La discussione entro Nuova Direzione
Osservazioni sulle note di Riccardo Bernini
di Alessandro Visalli
Nell’ultimo mese, in vista della seconda assemblea di Nuova Direzione, è stato avviato un dibattito che per ora ha visto un primo intervento di Carlo Formenti[1] e di Alessandro Visalli[2], ed una replica nel merito e molto articolata di Riccardo Bernini[3].
Il pezzo di Formenti, che apre la discussione, ricostruisce sinteticamente il contesto nel quale aveva preso forma il progetto organizzativo di Nuova Direzione, il cui scopo era di tentare di addensare le varie forze che nel quinquennio dal 2014 al 2019 avevano via via sviluppato una critica alla arrendevole posizione delle sinistre italiane ed internazionali verso la mondializzazione e i progetti di governance sovranazionale (sopra tutti l’Unione Europea). Ovvero di proporre una piattaforma che muovesse dalla sovranità costituzionale, superando anche le esitazioni e compromessi della piattaforma di “Patria e Costituzione” che, pure, alcuni dei protagonisti, come i due primi scriventi, avevano contribuito attivamente a promuovere[4]. Nuova Direzione era, insomma, solo l’ultimo anello di una catena di tentativi, variamente prodotti entro diverse associazioni, per ricostituire nel paese un punto di vista socialista, orientato alle ‘periferie’ (ovvero al mondo del lavoro debole, agli ambienti sociali periferici e alle relative soggettività), e potenzialmente egemonico[5].
Il principale elemento diagnostico che mosse quella serie di tentativi era che si era aperto, con la crisi del 2008-13, in tutto il mondo occidentale, un “momento Polanyi” nel quale lo scollamento tra i luoghi più dinamici dell’economia e i relativi ceti internazionali privilegiati e la grande maggioranza si era reso manifesto e provocava ormai una divaricazione non contenibile.
La crisi era, dunque, contemporaneamente economica, sociale, culturale e politica. In questo contesto, che sembrò avere una netta accelerazione nel biennio 2016-18, i vari tentativi di applicazione della logica ‘populista’ (che non è certamente nuova al nostro paese) sembrarono aprire improvvisamente una sorta di finestra di opportunità per l’irruzione del basso e periferico nelle munite cittadelle della politica istituzionale.
Ma già l’anno scorso, quando si tenne l’assemblea, sembrava di essere al termine di un periodo di spinta e sulla soglia di una normalizzazione (era stato costituito, infatti, il governo bianco-giallo) e di ritorno recuperante ad una politica “normale”. Accelerammo, non senza dubbi, nella generosa ipotesi che le tensioni determinate dal doppio tradimento del Movimento 5 Stelle, che in Italia negli anni della crisi ha svolto un ambiguo compito di raccolta e canalizzazione del dissenso, potesse rimettere in circolazione energie potenzialmente rilevanti.
Nella prima riunione del Direttivo[6] della nuova associazione, a gennaio dell’anno scorso, lo scrivente sottopose il seguente testo:
“Del mare e dei suoi pesci
È necessario chiedersi quale immagine di sé si coltiva e quale si legittima.
Alcune cose sono chiare:
- noi non vogliamo essere l'ennesima versione della strategia di crescita dal basso e dall'esterno, mutualistica, che non si pone il tema del potere, della sinistra anarco-libertaria. Si tratta di cose rispettabili, le amiamo, ma sostanzialmente sterili. Dopo decenni dovrebbe essere visibile.
- Noi non vogliamo neppure essere l’ennesima versione della strategia di crescita rapida, violenta e per strappi, del primopopulismo o del neopopulismo che lo ha seguito. Mimesi e comunicazione, adesione più che lavoro nel senso comune, sostanziale rifiuto del potere (anche, e soprattutto, quando si punta a entrare nella cittadella).
- La questione che poniamo, nelle tesi e nelle nostre comunicazioni, è di fare potere. Costituire un blocco sociale eterogeneo, nel quale la direzione e l'egemonia sia prodotta dalla periferia che si faccia potere.
Per andare in questa direzione dovremo superarci, dovremo necessariamente morire. E dovremo trovare il modo di essere capaci di farci parte dell'unione di forze altamente eterogenee, che oggi nemmeno immaginiamo, capendo, assorbendo, aderendo alla loro parte di ragione. Essere pesci nel mare, non pensare di diventare noi stessi il mare (ma non sardine, pesci con testa e corpo, forti tra i forti).
La forza di fare questo ci può venire dalla nostra ferma volontà di passare “tra Scilla e Cariddi”, scontentando l’una e l’altra, ma anche dalla determinazione a trovare una forma. A comprendere e superare il limite interno della politica neopopulista, l’attitudine mimetica, e, d’altra parte, ogni tentazione di purezza e di isolamento identitario.
Parte di questo tentativo è lo sforzo di superare la sinistra liberale, i suoi sempre più stanchi riti, i sempre più numerosi interdetti, lo spirito della sua astrazione, della sua separatezza, del suprematismo che sempre esprime. Lo sforzo di comprendere il proprio tempo e di contaminarsi con esso.
Altra parte è la tignosa volontà di stare dove si discute, dove si cerca qualcosa di nuovo, dove si cercano direzioni che facciano la differenza. In tutti i luoghi dove si presenta la potenzialità di un nuovo potere”.
La crisi pandemica ha mosso l’intera situazione in una direzione che ancora non è chiara[7]. Ma si potrebbe dire, per usare la stessa immagine, che intanto ha svuotato il mare[8]. D’altra parte, al secondo tradimento ne è seguito un terzo, ma, come si vede anche dagli eventi di questi giorni, chi si smarca dalla svolta neocentrista del Movimento che avrebbe dovuto “aprire come una scatoletta di tonno” la politica italiana non sa dire altro che tornare allo spirito originario del movimento[9]. Ovvero a quella antipolitica fondamentalmente qualunquista e senza progetto che è grande parte del problema, non della soluzione. Siamo a corto di opzioni strategiche.
Infine, la reazione alla tensione disorganizzante indotta dalla pandemia ha portato un doppio movimento di portata potenzialmente più che congiunturale: da una parte di fronte al rischio una componente molto grande dell’opinione pubblica ha reagito stringendosi al governo pro-tempore (fosse esso il mediocre governo Conte II o il governo Draghi), mentre una componente minore si è radicalizzata su posizioni largamente irrazionali e meramente reattive; dall’altra di fronte alla sfida, esistenziale, determinata dalla dissimmetria dell’impatto e dal potenziale disgregante di questo, sia in Usa o Uk, sia in Europa – se pure in chiave nettamente minore – il neoliberismo austeriano standard è stato per ora accantonato. È stata quindi programmata, come sempre in Europa in sedicesimi, una ripresa della spesa pubblica e della programmazione rivolte ad ottenere un triplice risultato:
- Consentire, tramite investimenti mirati, un significativo salto di efficienza nell’impiego delle risorse grazie all’applicazione di pacchetti tecnologici più avanzati nell’industria, nelle infrastrutture, nei servizi e nella pubblica amministrazione, oltre che di una maggiore indipendenza energetica e minore consumo di risorse strategiche (perché limitate);
- Incorporare parte dei territori periferici, o in via di declino, perché fungano da corona nella catena input-output di valorizzazione strettamente governata dai centri d’ordine europei e mondiali, in Italia questa manovra si applica al Nord del paese e probabilmente in modo selettivo e tematico ad alcune aree del centro;
- Ricomprare la fedeltà di parte dei ceti intermedi a più elevata scolarizzazione o dotati di competenze tecniche od organizzative utili al progetto di riattivazione di un ciclo di sviluppo autosostenuto.
Almeno questa è la mia impressione, necessariamente provvisoria, che rende necessaria una fase di riflessione per ridefinire obiettivi prioritari, avversari e/o alleati, strategia. Da questa diagnosi deriva, ma la cosa è sul piano strettamente personale, la decisione di prendere una pausa di riflessione, non trovo serio ed appropriato restare in posizione dirigente quando non si sa più in che direzione promuovere un progetto.
La replica di Riccardo Bernini è molto lunga ed articolata, certamente interessante, e tocca fondamentalmente cinque punti:
1- Non è condivisa la prima parte della diagnosi, fondata sulla disillusione per la possibilità di riattivazione in direzione di un progetto neo-socialista delle forze ora inquadrate nel Movimento 5 Stelle. Al contempo, lo scollamento tra la rappresentazione politica e quella che chiama “la società”, è giudicato ancora pienamente presente. Le attuali tendenze (che non sono solo frutto della pandemia, se pure questa le ha accelerate) sarebbero quindi solo congiunturali. Mentre io e Carlo giudichiamo la fase come di riflusso e dis-organizzazione delle forze anti-sistemiche, Riccardo sembra sospendere il giudizio.
2- Avendo percepito che nei testi in oggetto le Tesi[10] di nuova Direzione approvate in assemblea, e frutto di un lavoro di quasi un anno del vecchio Gruppo di Coordinamento[11], venivano dichiarate superate, il nostro ne riafferma invece la validità. Ad un certo livello non sarà certo chi scrive a dichiarare le Tesi non valide[12], ma ad un altro ogni fase politica ha bisogno di ripensarle. Infatti, perché una Tesi politica abbia senso è necessario che sia ancorata ad un progetto politico, ovvero ad una scelta di alleati ed avversari, di obiettivi effettivi, di una ipotesi di efficacia.
3- Più precisamente nel testo viene dichiarato che “nulla è smentito sul piano oggettivo [delle Tesi], se non la nostra incapacità/impossibilità soggettiva a darvi seguito” fino ad oggi. Questo è un punto molto profondo, perché se ad una Tesi, astrattamente corretta, non si può dare seguito ne consegue che non è politica. Si fa sempre politica per cambiare il mondo, se non si riesce bisogna cambiare obiettivi e strategia. Ovviamente la cogenza di questo punto dipende abbastanza interamente dalla natura della crisi di fase, se vige l’ipotesi che sia meramente congiunturale e nulla di importante sia cambiato, allora anche le Tesi sono confermate, gli errori diventano personali.
4- Dopo aver per due volte dichiarato di essere frastornato (e ce ne è ovviamente ragione), si viene al punto più dirimente e di effettiva distanza. Nella pagina 4 dopo aver dichiarato la volontà di continuare a cercare (anche tramite due interessanti seminari in progettazione), la “minima immagine” di quel che si cerca è nominata nella “immagine di una nuova socialità da costruire, avendo perduta fors’anche la memoria di quella operaia delle grandi fabbriche smantellate”. Ora, è un poco strana questa idea di avere come obiettivo centrale la costruzione della immagine di una socialità che non c’è, perché lo scopo dell’azione politica, ed anche della discussione politica, deve sempre essere l’azione sul mondo. Tramite l’azione può darsi anche apprendimento sociale, e possono crearsi altre forme di socialità, ma bisogna che le azioni siano intraprese per fini concretamente operativi[13]. Qui probabilmente si sfiora una delle radici della circostanza per la quale il rischio di inefficacia delle Tesi e della strategia politica immaginata per una fase diversa è valutata negativamente da me e Carlo, mentre viene vista con maggiore tolleranza da Riccardo. I benefici e lo scopo principale di un’azione, od organizzazione, politica non può essere l’effetto educativo sui suoi membri, o su coloro che ne sono interessati, perché l’impegno necessario per essa pretende serietà. Ovvero non si può agire senza puntare ad un risultato effettivo nel mondo, sarebbe una forma di narcisismo e correttamente interesserebbe a ben pochi. In altri termini tutte le mobilitazioni sono finalizzate a produrre un effetto, non a far stare insieme le persone. Come scrive Elster nel testo prima citato: “la dignità, come l’espressione personale, l’autorealizzazione e simili, sono effetti essenzialmente secondari. Non esiste un’attività o una kinesis consistente in ‘acquistare dignità’, nel senso in cui si può parlare dell’attività di ‘apprendere il francese’, anche se altre attività come unirsi nel perseguire un obiettivo comune possono produrre la dignità come effetto secondario”[14].
5- Da ultimo compaiono considerazioni non completamente comprensibili sulla necessità di sciogliere le ambiguità nell’interpretazione dell’articolazione sociale e della creazione di soggettività a partire dalla funzione ricoperta nei processi di riproduzione sociale, presenti obiettivamente nella tassonomia proposta nel mio articolo, “mangiando la mela” e non solo contemplandola. Ovvero, entrando nell’azione concreta senza “staccare la testa dalle gambe”. Con questa immagine antropomorfa, che presuppone un’unità organica ed una divisione dei compiti, si invita a superare lo scoraggiamento per la schiacciante incapacità materiale (ammessa all’avvio), e, al contrario, agire per accomunare le forze in campo nei vari raggruppamenti. In questo contesto è dichiarata non distinguibile l’analitica gramsciana tra ‘guerre di movimento’ (la subitanea rivoluzione del ’17) e ‘guerre di posizione’ (la proposta di lottare tra le casamatte per conseguire egemonia politico-culturale). Qui si perde un poco il senso. La ‘guerra di movimento’, nella trasposizione proposta, era quella immaginata nel periodo 2015-20, quando si poteva ipotizzare che il consenso di sistema stesse rapidamente franando e che una vasta area critica si stesse mobilitando (il “mare”). Se lo sfondamento fallisce è necessario passare ad una ‘guerra di posizione’, per lavorare sulla costruzione egemonica, concetto per concetto e azione per azione. Ovviamente si può anche dire che la fase è ancora fluida e offre opportunità di successo immediato, ma in questo caso si deve cercare gli alleati per ottenerlo.
Mi pare dunque che la divergenza sia effettiva, e che si articoli su diversi piani, ma si possa ricondurre ad una diversità di percezione. Mentre gli scriventi, in linea con una discussione che nel direttivo di ND è iniziata già nell’aprile scorso (se pure poi con diverse prescrizioni politiche che condussero ad una netta e lacerante divaricazione), ritengono che il doppio movimento che la pandemia ha contribuito ad accelerare (ma che era già avviato) sia effettivamente discontinuo, Bernini ritiene che non ci siano effettive differenze. Da questa diversa percezione discende, coerentemente, che per lui la strategia e le Tesi sono del tutto attuali, la ragione di esistenza dell’associazione non variata, e se c’è stata incapacità è da attribuire ai singoli ed alla situazione straordinaria.
Peraltro secondo questa visione l’azione, se anche fosse ineffettuale, non per questo sarebbe inutile in quanto comunque produttiva di socialità. Costruire un’immagine di una socialità che non c’è sarebbe, in altre parole, il compito primario. Compito per il quale occorre tenere insieme ‘guerra di posizione’ e di ‘movimento’ (con un significativo slittamento semantico dei termini) e non ‘staccare la testa dalle gambe’.
Essere in disaccordo è una buona cosa. Ed è del tutto possibile che alla fine la percezione di Bernini sia più aderente alla situazione di quella mia e di Formenti. In effetti sarà l’evoluzione degli eventi a chiarirlo, e per questo bisognerà attendere. Nel frattempo ciascuno può cercare di svolgere al meglio il compito che le sue poche forze ed attitudini consentono.
Personalmente credo che l’azione politica non possa svolgersi senza un concreto e raggiungibile (almeno credibilmente) obiettivo, e che la situazione richieda una nuova analisi.
A questa mi vorrei attenere.
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