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“Ur dei Caldei” e il prestito del Tempio. Cronache marXZiane n. 12

di Giorgio Gattei

imageoibki6eyszas1. Dove eravamo rimasti? Che prima dei Babilonesi in quello stesso lembo di terra tra il Tigri e l’Eufrate avevano abitato i Sumeri e sono stati costoro ad aver dato il via, 5000 anni fa, ad una intera economia centrata sul prestito ad interesse. Insomma, ai Sumeri non spetterebbe soltanto quella “rivoluzione urbana” che ha attribuito loro Gordon Childe nel 1950 (a fare il paio con la successiva Rivoluzione industriale britannica del XVIII secolo), ma ben di più se, insieme alle città, essi avrebbero inventato addirittura la finanza (O. Bulgarelli, La finanza… esisteva già nel III millennio a. C.?, in Bancaria”, 2015, n. 12 e più in dettaglio Moneta ed economia nella antica Mesopotamia (III-I millennio a.C.), in “Rivista trimestrale di diritto dell’economia”, 2009, n. 3, supplemento). Le condizioni ambientali c’erano tutte: un territorio alluvionale particolarmente fertile per cereali e bestiame, una produttività del lavoro in aumento, una popolazione in crescita che progressivamente si trasferiva dall’insediamento sparso dei villaggi in agglomerati urbani in cui le attività economiche si specializzavano facendo coesistere le abitazioni private con le botteghe artigiane e commerciali. Storicamente la città più famosa ritrovata dagli archeologi è stata «Ur dei Caldei» (come viene impropriamente chiamata nella Bibbia) che, se non proprio la prima che sembra che sia stata Uruk peraltro non distante) è stata certamente la più importante e dove ha vissuto il patriarca Abramo prima di trasferirsi, con famiglia e mandrie al seguito, nel “paese di Canaan”, ossia in Palestina.

La città di Ur, in origine sulla riva dell’Eufrate anche se ora non più, doveva contare al momento del suo massimo splendore almeno 60000 abitanti alloggiati in edifici «di mattoni invece di pietre e di bitume invece di calce», come dice la Bibbia. Essa era dominata dalla mole imponente della ziqqurat, una piramide tronca a gradoni alta 20 metri che avrebbe ispirato l’immagine della Torre di Babele (dal babilonese Bab-ilu = porta del Dio) che, per volersi innalzare fino al cielo, avrebbe subito la punizione del Signore con la “confusione delle lingue” così che nessuno s’intendesse più con gli altri, a testimonianza delle parlate di genti diverse che già c’erano in quella affollata città di mare. In cima alla ziqqurat si ergeva il Tempio dedicato al dio Nanna, a cui si accedeva tramite due scalinate laterali per i fedeli ed una centrale per i sacerdoti, che costituiva il centro religioso e amministrativo fungendo da raccordo fra la campagna circostante e la città sottostante. Al Tempio spettavano i compiti di difesa, viabilità, canalizzazione, giustizia e culto (il che non fa meraviglia) ma pure (e questo è straordinario) quello del prestito ad interesse per chi lo richiedesse (ad immagine di copertina vedi il “pannello della pace” del cosiddetto Stendardo di Ur, III millennio a.C.).

Può darsi che le cose siano andate così: il Tempio raccoglieva le offerte dei fedeli (o le tasse dei cittadini) che venivano corrisposte in natura (soprattutto orzo, che era il cereale del luogo, ed argento) utilizzandole per le proprie spese e per mantenere sacerdoti e dipendenti. Ma se restavano delle eccedenze a disposizione perchè non offrirle in prestito ad artigiani e commercianti per le loro attività di produzione e scambio? A prova del prestito concesso il Tempio emetteva delle tavolette di argilla, incise finché l’argilla era umida, che venivano fatte essicare al sole oppure cotte al forno per indurirle e rendere il documento duraturo. Di queste tavolette, che recavano sostanzialmente la forma canonica di una promessa di debito (“io ti devo”), ne sono emerse dagli scavi archeologici centinaia di migliaia (sic!) che oggi sono sparse presso tutti i musei del mondo (perfino la Banca d’Italia ne ha una piccola collezione) a dimostrazione di quanto la pratica del prestito ad opera del Tempio ma poi anche, per imitazione, da parte dei privati fosse diffusa, tanto da giustificare Bulgarelli a definire la Mesopotamia come «la culla della finanza».

 

2. Ma quando si arriva al debito dei Sumeri le innovazioni culturali concomitanti si sprecano, a partire dal fatto che, dovendo il debito essere certificato, c’era bisogno di una modalità di scrittura più comoda dei geroglifici egiziani, e questa è stata la scrittura cuneiforme perchè eseguita con uno stilo a punta di cuneo che lasciava sulle tavolette di argilla dei segni già astratti come quelli del nostro alfabeto. E per scriverli servivano degli scribi addestrati in apposite “case delle tavolette” in cui si insegnavano tutte le forme contrattuali possibili di prestito, nonché le nozioni necessarie di aritmetica e geometria. La professione dello scriba, che operava anche da notaio del prestito concesso, era così onorevole in città che in una tavoletta si elogerà «l’arte della scrittura (che è) il nesso di tutto» e che «ti arricchirà» (questa scrittura su argilla durerà a lungo finché non sarà sostituita, nel I secolo a.C., da supporti scrittori più adatti come il papiro e la pergamena).

Ma siccome il prestito è a scadenza (la data in cui lo si dovrà ripagare), i Sumeri avevano bisogno di una misura del tempo che fosse funzionale alla contabilità finanziaria piuttosto che alla astronomia. Per questo essi adottarono un anno di 360 giorni per 12 mesi di 30 giorni, che era quanto di più comodo possibile essendo divisibile in cifra tonda per 180, 120, 90, 72, 60, 45, 40, 36, 24, 20, 18, 15, 12, 10 e poi tutti i numeri fino a 2 tranne il 7. Ha commentato N. Goetzmann (Denaro. Come la finanza ha reso possibile la civiltà, 2017): «si è quasi tentati di pensare all’anno amministrativo sumero come a un tipo di anno idealizzato, più nitido, perfezionato, un anno che potrebbe piacere ai matematici e agli amministratori, al contrario del tempo definito dalla realtà astronomica, (nonché) un modello di tempo che era anche una ottima struttura per l’analisi di fenomeni economici periodici». Però questa durata “civile” lasciava una differenza in meno rispetto all’anno solare (che è di 365 giorni, 5 ore e qualche secondo) ed i primi ad accorgersene furono gli egizi che non si ritrovavano più le date del calendario in accordo col ritorno periodico delle piene del Nilo ed a rimedio aggiunsero 5 giorni supplementari all’anno (detti “epagomeni” in greco). Che però non bastavano ancora ed è per questo che nel 46 a.C. Caio Giulio Cesare dovette introdurre un “anno bisestile” di 366 giorni dopo tre anni di 365 col risultato che così mediamente, l’anno finiva per durare 365 giorni e 6 ore. Però adesso la differenza di tempo era in eccesso costringendo nel 1582 papa Gregorio XIII ad abolire i dieci giorni diventati di troppo e stabilendo che non fossero bisestili gli anni secolari non divisibili per quattro (tutto risolto? Niente affatto, perchè è rimasto un sovrappiù di 26 secondi che sarà pari a un giorno dopo 4000 anni, così che in un lontanissimo futuro ci sarà bisogno di una ulteriore riforma del calendario).

 

3. Infine c’è da dire della introduzione dell’interesse quale “peso del tempo” sull’ammontare del prestito che David Graeber (Debito. I primi 5000 anni, 2012) ha giudicato come «l’invenzione più significativa della storia della finanza» perchè ha permesso di considerare equivalenti tra loro tutti i prestiti sia passati che presenti e futuri e solo differenti quantitativamente. Ma perchè il prestito dovrebbe produrre un interesse? In una comunità ristretta, dove valgono relazioni di buon vicinato, sarebbe sconveniente chiedere un interesse per un prestito, ma in una società allargata, in cui si ha a che fare con estranei, perchè non si potrebbe pretendere di guadagnarci qualcosa? Per questo Goetzmann ha giudicato che l’invenzione dell’interesse, «all’ombra delle porte dell’Eden, potrebbe essere stato il peccato originale dell’umanità che ha segnato un momento di distacco dal mondo idealista della vita comunitaria».

Sulla sua origine c’è però un equivoco da eliminare: siccome nella maggior parte delle lingue antiche il termine interesse deriva dalla parola “prole”, si è stati indotti a pensare alla sua nascita dal prestito del bestiame (anche il nostro aggettivo “pecuniario” deriva dal latino pecus = pecora) per il semplice fatto che naturalmente una mandria o un gregge si accresce nel tempo di nuovi capi di animali. Tuttavia per Graeber «questa interpretazione sembra troppo letterale» e forse gli animali non c’entrano affatto se in Mesopotamia i tassi d’interesse erano fissati d’autorità solo sui prestiti d’argento (al 20%) e d’orzo (al 33,33%). Ma come giustificarli, posto che l’interesse, invece di un prezzo di mercato, assomigliava piuttosto ad una tassa amministrativa da pagarsi in funzione del tempo per il servizio del prestito concesso dal Tempio? Ci ha provato di recente M. Hudson (How interest rates were set, 2500 BC – 1000 AD, in “Journal of the Economic and Social History of the Orient”, 2000, n. 2) ipotizzandone una derivazione diretta dal sistema numerico adottato, che per i Sumeri era su base sessagimale: posta l’equivalenza in peso di un siclo d’argento (8,3 grammi) con uno staio di orzo (180 grani), il tasso d’interesse per il prestito d’argento sarebbe stato di 1/60 di staio al mese, ossia 3 grani che in un anno di 12 mesi facevano 36 grani pari al 20% di un siclo d’argento, mentre per il prestito d’orzo l’interesse sarebbe stato di 1/36 di staio a mese, ossia 5 grani che facevano 60 all’anno pari al 33,33% di uno staio e questi tassi d’interesse sarebbero rimasti tali per legge addirittura per secoli! Insomma, secondo Hudson la contabilità farebbe aggio su tutto: «l’interesse nasceva dal calendario e non prendeva la forma di animali nuovi nati, ma piuttosto di unità frazionali, la più piccola unità frazionale del sistema numerico adottato di 1/60 in Mesopotamia. La metafora della nascita per l’interesse era riferita “frazioni di tempo” baby e non ad animali baby». Men che meno potevano valere riferimenti “economicistici” alla produttività o al rischi del singoli prestiti come ad un loro mercato “a domanda e offerta”, perchè «questa era l’Età del Bronzo e non la moderna Wall Street o la City di Londra.

Però questi tassi erano così elevati da giustificare il ricorso al prestito solo in prospettiva di guadagni cospicui, come nel commercio a distanza dei beni di lusso, oppure per emergenze drammatiche come la perdita del raccolto per calamità naturali, mentre le penalità per il mancato rimborso erano severissime, andando dall’esproprio di case, beni e terre dell’inadempiente alla “schiavitù per debiti” sua e dei suoi familiari, alimentando, in quei tempi ancora privi di una lotta tra le classi sociali, la rivendicazione politica più assillante della “cancellazione dei debiti”. E di fronte alle minacce di rivolte violente, le autorità sovrane correvano ai ripari emettendo periodicamente editti che annullavano tutti i debiti in essere anche con la distruzione fisica cerimoniale delle famigerate tavolette (di questi editti “di liberazione” ne sarebbero stati contati una trentina tra il 2400 e il 1600 a. C., come dottamente repertoriato da M. Hudson, The lost tradition of biblical debt cancellations, 1993, in rete).

 

4. – Ma proprio non ce la fai a fare a meno delle divagazioni storiche? – Il rimprovero di Dgiangoz, la mia “eminenza grigia” in analisi economica che mi evita di scrivere castronerie, mi colpisce con la violenza di uno schiaffo. - Prima Hammurabi e adesso i Sumeri! Hai perso di vista il compito che ti eri dato, e cioè di “mappare” la composizione logica del pianeta Marx e non di rievocare il passato della terra?

– Ma che ne diresti se ti dicessi che anche il grande John Maynard Keynes ha vissuto un suo momento di “follia babilonese” prima di dedicarsi al Trattato della Moneta?

– Direi che vorrei saperne di più.

– E se solo la presenza di un Tempio “alla sumera” consentisse di trattare adeguatamente questo argomento?

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