Tre cose per cominciare a cambiare tutto
di Nello Stagno
Una nuova ricetta economica deve partire dalla centralità della domanda interna, dalla crescita dei salari reali e dalla trasformazione strutturale del tessuto produttivo
Il 17 ottobre Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti hanno lanciato su questa rivista un appello a riallacciare i fili di un discorso che leghi la teoria economica critica e la politica, al fine di proporre un programma per l’alternativa. Senza indugi, e consapevoli del rischio di semplificare questioni per loro natura enormemente complesse, proveremo a immaginare un programma minimo articolato attorno a tre pilastri: i) una politica di bilancio volta alla crescita, allo sviluppo e alla piena occupazione, coadiuvata da necessari controlli sui movimenti di merci e capitali imprescindibili per immaginare un sistema di tassazione equo, che redistribuisca le risorse e che liberi i salari dalla minaccia delle delocalizzazioni; ii) una politica industriale che rimetta al centro il ruolo dello Stato come produttore; iii) istituzioni del mercato del lavoro che coadiuvino la piena occupazione e la rendano anche «buona» e che favoriscano il conflitto distributivo a favore dei lavoratori con aumenti considerevoli dei salari reali.
Premesse e proposte per una politica fiscale espansiva
L’austerità – nel contesto istituzionale dell’Unione europea – è stata lo strumento principe attraverso il quale le classi dominanti hanno portato il loro attacco allo stato sociale, indebolito i servizi pubblici, aggravato le diseguaglianze e logorato le basi stesse della democrazia economica. La riduzione del ruolo dello Stato a mero garante dei mercati e regolatore della concorrenza ha prodotto una società fragile, impoverita e incapace di affrontare la transizione ecologica e tecnologica che pure invoca. In Italia, l’austerità è stata perpetuata senza interruzioni da tutti i governi – di centrodestra, centrosinistra e tecnici – che si sono susseguiti dagli anni Novanta a ora. Se infatti si guarda al saldo primario di bilancio (la differenza, cioè, tra spese ed entrate delle pubbliche amministrazioni, prima di contare la spesa per gli interessi sul debito pregresso) si noterà che l’Italia è stata tra i più virtuosi d’Europa, vivendo in una sorta di regime di «austerità permanente» tanto che, con l’eccezione degli anni del Covid e del 2009, dal 1992 in poi – e il Governo Meloni non fa eccezione – si sono conseguiti sempre sostanziosi avanzi primari.
La letteratura economica, tuttavia, ha ampiamente dimostrato che – al contrario di quanto previsto dalle regole europee e applicato dai governi italiani – le politiche di bilancio espansive, fondate principalmente sull’aumento della spesa pubblica, sono efficaci nello stimolare la crescita, ridurre la disoccupazione e rilanciare consumi e investimenti privati, stagnanti in Italia da diversi decenni. Diverse ricerche mostrano come i moltiplicatori fiscali siano generalmente superiori a uno: ciò significa che ogni euro di spesa pubblica aggiuntiva genera un incremento più che proporzionale del Pil, grazie agli effetti positivi su consumi e investimenti privati. Questi incrementi di spesa producono effetti positivi sull’occupazione, sia diretti – quando lo Stato assume personale o finanzia opere pubbliche – sia indiretti, poiché la maggiore domanda di beni e servizi stimola le imprese ad aumentare la produzione e, di conseguenza, l’occupazione.
Il corollario di queste evidenze è la constatazione, ormai condivisa anche da una parte degli economisti mainstream, che le politiche di austerità e di taglio della spesa pubblica abbiano effetti recessivi di lungo periodo. Esse deprimono il reddito nazionale, accrescono la disoccupazione e, paradossalmente, finiscono per peggiorare proprio quel rapporto debito/Pil che pretendono di migliorare. Due noti economisti statunitensi, Antonio Fatás e Lawrence Summers, hanno parlato a tal proposito di «effetti perversi del consolidamento fiscale», mettendo in dubbio l’efficacia delle politiche di austerità nel ridurre il rapporto debito/Pil. La riduzione del rapporto debito/Pil, tuttavia, rappresenta tutt’ora il feticcio delle politiche di bilancio europee – anche nella loro versione recentemente riformata – con cui si sono imposti, con la complicità dei governi succedutisi quasi ininterrottamente dal 1992 a oggi, tagli allo Stato sociale, precarizzazione del lavoro e un drammatico aumento delle disuguaglianze. Un feticcio al quale ha dato credito praticamente tutto l’arco parlamentare, come emerge non solo dalle politiche dei governi di centrosinistra o da esso sostenuti, ma anche dalle prese di posizione dei partiti di opposizione. Nel frattempo, questo dogma sembra essere messo in discussione solo quando c’è da spianare la strada all’aumento delle spese militari. Una dinamica che era già evidente nei conti nazionali: dal 2015, come testimoniano i dati Istat, la spesa per investimenti in armamenti è infatti più che raddoppiata, raggiungendo i 7 miliardi in un decennio. Oggi, questa tendenza ha inoltre conquistato un posto di rilievo nella strategia europea, con il sostegno esplicito di settori del centrosinistra italiano e del socialismo europeo.
Dunque, mettere in campo un radicale cambio di politica economica è necessario e urgente. Farlo richiede, però, la messa in discussione dello stesso assetto istituzionale all’interno del quale le scelte di politica economica si esplicano e dunque dei vecchi e nuovi vincoli fiscali posti ad architrave dell’architettura europea. Questo è un obiettivo imprescindibile per una forza politica che voglia davvero proporre politiche di piena occupazione, che rappresentano il primo passo per sottrarre i lavoratori al ricatto della disoccupazione e riequilibrare i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Il ritorno delle politiche industriali e il ruolo della pianificazione
Il nuovo scenario internazionale, il ritorno del protezionismo e le crescenti pressioni sulle catene di fornitura che hanno plasmato la globalizzazione dagli anni Ottanta esplicitano le contraddizioni del sistema economico globale degli ultimi decenni e, in particolare, la vulnerabilità strutturale dei paesi dell’Unione europea.
Le crisi globali degli ultimi anni hanno finito per ripercuotersi con maggiore intensità sull’Italia e sull’Europa, facendo emergere le dipendenze del Vecchio continente sia dal lato dell’offerta e delle forniture strategiche – dalle mascherine al gas russo, dai microchip ai minerali critici – sia dal lato dei mercati di sbocco per il nostro export, unica componente della domanda cui è stato concesso un po’ di spazio nel contesto europeo di moderazione salariale e rigore dei conti pubblici. L’introduzione dei dazi da parte degli Stati uniti e le crescenti tensioni internazionali minacciano le basi stesse del modello di crescita trainato dalle esportazioni, che dalla Germania si è imposto in Europa.
Nello spazio angusto che si apre tra la pressione degli Stati uniti e l’assertiva potenza economica cinese – frutto di decenni di politiche industriali verticali, ossia l’insieme di interventi pubblici finalizzati a identificare e sostenere settori e tecnologie ritenute strategiche per lo sviluppo economico nazionale, dal Piano Made in China 2025 al nuovo Piano quinquennale 2026-2030 – persino tra gli economisti fautori del libero mercato e della riduzione del ruolo dello Stato in economia si moltiplicano le richieste di una politica industriale interventista e di un maggiore attivismo da parte delle istituzioni europee, a partire dal rapporto Draghi sulla competitività europea. Allo stesso tempo, l’approccio europeo iscritto nei trattati – ad esempio all’Art. 173 del Tfue – è un approccio esplicitamente orizzontale, che limita le politiche industriali alla promozione dei «fattori abilitanti» il cambiamento strutturale e, più prosaicamente, a un sistema di agevolazioni fiscali per le imprese. Possiamo certamente dire che questo approccio non ha prodotto risultati degni di nota e anzi ha fallito miseramente, trasferendo risorse pubbliche alle imprese senza riuscire a preservare la capacità produttiva nazionale ed europea, aggravando peraltro i divari territoriali. In questo contesto, l’Italia ha assistito a un intenso processo di deindustrializzazione, con l’indice della produzione industriale in costante caduta dal 2022 (dati Istat) e una riduzione della quota del valore aggiunto della manifattura sul Pil dal 20% del 1990 al 15% attuale, come ci dice la Banca Mondiale.
La partecipazione pubblica alla produzione di beni e servizi economici si è drasticamente ridotta, come frutto della lunga e bipartisan stagione di privatizzazioni. Lo Stato ha abdicato anche al suo ruolo di stimolo dell’innovazione, mentre numerosi studi recenti provano che la spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo abbia effetti positivi sull’innovazione, sulla produttività e sulla crescita. Tutto questo senza dimenticare che le politiche industriali si realizzano concretamente attraverso politiche di bilancio espansive che sostengono la domanda aggregata – tramite investimenti pubblici – e che simultaneamente generano ricadute dirette sull’offerta e sui metodi di produzione.
Un progetto politico che miri al rilancio dell’industria nazionale e all’autonomia strategica, ma sia allo stesso tempo orientato al benessere collettivo, implica non solo una nuova centralità della domanda interna e una crescita sostenuta dei salari reali, ma anche una trasformazione strutturale del tessuto produttivo.
Affinché la crescita della domanda interna sia soddisfatta da produzioni domestiche, è infatti indispensabile un intervento pubblico diretto – col coinvolgimento delle partecipate pubbliche – e un piano di investimenti orientato a una sostituzione selettiva delle importazioni, rafforzando le filiere esistenti e promuovendo le filiere strategiche rispetto al soddisfacimento dei bisogni sociali futuri. Il controllo democratico sulla definizione di tali bisogni – dunque di quali siano le filiere strategiche – determinerà la possibilità di avviare una trasformazione che vada effettivamente verso il superamento di un modello economico e sociale fallimentare e non inclusivo.
Le vicissitudini di Acciaierie d’Italia, gli stabilimenti dell’ex Ilva, forniscono un esempio concreto di come dovrebbe muoversi la nuova politica industriale. Dopo che i bandi aperti alle multinazionali del settore sono andati deserti o hanno raccolto offerte ridicole, la nazionalizzazione definitiva degli impianti è tornata all’ordine del giorno: solo lo Stato è in grado di sciogliere il nodo tra salute, ambiente e lavoro, attraverso un piano industriale e un processo di riconversione verso i forni elettrici. Servono risorse ingenti – tra i 7 e i 9 miliardi di euro – ma ancor di più serve la volontà politica di investire sul territorio e mantenere sotto il controllo pubblico l’industria tarantina, anche dopo il risanamento. L’alternativa è una chiusura con un impatto sociale devastante non solo sul territorio ma anche su tutti i settori dell’economia italiana che dipendono dall’acciaio prodotto in Puglia.
Una svolta di questo genere, va ricordato, porterebbe a uno scontro frontale con l’Unione europea, che vieta ogni forma di aiuto di Stato alle imprese e dunque, di fatto, impedirebbe di finanziare gli investimenti necessari alla riconversione dell’ex Ilva. Uno, dal nostro punto di vist, scontro da giocare all’attacco.
Per una controriforma del lavoro
L’Italia e l’Europa sono state investite, dagli anni Novanta in poi, da una serie di riforme del mercato del lavoro tanto estese quanto violente. La ricetta era sempre la stessa: flessibilizzare, contenere i salari, ridurre le tutele. Una strategia che aveva una sua coerenza interna, per quanto diabolica: compensare la stagnazione della domanda interna – bloccata da salari compressi e vincoli al bilancio pubblico – puntando sulle esportazioni. I fatti, però, hanno la testa dura e le ricerche scientifiche, persino quelle prodotte dagli alfieri del liberismo del Fmi, hanno dimostrato quanto sia fallimentare questa strategia, soprattutto se replicata su scala continentale: la moderazione salariale e l’impoverimento relativo di segmenti sempre più estesi della classe lavoratrice si sono accompagnati a stagnazione economica e cicliche recessioni.
L’Italia, ancora una volta, si è distinta in negativo. Secondo l’Employment Protection Index dell’Ocse, nessun altro paese europeo ha liberalizzato il mercato del lavoro quanto il nostro. Dal Pacchetto Treu del 1997 alle riforme più recenti del governo Meloni, passando per il Jobs Act, tutte le maggioranze di governo – compresi i sedicenti progressisti – hanno sostenuto o promosso l’indebolimento delle protezioni del lavoro. Il risultato è noto: precarizzazione di massa, stagnazione dell’occupazione, crollo dei salari. La quota salari in Italia (valutata al costo dei fattori) è diminuita più che in qualsiasi altro paese europeo ed è attualmente la più bassa (58,34% nel 2024 a fronte del 77,4% nel 1960) tra le grandi economie europee e persino più bassa di quella statunitense; sono poveri, secondo l’Eurostat, circa il 10% degli occupati italiani e l’11,8% dei giovani lavoratori; la frammentazione della contrattazione collettiva e la scomparsa di ogni forma di indicizzazione dei salari hanno completato l’opera, rendendo i redditi da lavoro indifesi di fronte all’ultima fiammata inflazionistica. Non è un caso che Ilo (2025) e Ocse (2025) abbiano certificato come l’Italia sia il paese occidentale che ha subito la maggiore caduta dei salari reali sia nel lungo che nel breve periodo (-8,7% dal 2008; -7,5% tra il 2021 e il 2025). E oggi assistiamo al paradosso: i dati occupazionali migliorano a livello macroeconomico, sebbene con più ombre che luci, ma salari e tutele rimangono al palo. Il motivo è semplice: le riforme hanno talmente indebolito la forza contrattuale del lavoro da rendere inefficace, ai fini di una vera rivalsa sociale, persino il modesto incremento dell’occupazione. Nel frattempo, all’anemica contrattazione salariale hanno fatto da contraltare le richieste di larga parte dei sindacati confederali di attenuare, dal lato fiscale, l’erosione del potere d’acquisto dei lavoratori. È il caso dei ricorrenti appelli al taglio del cuneo fiscale o alla detassazione dei rinnovi contrattuali, sostenuti e rivendicati tanto dal centrosinistra quanto dai sindacati maggiori. Misure che, lungi dal configurare una riforma organica del sistema tributario capace di riequilibrare gli oneri tra le diverse fonti di reddito, finiscono per far pagare gli aumenti salariali di alcuni lavoratori alla fiscalità generale, quindi ad altri lavoratori. Il risultato di questa stagione è stato impietoso per i salari reali italiani, ormai sempre più fanalino di coda dei paesi a capitalismo avanzato.
Per questo è urgente – anzi, necessario – elaborare una proposta politica radicalmente alternativa: ripristinare le tutele contro i licenziamenti, reintrodurre forme stringenti di regolazione dei contratti a termine, rafforzare la contrattazione collettiva senza l’ostracismo verso le organizzazioni sindacali più conflittuali, introdurre un vero salario minimo legale, accompagnato da un meccanismo di indicizzazione. La recente sconfitta ai referendum di giugno 2025 ci dice che il quadro è complicato, ma anche che la credibilità politica di chi non si è opposto in maniera reale a questo processo di precarizzazione è pressoché esaurita. Quello che è accaduto negli ultimi decenni, quindi, ha radicalmente mutato il quadro delle relazioni sociali ed economiche a diversi livelli. Lo Stato è stato progressivamente estromesso dall’economia reale e il suo ruolo è stato ridotto a quello di mero garante dei vincoli di bilancio e dei profitti privati, mentre, in nome della competitività, si è consumata una sistematica compressione dei diritti della classe lavoratrice, sacrificati sull’altare della flessibilità e dell’efficienza dei mercati. La libertà di movimento delle merci e dei capitali – strumento ideale ai fini di schiacciare le rivendicazioni del lavoro e per giustificare e favorire la disarticolazione della contrattazione collettiva – è diventata non solo un dogma, ma addirittura una delle libertà fondamentali dell’Unione europea, progetto istituzionale in cui la logica liberista ha trovato il suo completo compimento.
L’adesione a questi principi è stata, per molti decenni, pressoché unanime nel campo del progressismo italiano ed europeo, ed è tuttora egemone nel panorama dei partiti istituzionali e che hanno rappresentanza in Parlamento.
Esistono però, nella società, nel sindacato e in quei settori della politica che ancora non hanno rappresentanza istituzionale, forze radicalmente avverse a questo stato di cose, che iniziano a maturare la consapevolezza che davanti ad alcuni bivi non sono più sostenibili risposte ambigue (uno per tutti: l’integrazione europea è un ostacolo o uno spazio contendibile nella costruzione di un’alternativa?). Sono le stesse forze che hanno animato le piazze degli ultimi mesi e che, nel grido di indignazione contro il genocidio palestinese, hanno posto una domanda chiara di giustizia sociale, di pace e di un mondo davvero diverso. Tutto questo è ancora più necessario di ogni riflessione teorica, anche della più brillante e dirimente, perché una proposta astratta di politica economica e di società radicalmente alternativa di per sé non è sufficiente. Per compiersi e non rimanere un mero cumulo di parole ha bisogno di forze – sindacali, politiche e sociali – capillari, organizzate e che ambiscano a fornire un contributo concreto al cambiamento del mondo in cui viviamo, interessate cioè a cambiare tutto.








































Add comment