Michel Clouscard. Un marxismo inesplorato
di Alessandra Ciattini
Non so se il marxismo occidentale sia morto, non so neppure se esso sia riassumibile in una formula, date le mai sopite discussioni sui temi centrali impostati e trattati da Marx, ma posso dire che mi capita spesso di incontrare nuovi studiosi marxisti (almeno che si dichiarano tali) a me sconosciuti, ma non ad altri, operanti sia nell’ambito delle scienze sociali sia in quello delle scienze dure.
In particolare, in questo campo, anche a causa dell’attualità dei temi ecologisti, molti autori, come Georges Gastaud, hanno ripreso a lavorare sulla Dialettica della natura [1]. A mio parere essi (o meglio alcuni di essi) meritano tutto il nostro interesse soprattutto oggi nell’attuale scenario internazionale lacerato da scontri e da conflitti, il cui esito potrebbe essere la sconfitta di tutte le classi in lotta, come prevedevano nel 1848 Marx ed Engels.
Naturalmente occorre in primis valutare il loro contributo e la loro coerenza con la definizione di socialismo, che mi pare appropriata, ma non schematica, proposta da Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, per i quali quest’ultimo deve essere identificato con “una società in cui i mezzi di produzione sono di proprietà comune e i produttori lavorano in associazione per soddisfare i bisogni della società definiti dai produttori stessi… Ci saranno solo strutture controllate democraticamente per amministrare la produzione di cose e servizi al fine di soddisfare i bisogni della società umana” [2]. A loro parere (ed io concordo), una tale forma di società per ora non è mai esistita, anche se si sono tentati esperimenti interessanti che hanno dato vita a società complesse, ibride, non più capitaliste ma in trasformazione, tenendo sempre presente che la transizione può avere esiti diversi e inaspettati (https://sinistrainrete.info/marxismo/26741-guglielmo-carchedi-e-michael-roberts-la-teoria-del-valore-di-karl-marx-per-comprendere-il-funzionamento-del-capitalismo-oggi), non sempre umanamente controllabili secondo quella che Adam Ferguson nel Settecento definì la legge delle conseguenze involontarie. Gli stessi politici cinesi collocano la loro società solo nella fase primaria del socialismo, da cui non si potrà rapidamente uscire.
Ma non mi voglio soffermare su questa interessante intervista fatta a Carchedi e a Roberts, voglio piuttosto presentare ai lettori italiani un filosofo e sociologo francese, Michel Clouscard (1928-2009), di cui gli Editori Riuniti pubblicarono nel 1975 un libro ora esaurito, intitolato in italiano I tartufi della rivoluzione. Neofascismo e ideologia del desiderio (in francese il titolo è semplicemente Néo-fascisme et idéologie du désir, Delga 2017). Considero assai interessante questa opera, che purtroppo non sono riuscita a fare ripubblicare nel nostro paese, perché ci consente di comprendere meglio almeno uno dei fattori che hanno incrinato l’egemonia culturale del marxismo (in Francia anche del gaullismo e di Jean Paul Sartre) conquistata grazie alla sconfitta del nazifascismo dovuta all’eroica lotta dell’esercito sovietico e delle varie Resistenze. L’analisi ha per oggetto la società francese, ma sicuramente è applicabile con qualche precisazione anche a quella italiana e ci aiuta a capire più a fondo i cambiamenti ideologici e culturali prodottisi in Europa dopo la sua sottomissione agli Usa, alla Nato e l’erogazione del famoso Piano Marshall. Se dobbiamo parlare di crisi del marxismo, non possiamo fare a meno di menzionare anche la lotta, spesso sotterranea, che è stata condotta contro di esso.
Prima qualche nota biografica su Clouscard. Era nato nel Tarn (regione di Carmaux, Occitania) in una famiglia operaia ed era vicino al PCF di Georges Marchais. È autore di molti libri importanti, ma è conosciuto in Francia, e anche negli Usa (grazie a Gabriel Rockhill) «surtout pour sa critique implacable de la contre-révolution, qui va amener la gauche française, à partir des années 70, à se fourvoyer dans le « libéralisme libertaire », concept qu’il a d’ailleurs lui-même forgé dès 1972 ». Come scrive Aymeric Monville, da cui riporto queste citazioni, «Tout le monde peut observer aujourd’hui l’aboutissement de ce processus: être de gauche aujourd’hui, pour le gouvernement actuel, n’a de signification qu’au niveau sociétal (des mœurs) mais aucune au niveau économique, social». È a questa virata ideologica, che può esser intesa come tradimento delle classi popolari, che dobbiamo il risorgere del fascismo (La pensée de M. Clouscard. Entretien avec Aymeric Monville, “La Revue du Projet”, n° 53, 2016), sempre dormiente e sopito nella società capitalista, ma in certi momenti pronto risvegliarsi rinnovato e pieno di forze. Vedi il Rassemblement national in Francia, Fratelli d’Italia e i suoi addentellati nel nostro paese, per non parlare della Germania.
Monville intende sottolineare che, negli ultimi decenni di indebolimento del marxismo e delle sue organizzazioni, la cosiddetta sinistra (in realtà gli strati medi ribelli e libertari sorti nel secondo dopo guerra, emersi per l’espansione del capitalismo monopolistico di Stato) hanno accantonato la grande questione dell’emancipazione economica e sociale, mirando a liberarci (anche giustamente) dai tabù, dai pregiudizi, dalle forme repressive proprie di quella borghesia tradizionale, nella cui etica Max Weber aveva individuato le radici del capitalismo.
Clouscard chiarisce in maniera analitica come si è dispiegato questo processo, ricostruendo quei processi ideologici che hanno plasmato la concezione del mondo degli europei, i loro valori e fatto penetrare un’immagine del tutto positiva degli Usa, della loro cultura e del loro modo di vita, insieme alla celebre menzogna del “sogno americano” alimento da Hollywood sotto la tutela dei vari servizi segreti. A questi ultimi si deve anche la persecuzione del democratico Charlie Chaplin, che dovette abbandonare il paese e i suoi famosi Studios.
In molti suoi scritti, non solo in quello di cui stiamo parlando, egli si propone di delineare i contenuti e le forme dell’ideologia del neocapitalismo, che sarebbe scaturita dalla nuova intelligentsia, fuoriuscita dai nuovi strati sociali generati dal capitalismo di Stato costituitosi nel secondo dopoguerra. Il principale fondamento di questa ideologia, prodotta da una sorta di neo-mandarinato intellettuale fortemente apprezzato e riverito, è rappresentato dal tentativo discutibile di coniugare Marx e Freud, dando vita al cosiddetto freudo-marxismo.
Tale ideologia, condivisa anche nel nostro paese e presentata come autenticamente rivoluzionaria, si nutre dei cambiamenti prodottisi con la fine della Seconda guerra mondiale: l’Europa subordinata agli Usa, occupata militarmente, integrata nella NATO, meta con il Piano Marshall dei capitali e delle merci, anche culturali, statunitensi. In questo contesto si realizzano straordinarie trasformazioni: enorme sviluppo delle forze produttive, la razionalizzazione capitalistica della produzione attraverso il fordismo e il taylorismo. A ciò si aggiunge l’industrializzazione dell’agricoltura (in Italia il meridione ne è sfiorato), l’esodo forzato dalle campagne e la concentrazione urbana delle industrie. Tutti aspetti straordinariamente trattati dal neorealismo cinematografico (basti citare Rocco e i suoi fratelli di L. Visconti). Tali processi implicano anche la trasformazione della vita privata, del ruolo della donna, nuove forme di consumo e nuove modalità di comportamento, cui dà impulso l’espansione continua del mercato.
Implicano anche il formarsi di nuovi strati intermedi, legati all’espansione dei servizi, alla crescita di nuove figure intellettuali e professionali, non immediatamente produttive, ma che, operando nei settori commerciali, produttivi delle idee, pubblicitari, negli apparati ideologici costituiscono una rotella indispensabile al funzionamento di un enorme marchingegno, da cui scaturiscono i profitti (Vedi H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978).
Come osserva Clouscard, Herbert Marcuse, critico del marxismo sovietico, aveva scaricato la responsabilità della persistenza del capitalismo e anche del suo ulteriore sviluppo sulla classe lavoratrice, la quale si sarebbe fatta irretire e affascinare dai beni prodotti e distribuiti nella nuova società dell’abbondanza o dei consumi (Clouscard scrive anche Le capitalisme de la séduction, Parigi 1981). Inoltre, contro lo stesso Freud, aveva ipotizzato che la repressione sessuale non era inerente allo Stato sociale, ma generata da un suo cattivo funzionamento contestuale che, se corretto, avrebbe permesso a tutti gli individui di esprimersi in maniera completa e di realizzare tutti i loro desideri.
Questa concezione, ancora oggi dominante e acriticamente accettata, sia pure ridotta a esangui manifestazioni, riduce l’essere umano alla pura dimensione libidinale, ludica, marginale e alimenta quella che il filosofo francese definisce con perspicacia “ideologia del desiderio”, costante impronta di un vuoto da riempire; ogni forma di impegno, di disciplina, anche ogni senso del reale viene cancellato e sostituito dal principio del piacere, che invece di liberarci ci rende ancora più schiavi; e ciò perché siamo attratti e solleticati dalle nuove meravigliose merci, il cui consumo ci dovrebbe soddisfare, purtroppo solo in maniera effimera, lasciando un triste senso di un’immensa insoddisfazione interiore. Operando in questa direzione dissolve il soggetto politico, presente ancora nelle precedenti forme di capitalismo, e individua nuovi gruppi rivoluzionari inconsistenti, sulla base dell’appartenenza sessuale, etnica, minoritaria, che appaiono sulla scena per rivendicare la loro stessa esistenza e il diritto alla realizzazione dei loro desideri, spesso irrealistici o fortemente unilaterali.
Secondo Clouscard occorre partire dal modo di produzione che, per l’aumento del tasso di crescita, nel neocapitalismo genera la produzione di beni materiali che suscitano e soddisfano nuovi bisogni. Se nella fase precedente il proletariato aveva a disposizione solo i beni di sussistenza, la piccola borghesia anche i beni di confort (immobiliari e fondiari), la grande borghesia godeva anche di quelli di lusso; nella cosiddetta società dei consumi, invece, i lavoratori di origine straniera dispongono solo dei mezzi di sussistenza, il proletariato anche dei beni strumentali, ossia quelli che gli permettono di essere al meglio produttivo (auto, lavatrice, TV etc.), la piccola borghesia dei beni di consumo e di status, la media dei beni di confort e quella alta dei beni di lusso.
Abbagliato dalla ricerca dell’appagamento dei desideri e dalla volontà di denigrare i lavoratori, Herbert Marcuse sostiene che questi ultimi, che producono tutti i beni esistenti e ne consumano solo una parte, godono anche dei beni di consumo, non comprendendo che un’auto è un bene strumentale e non di consumo, indispensabile, per esempio, per andare a lavorare nel nuovo contesto sociale.
Evidentemente non si rende conto che, se i lavoratori avessero a disposizione tutti i beni prodotti e potessero soddisfare tutte le loro esigenze, saremmo già in una società socialista. A parere del filosofo francese l’acquisizione dei beni di sussistenza e di quelli strumentali indispensabili costituisce solo la riappropriazione parziale del plusvalore prodotto dallo sviluppo delle forze produttive. Inoltre, la TV esercita una funzione distrattiva assai utile dal punto di vista ideologico, e perciò diventa accessibile ai lavoratori.
Questa distinzione tra beni di consumo e beni strumentali, in parte acquistati dai lavoratori, mostra di fatto che i conflitti di classe nel neocapitalismo si sono esacerbati e che i lavoratori continuano ad essere subordinati.
Da questa interessante analisi Clouscard deduce che il consumo dei beni strumentali (una Panda non è una Maserati) è sempre funzionale per il lavoratore, utile alla riproduzione della forza lavoro, mai libidinale, in quanto producente piacere come predica la pubblicità, come per le classi superiori.
La trasformazione che ci conduce al neo o tardo capitalismo scaturisce dalla sconfitta parziale della borghesia tradizionale, ora invocata per giustificare la sconfitta dell’Occidente [3], legata al valore del risparmio, del reinvestimento, della famiglia tradizionale da parte dei nuovi strati medi che, soddisfatti i bisogni essenziali, possono orientarsi verso il superfluo, magari non standardizzato dalla produzione in serie, abbandonando l’investimento nei beni strumentali produttivi e ricercando l’appagamento estetizzante, simbolo dell’acquisizione di un nuovo status. Come scrive Clouscard questa nuova borghesia è produttrice di servizi, ma consumatrice di oggetti-segni (equivalenti ai cosiddetti beni prestigio primitivi) [4], che indicano con un’immagine la non appartenenza al proletariato, cui d’altra parte è assai vicina. Ed è proprio questo il gruppo considerato il grande protagonista del Maggio 1968, con i suoi contraddittori slogan (proibito proibire, l’immaginazione al potere), che dà vita alla rivoluzione culturale e sessuale, ma che era affiancato dai lavoratori con le loro rivendicazioni politiche ed economiche [5].
A convalida delle osservazioni di Clouscard dobbiamo aggiungere alcuni dati concreti: in Italia fu istituita nel 1951 la Commissione parlamentare per la miseria, le cui conclusioni (persistenza della povertà, necessità di misure per cancellarla) furono approvate da tutti i partiti, dai monarchici ai comunisti. Fu richiesto un programma organico di sicurezza sociale, che non fu mai avviato. Successivamente nel 1984 Bettino Craxi, presidente del Consiglio, istituì la Commissione d’indagine sulla povertà, ossia trent’anni dopo la prima ricerca. Questo organismo, che cambiò nome più volte, lavorò fino al 2012, constatando sempre la persistenza della povertà in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia, negando quindi l’idea che tutti avessero finalmente raggiunto il benessere, di cui negli ultimi decenni gruppi sempre più numerosi gruppi debbono fare a meno [6].
Il nuovo modo di consumo si trasforma in un modello generale, con l’ipotesi di inglobare il proletariato e di sconfiggere gli antagonismi di classe; in realtà, accade il contrario: da un lato, i grandi quadri del settore pubblico e privato, i tecnocrati, si accordano con la grande borghesia tradizionale; dall’altro, come mostra anche il già citato Braverman, la trasformazione del settore impiegatizio, insegnanti, consulenti, grazie all’industrializzazione di questo ambito, conduce ad un livellamento verso il basso di questi lavoratori, che si trovano esposti agli stessi rischi dei proletari (disoccupazione, impoverimento).
Per espandere i suoi mercati il neocapitalismo deve spazzar via l’etica tradizionale, fondata sulla precedente rarità delle merci e sui limiti imposti al consumo popolare (si pensi anche alla logica delle leggi suntuarie); nella forma della “società dell’abbondanza” “deve generare i valori inversi del consumo, dello spreco, della festa [7], della libidinalità”. Pertanto, secondo Clouscard, il freudo-marxismo, ideologia portante della nuova fase capitalistica, svolge la funzione di liquidare l’etica moralistica, l’economia dell’accumulazione, l’inibizione e dà sfogo alla trasgressione in tutte le sue forme (2017: 60; trad. mia). Con le sue merci vende la sua stessa ideologia, uno stile di vita: consumare vuol dire non porsi limiti, trasgredire, liberarsi, ma nello stesso tempo alienarsi, sottoponendosi sempre più alla seduzione del mercato e distraendosi dalla lotta di classe fondata dai diversi ruoli nella produzione delle merci, disponibili nella loro totalità solo a certi strati sociali.
Clouscard distingue nella “società dei consumi” due settori, sempre collocati nella nuova piccola borghesia: il primo viene integrato nel neo-capitalismo attraverso l’acquisto dei beni prodotti in serie, il secondo, marginale ma più potente ideologicamente, costituito dai giovani, dalle donne, estremamente sensibili al tema dell’emancipazione, dagli intellettuali, dagli artisti, dagli “spostati e nevrotizzati” (nervosés), intesi in senso storico-sociologico e non implicati direttamente nel sistema produttivo, le cui dinamiche ignorano totalmente. Sono questi gruppi che si fanno affascinare e sedurre dalla forma del consumo trasgressivo, inteso come strumento di emancipazione. Questo è alimentato dall’eccezionale sviluppo di nuovi settori produttivi e commerciali come l’industria del tempo libero, della moda, dei nuovi mezzi di espressione audiovisuali, degli oggetti cosiddetti alternativi, fino agli eccessi delle droghe.
Si realizza, pertanto, il paradosso: il neocapitalismo (cui dietro stanno forme criminose di mafie e di oligarchie) produce quelle merci, mediante l’acquisto delle quali (abbigliamento, cultura, bevande alcoliche, droga etc.) coloro che si considerano baldanzosamente antisistema, si inseriscono perfettamente in esso, acquistando oggetti effimeri, evanescenti, destinati a diventare rapidamente obsoleti, grazie alla sovrapproduzione che genera un mercato parallelo. Ne consegue che i sedicenti rivoluzionari diventano i paladini della seduzione capitalistica ispirata dalla volontà di dirigere le masse verso un’emancipazione fittizia, che produce solo abbrutimento e sempre maggiore alienazione. In questo senso il filosofo francese li definisce liberal-libertari, espressione recentemente usata dal presidente argentino Javier Milei, che intende incrementare nel suo già massacrato paese un capitalismo selvaggio, in cui la libertà, presentata come eccezionalità, superamento dei limiti da parte degli individui, nasconde il diritto del più forte e del proprietario. Del resto, sapevamo già – Marx docet – che là dove non ci sono protezioni e tutele e tutti hanno formalmente gli stessi diritti, si impone il diritto del più forte.
Dal punto di vista storico-politico per la Francia l’emergere del neo-capitalismo, da un lato, ha sconfitto la destra tradizionale, legata alla figura di De Gaulle, odiato dagli Usa, alla difesa dell’indipendenza e della sovranità del paese, ai valori tradizionali; destra che si è rivitalizzata adottando il servile atlantismo a partire dalla presidenza di Nicolas Sarkozy e pienamente incarnato oggi nel despota Emmanuel Macron; dall’altro, dopo Maastricht, ha spinto la sinistra (compresi i partiti comunisti, particolarmente quello italiano che ha subito un lungo processo di decomposizione) [8] ad adottare la dottrina della cosiddetta social-democrazia europea. Come la destra, quest’ultima ha condotto una guerra sistematica ai diritti e alle tutele conquistate in precedenza dai lavoratori europei (anche in seguito al Maggio 1968), ha smembrato la proprietà pubblica a vantaggio delle grandi corporazioni, ma nello stesso tempo ha adottato il “politically correct”; un’altra forma del libertarismo e del permissivismo, che trasferisce la questione dei diritti sul piano della morale (sociétal), scindendo in maniera subdola i diritti civili da quelli sociali.
Secondo il filosofo francese l’icona di questi processi da lui analizzati sarebbe il celebre libro, che tanta influenza ha esercitato anche in Italia, L’Anti-Oedipe (Éditions de Minuit, Parigi 1972) di G. Deleuze e F. Guattari [9], nel quale si esprimono con forza la contraddizione interna al sistema capitalistico e l’aporia tra il permissivo e il repressivo. L’impulso al dispiegamento del desiderio (le macchine desideranti di Deleuze) alimenta la crescita, sconvolge l’ordine precedente, attacca le istituzioni, che garantivano certi diritti (smantellamento dello Stato sociale, delle Costituzioni, della Nazione progressivamente intesa) e dà libero sfogo al consumo trasgressivo. Purtroppo, la sovraproduzione così generata conduce alla crisi e alla recessione, che può esser superata, per tutelare i profitti, solo scaricandone i costi sui lavoratori, avvalendosi di maggiori strumenti coercitivi e repressivi, perché questi si sottomettano. Strumenti che abbiamo visto in opera da vari decenni e che si manifestano, per esempio, nel rafforzamento del potere esecutivo a scapito del legislativo, nell’impiego indebito dei decreti legge, mettendo a tacere la voce di quei pochi rappresentanti popolari eletti nelle “elezioni democratiche”. In definitiva, il potere politico diventa sempre meno rappresentativo (di qui l’astensionismo) e sempre più in stretta connessione con il potere economico (i tecnici), ormai transnazionale, al di fuori di ogni controllo, mostrando la sua vera natura di matrice neofascista.
Abbiamo visto che la prima parte del titolo del libro di Clouscard contiene la parola neo-fascismo, le cui radici debbono ora essere puntualmente disvelate seguendo passo passo la riflessione del nostro filosofo, che non ha potuto godere, per ovvie ragioni, del riconoscimento internazionale dei fondatori della cosiddetta French Theory, una costruzione del tutto artificiale, nella quale hanno messo le mani persino i servizi segreti statunitensi nella loro battaglia ideologica volta a riconquistare le masse [10].
Da quanto ho capito, leggendo il coinvolgente libro del nostro filosofo, vi sono varie relazioni tra l’ideologia del desiderio e il neo-fascismo. In primis, come si è visto, lo spostamento dell’emancipazione dalla dimensione economico-sociale a quella libidinale e ludica indirizza le masse insoddisfatte verso le forze neofasciste che, a parole, si mostrano più sensibili ai problemi sociali e, in nome di un nazionalismo escludente, esigono il ripristino dei benefici per le popolazioni autoctone, espellendone per motivi razzisti gli immigrati. Come gli ebrei durante il nazismo, questi svolgono la funzione di capri espiatori di colpe che non sono le loro.
Un’altra rilevante relazione con il neofascismo sta nella nozione di “genere di vita”, un nuovo modo di consumare “naturale”, imposto dal neo-capitalismo, immediatamente adottato da quei settori piccolo-borghesi, che si faranno i promotori di esso, scagliando i loro strali, in nome di una contraddittoria tolleranza, verso chi non lo recepisce. Genere di vita “rivoluzionario”, che evoca il primo fascismo italiano sedicente antiborghese, soprattutto nel vestiario trasgressivo, nei costumi sessuali e persino fautore di una “rivoluzione grammaticale” (il superamento del maschile e del femminile, ignorando l’esistenza degli epiceni presenti almeno nelle lingue neolatine).
Possiamo ricordare a questo proposito una significativa presa di posizione di Lenin, il quale nelle conversazioni con Klara Zetkin affermò a proposito del cosiddetto libero amore che: “La rivoluzione esige concentrazione, tensione delle forze dalle masse e dagli individui. Essa non può tollerare stati orgiastici, del genere di quelli propri delle eroine e degli eroi decadenti di D’Annunzio. Gli eccessi nella vita sessuale sono un segno di decadenza borghese” (Klara Zetkin Lenin e il Movimento femminista, 1925, https://www.marxists.org/italiano/zetkin/lenin.htm). Evidentemente aveva in mente la sterile contrapposizione tra individuo e società, tipica del liberalismo, che non considera dialetticamente quest’ultima il luogo di realizzazione del primo. In quest’ultima prospettiva si genera un’aporia insanabile, non dialettizzabile che trasfigura in maniera generica e astorica ogni dimensione del collettivo, del comunitario in una forma di arrogante costrizione, di ostacolo al pieno dispiegamento dell’individuo, spesso ridotto a livelli assai rudimentali, e si alimenta un’idea di potere indefinito e infinito (alla Michel Foucault), che è impossibile contrastare e tanto meno sconfiggere. Il problema è che proprio questa forma di tematizzazione del potere priva gli eventuali oppositori di qualsiasi arma adeguata al suo rovesciamento e trasforma la condizione esistenziale dell’individuo della società capitalistica in “un immutabile carattere cosmico dell’uomo, anzi l’immutabile carattere cosmico di ogni essere”. Con queste parole György Luckács descrive come uno dei fondatori dell’irrazionalismo, che ha ovviamente radici filosofiche più antiche, Arthur Schopenhauer, trasforma l’egoismo borghese in entità transtorica, privandolo di ogni connotazione storico-sociale (La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959: 211).
Nell’analisi di Clouscard il blocco politico, che sta dietro alla nuova fase capitalistica, è costituito dall’imperialismo statunitense, dalla corporatocrazia penetrata dal capitale transnazionale e dal regionalismo, il cui obiettivo è rappresentato dal cambiamento della funzione dello Stato. Questo intende dissolvere la Nazione, concepita come il complesso delle istituzioni costruite dall’azione delle masse in senso repubblicano, democratico, socialista, patriottico, per dominare sulla popolazione distolta dalla sua autentica meta e spinta al consumo compulsivo e all’irresponsabilità.
In Italia, divenuta unitaria sulla base di un progetto moderato, si è realizzato lo stesso processo ma con modalità diverse, in particolare con l’attacco alla Costituzione del 1948, del resto mai applicata nella sua compiutezza, o volutamente mal interpretata. In particolare, con l’attuazione della cosiddetta autonomia differenziata -secondo le parole del costituzionalista Gaetano Azzariti- si frantuma “il regionalismo solidale”, previsto dalla nostra Carta, finendo col non rispettare l’art. 2 [10]. Questo “non si accontenta di assicurare (solo) i livelli essenziali dei diritti civili e sociali (i famosi Lep), ma pretende di garantire i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale su tutto il territorio nazionale” (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/04/14/un-altro-regionalismo-e-possibile/).
Naturalmente, in entrambi i paesi, il regionalismo ha lo scopo di indebolire lo Stato, che diventa sempre meno in grado di controllare la penetrazione del capitale transnazionale, che si appropria della gestione dei servizi essenziali (salute, scuola, trasporti, autostrade), operando per di più in regime di monopolio. Da aggiungere che questo Stato e i suoi “servitori” sono i primi a sostenere questa trasformazione, mettendo questa istituzione non più unificante al servizio di chi non ha nessun interesse a promuovere la soddisfazione delle esigenze dei cittadini.
Come abbiamo potuto osservare negli ultimi decenni, per realizzare questo obiettivo si è smantellato il sistema parlamentare (ciò è avvenuto in tutti i paesi a capitalismo avanzato dove il parlamento aveva una vera funzione), ma anche le istituzioni collettive (come il sistema educativo e formativo), che avrebbero dovuto dare impulso alla formazione del cittadino quale agente politico cosciente.
Molto profonde sono le pagine, in cui Clouscard, che è anche un grande romanziere legato alla “scienza sociale” di Balzac, di de Maupassant etc., in cui immagina una grottesca riunione dei grandi dirigenti, tra cui spicca Publicitus, ministro delle Arti dell’emancipazione e della pubblicità nel paese del Grande Mercato. Per rilanciare gli affari e il commercio, uesQuestiQquesti propone di ripiegare sulla promozione senza limiti del desiderio: “Il faut libérer le grand flux du désir, promouvoir les modèles de la émancipation transgressive, exalter la production des secteurs promotionnels ». Il Grande Boss annuisce: «On doit se libérer de vieux tabous, des complexes…Mais ne craignez-vous pas les forces répressives, les ouvriers, avec leur revendications alimentaires et quantitatives, leur moralisme mesquin et répressive?» E, mostrandosi indulgente con il consumatore trasgressivo, ma punitivo verso i produttori, aggiunge: “S’il ne veut pas de la poésie il aura du bâton” (pp. 91-93). Del resto, qualcuno dovrà pur produrre senza posa gli oggetti di un desiderio insaziabile, la maggior parte dei quali non potrà nemmeno consumare.
Si potrebbe aggiungere che stiamo assistendo un vertiginoso aumento della povertà e della popolarizzazione sociale: in Francia il tasso di povertà ufficiale è attestato al 14,6%, ma probabilmente è più alto; in Italia, invece, in seguito alla pandemia e agli aumenti dei costi energetici, abbiamo circa 5 milioni e 700.000 poveri. Tutto questo ci fa pensare che lo spazio per l’ideologia del desiderio si vada inevitabilmente a ridurre [11]. Eppure riesce a resistere e non solo tra i più benestanti, ma anche tra i meno agiati, i quali si lasciano attrarre da ciò che Balzac chiamò l’oppio della miseria, da cui Marx trasse una delle sue definizioni di religione. Nei Quaderni dal carcere Gramsci dedicò una pagina all’argomento, in cui ricorda le riflessioni di Benedetto Croce sulle opere di Matilde Serao, la quale descrive le grandi speranze che il gioco del lotto alimenta per una settimana nel popolo napoletano (oggi le estrazioni avvengono praticamente ogni minuto e i tipi di gioco sono innumerevoli).
A proposito del lotto, scrive Balzac, fonte di ispirazione della Serao: «Cette passion, si universellement condamnée, n’a jamais été étudiée. Personne n’y a vu l’opium de la misère. La loterie, la plus puissante fée du monde, ne développerait-elle pas des ésperances magiques? Le coup de roulette qui faisant voir aux joueurs des masses d’or et de jouissances ne durait que ce que dure un éclair. Quelle est aujourd’hui, la puissance sociale qui peut, pour quarante sous, vous rendre heureux pendant cinq jours et vous livrer idéalement tous le bonheurs de la civilisation?» (https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2014/09/12/la-religione-il-lotto-e-loppio-del-popolo/).
Questo gioco e giochi assimilabili, che oggi si sono spaventosamente incrementati, costituiscono -vale la pena ribadirlo riprendendo le memorie di Giacomo Casanova- una tassa volontaria e, in quanto tale, non può suscitare disappunto e quindi è altamente consigliabile che i politici la introducano e la mantengano.
Naturalmente vi sono altri aspetti importanti che, secondo Clouscard, legano l’ideologia del desiderio al neo-fascismo, i quali scaturiscono dalla mescolanza confusionista e, se vogliamo sincretica, del pensiero di tre autori in senso diverso seminali: Marx, Freud e Nietzsche. Per esser realizzato tale sincretismo prevede nella prima fase privare Marx e Freud dei loro fondamenti scientifici, abbandonando il concetto di lavoro astratto che misura la produzione, da un lato, e dall’altro, non solo cancellando il ruolo della famiglia nella sollecitazione del desiderio, ma opponendosi anche alla capacità di quest’ultima di contenerlo. Il risultato è l’enfasi su un desiderio astratto, decontestualizzato, infinito, mescolato con la dimensione dionisiaca e vitalistica di Nietzsche, dal quale scaturisce un ribellismo individualistico, irrazionalistico, antistituzionale, che evoca l’ideologia fascista del primo Mussolini e che confonde inconsapevolmente o consapevolmente la destra con la sinistra. Abbiamo visto prestigiosi intellettuali e perfino forze politiche significative che si sono ispirate a questo pluralismo confusionista, che non ha prodotto nessun risultato, anzi ci ha fatto arretrare sul piano politico.
Clouscard lo definisce anche neo-populismo caratterizzato dallo spontaneismo che valorizza l’azione delle masse, le quali debbono liberarsi dall’organizzazione costrittiva e repressiva dei partiti e dei sindacati colpevoli di averle tradite. A queste forme organizzative, non certo prive di difetti, viene opposto il ruolo di una sorta di élite che conosce a fondo i desideri delle masse e sa guidarle per realizzarli. Come si vede, non si tratta di un discorso esplicitamente fascista ma che mostra in germe come il populismo potrebbe svilupparsi, manipolando lo spontaneismo irrazionale verso il conseguimento di finalità autoritarie.
In definitiva, il filosofo francese riprende il grande tema sviluppato da György Lukács, di cui adotta anche il termine confusionismo, nell’ingiustamente tanto criticato da certuni celebre volume La distruzione della ragione (1959), che pone in relazione le correnti irrazionalistiche occidentali con la necessità da parte della classe dominante di impedire l’avanzamento della classe lavoratrice, disgregando, o piùesattamente decostruendo, la nozione di progresso, di matrice illuministica e umanistica, e attaccando le organizzazioni di massa. Irrazionalismo che, come ormai diventa sempre più chiaro, è indissolubilmente legato alla fase imperialistica del capitalismo -come sosteneva il grande marxista ungherese- e che oggi si mostra nei suoi aspetti più aberranti e disumani. Basti qui citare il celebre, perché ampiamente pubblicizzato, filosofo Slavoj Žižek, il quale afferma con disinvoltura: “dobbiamo assumere il nostro destino come catastrofe” (cit. in Bellamy Foster J., Il nuovo irrazionalismo, (https://contropiano.org/fattore-k/2023/03/16/il-nuovo-irrazionalismo-un-saggio-della-monthly-review-0157665).
In questa prospettiva, alla classe dominante è straordinariamente utile la negazione della storia, che si cristallizza nella nozione lévi-straussiana di inconscio strutturale, ripreso dalla linguistica, e che rappresenta una sorta di dimensione pre-culturale, selvaggia, ante-predicativa, pre-discorsiva che anticipa l’istanza economico-sociale della produzione. Dall’altro lato, procedendo secondo la medesima logica destoricizzante anche l’industria viene considerata “un astratto e transtorico fenomeno”, che con il capitalismo ha separato ideologicamente l’uomo dalla natura, ma che di fatto sono tutt’uno; pertanto, è indispensabile disumanizzare l’uomo e denaturalizzare la natura ripristinando nell’oggi le antiche concezioni animistiche (Bellamy Foster, Ibidem), con le quali si vuole scardinare la razionalità scientifica non identificabile tout court con quella capitalistica.
Citando Émile Durkheim, si potrebbe affermare che queste tendenze culturali sanno soltanto opporre in maniera binaria e volutamente sconcertante (individuo/società), o assimilare (umanità/natura), dimostrando di essere incapaci di cogliere le sfumature, le parziali similitudini, e la complessità della relazione identità / contraddizione.
Nello stesso tempo, ci dice Clouscard, l’allontanamento dalla storia e l’oscuramento della vita sociale e produttiva generano una sorta di schizofrenismo, che caratterizza, per esempio, l’artista, il quale separato dalla storicità e dalla quotidianità, si ritiene l’unico in grado di cogliere ciò che sta dietro (in termini kantiani il Noumeno), il desiderio originario (in termini deleuziani), la cui dinamica ha la funzione di contestare l’esistente. Pertanto, lo schizofrenismo distacca gli individui dalla vera socialità da trasformare e li indirizza verso un livello inconoscibile, inafferrabile, cangiante a seconda dell’interpretazione elaborata (Nietzsche: “non esistono fatti, solo interpretazioni”), nel quale si realizzerebbero le loro vere e autentiche aspettative.
Se da un lato, l’ideologia del desiderio frantuma la moralità tradizionale e mette in crisi le istituzioni collettive, consentendo al capitale transnazionale di dominare, facendo credere che chi si subordina alle sue lusinghe si sta ribellando contro di esso; dall’altro, destrutturando l’opposizione, “reduite au spontanéisme groupusculaire”, il neofascismo culturale spinge all’esasperazione del consumismo trasgressivo, che implica il disprezzo nei confronti del lavoratore che produce e non consuma, privandolo della sua persona politica e sociale. Per Clouscard esso non si esprime solo nella repressione da parte dello Stato, che pure c’è, ma anche e soprattutto nella dissoluzione del soggetto politico, dal quale di fatto nella prassi scaturisce il desiderio, generato dalla relazione di classe tra produzione e consumo. Invece, nell’ideologia del desiderio, quest’ultimo precede la stessa prassi, divenendo esso stesso fonte di produzione e dispiegandosi in flusso continuo, mirante all’appagamento immediato.
La profonda riflessione del filosofo francese può essere articolata tenendo in conto un’autrice russa, non credo molto conosciuta in Italia, Kete Chuckhrov, la quale esamina assai criticamente tutti quegli autori già studiati dal primo, cui aggiunge i loro successori, collocandoli tutti in una corrente che critica aspramente il capitalismo, ma che di fatto da esso inconsciamente non vuole redimersi. Naturalmente in questa sede non può essere analizzato nella sua complessità il difficile e bel saggio della filosofa e poetessa russa, intitolato Practicing the Good: Desire and Boredom in Soviet Socialism (Eflux Architecture, Minnesota University Press 2020), ma si possono fare alcuni brevi cenni, sempre nella prospettiva, che segnala lo stretto legame tra le cosiddette teorie critiche e l’illusione di poter emanciparsi, esasperando alcuni aspetti dello stesso capitalismo.
Menzionando gli scritti di Deleuze e Guattari, di Jean François Lyotard, di Cornelius Castoriadis, la Chukhrov ribadisce come questi autori considerano, da un lato, il desiderio costitutivo della produzione capitalista e della sua economia volta ad estrarre il surplus; dall’altro, proprio perché fondato sul differimento della sua soddisfazione e sul senso di mancanza di oggetti feticci, queste generano un’avidità senza fine dalla forza sovvertitrice. Questi autori, in particolare Lyotard, mettono proprio l’accento su questa dimensione patologica del desiderio, la quale avrebbe il potere di resistere alla repressiva società capitalistica, identificata con lo Stato sociale in generale in quanto fondato sull’ordine, come del resto ogni tipo di organizzazione sociale, compresa quella socialista. In definitiva, si può resistere al capitalismo soltanto adottando la logica del nastro di Möbius (una superficie non orientabile e con una sola faccia), secondo cui l'alienazione può essere superata solo con un'alienazione ancora maggiore. Seguendo questo percorso, non realmente eversivo del capitalismo, secondo la studiosa russa si giunge all’aberrazione di confondere l’alienazione estetizzante con l'autentica emancipazione. A suo parere, pertanto, in questo caso l’aberrazione si palesa nel concepire la libidinalità come una sorta di forza rivoluzionaria diretta contro l'ordine dominante, che si serve di quest’ultima per mantenerci asserviti.
Molti interessanti sono, inoltre, le argomentazioni impiegate dalla Chuckhov per spiegare il legame tra le condizioni sociali e la produzione filosofica di questi autori ribelli, in particolare due mi sembrano straordinariamente significative. In primo luogo, ricorda che, nonostante tutto, la Rivoluzione d’Ottobre, i cui sviluppi successivi allo stalinismo sono stati del tutto cancellati dagli anti-marxisti e anti-sovietici, ha di fatto spazzato quelle istituzioni, considerate alienanti da Marx, come la proprietà privata, la produzione del surplus, il consumo feticizzato, l’etica e l’estetica della libidinalità. Processo in una certa misura inaccettabile da parte di quelle classi privilegiate, cui in parte appartengono gli intellettuali, che si trovarono soffocate da un’uguaglianza livellatrice imposta e con risvolti fortemente limitanti. Facendo il parallelo tra la psicoanalisi e la psicologia sovietica, la studiosa russa evidenzia le modalità diverse con cui le due tendenze affrontano il principio del piacere. Per esempio, il noto psicologo Lev Semënovič Vygotskij spesso traduce il termine piacere con la parola necessità, che colloca nella dimensione sociale e collettiva, in armonia con la psicologia sovietica. A differenza della psicoanalisi e della ideologia del desiderio, gli psicologi sovietici partivano dall’assunto che le funzioni sociali precedono gli istinti e, pertanto, la dimensione inconscia. In questa prospettiva, contro Jean Piaget, Vygotskij sostiene che la soddisfazione dei bisogni (il piacere) non può esser scissa dall’adattamento sociale alla realtà, riuscendo in questo modo a mantenere uniti il principio del piacere e il principio di realtà, inteso come adeguamento ad una specifica dimensione collettiva preesistente, che a sua volta produce i nostri bisogni.
D’altra parte, molto acutamente la filosofa russa nel suo scritto richiama l'attenzione del lettore sul fatto che i pensatori della sinistra occidentale (come esempio cita Alain Badiou e Étienne Balibar) si sono dichiarati pienamente disponibili a riconoscere il valore della Rivoluzione Culturale Cinese e del Maoismo, ma hanno ritenuto non rilevante l’esperienza sovietica, che sicuramente non poté avanzare compiutamente in senso emancipatorio. A parere della Chukhrov, ciò è avvenuto perché il movimento maoista era antisovietico e non per caso. Infatti, nel 1972, nel contesto della Guerra fredda e dello scontro tra sovietici e cinesi, avvenne lo storico accostamento tra gli Usa e la Cina, i cui protagonisti furono Henry Kissinger, Richard Nixon e Mao Zedong, che avvicinò il grande paese asiatico all’Occidente.
Le ragioni di questi eventi, che posero ai margini l’URSS ed esaltarono l’immaginazione di alcuni critici del capitalismo, che videro nel modello cinese una modalità diversa, benché assai lontana dal capitalismo avanzato, di uscire da quest’ultimo; ma non tennero in conto le vere ragioni dell’evento: gli Usa volevano approfittare dei dissidi tra le due potenze socialiste, penetrare nel grande mercato cinese, dominare la regione del Pacifico in cambio del riconoscimento formale della teoria dell’unica Cina. Come oggi sappiamo, date queste premesse, l’alleanza si è trasformata in un aspro conflitto.
Ritornando al libro di Clouscard e facendo tesoro delle note dell’autrice russa, mi concedo due ultime osservazioni per concludere queste brevi riflessioni. Naturalmente non si può non concordare con Clouscard, quando afferma che la cosiddetta liberazione del desiderio non potrà che avvenire quando i lavoratori si troveranno nelle condizioni di riappropriarsi di quanto producono; il che coincide, vuoi o non vuoi, con l’abolizione della proprietà privata e la socializzazione dei mezzi di produzione. Inoltre, occorrerebbe tenere presente che ogni forma di pensiero è sottoponibile allo stesso trattamento analitico e decostruttivo, cui sottopone l’oggetto del suo esame, ossia sostanzialmente riconducendola alle sue radici storico- sociali e all’idea di società implicitamente da essa adottata. Nel loro impeto distruttivo i sostenitori dell’ideologia del desiderio non sembrano esser stati consapevoli che questo stesso metodo può esser applicato alle loro produzioni, come del resto fa abilmente Clouscard per far venire alla luce il loro significato profondo.







































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