Dopo queste elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista
di Alessandro Mustillo
Ha ragione chi tra gli osservatori politici, analisti, giornalisti ha commentato che a vincere queste elezioni è stata la stabilità. Una sorta di conferma, in alcuni casi quasi plebiscitaria, del potere costituito tanto a livello nazionale quanto locale, il cui vero significato va ben al di là di una semplice consultazione elettorale. Un dato quindi che dovrebbe farci riflettere come preludio di una potenziale via d’uscita dalla crisi in atto, a tutto vantaggio del capitale.
Ma procediamo per passi. Ad uscire rafforzato dal voto è certamente l’asse di governo. La spallata annunciata da parte del centrodestra fallisce in Puglia e Toscana. La vittoria del Sì al referendum cementa l’asse della maggioranza PD con i Cinque Stelle, blindando il Governo fino alla fine della legislatura, salvo macroscopici imprevisti, e tramutando definitivamente i cinque stelle in parte del campo di centrosinistra che si contrappone alla destra Salvini-Meloni. Difficile pensare ad elezioni politiche data la situazione generale, la pandemia, le scadenze istituzionali tra cui l’elezione del Presidente della Repubblica. Difficile pensarci anche a causa di quella forza centripeta rappresentata dalla consapevolezza della futura diminuzione del numero dei Parlamentari che trasforma i deputati di Cinque Stelle, Italia Viva, e di Forza Italia, nei più feroci avversari di ogni scioglimento delle Camere.
L’Italia si avvia così a discutere l’ennesima legge elettorale, risultando pressoché l’unico Paese al mondo a modificare il sistema elettorale quasi ad ogni legislatura da trent’anni a questa parte, sintomo evidente della crisi latente che però trova sempre una sua stabilizzazione. Il PD incassa la modifica degli equilibri interni alla maggioranza e passerà all’attacco sul MES/Recovery Fund e sulle riforme, rompendo l’ormai inesistente resistenza grillina.
I risultati ufficiali della consultazione
La vittoria del Sì, scontata, si palesa in proporzioni nette. È un dato di fatto che la sinistra schierata per il No sia apparsa ancora una volta agli occhi delle classi popolari forza di difesa dello status quo, interessata a mantenere proquota i propri privilegi, insieme alle altre microformazioni politiche (Radicali, Renziani ecc…) sostenitrici del No. Le ragioni del No hanno ottenuto maggiori consensi nei quartieri bene delle città, mentre nelle periferie il Sì ha stravinto. Un elemento solo apparentemente contraddittorio rispetto ai risultati del voto elettorale nelle regioni, ma che di fatto testimonia la capacità egemonica delle classi dirigenti di costruire elementi di sintonia con le classi popolari nel raggiungimento indisturbato delle proprie finalità. Nei fatti questo referendum ci riguardava poco. Il nostro No è stato convinto solo dalla necessità di non prestare il fianco ad un conclamato e formalizzato peggioramento del quadro istituzionale, di fronte ad un peggioramento nei fatti già verificatosi da tempo.
Tanto gli argomenti a favore del Sì erano pretestuosi, quanto quelli a favore del No erano davvero poco comprensibili – non a torto – da parte della stragrande maggioranza dei lavoratori e delle classi popolari. L’utilizzo politico del risultato del referendum, trasformato parzialmente in un plebiscito sul Governo, è stato certamente una mossa intelligente di Conte.
Il peso della pandemia sulle elezioni
Il Governo Conte, alla prova dei fatti, si sta dimostrando tutt’altro che incompetente, tanto da resistere persino all’assedio mediatico di quanti volevano sostituirlo con un Governo di unità nazionale. Nelle stesse ore in cui in Italia ci sono meno di duemila nuovi contagi al giorno, in Francia e Germania la quota è tredicimila, ossia sette volte tanto. La Francia ha annunciato nuove zone rosse con metà del Paese chiuso, in Spagna nello scorso weekend si sono registrati oltre 31.000 nuovi casi, il Regno Unito si appresta a varare nuove misure di contenimento.
Allontanare lo spettro di un nuovo lockdown è la prima preoccupazione di Confindustria e di tutti i settori del capitale italiano. Sulla base della capacità dei rispettivi governi di arginare la diffusione del virus evitando o riducendo i periodi di blocco della produzione, si giocheranno le nuove guerre commerciali, la tenuta o la conquista di quote di mercato. La pandemia è un enorme rimescolamento di carte, messa in discussione di equilibri tra settori capitalistici, stati, alleanze internazionali, e questo i capitalisti lo sanno bene.
Ma evitare una nuova chiusura è anche la prima aspirazione dei settori della piccola e media borghesia, dei lavoratori autonomi, che sperano di riprendersi velocemente dalla crisi, e persino dei lavoratori dipendenti, che in larga parte sono impauriti – tutt’altro che pronti a mobilitarsi in massa – per la perdita dei posti di lavoro. La richiesta/speranza di tornare il prima possibile alla “normalità”, quella stessa normalità che è parte del problema, è più forte di ogni spinta verso la contestazione. La paura e il timore passivo vincono sull’attivazione e la lotta, la speranza che tutto possa risolversi e l’idea di delegare la soluzione prevalgono sulla consapevolezza di dover prendere in mano il proprio destino. È qui, di fronte a tutte le contraddizioni del capitale, che si dimostra, nella realtà, la sua straordinaria capacità egemonica, la sua pervasività in campo culturale e sociale, come freno potente ad ogni cambiamento.
Nonostante siano già stati persi centinaia di migliaia di posti di lavoro, il governo ha agito con intelligenza. Ha frenato le richieste immediate degli industriali che, invocando la libertà assoluta di licenziamento, avrebbero messo a rischio la pace sociale del Paese e – agendo da vero e proprio capitalista collettivo di fronte agli egoismi individuali delle imprese – ha assicurato così una gestione più diluita della crisi, rendendola affrontabile con minori sconvolgimenti. Ha incassato prestiti a Bruxelles come richiesto, che consentono elargizioni dirette per le imprese, avviando quel programma di investimenti pubblici attraverso incentivi che chiedevano settori dell’edilizia, ma garantendo al tempo stesso ampi profitti al settore bancario attraverso la cessione dei crediti. Ha distribuito fondi a pioggia per assicurare la pace sociale nel momento più acuto dell’emergenza. Quanto potrà durare tutto questo? Vedremo.
Il capitale, forte di una egemonia indiscussa, sta riuscendo fino ad oggi nell’impresa di presentare la pandemia come un fattore del tutto naturale, riuscendo cioè a mascherare efficacemente le concause della sua diffusione e dei suoi effetti che sono tutte invece frutto della direzione e delle scelte economiche e politiche che sono dettate dalle esigenze del capitale stesso. Il virus è un fattore naturale, la riduzione dei posti letto negli ospedali no, come non lo è la catena di contagio sui luoghi di lavoro, e non lo sono state le scelte politiche che hanno ritardato la chiusura lo scorso inverno aggravando i numeri di contagiati e morti.
L’emergenza come fattore naturale ed estraneo, unisce, compatta e soprattutto nasconde. La riprova è che all’esito di questa tornata elettorale vengono confermati pressoché tutti i Governatori regionali, esponenti di partiti responsabili dei tagli alla sanità effettuati in questi anni, vince il partito guidato da un segretario che, come governatore del Lazio, ha contribuito a chiudere decine di ospedali. A queste elezioni nessuno, insomma, ha chiesto il conto per quanto accaduto, accontentandosi di valutarne la gestione immediata di fronte all’emergenza assoluta della pandemia: Zaia stravince perché il Veneto non fa la fine della Lombardia, De Luca perché le sue prese di posizione tranquillizzano il sentire medio dei campani e risvegliano anche quell’orgoglio meridionale di rivalsa. Localismi, nazionalismi, tutti elementi con cui si salda la tenuta dei sistemi di potere ad ogni livello.
L’astensione non aumenta, anche se certifica l’ormai chiara disaffezione di una fascia importante di elettori, per lo più parte delle classi popolari, di fronte alle elezioni. Ma più che la protesta è la passività a vincere, in assenza di qualsivoglia alternativa che risulti presentabile e credibile agli occhi di questi settori, che sappia incarnarne le aspettative immediate come oggi non fanno più neppure i Cinque Stelle e neanche la stessa Lega, che perde consensi.
Il deserto a sinistra
Le liste di sinistra e le diverse liste comuniste si contendono uno spazio residuale comune tra loro, nonostante l’agguerrita concorrenza in alcuni casi a livello locale. Potere al Popolo in Campania prende poco più dell’1%, le varie liste comuni promosse dal PRC, con la partecipazione alterna del PCI o di Sinistra Italiana, tutte al di sotto dell’1% eccezione fatta per la lista di Fattori in Toscana che comunque passa dal precedente 6% all’attuale 2,2%. Un quadro di prevedibile desolazione da cui non sfuggono neppure le liste comuniste, dove presenti.
Prendiamo il caso della Toscana. Il P.C. alle politiche del 2018 aveva preso oltre 22 mila voti (1,04% alla Camera), alle Europee del 2019 31 mila (1,68%) alle regionali piomba a meno di 17mila (0,96% presidente, 1,05% lista). Di fronte a questo risultato il primo commento del suo segretario è “il nostro posizionamento prosegue in crescita” una sorta di mantra recitato ad ogni occasione, anche di fronte all’evidenza contraria della perdita di quasi metà dei voti in un anno[1].
In Toscana le due liste comuniste P.C. e P.C.I. prendono rispettivamente lo 0,96% e lo 0,9%, a suggellare l’imbarazzo di una campagna elettorale condotta con continue dichiarazioni in cui si invitava a votare per il simbolo con la bandiera rossa e la falce e martello bianca, tentando goffamente di evitare la confusione e finendo per passare per scemi agli occhi dei più.
L’elettorato comunista non solo non aumenta di fronte ad un contesto epocale come quello che attraversiamo, non solo percepisce di far parte di una sorta di riserva indiana in un mondo ostile, ma deve pure subire l’imbarazzo di dividersi sulla scheda tra progetti che appaiono alla stragrande maggioranza identici se non per le differenti associazioni cromatiche dei rispettivi simboli. Una dilemma che dall’esistenziale finisce per divenire stilistico, tra fautori dell’abbinamento su rosso del bianco o del giallo. Il tutto in ottica di fase, insieme alle tifoserie storiche sui social, appare meno attuale e interessante delle dispute tra guelfi e ghibellini, o delle fantastiche disquisizioni sul sesso degli angeli nel concilio di Costantinopoli con gli ottomani alle porte.
Al netto di tutti i ragionamenti la presenza di una falce e martello sulla scheda prende tot voti. Se sulla scheda ce ne sono due, quei voti – residuali – si dividono, e perdono anche una parte che si disaffeziona ulteriormente. Il radicamento, comunque magro, conta il minimo, ma molto meno del residuo voto al simbolo. Le dispute ideologiche sono del tutto sconosciute agli elettori. Lo stesso, salvo poche varianti, vale anche per liste come Potere al Popolo, come largamente provato alle elezioni in Emilia-Romagna e nei raffronti tra politiche, europee e regionali.
E questo non per sminuire molte questioni oggi sul tavolo, ma per dire che il peggior modo di affrontarle è pretendere di competere sul campo elettorale e non invece sul piano della discussione politica di una necessaria ricerca dell’unità comunista a partire da una riaffermazione dei compiti storici e la definizione di una strategia efficace, adeguata e rinnovata alla luce del contesto attuale.
Chi scrive propose questa strada nei mesi scorsi, il resto delle vicende è noto. Continuo a credere che sia l’unica via da percorrere.
Aprire una fase di discussione e ricostruzione reale per affrontare la crisi
Bisognerebbe che le dirigenze attuali dei partiti avessero un po’ di onestà intellettuale, smettendo di pensare alla propria autoriproduzione, alla soddisfazione personale delle cariche onorifiche, al minutaggio televisivo della par condicio, agli appagamenti personali di un’autorappresentazione di sé e del rispettivo gruppo priva di riscontro nella realtà. Bisognerebbe riconoscere davvero e non come premessa da tradire nelle conclusioni, la sconfitta epocale subita, il fatto che le nostre parole d’ordine sono percepite come estranee a livello di massa, anche in circostanze come queste in cui la realtà ci dà ragione da vendere. Non ha senso prospettare l’obiettivo di un cambiamento di sistema se non si agisce per realizzarlo a partire dalla società così come ci è data oggi, non come era cento anni fa, cinquanta o come ci piacerebbe che fosse.
In questo il superamento della frammentazione è una parte, ma solo una parte, premessa per evitare gli effetti più macroscopici e farseschi della sconfitta, ma non la soluzione finale. Non esiste prospettiva di superamento della frammentazione se non accompagnata da una revisione generale, da una condivisione strategica di fondo da costruire. E soprattutto non esiste prospettiva comunista che continui a voler sostenere l’insostenibile tesi della costruzione tramite le elezioni e non attraverso rinnovate modalità di radicamento, connessione, con le classi popolari, sviluppo di lotte attraverso un piano di costruzione e organizzazione di reali avanguardie e di un conflitto che oggi la maggioranza dei lavoratori stessi negano di voler realizzare.
Il movimento comunista deve sapersi ricostituire e assumere sulle proprie spalle l’esigenza di cambiamento che esiste in potenza in questa società, assorbire gli argomenti nuovi come la questione ambientale su cui si misurano concretamente i limiti del sistema capitalistico e non respingerli come elementi di distrazione[2]. Dotarsi di propri intellettuali di riferimento, di una politica culturale in grado passo dopo passo di contendere egemonia al potere e costruire i propri tecnici in ogni campo della società. Colmare la divisione tra fare per fare tipica del movimento che costruisce radicamenti territoriali privi di prospettiva politica, e ideologismi privi di riscontro e lavoro materiale nelle contraddizioni di classe per come esse si presentano oggi. Unire le avanguardie effettive, per quanto poche esse siano e a maggior ragione perché sono poche e isolate, evitando dispersioni in campo sindacale sui luoghi di lavoro.
Bisognerebbe dimostrare senso del momento storico, avere il coraggio di prendere atto che siamo a zero, non vantare primazie inconsistenti e titoli nobiliari, evitare il rinchiudersi in steccati, famiglie, sottofamiglie e guardare invece alla prospettiva strategica e alla concretezza dei compiti che dobbiamo affrontare. Riscoprire lo spirito leninista di osare, di saper coniugare la fedeltà ai principi e agli obiettivi, con l’individuazione delle forme più congeniali e utili a raggiungerli.
Avremmo bisogno, di un percorso costituente vero e di un rovesciamento completo di prospettive, che prenda atto dei cambiamenti epocali intercorsi e che eviti di reagire ripercorrendo per familiarità le strade errate già percorse. Avremmo bisogno di veri e propri “Stati Generali” del movimento comunista in Italia, in cui si discuta di tutto questo e molto di più.
Il rischio vero a cui andiamo incontro altrimenti è lasciare al capitale la possibilità di gestire la crisi attuale come già fatto nel 2008, senza alcuna capacità di utilizzare questa crisi come presupposto per rovesciare l’esistente che la ha generata.
È ora di capire che non saranno dieci minuti televisivi in par condicio, né comizi locali in vista delle elezioni a farci recuperare il terreno perduto. Non si cresce e non si avanza. Al più si resta fermi, dopo più di dieci anni, inchiodati all’inconsistenza. Prenderne atto non è un segno di debolezza, ma la premessa per imboccare la via giusta.
Comments
Non è un giorno che il capitale sia caduto, per niente, perché è un rapporto sociale.
Discussione aperta ciao compagno!
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"Il che significa, in sintesi, che finché il capitale non inciampa nell'impossibilità di riprodurlo, il momento del passaggio rimane molto probématico"
Oh,finalmente! diciamo pure "impossibile" dal momento che dopo un secolo e mezzo tale passaggio non si è MAI verificato e così chiudiamo la discussione.Tutti a casa a godersi la tv.
Non siamo più gli stessi uomini degli anni Cinquanta, non siamo più gli stessi uomini degli anni Cinquanta, non siamo diventati più intelligenti, ma più conformati, più formattati alle esigenze del capitale, soggettività legata alla tendenza al ribasso del tasso di profitto e alla crisi dell'equivalente astratto generale, la crisi della nostra ontologia.
In effetti, la rivoluzione russa è stata una rivoluzione borghese, se si comprende che nel movimento storico la caratteristica dell'istigazione della società borghese è quella di sostituire il feudalesimo, il grande merito di questa rivoluzione è stato quello di mettere milioni di sovietici nella forza lavoro salariale, sono stati meno arretrati per tutto questo?
Per quanto riguarda la guerra di Spagna, è il CNT alleato dei repubblicani che ha sparato al proletariato, barricato, ben descritto da G Orwell.
Sulle guerre anticoloniali, ovviamente moralmente indicibile, il beneficio tratto, è stato la sostituzione del capitalismo coloniale, con un capitalista autoctono.
Il che significa, in sintesi, che finché il capitale non inciampa nell'impossibilità di riprodurlo, il momento del passaggio rimane molto probématico.
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"Примеру русских рабочих последуют неизбежно – может быть, не завтра (революции не делаются по заказу), но неизбежно – рабочие и трудящиеся по крайней мере двух великих стран: Германии и Франции." [L'esempio degli operai russi sarà seguito inevitabilmente - magari non domani (le rivoluzioni non si fanno su commissione), ma inevitabilmente - dagli operai e dai lavoratori perlomeno di altri due grandi Paesi: Germania e Francia] V. I. Lenin, "Esiste una via per una pace giusta?" (Есть ли путь к справедливому миру?), PSS, vol. 32, p. 111.
Mi veniva in mente questa frase pensando, paradossalmente, all'oggi e ribaltando - ahimé - i termini di confronto. "L'esempio degli operai russi" un secolo dopo diventava l'esempio delle "primavere" (arabe, russe, ...) delle rivoluzioni "colorate" (... più che altro monocolore, e non rosso), dei gilet, delle sardine, dei plebisciti sul web chiamati "democrazia diretta", dei BLM da una parte e dei bianchi disoccupati che votano Trump dall'altra, di tutto e di più, pur di confondere le acque e confinare, ancora una volta ricorre questo termine, nell'IRRILEVANZA, qualsiasi altro modo di intendere e fare politica. Un enorme valvola di sfogo entro cui convogliare malcontento, istanze di cambiamento, energie, risorse, per poi chiudere poco dopo il tappo e buttare tutto nell'indifferenziato.
Un secolo fa, nel bene o nel male, con tutti gli auspici di cui sopra, auspici rivelatisi magari anche infondati (tuttavia, l'ESEMPIO - Пример lo costituirono, eccome!, e non solo per i "grandi Paesi", ma ovunque nel mondo, magari dove meno se lo sarebbero aspettati!), ma si "costruiva", e si costruiva "dal basso": oggi si tende a convogliare la tempesta, magari indurla così da lasciarla ben bene sfogare (o usarla per i propri fini), quindi dare una bella sanificata alla tabula divenuta rasa e proseguire.
D'altra parte, se non si inizia, si non si parte neppure, non ci si può nemmeno aspettare nulla.
Un abbraccio a tutti.
Paolo
diciamo che da settimana scorsa nulla è cambiato, a livello mediatico, rispetto al mio primo intervento: guerra "europea", nel senso che interessa due Paesi appartenenti al Consiglio d'Europa, siamo ormai alla decina di migliaia di morti, fra entrambe le parti, rallentata soltanto dal fatto che, essendo quello azero il sessantaquattresimo esercito al mondo e quello armeno il centundicesimo (prima del conflitto, ora saranno scalati entrambi e di brutto), in due settimane di combattimenti intensi e con l'impiego di tutti i corpi delle forze armate esclusa la marina militare, si sono esauriti sia i mezzi già al fronte, distrutti, catturati o fuori uso, che le riserve o scorte. Si stanno scannando quotidianamente con quello che è rimasto, i campi minati son già saltati tutti con la carne da macello mandata per la prima "passata" (mercenari siriani ex-An Nusra & co. da Idlib via Erdogan) e gli armeni non han fatto in tempo ad allestirne altri sulla seconda linea difensiva, ogni tanto qualcuno da sfoggio dei propri sistemi a medio raggio, senza peraltro troppa convinzione perché ormai non ne hanno più, visto che entrambi han finito i riservisti e stanno ricorrendo ai propri diciottenni in servizio di leva (e dopo quelli rimangono solo i vecchi, le donne e i bambini). Persino gli aerei son quasi "finiti", tirati giù dalle rispettive contraeree, così come i droni azeri di recente acquisto turco e israeliano con cui avrebbero dovuto fare la differenza: l'han fatta, perché sono strumenti micidiali e con una notevole potenza di fuoco moltiplicando, in maniera vigliacca, le insidie per un soldato non immediatamente dislocato in trincea o sulla linea di fuoco nemica: da un momento all'altro ti può ronzare qualcosa sopra e hai finito di vivere. Han fatto la differenza finché non li han tirati giù quasi tutti. E siccome son giocattoli che costano, i rincalzi stentano ad arrivare.
Putin deve aver detto qualcosa a Erdogan, senza troppi clamori come nel suo stile, senza darne notizia proprio. Questa è l'unica differenza e senza di lui gli azeri vincono, conquistando una manciata di paeselli e paesoni, senza sfondare (al momento, il futuro poi è sempre un'incognita...). Dal punto di vista umanitario è un bene, visto che nei paesini conquistati han già proceduto alla pulizia etnica e relativa rinomina del suddetto paesello con nome azero, in pieno stile balcanico. Probabilmente, rispediranno non appena si calmeranno le acque un po' di profughi e un po' di esterni amanti della vita in montagna, e "amici come prima"... (amici, soprattutto). Avrebbero voluto farlo anche per STEPANAKERT, probabilmente hanno venduto questo alle masse che stan passando ora in quell'orrendo tritacarne, cercheranno in tutti i modi di farlo (l'ultimo paese conquistato a sud è stato attaccato passando di nascosto dall'Iran e posto quindi nella classica manovra a tenaglia dove, se non ne hai, ben presto soccombi e, anche se ne hai, non duri a lungo senza - inesistenti - ponti aerei). Si applicano quindi, gli azeri. Il problema è che di là han tirato fuori la corda che arriva non al cuore, ma al midollo osseo, di ciascun armeno: il genocidio turco. E gli azeri son mezzi turchi (e mezzi persiani, ma qui non conta più), per giunta alleati dei turchi, quindi per gli armeni son turchi. E se tocchi quella corda il soldato armeno il colpo di pallottola lo prenderà sempre in fronte e mai sulla schiena. Per questo non avanzano come vorrebbero e, salvo qualche carta a sorpresa, la guerra assumerà quel carattere odioso di tritacarne sulla stessa posizione, metro più, metro meno.
Tutto questo solo per dire, riprendendo il titolo, che una questione di una tale gravità è mediaticamente IRRILEVANTE, così come è irrilevante il conflitto in Yemen, in Libia finché non arriva a qualche grande città (allora arriva la copertura mediatica), in Siria, ecc. Sono IRRILEVANTI i dati sul PIL, dati per dovere di cronaca, idem con patate per il tasso di disoccupazione e inoccupazione, per i rapporti del SVIMEZ, per dati sul dissesto idrogeologico, ecc.
L'IRRILEVANZA genera nelle masse disinteresse, disimpegno, mancanza di partecipazione, rassegnazione. Esattamente come nelle satrapie dell'Est Europa e del continente asiatico. Non crediamoci quindi più "democratici" di loro. Poi succede che, in maniera del tutto "elementare", nella sua ciclica e disarmante schematicità, arrivano le "rivoluzioni colorate". Quello che è accaduto ieri in Kirghizia è quello che volevano accadesse in Bielorussia, e quello che è accaduto, senza troppi cinema, un po' di tempo fa in Armenia (anche per questo, il presidente armeno amico di Soros è già andato due volte in tre giorni a Mosca tornando a mani vuote... sempre per il momento, giusto per fargli capire qualcosina, per esempio, che non si chiama Robert Kocharian... ma tant'è, queste son le logiche). In genere i satrapi sono - ancora - filorussi e filocinesi, come nel caso della Kirghizia, oppure non ostili ai russi, come nel caso di Bat'ja Lukasenko, che ultimamente stava giocando a fare il Principe machiavellico, salvo poi far entrare in casa tutte quelle Fondazioni occidentali da cui è partita l'organizzazione delle "rivolte spontanee". I rapporti di forza sono altri, c'è una nuova guerra fredda in corso, C'E' MALCONTENTO (dovuto a crisi, covid, a tutto... ma c'è), e vai di rivoluzione colorata. Peraltro, in Crimea, caso poco studiato - per ovvi motivi! - assistiamo nel 2015 alla cosiddetta "russkaja vesna", alla "primavera russa", ovvero alla contro-contro rivoluzione colorata. Stesse modalità di maidanistiche, ma anti-maidan. Poi arrivano l'esercito degli incappucciati, il referendum, i passaporti russi al volo, la guerra nel Donbass, il ponte, ecc. MA IL PASSAGGIO INVERSO (DA ANTI A PRO-RUSSO) TRAMITE UNA RIVOLUZIONE COLORATA E' STATO SINORA TROPPO POCO ANALIZZATO. D'altronde, hic sunt leones...
Torniamo alla Kirghizia. qui alcuni video e foto di prima mano:
https://colonelcassad.livejournal.com/6222340.html
La "casa bianca" Kirghiza occupata dai manifestanti (e già occupata similmente nel 2005 e nel 2010), con foto di rito sulla scrivania del Presidente, mentre si dà una pedata al Presidente (al suo ritratto), mentre si gioca fra le varie stanze. Se l'operazione va a buon fine, tra un po' questi manifestanti saranno ricondotti a più miti consigli con tritacarne "democratici" dai nuovi satrapi, questa volta fedeli agli yankee e spina nel fianco fra Russia e Cina; se va a cattivo fine finiranno nel "vecchio" tritacarne a opera dei vecchi satrapi. In ogni caso, sempre carne da cannone.
Scappo al timbro.
Buona giornata a tutti.
Paolo
Già Gramsci parlava di "rivoluzione contro il Capitale" (inteso come il libro di Marx) per confutare le teorie kautskiane presunte ortodosse: oggi ancora vogliamo dare ragione a Kautsky oppure, se permettete, sarebbe il caso di rispondere volgarmente : "ma chi se ne frega" ?
Invece succede che l'ontologia del Comunismo prevale sulla sua fenomenologia e quindi le citazioni del Maestro (Ipse dixit!) soppiantano l'analisi e la comprensione degli eventi storici concreti, che semplicemente "non ci appartengono" Ma questi eventi di enorme portata (trasformazione della Russia da paese arretrato semifeudale in grande potenza industriale, guerra mondiale, ruolo determinante nella rivoluzione anticoloniale ecc.) hanno comunque avuto luogo e sono stati una grandiosa epopea: se non appartengono a noi, a chi appartengono? già, i crimini e il dispotismo che "Marx non avrebbe mai avallato"!
Mario Galati ha già risposto esaurientemente su ciò (e concordo pienamente con lui). Il fatto è che è tutto molto generico: sia i crimini attribuiti a Stalin, sia il suo dispotismo. Per esempio, quanto ai crimini,non credo proprio che l'assassinio dell'anarchico Camillo Berneri ad opera di miliziani del Psuc catalano (uno degli episodi più foschi della guerra di Spagna) sia avvenuto per ordine di Stalin, né credo che la carestia in Ucraina negli anni Trenta sia stata artatamente da lui programmata, e nemmeno che abbia fatto assassinare Kirov, uno dei suoi migliori amici, per scatenare le purghe. E se in Urss consumavano "tonnellate di carta e di cartone" (così da noi si ironizzava) per festeggiare i suoi compleanni, non credo proprio che questo spreco deprecabile avvenisse in osservanza alle sue direttive.
La Storia non è neutrale, è un campo di battaglia sul quale bisogna misurarsi con l'avversario di classe e forse qualcuno che non se la sente di affrontare uno scontro così aspro, decide che è meglio abbandonare quel campo, pensando magari di vincere su altri campi, ma è puro idealismo.
Quanto alla replica-precisazione di Anna, prendo atto di ciò che scrive, ma ritengo che non si può sostenere che il movimento comunista guidato da Stalin ha realizzato una grande spinta emancipatrice e, nello stesso tempo, sostenere che il nome di Stalin non è associabile a quella emancipazione. Dire che sia avvenuta nonostante Stalin è una tesi fragilissima e inconsistente: una frase vuota, di fronte alla storia concreta del periodo (soltanto il fatto che la vittoria di Stalingrado è stata la prima grande vittoria anticoloniale basterebbe a scolpirne per l'eternità gli incommensurabili meriti storici. Ma non mi riferisco solo a questo: il discorso sarebbe molto più lungo e complesso).
Dire ciò, non significa non guardare criticamente a quella storia ed ai suoi protagonisti, in primis Stalin. Ma la demonizzazione sulla base del paradigma antiStalin della guerra fredda non è accettabile; anche perché la ricerca storica (proprio nei paesi capitalistici. Anzi, proprio negli USA) sta andando avanti e sta smentendo e smontando il cumulo di invenzioni e sciocchezze insegnato come verità indiscutibile (come pregiudizio). L'associazione negativa a Stalin operata dal capitalismo è l'associazione allo Stalin da loro inventato. L'antistalinismo pregiudiziale (non quello, per es., di Lukacs, dimostratosi comunque errato alla prova della storia) è già anticomunismo. Se il comunismo è un cumulo di crimini e orrori e il suo capo uno psicopatico criminale gemello di Hitler; nazismo e comunismo totalitarismi uguali e speculari (in ciò, un grosso contributo l'ha fornito la guerriera fredda Hannah Arendt, la quale si faceva ospitare volentieri nelle strutture di lusso messe a disposizione dalla CIA, soddisfatta di essere servita come una regina da camerieri in divisa. V. su ciò La CIA e la guerra fredda culturale, di Stonor Saunders); le scemenze contenute in Orwell (la spia dei servizi segreti inglesi Orwell. È provato documentalmente e inconfutabilmente), nelle sue opere conservatrici e reazionarie (la fattoria degli animali e 1984), fossero vere (ossia, il messaggio trasmesso che ogni tentativo reale di emancipazione e di instaurazione dell'uguaglianza si convertono inevitabilmente nel loro opposto); mi spieghi come puoi ancora dirti comunista e proporre il comunismo come soluzione ai problemi storici posti dal capitalismo? Ma come si fa a non capire una cosa così elementare?
Si ritorna alla "purezza" di Marx e ci si sbarazza della lezione storica? Non è, questo, dottrinarismo inutile e senza alcuna presa sulle masse, che chiedono conto di ciò che abbiamo fatto alla prova dei fatti?
Chi non è interessato a rafforzare il capitalismo cercherà di non abbeverarsi esclusivamente alle sue fonti storiche, informative e ideologiche avvelenate. A meno di essere così ingenui da credere che la scienza e la cultura capitalistica non difendano gli interessi di classe e non siano per loro natura, strutturalmente, false (il capitalismo è il mondo della realtà capovolta e falsificata per definizione. Se c'è una cosa che ci hanno insegnato Marx ed Engels è proprio questa).
Dico ad Anna che anch'io nel PCI di allora ero stato educato al pregiudizio antistalinista. Quando avevo circa 18 anni polemizzai con mio padre che lo difendeva. Ebbene, aveva ragione mio padre, non io. Ho conosciuto e approfondito molte cose e respinto il pregiudizio che si inculca da decenni. Non mi sono abbeverato solo alle fonti avvelenate della borghesia, nelle quali si trovano delle enormità tali che soltanto dei bambini sprovveduti e senza raziocinio, non solo senza conoscenze, potrebbero bersi.
Invito tutti a non ascoltare soltanto la voce del padrone.
Dopo di che, stabilita con serietà la verità storica, non si tratta di fare l'apologia acritica e l'esaltazione di chicchessia e di ogni esperienza. La storia è anche un processo di apprendimento.
Nella coscienza comune tutto questo sembra molto confuso.
Circa il potere dispotico dello Stato staliniano sulla società, si può (anzi si deve) dire che il resto del mondo non si faceva certo portatore di libertà e uguaglianza, se mai di imperialismo, colonialismo, sfruttamento, razzismo etc ; che ha comunque alfabetizzato milioni di persone; poi lo si può storicamente comprendere ( la società russa del tempo non conosceva, se non in una sua parte irrisoria, il contrattualismo figlio del medioevo europeo etc.etc. ); inoltre era geopoliticamente accerchiato etc.etc.etc. Ma non si può tacerne i crimini e le storture. Per due ragioni. La prima per onestà. La seconda è per potersi dire comunisti. Le parole Marx e Comunismo, se le si associa a Stalin, diventano impronunciabili. Giustamente impronunciabili. E questa associazione non a caso è sempre stata sollecitata dai media anticomunisti, dalle case editrici anticomuniste, dagli interessi capitalisti, dai fascisti. Io non voglio, contro tutti loro, che la parola Comunismo sia impronunciabile.
Non riesco a controllare il mio smartphone.
Ella non riconosce che il movimento comunista novecentesco, che ha avuto in Stalin un esponente e un protagonista di primissimo piano, sia il movimento dei lavoratori, comunista, reale storicamente esistente dell'epoca. Se, però, quello era il movimento storico reale, non quello desiderato o desiderabile, o si sente di farne oppure no. Non si può scegliere ciò che fa comodo. Ci sono state conquiste e avanzamenti grandiosi, errori, arretramenti e crimini. Gli schiavi in rivolta di Siracusa hanno commesso crimini e azioni infamanti, ma sul piano storico la loro azione era progressiva. Occorre prendere le distanze dagli schiavi di Siracusa o accettarne l'eredità storica? Un'eredità, anche nella tradizione giuridica non può essere accettata parzialmente. L'erede è il continuatore della personalità del defunto (ma la personalità è sempre in sviluppo. Continuarne la personalità non significa perpetuarne la condotta).
Se per movimento comunista, invece, si definisce qualsiasi raggruppamento minoritario o setta in dissenso dalla fiumana storica di massa effettiva, allora non si parla più di movimento storico, ma di posizioni e raggruppamenti limitati, sino a singole posizioni individuali, alle quali chiunque può aggrapparsi per dichiararsi ancorato al movimento storico, seppure immaginario. Ma è una posizione falsa e arbitraria.
Dico con questo che dobbiamo difendere gli errori e i crimini? Al contrario, dobbiamo apprendere da tutto ciò, condannare e correggere. Ma non tirarsi fuori da anime belle.
Non dovrei farlo, ma ti dico che mio padre, bracciante del sud, comunista, di questo movimento storico ha fatto parte. Ha fatto parte di quel movimento etichettato con disprezzo "stalinista", che è stato "il" movimento comunista di emancipazione di classe del tempo (faceva, forse, mio padre parte di immense masse di milioni di lavoratori e sfruttati ingannati e abbindolati da Stalin? Era un povero coglione illuso? Posso garantirti che lui è tutti i compagni come lui che ho conosciuto, con i quali sono vissuto e che stanno ormai scomparendo del tutto, tutto erano meno che dei poveri coglioni ai quali i maestrini intellettuali "antistalinisti" potrebbero fare la lezione). Sarei un perfetto idiota e un ignobile traditore nel rinnegare la mia storia pronunciando l'abiura che la borghesia e la piccola borghesia di sinistra, o addirittura "comunista", mi chiede. Non appartengo a quel genere di persone, né per estrazione di classe, né per storia personale, né per formazione culturale e teorica, né per carattere.
Pertanto, chi vuole rifarsi alla processualitá storica immanente come fondamento teorico e pratico e si sbarazza della storia reale come crimine o errore, prendendone comodamente le distanze, è in evidente contraddizione. E comunque, non è un mio compagno di strada.
Al contrario, tutte le richieste della sinistra (gauchisme) sono state accolte con successo dal capitale e hanno rinnovato anche le sue basi per un dominio superiore.
sinistra (gauchisme) idiota utile della riproduzione del capitale.
Il proletariato esiste certamente, ma rimane irrintracciabile.
Quindi cosa rimane?
Sovvertire la lotta sociale della società non minaccia in alcun modo la riproduzione del capitale.
Sul tema del miglioramento, Marx ha risposto alla domanda nella sua critica al programma di Gotha.
La riduzione delle ore di lavoro potrebbe avvenire solo perché il capitale ha bisogno di meno ore di lavoro rispetto a prima.
Sul retaggio delle lotte, tutte le rivoluzioni sono fallite, ciò che era stato concesso è stato ripreso.
Finché la soggettività del capitale domina le coscienze, non c'è via d'uscita da questo sistema, per dirla in parole povere, finché non si aboliscono le categorie di base del denaro dei lavoratori statali, non c'è possibilità di comunismo.
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“Quanto ad Anna, dico che se può sembrare una dottrinaria è perché, probabilmente, lo è. Se, infatti, afferma teoricamente la preminenza della prassi immanente e poi assembla citazioni e la prassi storica la elude e la ignora, come può qualificarsi questo atteggiamento, se non dottrinario?”
Quando sostengo che l’impianto dialettico del pensiero marxiano sposta la Verità nella dimensione pratica, e la affida allo svolgersi della storia reale, era per spiegare (stavo rispondendo al tuo commento, il nr. 4, e a quello di Eros Barone, il nr. 5) che per Marx non vi è un conflitto in termini di principio tra le lotte quotidiane dei lavoratori e delle lavoratrici per migliorare le proprie condizioni (ad esempio per la durata della giornata lavorativa, la riduzione della quale è stata evidentemente legiferata da un’assemblea parlamentare eletta) e le azioni politiche tese al superamento del capitalismo. Piuttosto il punto dirimente è se quanto ottenuto tramite il conflitto operaio, sul piano anche delle riforme, sia corrispondente a una pratica di classe capace di andare oltre, di intaccare i rapporti di produzione esistenti.
Il mio riferimento alla dottrina marxiana per criticare il potere dispotico dello Stato stalinista sulla società (stavo rispondendo ad un tuo successivo commento dove con l’espressione “l'esperienza storica che il movimento dei lavoratori ha maturato” pensavo ti riferissi, viste nostre precedenti discussioni, allo stalinismo ; ovviamente per me l’esperienza storica delle comuniste e dei comunisti è tanto altro) non contraddice quanto sopra. Il carattere immanente alla Cosa del pensiero marxiano, non si traduce in una licenza al dispotismo e a qualsiasi prassi ( allora perché no il nazionalismo o il razzismo ? ) : vuol dire, ad esempio, che gli “operai del click” , o i proletari senza diritti di cittadinanza, di oggi, attuali, impongono un’altra prassi rispetto a quella dei cartisti inglesi ; oppure, sempre ad esempio, vuol dire che lo Stato attuale non è il medesimo di quello ottocentesco europeo ; oppure che i diritti della persona di oggi sono diversi da quelli borghesi trattari ne “La questione ebraica” etc.etc.
Se le condizioni materiali e storiche per la decadenza del valore in movimento non sono soddisfatte e necessarie per l'emergere del comunismo nella coscienza disalienata e reificata.
Il processo di valorizzazione automatica del valore, sovradetermina la storia e la coscienza, gli eventi storici sono la logica continuazione di un preciso momento di valore in movimento.
Il tentativo di creare un vero comunismo, l'abolizione delle suddette categorie, nell'ex URSS era destinato a fallire, poiché il capitalismo era in pieno svolgimento, la continuazione di questo tentativo che conosciamo, l'emergere di un capitalismo di Stato.
Tuttavia, la crisi ultima della valorizzazione alienante come processo di decadimento del valore consiste, secondo lo stesso sviluppo del Capitale divenuto impossibile, nel far emergere la dinamica capitalistica dalla necessaria auto-annichilazione delle proprie dinamiche.
La storia è presto finita e l'orizzonte del possibile si sta alzando!
Soggettività? perché non referenziata, non credo proprio, saluti cordiali a tutti i compagni
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Sulla dottrina marxista dello stato potrei fornirti seduta stante un'intera bibliografia, non limitarmi alle marmellate di citazioni, atteso che in passato me ne sono occupato specificamente.
Il problema è che il tuo pensiero primitivo sulla questione non va aldilà del sillogismo : stato organo di classe - comunismo società senza classi - ergo, comunismo società senza stato.
Ora, ti si potrebbe dimostrare, ma non lo capiresti comunque, che il significato di stato viene usato da Marx ed Engels in diverse accezioni. Dunque, per comprenderne il senso e ricostruirne correttamente la dottrina non basta usare il tuo elementare sillogismo che metterebbe nello stesso sacco il primitivismo anarco-liberale (non l'anarchismo originario), del quale tu molto probabilmente fai parte, e il marxismo.
Non basta trovare in Marx ed Engels la parolina stato e riportare alcune citazioni separate dal complesso del loro pensiero, come fai tu e tanti faciloni dottrinari. Tu ribalti questo tuo atteggiamento (ossia: ragionare limitandosi alla presenza nominale di una parolina, sul quale avevo già messo in guardia dicendo che fermandosi alle parole stato e non-stato non si cava un ragno dal buco) sul tuo interlocutore. È un artificio retorico, il tuo, abbastanza diffuso e banale, che potresti usare con gente più sprovveduta di te; con me hai sbagliato bersaglio). È un tuo atteggiamento che io ho criticato e tu lo addossi a me pensando di passarla liscia e cavarti dall'impiccio.
Bisogna, invece, oltre che conoscere il diverso uso del significato di stato che Marx ed Engels fanno in certi contesti (dimostrato proprio dalle stesse citazioni che voi gentilmente mi avete trascritto, non riuscendo a capire che Marx non è uno sprovveduto che scrive a casaccio e si contraddice nel giro di due righe), centrare il punto nodale della dottrina marxista dello stato: la funzionalità di una specifica forma organizzativa al suo contenuto storico-sociale. È un punto fermo di tutto il marxismo, non solo della dottrina dello stato. Tenendo conto di questo assunto fondamentale bisogna poi andare all'analisi critica specifica dello stato politico borghese in Marx (per es., bisognerebbe andare a rileggersi La questione ebraica (unitamente agli scritti sulla Comune di Parigi su cui si è soffermato Eros Barone), che tu non citi perché ignori totalmente la sua importanza per la definizione della questione dello stato in Marx: troppo difficile per le tue capacità da anarco-liberale primitivo). Infine, bisogna porsi alcune domande marxiste e risolverle sulla base del marxismo: nel comunismo, oltre alla contraddizione di classe, svanirá ogni contraddizione? Perciò, lo sviluppo storico non avrà più carattere dialettico? Sono, queste, obiezioni che fanno gli avversari del marxismo, rilevando una presunta contraddizione dello stesso, un'antinomia e un'aporia. Togliatti rispondeva marxianamente che il marxismo non è dottrina di profezia. Il comunismo è l'esito dialettico di un processo storico determinato, la soluzione di un problema storico determinato. Dunque, alcune contraddizioni permarranno, altre ne sorgeranno e noi non possiamo prevederle. Il comunismo risolve problemi storici determinati (dal capitalismo e dal suo sviluppo dialettico), non è la parusia e la fine della storia e dei tempi. Come si gestiranno queste contraddizioni? Dunque, di uno stato, inteso come organizzazione sociale (il futuro stato della società comunista), ci sarà bisogno o no? Certamente non sarà più lo stato nel senso proprio della parola (lo stato in generale come strumento del dominio e della violenza di classe) o lo stato politico della diade hegelo-marxiana stato politico-società civile (lo stato nel senso politico). È chiaro che non sarà più lo stato nel senso di apparato coercitivo separato. È chiaro che l'estinzione dello stato si riferisce in primo luogo a questa accezione e che noi dobbiamo tendere oltre, alla fine della necessità di far valere regole sociali comuni attraverso organi ed apparati specifici; dobbiamo tendere alla costruzione di una società nella quale le regole sociali vengono osservate spontaneamente perché sentite, non perché imposte. Ma sappiamo quando questo avverrà, quando lo stato si estinguerá in ogni sua accezione? Lenin e i comunisti del '900, dinanzi allo stato-moloch sanguinario e repressivo della carneficina mondiale hanno messo in rilievo la necessità di farla finita velocemente con esso, salvo prendere atto che la cosa non sarebbe stata breve e agire di conseguenza. Marx non profetizzó alcun tempo per il compimento di questo processo sociale antropologico, ma ne indicò soltanto le basi strutturali storico-sociali. Cominciamo a renderci conto che il processo non sarà né facile, né breve, né lineare, come una certa faciloneria utopistica e irresponsabile predica senza alcuna cognizione di causa.
Chi non ragiona su queste cose e sulla reale prassi storica è un utopista irresponsabile, o un anarco-liberale, non un marxista. E chi pensa di risolverle assemblando citazioni parziali, che contengono la parola stato, e non realmente comprese, è anche un nominalista primitivo.
Scusate per gli errori, in questo e negli altri commenti, ma, oltre che di fretta, scrivo su uno smartphone.
Fammi capire Mario Galati cosa non ti è chiaro di quanto segue ..
“Mentre i servi della gleba fuggitivi, dunque, volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono spezzare lo Stato per affermare la loro personalità.”
(Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, 1846, Capitolo IV)
“Lo Stato non può eliminare la contraddizione tra lo scopo determinato e la buona volontà dell'amministrazione da un lato e i suoi mezzi come pure le sue possibilità dall'altro, senza eliminare se stesso, poiché esso poggia su tale contraddizione”
(..) ”L'esistenza dello Stato e l'esistenza della schiavitù sono inseparabili.”
(..)“Se lo Stato moderno volesse eliminare l'impotenza della sua amministrazione, sarebbe costretto a eliminare l'odierna vita privata. Se esso volesse eliminare la vita privata, dovrebbe eliminare se stesso, poiché esso esiste soltanto nell'antitesi con quella”. (Karl Marx, Glosse marginali di critica all'articolo : Il re di Prussia e la riforma sociale, Firmato : Un Prussiano, 1844)
“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.”
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, IV)
“Ma l'intero programma, nonostante tutta la fanfara democratica, è continuamente ammorbato dallo spirito di fede servile nello Stato, proprio della setta lassalliana, o, ciò che non è meglio, dalla fede democratica nei miracoli, o è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, entrambe ugualmente lontane dal socialismo.”
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, IV)
“Solo la superstizione politica immagina ancora che la vita civile debba di necessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile.”
(Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia, 1845, Capitolo VI, 3)
"Tutte le rivoluzioni ebbero come unica conseguenza di perfezionare l'apparato statale invece di respingere questo incubo soffocante... L'antitesi autentica dell'Impero stesso fu la Comune... Nella Comune non si trattò dunque di una rivoluzione contro questa o quella forma di potere statale... Si trattò di una rivoluzione contro lo Stato stesso. Non si trattò di una rivoluzione fatta per trasferire questo potere da una frazione all'altra delle classi dominanti ma di una rivoluzione per spezzare questo stesso orrendo apparato del dominio di classe".
(Karl Marx , La guerra civile in Francia)
“lo Stato non è che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di eliminare nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame dello Stato.”
(Friedrich Engels, Introduzione all'Edizione Tedesca de La Guerra civile in Francia, 1891)
“Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue.”
(Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880)
“Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nella quale l'esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base ad una libera ed eguale associazione di produttori, consegna l'intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo.”
(Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato, 1884)
"La teoria secondo cui la società comunista è priva di Stato è il risultato di una semplice deduzione logica: posto che l’esistenza dello Stato è legata all’esistenza delle classi, definita la società comunista come società senza classi, se ne inferisce che nella società comunista non vi è più neanche Stato. Così Marx enuncia la teoria della fine dello Stato in un passo della “Miseria della filosofia” (cfr. Marx-Engels, “Opere complete”, vol. VI, Editori Riuniti, Roma, p. 225). Occorre tuttavia domandarsi come mai la teoria del comunismo e quella correlativa della fine dello Stato non abbiano trovato formulazioni più articolate."
Passando a parlare di cose serie con persone serie, dico a Luciano Pietropaolo che sono sostanzialmente d'accordo con lui e che la sostanza delle sue tesi ho avuto modo di esporla in precedenti discussioni su Togliatti svoltesi su questo sito.
Nel 1950 si era creato il campo socialista, l’imperialismo era sulla difensiva su scala globale e ciò poneva problemi del tutto inediti per un partito rivoluzionario. In tale contesto non si trattava di “rinunciare alla rivoluzione-insurrezione” che peraltro non dovrebbe essere presa come un dogma. In Occidente il punto essenziale rimaneva l’esproprio della borghesia, che poteva però (e può) realizzarsi non come in Russia nel 1917 tramite l’insurrezione classica, ma con un processo graduale di avanzamento e di questo sia Togliatti sia Stalin erano ben consapevoli. La partita si giocava a livello internazionale con diverse modulazioni, ma col presupposto del collegamento inscindibile dei partiti comunisti con l’Unione Sovietica (anche se non c’era più il Comintern). Questo legame per Togliatti rimase sempre molto forte (mentre veniva messo in discussione prima timidamente poi sfacciatamente da Ingrao e dai suoi sodali) e per questo Togliatti rimaneva da un lato il nemico principale della borghesia e della socialdemocrazia, dall’altro lato il “capo” indiscusso (insieme a Stalin) della classe operaia. Si può tacciare di revisionismo il Togliatti che, ricoverato in fin di vita dopo l’attentato del 1948, mentre un’insurrezione spontanea stava per scatenarsi, raccomandava ai suoi di “non fare sciocchezze”? Certo, fece degli errori, per esempio (a mio avviso) l’aver votato l’articolo 7 in Costituzione: non ottenne l’auspicata “pace religiosa” con il mondo cattolico e produsse invece una scia di polemiche pretestuose e interminabili con il mondo laico. Più grave fu il non aver tentato di operare una mediazione nel contrasto cino-sovietico, adagiandosi sulle posizioni kruscioviane. Del resto anche Stalin sbagliò, quando nel 1948 aiutò i sionisti e fece votare in sede Onu per il riconoscimento dello stato ebraico, anche se c’erano ragioni tattiche contingenti.
Oggi, nella attuale situazione di totale regresso e disfatta, le teorizzazioni togliattiane sul partito nuovo o sulla via italiana al socialismo risultano quanto mai caduche: bisogna ripartire da zero, mentre allora, tra il 1950 e 1970 la “rivoluzione mondiale” (sì, è lecito chiamarla così) aveva una solida base (almeno così sembrava) e andava propagandosi con sviluppo ineguale ma articolato in tutto il mondo: quindi quelle teorizzazioni avevano un senso relativamente al globale contesto internazionale.
Oggi l’Europa si trova nel cono d’ombra della Storia, ma il problema della “rivoluzione” si ripropone in latenza ma con prepotenza a livello mondiale, in un contesto geopolitico assolutamente inedito, che nulla ha a che fare col mondo della prima, seconda e terza Internazionale e per operare in tale contesto non servono le continue citazioni e riferimenti agli scritti di Marx, Engels o Lenin.
Prendiamo per esempio il Venezuela: là c’è una delle faglie più profonde dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. Chavez e Maduro sono criticabili per non aver applicato i canoni del marxismo leninismo? Forse, ma il problema non è quello: il problema è sapere se è stata giusta la scelta di utilizzare le risorse ricavate dal petrolio (quando questo volava sui mercati) per dare un wellfare immediato al popolo oppure dirottare quelle risorse sullo sviluppo di un’industria manifatturiera nazionale per liberare il paese dalla dipendenza dall’estero. Nel primo caso si guadagna il consenso delle masse, ma ci si ritrova con una economia fragile, nel secondo caso si avrebbe lo sviluppo industriale, ma con un probabile disagio sociale. La risposta a questo dilemma non la si trova nei classici del marxismo, la si trova con un faticoso “processo di apprendimento” nel quale la tematica della “estinzione dello stato” c’entra proprio come i cavoli a merenda.
“Ma il programma non si occupa né di quest'ultima né del futuro stato della società comunista.”
Come vedete, voi avete confermato esattamente la mia citazione, non letterale, ma esatta, di Marx che parla di uno stato comunista, ossia di uno stato della e nella futura società comunista.
Grazie per esservi adoperati a trovare le citazioni letterali, risparmiandomi la fatica e il tempo, visto che è la cosa alla quale non potete in nessun modo rinunciare, poiché, in tal caso, non condurreste mai una discussione autonoma di contenuto.
Con le parole stato e non-stato si fa una grande confusione e i riferimenti letterali potrebbero risultare contraddittori. Ciò che bisogna comprendere, invece, è la sostanza della concezione e della dottrina dello stato in Marx e in Engels.
Lo stato si estingue nel senso proprio della parola o in quanto stato o nel senso politico (e qui, occorre aver compreso l'essenza dello stato borghese e la sua politicità, in relazione a quanto scrivevo sulla scissione tra società civile e stato politico, cittadino e produttore, ecc.). Si estingue lo stato come apparato coercitivo separato, non lo stato come organizzazione sociale in generale con le sue regole e la sua struttura trasformata.
Se volete risparmiarmi la fatica di cercare le citazioni letterali di ciò che vi potrei esserne di nuovo grato.
E comunque, la cosiddetta estinzione dello stato nel suo senso proprio o politico non è immediata. La dittatura del proletariato è, secondo la definizione di Lenin, un semistato, sempre riferendosi al senso proprio della parola o allo stato politico borghese (forma funzione del dominio di classe della borghesia).
Quanto ad Anna, dico che se può sembrare una dottrinaria è perché, probabilmente, lo è. Se, infatti, afferma teoricamente la preminenza della prassi immanente e poi assembla citazioni e la prassi storica la elude e la ignora, come può qualificarsi questo atteggiamento, se non dottrinario?
A)La frase di Marx “Ma il programma non si occupa né di quest'ultima né del futuro stato della società comunista.” è una critica a Lassalle . In Marx (ovunque, dagli scritti giovanili al Capitale) l’espressione “Stato comunista” diventa un ossimoro.
B)No, non credo che l'URSS, nella situazione dell'epoca, potesse lavorare per l'estinzione dello Stato.
C)Se posso essere sembrata “dottrinaria” , probabilmente è perché l’argomento era la dottrina.
“A mio avviso, deve allora essere riferita alla società comunista senza Stato (e non alla dittatura del proletariato) l’asserzione di Marx, in cui pure si parla di Stato, secondo la quale i comunisti vogliono “mutare lo Stato da organo sovraordinato in organo interamente subordinato alla società” (“Critica del programma di Gotha”, Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 47).” ( cit. Eros Barone )
No. Non si riferisce alla società comunista, ma alla “dittatura rivoluzionaria del proletariato” (ivi, qualche riga sotto). Se non basta "La Critica del programma di Gotha", si può affiancare la lettura della “Guerra civile in Francia” ( come noto, la Comune era, per Marx ed Engels, il prototipo della dittatura del proletariato ). E, riassumendo, gli elementi principali propri della Comune di Parigi in quanto pratica realizzazione del dominio di classe operaio sono, secondo Marx: l’abolizione del centralismo burocratico dello Stato in favore di un decentramento ad organi locali di autogoverno, emanazione della volontà popolare e ad essa costantemente sottoposti; l’abolizione del carattere di separazione dello Stato e dei suoi organi nei confronti della società civile; l’eleggibilità, responsabilità e revocabilità permanente dei funzionari dello Stato, compresi i magistrati, onde impedire il formarsi di un ceto di politici professionisti e il distacco dell'apparato pubblico rispetto alla società; il carattere tecnico-amministrativo e non politico degli eletti negli organi di autogoverno. Essi, cioè, non ricevono una delega politica, ma una commissione di lavoro, ossia l'incarico di svolgere, sotto il costante controllo popolare, una funzione di pubblica utilità. Etc.etc.etc. ( K. Marx, La guerra civile in Francia, Lotta Comunista, 2007, pp. 80-85. )
Esattamente il “mutare lo Stato da organo sovraordinato in organo interamente subordinato alla società” .
“Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue.”
(Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880)
“Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nella quale l'esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base ad una libera ed eguale associazione di produttori, consegna l'intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo.”
(Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato, 1884)
“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.”
(Karl Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, IV)
ritiene che L'URSS, nella situazione dell'epoca, potesse lavorare per l'estinzione dello stato, per offrirsi ai capitalisti e ad Hitler su un piatto d'argento (Horkeimer lo pretendeva mentre Leningrado era sotto assedio. Come giudicare una tale follia e incapacità di comprendere?)?
Ritiene Anna di ragionare sulla base dell'immanenza pratica della storia o sulla base di un dottrinarismo astratto e fuorviante che utilizza citazioni e le utilizza pure male?
Quanto al giudizio su Togliatti, dissento da Eros Barone e non intendo ripercorrere una discussione che abbiamo fatto in altre occasioni. Però, una nota polemica non la trattengo e dico che il giudizio di un Togliatti (che avrebbe costruito un partito piccolo borghese elettoralista) che liquida "tutti i quadri combattenti formatisi nel corso della lotta armata contro il fascismo, quadri i quali in gran parte provenivano dalle file della classe operaia, del proletariato e dei contadini", mi suggerisce una analogia con l'accusa trotzkista rivolta a Stalin di aver liquidato i dirigenti bolscevichi protagonisti della Rivoluzione d'Ottobre. È questo un argomento che viene inserito in uno schema da "rivoluzione tradita", anch'esso cavallo di battaglia trozkista.
Mi permetto di completare la citazione del tuo punto 4 , per farti notare che in realtà ti ho già risposto :
“Di fronte all’immenso sviluppo della grande industria degli ultimi venticinque anni e alla corrispondente organizzazione in partito della classe operaia, di fronte alle esperienze della Comune di Parigi, durante la quale il proletariato per la prima volta ha detenuto il potere politico per due mesi (..) questo programma è oggi parzialmente superato. In particolare la Comune ha fornito la dimostrazione del fatto che la classe operaia non può semplicemente impossessarsi della macchina statale così com’è e metterla in moto per i propri scopi” ( Karl Marx , Il Manifesto, Prefazione all’edizione tedesca del 1872 )
Credo sia opportuno ricordare che “la dittatura rivoluzionaria del proletariato” (Marx, Critica al programma di Gotha), divenuta nel XX secolo, nell’ortodossia marxista di osservanza sovietica, criterio di legittimazione di un rafforzamento del potere dispotico dello Stato sulla società, si rivolgeva nelle intenzioni di Marx precisamente contro ogni ipotesi di valorizzazione, da parte della classe operaia, della macchina statale esistente nella sua autonomia. Sta qui il senso della polemica contro le formule “Stato libero” e “Stato di popolo” contenute nel programma della socialdemocrazia tedesca varato appunto a Gotha nel 1875 : “non è assolutamente compito degli operai rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo Stato è libero quasi come in Russia. La libertà è data dalla possibilità di cambiare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo completamente sottoposta ad essa” (Marx, Critica al programma di Gotha).
La dittatura del proletariato indica per Marx la pratica rivoluzionaria, di massa e corrispondente agli interessi dell’ “immensa maggioranza” della popolazione, che ha come contenuto esattamente il “deperimento” dello Stato. La teoria della transizione dal capitalismo al comunismo accennata nella Critica del 1875 è quindi difficilmente conciliabile con quella teoria degli “stadi” del percorso verso la “società senza classi” culminata, nel medesimo marxismo ortodosso di osservanza sovietica, nella definizione del socialismo, distinto sia dal capitalismo che dal comunismo, come specifico “modo di produzione”. Per quanto Marx distingua infatti tra una “prima fase” della società comunista, in cui continuano a vigere alcuni standard giuridici ed economici tipicamente capitalistici, e una sua “fase più avanzata”, in cui sarà scomparsa la “subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” e si potrà “scrivere sulle bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” (ivi), non vi è traccia nei suoi testi di una teoria della prima fase che ne postuli un carattere di autonomia strutturale. L’obiettivo marxiano del superamento dello Stato è sempre presente, infatti, in ogni momento del processo politico rivoluzionario ( anche qui, quando e come lo Stato avrebbe incominciato a scomparire rimane una domanda la cui risposta è necessariamente affidata alla contingenza della prassi ; non a caso il famoso passaggio di Engels nell’ Anti-Duhring si limita a dichiarare che lo avrebbe fatto “da se stesso” , “estinguendosi” ).
Sono d'accordo con Anna sulla prassi che viene determinata dalla logica immanente del processo storico. Ma allora, perché rifiutare con tanta ostinazione l'esperienza storica che il movimento dei lavoratori ha maturato e non assumerla come propria, come cosa che ci appartiene, con la sua grandiosità e con gli errori e i crimini che gli sono propri, per trarne i necessari insegnamenti (non per l'imitazione pedissequa, da scolari dottrinari, ovviamente).
Su ciò condivido il richiamo di Eros Barone all'esperienza marxista, non tanto ad una dottrina di Marx scolpita sulla pietra.
Perché Anna dimostra incoerenza con le sue premesse teoriche quando si trova di fronte al movimento comunista reale?
Sempre in merito alla prassi dettata dalla cosa, suggerita da Anna, devo esprimere il mio dissenso da Eros Barone sulla posizione e sul posto da egli assegnato a Togliatti. Togliatti non ha mai affermato che la forma democratica parlamentare borghese (come fissata nelle costituzione del 1948) sia la forma trovata e definitiva dello stato socialista, ma solo la forma attuale del processo verso il socialismo nella società italiana del tempo. Non c'era all'orizzonte alcuna altra forma analoga a quella Russa del 1917. Se si fosse presentata in seguito non era nella previsione concreta del tempo. Egli ha indicato la strada che era nelle cose. La strada scelta da Togliatti ha consentito al partito e alle masse lavoratrici di non essere emarginati e schiacciati, come era nei disegni reazionari del tempo.
Non per nulla Togliatti è sempre stato il bersaglio principale di tutte le campagne anticomuniste, ad onta di tutti i togliattiani revisionisti, le cui interpretazioni non servono a salvarlo dinanzi al giudizio degli avversari di classe.
Associarsi "da sinistra" alle campagne contro Togliatti è un grande errore e un regalo agli avversari.
In breve, per Marx, “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” è affidato alla contingenza, di cui non può esistere per definizione né previsione, né teoria da realizzare. La dicotomia ( non marxiana, ma dei vari marxismi ) rivoluzione graduale/rivoluzione violenta è marxianamente priva di senso.
In cosa consisterebbe, quindi, la strumentalizzazione dell'espressione "cretinismo parlamentare"?
Si vuole, invece, strumentalizzare Marx ed Engels per far loro dire che erano per la semplice democratizzazione del sistema parlamentare borghese?
E il fatto che questa forma parlamentare democratizzata presupponga comunque la scissione tra cittadino astratto e produttore, con la connessa rappresentanza astratta, la separazione tra stato politico e società civile, al centro della critica di Marx, come la mettiamo?
Comunemente si annovera il sistema di rappresentanza dei soviet tra le forme di democrazia indiretta (si eleggono rappresentanti, ergo...). Non è l'opinione, per es., di Luciano Canfora, il quale lo annovera tra le forme di democrazia diretta. Il sistema sovietico, per Canfora, è un tentativo di instaurare la democrazia diretta (sotto questo riguardo, nel filone storico cui appartiene la democrazia greca). Perché Canfora giudica in questo modo? Perché interpreta correttamente il pensiero di Marx sul sistema rappresentativo. Non è la democrazia assembleare di tutto il popolo riunito in decisione l'unica forma di democrazia diretta da opporre alla democrazia indiretta. Bisogna capire qual è la caratteristica del sistema rappresentativo parlamentare indiretto borghese per capire l'inversione operata dal sistema sovietico.
La democrazia rappresentativa, parlamentare, borghese si connota per l'astrattezza della rappresentanza: astratti cittadini che eleggono astratti rappresentanti. Nel sistema sovietico, invece, non c'è questo fenomeno di rappresentanza astratta, ma i produttori che nominano i loro esponenti produttori, revocabili e con mandato imperativo. Non c'è più la scissione tra stato politico e società civile, tra cittadino e produttore. I lavoratori dirigono direttamente lo stato; non in riunione assembleare permanente, ma attraverso un sistema piramidale di rappresentanza, dalla base al vertice, che mantiene l'unità della sfera sociale, senza sdoppiarla nell'astratta dimensione politica.
Rispetto alla democrazia indiretta borghese, con la sua rappresentanza astratta, una forma di rappresentanza che elimina questa astrattezza è forma di democrazia diretta. Si deve considerare la rappresentanza sul piano sociale, non sul piano individuale. I rappresentanti sovietici sono esponenti diretti della componente sociale da cui provengono. Non sono rappresentanti astratti di un certo numero di cittadini astratti o di un'altra altrettanto astratta "nazione". Essi sono esponenti eletti, più che rappresentanti.
Un sistema rappresentativo parlamentare, pur democratizzato col suffragio universale non può far questo e non è fatto per questo. Si mantiene sempre nell'ambito borghese, cui è forma funzionale. È sempre democrazia borghese.
Dire che Marx ed Engels intendevano mantenere la democrazia borghese sarebbe un'enormità.
Avanti così! Più le parrocchiette sono irrilevanti (ammesso che sia possibile più di quanto lo sono già) più si chiarisce l'aria per gli operai!