produrre il pacchetto Treu, dove si rendeva il lavoro “precario” (contratti Co.Co.Co), minando le basi della contrattazione collettiva e soprattutto lo si rendeva di nuovo, come prima dello stato sociale, una merce qualunque, perfino subappaltabile (lavoro interinale).

Abbassare i salari permette alle imprese di avere maggior margine e costi minori del lavoro, ma, in assenza dello stato come “occupatore di ultima istanza”, anche la disoccupazione aumenta.

Se allora esaminiamo ciò che è avvenuto nei 40 anni di neoliberismo, possiamo osservare che la mancata riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è stata perlopiù “sostituita” dall’aumento del lavoro e delle merci improduttivi, ma ha lasciato una crescente disoccupazione, poiché lo stato, non solo ha smesso di essere occupatore di ultima istanza, ma è stato costretto a limitare la sua azione al pareggio di bilancio. Come già osservato, se non aumenta il prodotto sociale complessivo, le imprese non hanno ragione di aumentare la loro dotazione di capitale produttivo e dunque non c’è spazio per nuovi investimenti produttivi e c’è lo stallo dell’economia.

Nel periodo dello stato sociale, dove il parziale superamento della condizione di merce del lavoro aveva permesso che il reddito reale dei lavoratori aumentasse con l’aumento della produttività, il capitale aveva sperimentato che una parte del crescente plusvalore poteva essere utilizzata, non per aumentare la capacità produttiva, ma per accaparrare i mercati (vecchi e nuovi) e per spingere al consumo i lavoratori (consumismo), che cominciavano a manifestare una ancora bassa, ma crescente, “propensione marginale al risparmio”.

A fronte di un aumento della produttività “tecnologica” (PIL/ore di lavoro produttivo), cioè che si potesse produrre lo stesso PIL con minor lavoro (e consumi intermedi), aveva cominciato ad introdurre maggiori spese improduttive (che non servivano cioè a produrre di più) per condizionare i consumatori ed i mercati. Queste spese obbligano le altre imprese a fare altrettanto per non diminuire la loro quota di mercato ed il risultato complessivo è che i minori costi produttivi (industriali) di beni e servizi sono “compensati” da maggiori costi improduttivi (finanza, marketing, pubblicità, relazioni pubbliche, lobby, regalie, rappresentanza, sponsorizzazioni, fondazioni culturali, ecc.), tanto che abbiamo potuto constatare che la produttività “complessiva” (PIL/ore di lavoro, produttivo e non produttivo) non è aumentata sensibilmente, che il prezzo di vendita al pubblico è spesso 10 volte maggiore del costo industriale e che il “rapporto tra il prezzo di vendita al pubblico ed il costo industriale” è in relazione al “reddito pro capite” del paese.

Infatti, poiché il reddito pro-capite della Germania è maggiore di quello del Portogallo e questo di quello della Romania, mutatis mutandis, un prodotto che ha lo stesso costo industriale, viene venduto ad un prezzo al pubblico maggiore in Germania, che in Portogallo ed infine in Romania. Poiché il bisogno del valore d’uso di quel prodotto (quantità fisica pro capite) è solo leggermente maggiore in Germania, che in Portogallo, che in Romania, la quantità di spese improduttive sul “ricco” mercato tedesco è molto maggiore, di quelle spese sul mercato “medio” del Portogallo, a loro volta maggiori che nel mercato “povero” della Romania. Pertanto, anche se l’oggetto fisico o il servizio è identico, lo “psicoprodotto” (il valore d’uso “percepito” dalla psiche “intrattenuta” e “manipolata”) risultante dopo le spese improduttive, è “diverso” in Germania da quello venduto in Portogallo o in Romania. Quelle spese improduttive nei conti economici sono in genere registrate come costi (che si sottraggono dal fatturato e non pagano tasse), non aumentano lo stock di capitale reale nello stato patrimoniale e sono considerati “consumi intermedi” nelle contabilità nazionali. Manifestano però la loro natura di “capitale immateriale”, quando le quote o le azioni sono vendute sul mercato, perché il valore di una impresa che possiede x% di market share di un settore in Germania o in Portogallo o in Romania è molto diverso, anche se hanno lo stesso valore ai libri.

Questo capitale “immateriale” è stato chiamato da molti chiamato capitale “cognitivo”, possesso del sapere umano, appropriazione di quello, che Marx aveva chiamato “general intellect”. La questione appare dunque essere in questi termini:

  • il capitale ha imparato ad impadronirsi del general intellect,

  • il capitale ha imparato ad impadronirsi del plusvalore prodotto,

  • i lavoratori non hanno ancora capito che il lavoro ha cessato di essere la misura del valore,

  • i lavoratori continuano a concepire il proprio lavoro e se stessi come una merce,

  • desiderano solo di poterlo vendere ad un prezzo elevato e

  • desiderano accumulare denaro e che questo denaro abbia un rendimento.

Poiché non riescono a vedere l’enorme plusvalore prodotto ed appropriato dal capitale

  • rimuovono che la maggior parte del lavoro è improduttivo,

  • rimuovono la prospettiva di fare a meno del (proprio) lavoro improduttivo,

  • rimuovono che il valore aggiunto non deriva più dal loro lavoro.

I profitti, come abbiamo visto, spesso non si vedono perché contabilmente appaiono come “costi” e l’idea di tassare i costi fa temere ai lavoratori di perdere ulteriori posti di lavoro. Poiché il valore aggiunto (prodotto lordo meno i costi in merci consumate) è la somma di salari e profitti, se lo stato non riesce a tassare i profitti, che vengono contabilizzati come costi ed esclusi dal calcolo del valore aggiunto, allora non resta che tassare il lavoro e la spesa sociale finisce per esprimersi in una tassazione elevatissima, in rapporto al potere d’acquisto dei salari.

La reale “aleatorietà” e “problematicità” del “processo di determinazione storica del pensiero umano collettivo”, per cui, come sottolinea Mazzetti, l’effettivo cambiamento del pensiero e della soggettività collettiva retroagisce nel permettere o meno che le “nuove relazioni sociali produttive e riproduttive” si realizzino effettivamente, si evidenzia nel fatto che esiste una oggettiva alternativa nella gestione dell’altra pulsione “naturale”, la libido. Anche questa con il capitalismo subisce due trasformazioni “tecnologiche”, in quanto:

  1. l’uso dell’energia artificiale rende la forza lavoro femminile ugualmente produttiva di quella maschile e questo permette la faticosa elaborazione di un pensiero, in cui si riconosca la libertà economica della donna,

  2. l’uso dei contraccettivi (e le tecniche di inseminazione artificiale) separano oggettivamente l’esercizio della sessualità dalla attività di procreazione, permettendo la faticosa elaborazione di un pensiero, in cui la donna (e, di conseguenza, anche l’uomo) possono esercitare la sessualità liberamente.

Questa “uguaglianza” della donna con l’uomo, sembra postulare una “totale repressione della violenza nelle relazioni sociali”, ma permette una “totale libertà sessuale individuale”, che si comincia ad esprimere nella evoluzione del pensiero liberale come “totale libertà sessuale tra individui adulti consenzienti”.

 

10 – Conclusioni

È possibile, per quanto abbiamo visto, che i membri della società possano dedicare il loro tempo libero al perseguimento dell’edonismo fine a se stesso (come nel perseguimento di “panem et circenses” della plebe romana) o, sublimando la spinta pulsionale libidica nelle relazioni sociali, all’esercizio della cultura (arte e conoscenza tecnico scientifica, anche di se stessi, come nello “otium litteratum”). Evitando di dare “giudizi morali”, è però utile constatare che:

  • se il tempo libero è dedicato all’edonismo “fine a se stesso” (e non “sublimato”), cioè alla originaria “animalità”, questo rende il soggetto individuale “manipolabile”, oggetto di “intrattenimento”, facilmente condizionato come “consumatore”, quindi costretto a lavorare per “condizionare se stesso” e continuare ad “alienare la sua attività” per permettere di “capitalizzare” la sua alienata “capacità di condizionare di se stesso”,

  • se il tempo libero fosse invece dedicato al “faticoso”, ma non “alienante” esercizio della cultura, allo sviluppo della “umanità”, questo potrebbe rendere il soggetto partecipe socialmente al processo di scelta dei propri bisogni, meno manipolabile e capace di sottrarre se stesso e le proprie attività alla condizione di merce, tanto da far emergere, sia individualmente, che socialmente, una nuova soggettività ed un pensiero capace di conoscere e cambiare se stesso e di controllare la natura animale, geneticamente ereditata.

Queste possibili alternative (schematicamente indicate) mostrano che il pensiero potrebbe immaginare e concepire se stesso come un essere “umano”, dedito alla “fatica” di essere “attivo” o di fuggire da questa “scomoda e faticosa” umanità ed attività e lasciarsi guidare, “passivamente e comodamente”, senza “fatica”, dal nuovo capitale improduttivo, immateriale ed intangibile, “cognitivo relazionale”, nei meandri delle nuove potenzialità tecnologiche, sperimentare i nuovi orizzonti dell’edonismo tecnologico e continuare a concepire lo studio e l’istruzione solo come “educazione al lavoro” (studiare solo per “avere un buon lavoro” e “meritare” più dell’altro in una “competizione” con gli altri individui e gli altri popoli), anziché “faticare” per una “educazione” alla nuova condizione di umano socialmente “responsabile” delle proprie attività.

In questi tempi emerge la “deresponsabilizzazione” che pervade la società attuale, nella quale la “fine delle ideologie” ha lasciato un “vuoto di ideali”, che spesso produce un fastidioso e cialtronesco “potere del burocrate”, la cui attività di “servizio all’utente” talvolta non esprime empatia ed attenzione ai suoi bisogni o dove il giovane studente non riceve stimoli culturali sufficienti a motivarlo alla fatica dell’apprendimento e dell’esercizio della cultura ed esprime un ingenuo desiderio di essere esentato dalla fatica dello studio e protetto dalle frustrazioni della vita, spesso assecondato da alcuni genitori, poco educati a capire la propria psiche e men che mai capaci di capire ed educare quella dei loro figli.

La destra reazionaria, a fronte della mancanza di una prospettiva progressista a questa crisi della società, “reagisce” al nuovo (la oggettiva fine della necessità della fatica da parte degli esseri umani per soddisfare i propri bisogni) riproponendo il “merito”, come riproposizione del desiderio di “prevalenza sugli altri”, cioè della vecchia “concorrenza” con altri individui ed altri popoli, anziché proporre una nuova soggettività “responsabile” delle proprie azioni, capace di metabolizzare le frustrazioni della vita e cooperare “attivamente” con gli altri, riconoscendo che le nuove condizioni di elevata produttività tecnologica permettono e richiedono di non essere più in competizione con gli altri per accaparrare le risorse ed occorre capire che non si può migliorare ulteriormente il proprio tenore di vita, se gli altri vivono nel sottosviluppo o nel degrado.

Lo stato sociale keynesiano ha posto le premesse per il superamento della condizione di merce del lavoro e dell’alienazione delle attività umane ed ha ottenuto la condizione di soddisfazione dei bisogni primari (improcrastinabili), senza eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione, superando la vecchia diatriba ottocentesca tra riformisti e rivoluzionari e la teorizzazione della necessità dell’ultimo ricorso alla “violenza levatrice della storia”, ma avviando comunque il processo verso un agire comunitario, ma ha posto la necessità:

  1. dell’eutanasia del risparmiatore e

  2. della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario,

che sono oggettivamente le condizioni per condurre la società, lentamente e faticosamente, al superamento della alienazione delle attività umane. Questo è il punto critico evidenziato da Mazzetti: ora il pensiero deve riuscire ad immaginare una prospettiva in cui

  • i meccanismi previdenziali ed assicurativi e la fiscalità generale assicurino la soddisfazione dei propri bisogni individuali presenti e futuri, anziché l’accumulazione di capitale,

  • emerga un tempo libero in cui sviluppare l’umanità, cioè la cultura, arte, scienza e tecnica,

ma il pensiero e la soggettività umana devono riuscire ad immaginare se stessi come non più sottomessi alla necessità di un rapporto di valore e di alienazione nello scambio sociale delle proprie attività, che debbono essere sottratte alla condizione di merce. Non è scontato che ciò avvenga!

Abbiamo intanto dovuto constatare che non è scritto nel genoma, come ha dimostrato il fallimento di un comunismo utopistico, basato sulla convinzione che gli esseri umani siano geneticamente disposti alla cooperazione e dunque che sia sufficiente metterli in condizione di “non essere sfruttati dal potere dispotico ed arbitrario della borghesia” per ottenere la loro cooperazione anche in condizioni di miseria e scarsa produttività. Invece, in assenza delle condizioni di elevata produttività tecnologica e senza la sferza del capitale (cioè della condizione del lavoro di “merce”), è stata necessaria una sferza ben più dura e drastica, da rendere quasi sempre la paradossale “provocazione retorica” della “dittatura del proletariato” una reale, tragica, assurda ed allucinante “dittatura sul proletariato”, per costringerlo con la forza a superare, in condizioni di miseria, la tendenza naturale ad accaparrare le scarse risorse a danno degli altri.

Ora invece che esistono quelle condizioni reali di elevatissima produttività, la reale difficoltà, che i progressisti incontrano nel proporre un possibile e necessario percorso di

  1. eutanasia del rentier (tasso d’interesse reale negativo del denaro)

  2. riduzione dell’orario di lavoro (ed aumento del tempo libero)

è che “i lavoratori non sanno che farsene del tempo libero” e non riescono ad immaginare se stessi (cioè “rimuovono” l’idea che debbano trovarsi) con “la maggior parte della propria esistenza” senza nessuna attività obbligata da fare.

Questa umanità è smarrita di fronte al fatto che dallo stesso mondo delle imprese private stia già emergendo la possibilità concreta di una settimana di soli quattro giorni lavorativi! Oltre al sabato ed alla domenica, cosa fare anche il venerdì? Mancano i soldi per intrattenersi e non annoiarsi! Per fortuna c’è la “provvidenziale” televisione (e i social) per “intrattenere” le persone! La società si scopre “infantile” rispetto al compito di “trovare in se stessi le ragioni per vivere” al di là della necessità, come i bambini, che hanno bisogno di essere “intrattenuti” per non annoiarsi.

Inoltre il capitale, seguendo la sua logica, ha “saggiamente” fatto in modo di ridurre le spese dello Stato e quindi ha operato affinché i bambini non abbiano assistenti per asili nido, tempo pieno scolastico e sport e ci sia bisogno dell’attività dei nonni, occupando arbitrariamente il loro tempo libero ed ha inoltre operato affinché anziani, malati e disabili non abbiano sufficienti assistenti e dunque ci sia bisogno di occupare il tempo libero dei familiari o dell’assistenza del volontariato. Lo Stato non riesce ad appropriarsi delle crescenti risorse necessarie a quelle attività umane, sempre più numerose, che hanno una natura intrinsecamente etica o monopolistica.

Questo significa che tutte quelle attività etiche e/o monopolistiche, non sono effettuate con la enorme produttività, che si può ottenere dalla divisione del lavoro, ma sono lasciate alla cura di persone volonterose, che le svolgono per ragioni affettive o caritatevoli. Pertanto, perdono la caratteristica di essere diritti sociali, che, tecnologicamente, la società sarebbe ampiamente in grado di assicurare nel tempo di lavoro necessario, ma senza la mediazione produttiva del capitale.

La difficoltà più grande per i lavoratori è immaginare il processo per cui, pur dovendo mantenere l’alienazione della propria attività lavorativa e dunque continuare a concepire lo scambio secondo il principio di equivalenza, quindi mantenere la “condizione di merce” del lavoro, occorre superare la “condizione di merce individuale” del lavoro, perseguendo in una forma nuova la politica di piena occupazione, che prima riusciva a garantire lo stato sociale e che ora non può più essere “spesa pubblica, capace di trainare l’economia e l’accumulazione di capitale”, ma deve eseguire la “eutanasia del capitalista monetario”.

L’eccesso di risparmi monetari si manifesta come “tasso di interesse reale” (rendimento al netto dell’inflazione e della probabilità d’insolvenza) negativo. Dunque soltanto lo stato può “garantire” la restituzione “a parità di valore” (cioè di potere d’acquisto) dei risparmi eccedenti (cioè quelli, che non sono prestati al capitale e non diventano “capitale reale”), attraverso l’emissione di titoli di stato perenni a rendimento netto zero, incassabili a scadenza programmata oppure i risparmi monetari devono trasformarsi in contributi previdenziali e/o assicurativi volontari (cioè aggiuntivi). A queste condizioni la spesa pubblica può e deve crescere al ritmo della differenza tra l’aumento della produttività e quello minore dei consumi individuali possibili (sostenibilità ambientale) e può prelevare risorse sempre maggiori dal sempre maggiore plusvalore (tassazione del plusvalore, anziché soltanto dei profitti) e garantire la piena occupazione per un orario decrescente e protetto dalla concorrenza.

In questo quadro di fine del rendimento del denaro, di possibilità di risparmio garantito solo a tasso reale zero e con esclusione di denaro a vista (quello cd fluido, in cerca della speculazione possibile) e con lo stato occupatore di ultima istanza ad orario decrescente e parità di salario, le entrate fiscali, risulterebbero continuamente accresciute, in questo modo, al ritmo dell’aumento della produttività e potrebbero essere bastanti alla soddisfazione dei bisogni di tutti i lavoratori (piena occupazione) ed anche di chi abbia limitazioni a poter lavorare e necessità di assistenza, proteggendo il lavoro (anche se è ancora una merce) dalla condizione di merce eccedente sul mercato in concorrenza con gli altri lavoratori (nazionali e stranieri).

Tutto ciò, se attuato, condurrà ad una prassi in cui lo Stato si farebbe garante di occupazione di ultima istanza, senza “miracolistiche” creazioni di denaro, che sarebbero ormai solo inflazionistiche. Con un orario di lavoro progressivamente ridotto e un alternativodiritto/obbligo” allo studio, all’esercizio della cultura e della stessa innovazione tecnologica, il tempo, “liberato” dal lavoro, verrebbe riportato direttamente all’esercizio del general intellect”, moderna visione di una “scolh o “otium litteratum”, in cui si possa avere il privilegio di “condividere la produzione artistica, delle innovazioni sociali e del patrimonio di conoscenze tecnico scientifiche”.

Non possiamo sapere quanti sarebbero i membri della società che potrebbero preferire la faticosa ed attiva partecipazione alla generale “umanità” rispetto al piacevole e passivo perseguimento del solo edonismo di “animale” memoria, ma almeno avremmo gettato le basi per “contendere” al capitale la continuazione della “appropriazione” delle attività umane , ora “alienate” come merci.

Per questo la prospettiva progressista non può limitarsi ad una politica economica alternativa praticabile senza una battaglia politica culturale adeguata e, viceversa, non è possibile affermare una visione alternativa dell’umanità senza indicare una politica economica che renda realisticamente immaginabile quel percorso, come la possibilità di prelevare le necessariamente crescenti entrate fiscali direttamente dal plusvalore, anziché dal reddito dei lavoratori.

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