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la citta futura

COVID-19, l’untore dell’economia mondiale

di Ascanio Bernardeschi

I danni economici del Coronavirus resi palesi e quelli messi sotto il tappeto del capitalismo mondializzato. I meccanismi monetari e di bilancio per far fronte alla crisi impongono di riscrivere radicalmente le regole europee. Occorre ripristinare il ruolo dello stato nella gestione dei servizi essenziali e nella pianificazione economica

9d7c2d4b3357e7ba03c3b8ad3fb9a8b0 XLDal giornale della Confindustria, ai centri studi mainstream e alle agenzie internazionali giunge un messaggio preoccupato per l’emergenza economica che, a loro dire, sarà conseguenza di quella sanitaria: la prossima crisi economica sarà da pandemia di COVID-19! Così anche questa volta, come avvenne con i mutui subprime, abbiano trovato il colpevole della crisi profonda da cui il capitalismo mondiale non riesce a tirare fuori le gambe.

Viene tenuto in ombra che i fondamentali dell’economia erano già pessimi anche senza virus. In Italia le cose stanno andando molto peggio che nel resto dell’Europa. Per esempio i lavoratori in cassa integrazione nel 2019 erano aumentati del 79% rispetto all’anno precedente. Le previsioni dell’Istat per il 2019 indicavano una crescita del Pil di un misero 0,2% e, ottimisticamente, dello 0,6% per quest’anno, avvertendo però che le cose sarebbero potute andare peggio. E stavano andando in effetti peggio anche a causa della guerra commerciale in atto. Ma la previsione più importante dell’Istat è la “decelerazione”, più accentuata nel 2020, del ritmo degli investimenti, che poi sono il traino dell’economia e il cui andamento negativo anticipa regolarmente le crisi.

A fronte di un’economia reale in stasi dal 2011, ove si escludano le performance della Cina e di altri paesi emergenti, e che anzi aveva manifestato negli ultimi mesi del 2019 chiari segnali di una nuova recessione in arrivo, dal 2008 le quotazioni di borsa si sono gonfiate a dismisura producendo una nuova gigantesca bolla finanziaria. Le crisi si manifestano quasi sempre nella forma dello scoppio di una bolla. Lo sciocco o l’economista in malafede vede solo lo spillo che la fa scoppiare, non la bolla stessa. E questa volta lo spillo è servito su un vassoio d’argento da un minuscolo, insidioso virus.

Così, per esempio, si può smettere di parlare dei motivi e delle ripercussioni della guerra dei dazi che Trump ha dichiarato ai concorrenti nei mercati internazionali, o del fallimento delle ricette economiche praticate dagli anni 80 in poi.

L’impatto di una pandemia diffusa era già stato calcolato in anticipo nel 2019 da Victoria Fan e altri nella misura dello 0,6% del Pil mondiale, pari a 500 miliardi di dollari all’anno e circa il triplo dei danni causati dai mutamenti climatici. La Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state ancora più pessimiste: uno shock intorno ai 3 mila miliardi di dollari. Più modesta Confcommercio che parla di uno 0,3-0,4/%. Goldman Sachs ha stimato che l'economia americana si contrarrà del 5% nel secondo trimestre 2020. Christine Lagarde ipotizza per l’Eurozona una diminuzione della crescita del Pil dello 0,3% in confronto alla pur minuscola previsione a.v. (avanti virus) del 1,1.

Veniamo all’Unctad (United Conference on Trade and Development, agenzia dell’Onu). Ai primi di marzo stima i danni dell’epidemia cinese. La produzione manifatturiera è scesa di quasi il 46%. Questo contraccolpo si riverserà sui paesi che esportano materie prime verso la Cina, oltre che sui fornitori di beni di consumo e sul turismo. Inoltre molte attività occidentali subiranno contraccolpi in una misura che dipenderà dal loro grado di dipendenza dall’interscambio con la Cina. L’Unione Europea, con 15.597 miliardi di dollari sarà il danneggiato numero uno, seguita a distanza dagli Usa (5.779), dal Giappone (5.187) e dalla Corea del Nord (3.816). Complessivamente, la diffusione dell’epidemia cinese farà perdere 2 mila miliardi di dollari e la crescita annuale diminuirà del 2,5%, cioè saremo ai limiti della recessione. Ammesso che la “perdita di fiducia” e alcune insolvenze non inneschino un crack ben più grave.

La faccenda si metterà malissimo per l’economia italiana già con l’encefalogramma piatto. Il Sole 24 Ore, riportando alcune stime di Confcommercio, Banca d’Italia, Prometeia, Moody’s ecc, riferisce le possibili ripercussioni della malattia sull’economia domestica che “minaccia i ritmi di crescita già fiacchi”. Se il blocco si protrarrà fino a maggio, la perdita sarà dai 5 ai 7 miliardi di euro, la riduzione del pil dello 0,2-0,3%. Il settore del turismo ha già subito danni ingenti con disdette che variano dal 40 al 90%, che, secondo “una stima prudenziale”, fanno 5 miliardi. 4,4 milioni hanno perso i cinema in un solo week end di emergenza nazionale. Il settore auto avrà un calo del 2,5%, dovuto però anche alle nuove norme sulle emissioni. Anche le esportazioni diminuiranno, perché molte delle provincie del Nord più colpite sono forti esportatrici. E poi vengono le fiere, il “food & wine”, la moda, con tante cifre snocciolate che evitiamo di riportare.

Completiamo la panoramica con l’Ansa che, oltre a riportare alcuni dei dati visti prima, guarda alla borsa, con l’indice Euro stoxx 600 in calo del 3,75%, cioè, dice, “328 miliardi andati in fumo”, senza accennare che quello che realmente è sparito è una parte dell’enorme bolla finanziaria che si era prodotta e senza dirci che magari ci sarà anche chi ci ha guadagnato scommettendo sui ribassi.

Mi guarderei bene dal contestare tutte queste stime, sia perché non ho gli strumenti per farlo, sia perché la prospettiva di settimane e settimane di stop di molti lavori e il dirottamento di molte risorse per affrontare l’emergenza avranno indubbiamente un serio impatto sulla situazione economica. Quello che invece nessuno dice è che questo virus viene a colpire un corpo, quello del capitalismo globalizzato, già malato e privo dei necessari anticorpi. Un corpo in cui - nonostante l’intensificazione enorme dello sfruttamento del lavoro e dell'ambiente, fino alla messa in crisi dell’ecosistema - i ritmi di accumulazione decelerano.

E anche le capacità di risposta all’emergenza si sono dimostrate del tutto inadeguate. Lo si è visto nel cedimento del servizio sanitario in Lombardia, nonostante il generoso prodigarsi degli addetti, a causa dei tagli alla spesa sanitaria, delle privatizzazioni e della regionalizzazione, che peggiorerebbe con l’autonomia differenziata; e con l’estendersi dell’epidemia la cosa si sta ripetendo in altre regioni, da cui provengono testimonianze drammatiche. Altro esempio è l’insufficiente dotazione di dispositivi per la prevenzione (maschere ed altro), di cui scioccamente era stata cessata la produzione, contando nel mercato globalizzato, e che oggi si trovano solo a prezzi stratosferici oppure sono stati requisiti dai rispettivi governi.

Lo sforzo e i costi che siamo chiamati a sostenere per far fronte all’emergenza, sarà fatto pagare ai soliti noti, ai lavoratori, ai pensionati, ai servizi pubblici, se non facciamo tesoro degli insegnamenti di questa crisi per pretendere un netto cambio di direzione. L’epidemia infatti mette allo scoperto una serie di fragilità delle nostre società.

Un elemento è l’urbanizzazione esasperata che ammassa milioni di persone in pochi centri congestionati, in cui nonostante tutte le restrizioni possibili il virus può circolare tranquillamente. Inoltre le condizioni ambientali di questi territori congestionati, lo smog ecc. è causa di patologie respiratorie e di altro genere. Sappiamo che i soggetti portatori di queste patologie hanno meno speranza di sopravvivere al virus.

Un altro elemento è la mondializzazione del mercato che comporta la circolazione abnorme, e veloce il più possibile, di merci e persone da un paese all’altro. Il che ha favorito la diffusione rapida della pandemia.

Un altro ancora è l’emarginazione delle popolazioni autoctone delle aree neocoloniali, espulse verso territori esclusi da ogni presidio e a contatto con specie animali selvatiche che possono favorire il cosiddetto salto di specie, verificatosi in occasione di altre recenti epidemie e da qualcuno indicato come causa di questa.

Non va dimenticato inoltre che anche la scienza è subordinata al profitto e fuori dal controllo democratico. L’altra ipotesi, tutta da verificare ma che non può essere esclusa a priori, della produzione di questi virus in laboratorio, per scopi pacifici o meno, sarebbe da rigettare se determinate ricerche e manipolazioni avvenissero alla luce del sole e non nella segretezza, come è allo stato attuale.

A livello globale abbiamo investito poco per decenni nella ricerca sulla prevenzione delle malattie infettive, perché i profitti si fanno se la gente si ammala. Molto più redditizie per gli azionisti sono le ricerche e la produzione di farmaci contro patologie o pseudo patologie dei ricchi. In particolare non fanno business ed anzi sono controproducenti gli investimenti nella sanità pubblica e nella prevenzione. Ecco i tipi di vulnerabilità delle società il cui movente unico è il profitto.

Con molta probabilità la cosa sarà ancora più evidente negli Usa, dove, nonostante il notevole vantaggio di tempo goduto (sono trascorse molte settimane dall’inizio dell’epidemia in Cina e nel frattempo si potevano prendere delle misure), il sistema sanitario completamente privatizzato e l’individualismo esasperato potrebbero condurre a una strage di poveri che non possono permettersi l’assicurazione privata. Se da noi, in carenza di strutture, è stata ipotizzata la selezione dei curabili sulla base dell’età, ove vige l’American lifestyle sarà la ricchezza il criterio oggettivo di selezione.

In questi giorni stiamo assistendo a un tripudio di inni nazionali, filmati retorici sulla grandezza della nostra patria che resiste, frasi sull’eccellenza della nostra sanità. Tutti stratagemmi per nascondere la realtà fatta di tagli al sistema sanitario pubblico, di favori a quello privato, di speculazioni sulla realizzazione di nuovi ospedali. Il pericolo che di questa crisi, con espedienti subdoli e di facile attecchimento, possano avvalersi le forze più retrive è evidente. Dobbiamo lavorare invece perché prevalga la capacità di riflettere sui guasti delle politiche liberiste e del capitalismo tout court. Il monito di madre natura ci obbliga a costruire prospettive della nostra società in termini più saggi e solidaristici.

Sulle risposte che sono in campo per affrontare di petto l’emergenza e sulle prospettive ci occuperemo di seguito.

L’uscita dalla situazione venutasi a creare con questa pandemia non è semplice e riguarda sia l’emergenza che la successiva riparazione dei danni, sia gli aspetti economici e finanziari che quelli medici e più in generale legati al modello di società che dovrebbe essere progettato, visto che il virus ha messo allo scoperto tutta l’inadeguatezza di quello attuale. In ogni caso, più durerà il fermo di gran parte delle attività, più saranno necessari ingenti risorse economiche per affrontare l’emergenza e la successiva ricostruzione.

Le proposte in campo sono diverse e non sempre adeguate. Soprattutto, purtroppo sono inadeguate quelle che sta adottando chi detiene le leve della politica economica, in primis l’Ue e la Bce.

In Usa la Federal Reserve ha messo in atto un massiccio quantitative easing (Qe) da 700 miliardi di dollari e Trump ne promette altri 2 mila. Sulla sua scia anche la Bce, dopo la gaffe (ma è stata davvero una gaffe?) della sua governatrice, Christine Lagarde, che ha suscitato le ire perfino del fin troppo cauto Mattarella, ha lanciato un analogo piano da 750 miliardi. Il problema di un simile approccio è che in assenza di un intervento nel “mercato primario” (tradotto: nell’acquisto di titoli di stato direttamente presso il tesoro emittente), o almeno la modifica di alcune regole di modo che gli istituti di credito siano messi in condizione di detenere la loro riserva presso la banca centrale in titoli di stato, gli acquisti da parte della Bce di titoli del debito pubblico presso il sistema bancario serviranno solo a sgravare le banche del fardello di bond che il mercato tende a svalutare in relazione al rischio di solvibilità degli stati. Le stesse banche potranno utilizzare la nuova liquidità ottenuta in maniera speculativa (di solito prestano l’ombrello quando non piove!), creando le premesse per ricostruire la bolla speculativa fino al prossimo scoppio, e gli stati dovranno continuare a dipendere dagli umori dei mercati, pagandoli in termini di elevati tassi di interesse. Questa grossomodo è la storia del quantitative easing di Draghi. Una manovra monetaria espansiva sarà certamente necessaria, ma da sola, e fatta con queste modalità, non sarà risolutiva.

Il timore che si tenti di costruire la ripresa sulla base di un traballante castello di carte è suffragato dall’annuncio che la vigilanza della Bce autorizzerà le banche a una maggiore flessibilità gestionale cioè a utilizzare pienamente "i cuscinetti di liquidità e capitale” e operare "temporaneamente sotto il livello di capitale Pillar 2” per fronteggiare l'emergenza. Questo, tradotto per noi profani, significa che anche con le banche si chiuderà un occhio, che in questa fase non verrà richiesto tutto quanto è stato preteso da loro in precedenza: ricapitalizzazione o commissariamento, se non addirittura fallimento, come è avvenuto con le vicende di Monte dei Paschi, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Etruria, Carige e molte altre, non verrà richiesto.

Molto più interessante, anche se ancora insufficiente, è l’annuncio della sospensione del patto di stabilità. Ci voleva il coronavirus per capire che non si può rispondere alle crisi con una politica di bilancio austera! Anni e anni di tagli hanno ridotto la sanità italiana (e a quanto pare, sia pure in misura variabile, quella degli altri partner europei) ai minimi termini e ai loro sostenitori andrebbero addebitati tutti i danni e le vittime conseguenti alla assoluta incapacità del nostro sistema sanitario di far fronte a questa emergenza. Per non parlare della scuola, delle pensioni, della svendita delle industrie pubbliche ecc. Il popolo greco, messo alla fame dalla Troika a causa dell’insostenibilità di queste regole, avrà probabilmente qualcosa da dire a questo proposito. Si cerca ora di chiudere la stalla quando molti buoi sono scappati, tuttavia non sottovalutiamo l’importanza di questa decisione, che tuttavia è dubbio che possa preannunciare un ripensamento delle stesse basi su cui si è costruita l’Unione Europea a Maastricht, dimostratesi del tutto controproducenti, oltre che arbitrarie.

La sospensione non significa ancora la revoca di queste regole, una parte delle quali peraltro parrebbe rimanere, come quella della separatezza della politica monetaria, di pertinenza di una Bce indipendente, da quella fiscale, di pertinenza dei singoli stati, sia pure all’interno dello strettissimo recinto delle regole europee. Sono invece proprio i “valori”, nella duplice accezione del termine, della fondazione europea che debbono urgentemente essere messi in discussione. E comunque anche una revoca del patto di stabilità o una sua sospensione sine die non sarebbe sufficiente. Perché in questo modo si consentirebbe agli stati di produrre deficit in eccedenza rispetto al 3% del Pil e debito in eccesso rispetto al 60% del Pil, senza l’obbligo di rientrarvi nell’immediato con manovre lacrime e sangue. Però si produrrebbe comunque un debito che, anche per l’assenza di una sovranità monetaria, verrebbe sottoposto ai giudizi del mercato. Il quale pretenderà alti tassi di interesse, cosa che in questa complessa situazione non possiamo assolutamente permetterci. Inoltre le regole europee, se ammettono lo sforamento dei parametri in circostanze eccezionali come questa, impongono un rientro nel medio tempo. Lo spettro del fiscal compact, cioè l’obbligo di rientro a ritmi forzati, oppure del Mes, cioè il “salvataggio” subordinato al sostanziale commissariamento da parte della troika, si insinuerebbe nella nostra non lontana prospettiva.

Questo timore è rafforzato dall’ultima uscita di Mario Draghi. Paragonando la situazione attuale a uno stato di guerra, tira fuori dal cilindro la soluzione dell’indebitamento pubblico. Come durante le guerre, gli stati, indebitandosi, dovrebbero, secondo lui, farsi carico dei problemi del sistema delle imprese che non è non in condizione di far fronte ai propri debiti. Gli stati dovrebbero costituire un fondo di garanzia di modo che le banche possano erogare credito ai privati, a tasso vicino allo zero, a prescindere dalla loro capacità di restituzione, perché in caso di insolvenza interverrebbe lo stato. Banche e imprese, insomma, non rischierebbero niente e il debito privato si trasformerebbe in pubblico, più di quanto, aggiungo io, non sia avvenuto finora attraverso differenti meccanismi.

Notate bene, non è che Draghi abbia un ripensamento sulla criminalizzazione del debito pubblico, criminalizzazione che proprio sotto la sua presidenza alla Bce ha condannato la Grecia. No, gli stati si devono indebitare perché siamo in guerra. Debbono supportare il sistema delle imprese e i profitti in questo momento di difficoltà. Poi, se ne deduce, finita la guerra, si tornerà all’austerità. E allora è facile immaginare chi pagherà la montagna di debito pubblico accumulata. Tanto per ritornare alla sanità, sarà possibile ricostruirla in termini pubblici e universalistici con dotazioni di strumenti e personale adeguati, o sarà oggetto di ulteriori tagli? E le pensioni, per il cui pagamento cui già oggi l'Inps lamenta la mancanza di fondi in relazione alla sospensione dei versamenti dei contributi, potranno essere adeguate, o ci saranno altri tagli? Insomma l’uomo della troika, che ha avuto un ruolo formidabile nella compressione del tenore di vita dei lavoratori europei, potrebbe girare il coltello nella piaga con l’imposizione di nuovi sacrifici. Tanto più che Draghi si guarda bene dall’invocare un qualche ruolo della Bce nel sostegno del debito pubblico, che verrebbe così lasciato nelle mani della speculazione, con la conseguente ascesa dei tassi.

Alla gravità della proposta economica si aggiunge il pericolo della sua acclamazione da parte delle destre, di Renzi, di europeisti e di settori del Pd come uomo della provvidenza. A economia di guerra potrebbe associarsi politica di guerra, con l’umiliazione degli strumenti democratici, già ampiamente compressi, in un “volemosi bene” che accomuni tutti nella difesa della Patria per sconfiggere il microscopico nemico.

Enrico Grazzini, nel blog di MicroMega, propone di trovare i soldi emettendo titoli fiscali, la “moneta parallela” o “quasi moneta” che aveva ipotizzato a suo tempo Varoufakis e di cui avevamo già trattato tempo fa. Il problema principale di questa soluzione è che lo stato interverrebbe indebitandosi nella sostanza, anche se non formalmente. Infatti questa moneta verrebbe accettata dallo stato in pagamento delle imposte e di altre somme dovutegli, facendo venire meno alla scadenza le corrispondenti entrate di denaro fresco. Gli economisti keynesiani ribattono a questa mia obiezione che tuttavia, la nuova quasi liquidità immessa attraverso questo strumento rilancerebbe l’economia attraverso il moltiplicatore keynesiano e con ciò aumenterebbe il gettito fiscale. Quindi al momento del pagamento delle imposte il bilancio dello stato avrebbe le risorse per permettersi di accettare questa carta in pagamento.

Si tratta di una scommessa che non mi sentirei di sottoscrivere per una molteplicità di motivi. Trattandosi di moneta fiduciaria, potrebbe essere accettata in pagamento solo se il valore all’atto dell’emissione sia notevolmente inferiore a quello di rimborso, la cosa si tradurrebbe comunque in un onere a carico del bilancio dello stato, analogo nella sostanza a quello degli interessi. Altro elemento di criticità è che, per usare un eufemismo, è difficile stimare il moltiplicatore in questo frangente, in cui non sussistono solo problemi di domanda aggregata, ma anche necessità di rimettere in piedi l’apparato produttivo. Infine, una soluzione apparentemente neutrale, che non fa menzione di chi sosterrebbe il carico del maggior gettito fiscale, in realtà neutrale non è in quanto non è difficile prevedere che pagheranno i soliti noti, i lavoratori, a carico dei quali pesa la maggior parte dei proventi fiscali.

Mentre la soluzione prospettata dal responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, cioè quella di chiedere più flessibilità all’Unione Europea, e magari anche qualche soldino, viene scavalcata dai fatti, ormai è assodato che in questa situazione straordinaria verranno chiusi entrambi gli occhi sul debito pubblico. Ma ci sarà prima o poi il problema di restituire i prestiti e di ricondurre tale debito a una misura sostenibile. E anche il denaro fresco, che sarà richiesto da molti, perché molti saranno gli stati in difficoltà, sarà difficile ottenerlo se non viene fatto ricorso a strumenti straordinari.

La durezza dei fatti è che questa epidemia colpisce soprattutto gli operatori sanitari e le classi più deboli: i lavoratori costretti a rischiare l’infezione per tenere in piedi il sistema produttivo, gli anziani a cui spesso è negata la possibilità di cure adeguate perché la carenza di dotazioni impone una selezione, i senzatetto, i carcerati, compresi quelli per brevi detenzioni, messi in libertà dal decreto governativo e che tuttavia sovente devono uscire senza avere la possibilità di trovare un alloggio. A un male di classe debbono corrispondere risposte socialmente giuste.

Le risorse per questa risposta, e per rilanciare il sistema produttivo, oltre che attraverso una maggiore giustizia fiscale e una efficace lotta alle evasioni, debbono essere reperite con misure straordinarie, quali ad esempio quella di una straordinaria stampa di euro con cui acquistare direttamente presso l’emittente “virus bond” o dell’Ue stessa o degli stati nazionali, titoli che dovrebbero essere a scadenza lunghissima, o meglio perpetui, e a tasso bassissimo, o meglio a tasso zero. Il pericolo inflazione non sarebbe la cosa più preoccupante, perché il guaio è proprio che non si riesce a raggiungere il tasso di inflazione obiettivo del 2%, nonostante il quantitative easing di Draghi. Giungerà questa Europa a questa importante deroga alle sue ferree leggi? Il ministro dell'Economia tedesco Altmeier intanto si è espresso contro: "C'è già lo scudo della Bce, non si conducano dibattiti fantasma", ha dichiarato. Dello stesso tenore è la replica del governo olandese. Ma dalla risposta a questo quesito dipenderanno non solo gran parte delle chance di ripresa, ma anche la possibilità di assicurare una coesione dentro l’Ue, la quale, in difetto, andrà giustamente verso l’implosione.

Anche coloro che fin qui hanno sostenuto con fermezza le regole di Maastricht, si stanno ponendo degli interrogativi di fronte alla gravità della crisi. Così la Commissione Ue ha proposto la costituzione di un fondo da utilizzare sia per gli interventi sanitari che per ristorare le “parti più vulnerabili” del sistema produttivo e il commissario Gentiloni, sollecitato dal ministro Gualtieri, ha prospettato “politiche di bilancio coordinate” idonee ad affrontare “iniziative straordinarie”. Da parte sua l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha richiesto, come indispensabile, il ricorso agli eurobond per sostenere i paesi colpiti.

Essendoci focalizzati sui meccanismi finanziari e fiscali europei, abbiamo dovuto lasciare fuori da questa trattazione cose ancor più importanti, quali il ruolo dello stato nella ricostruzione economica, il ritorno a una programmazione, la necessità di realizzare un sistema sanitario interamente pubblico, universale, gratuito e dotato di mezzi adeguati. Peraltro questo giornale ha già trattato alcuni di questi argomenti e ci tornerà ancora. In questa sede mi limito a sottolineare che la crisi sanitaria ed economica potrebbe diventare l’occasione per avviare un radicale cambiamento della nostra organizzazione sociale, anche alla luce dei diversi esiti della crisi nei paesi in cui permane un forte ruolo dello stato rispetto a quelli in paesi, che come il nostro, hanno subito decenni di ubriacatura liberista. Il cosiddetto libero mercato e la logica del profitto non reggono a queste prove mentre la pianificazione democratica rimane la via maestra da perseguire.

Tuttavia chi detiene attualmente il potere, ha in mente prospettive di segno opposto (Draghi docet), pertanto sarà indispensabile la mobilitazione di una ampio fronte popolare per imporre i cambiamenti indispensabili.

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Comments

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marku
Tuesday, 31 March 2020 16:41
il cannibale dell'€urototem
uomo di punta delle €lites
nonchè probabile futuro
successore
dell'avvocato del popolino
seguace di padre pio
evocando la guerra
non dice,
perchè le merdacce come lui
così sempre fanno
almeno QUATTRO cose fondamentali
1) che la guerra è stato uno scontro militare
tutto interno al campo capitalista
tra due fazioni distinte
delle borghesie imperialiste
per l'accapparramento delle
materie prime necessarie
alle industrie del mondo occidentale
e dell'impero del sol levante
2) che la guerra è stata si finanziata col debito pubblico
ma combattuta dalle genti
che si sono massacrate
come sempre
o per l'orgoglio sovranista
o per la superiorità di razza
o per uno supposto scontro di civiltà.
3) che la guerra è stata vinta con il contributo fondamentale
delle genti dell'UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE le quali hanno infine sbaragliato e demolito
la germania nazista.
4) che anche in tempo di guerra mentre le genti
subivano
lutti, distruzioni, fame e malattie
pescecani
come in italia la famiglia
agnelli
si ingrassavano
con l'economia di guerra.

Il signor draghi è
UNA MERDACCIA
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