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carmilla

La recessione interiore

di Giovanni Iozzoli

88yy7712Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui pavimenti dei loro eleganti uffici riceve solo segnali preoccupanti. Si sa che il nemico è in avvicinamento, se ne vedono tutti gli effetti già pienamente squadernati: fatturati, ordinativi, scorte, inflazione, tutti gli indicatori hanno il segno meno, e con persistente continuità.

In Italia siamo passati da un periodo di contenuta euforia – la crisi è passata, concentriamoci sulla terribile bellezza e la geometrica potenza dell’industria 4.0 –, all’attuale panico mal dissimulato. Il dio capricciosissimo del ciclo economico sta compilando nuovi elenchi di predestinati all’inferno: i fedeli non si salveranno mediante le opere – eppure ci danno dentro di brutto, attraverso l’intensificazione dei ritmi, le condizioni di sfruttamento, la compressione dei salari, il dumping contrattuale. Fanno il loro dovere, gli imprenditori italiani: piangono e fottono, soprattutto i lombardo-veneti – che dentro la crisi, con riflesso automatico, abbandonano le compassate velleità mitteleuropee e si riscoprono interpreti del più melodrammatico mammismo mediterraneo. Aiutateci, aiutateci tutti a stare in piedi, a rimanere sul mercato, compattiamoci, abbiamo bisogno.

Adesso la panacea di tutti i mali, il rimedio anticiclico per eccellenza, sono diventate le grandi opere – come se la realizzazione di una bretella stradale Sassuolo-Campogalliano, nel modenese, ad esempio, potesse invertire il corso della crisi globale.

In una disperata assillante richiesta di risorse e intervento pubblico, il capitalista si scopre veterosocialista ogni volta che sente puzza di fallimento: bisogna sganciare soldi pubblici per la sostenibilità del sistema bancario, per incentivare l’innovazione, per lanciare le start-up, per stimolare nuove assunzioni, per coprire le carriere contributive dei precari-massa, per martoriare il paese solcandolo di nuove inutili lingue d’asfalto – soprattutto il catino padano, insalubre epicentro europeo del tumori, in cui la costruzione di nuove strade dovrebbe essere vietata per legge, come la circolazione di gran parte del parco veicoli. Volevi solo i soldi – canta Mahmoood e sembra un’invettiva contro l’imprenditore italiano. Cambierebbe il suo Keynes con due Friedman e un Adamo Smith? Nessun padrone italiano accetterebbe il cambio, perché il mercato è bello quando funziona e gonfia dividendi e compensi. Ma quando si inceppa, quando i suoi inafferrabili meccanismi interni smettono di valorizzare i capitali in circuito, allora il sistema si rivela farlocco, spericolato, distruttivo e insostenibile anche per i suoi cantori. E lo Stato – la potenza etica del Def – ridiventa imprescindibile. Del resto, non li abbiamo sempre tacciati di “ordo-liberismo”? Laddove ordo per loro vuol dire soldi pubblici alle imprese private. Lasciamole studiare ai ragazzi all’università, le favolette sui mercati. Chi “fa impresa” è dedito al pragmatismo.

Già, ma chi è che fa impresa nell’Italia del 2019? Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma che peso specifico abbiamo come sistema industriale? Siamo consapevoli che il nostro manifatturiero è per il 95% formato da micro-aziende? È da qui che dovrebbe nascere il “partito degli industriali” che auspica disperatamente «Repubblica»? Come fa questa mucillagine a rivendicare un ruolo di moderna borghesia, di classe dirigente, ad avviare una qualsivoglia riflessione sui modelli di sviluppo o di consumo? Dice qualcosa il fatto che il presidente di Confindustria sia oggi un morto di fame salernitano con un’aziendina da quaranta milioni di fatturato? (E poi quel Boccia lì è una figura inquietante: non ha alcuna espressione o motilità facciale, sembra manchi di un vero volto, come Fantomas – e anche questo dato fisiognomico è una buona metafora dello stato dell’impresa italiana).

La crisi non è mai passata, assume semplicemente un andamento irregolare perché il ciclo è sottoposto a una moltitudine di condizionamenti, anche politico-militari, che ne modificano imprevedibilmente il corso. Cinque o sei anni sono un tempo storicamente irrisorio e ininfluente, per giudicare i cicli economici. Solo degli inguaribili ottimisti potevano pensare che “c’eravamo saltati fuori”: in base a cosa, a quale nuovo filone aureo di investimenti, in base quale forte domanda aggregata, sostenuta da quali redditi? Eravamo usciti dalla crisi per la benedizione dello Spirito Santo? Quali cause erano state poste – non dico nel mondo, ma almeno a livello europeo – per contrastare il rischio di inevitabili ricadute? Oggi si dà la colpa a Trump, al contenzioso commerciale con la Cina, alla persistente instabilità del Medio Oriente, mentre dieci anni fa si dava la colpa alla voracità dei grandi attori finanziari e ai mutui subprime. Come se il sistema fosse sano ma occasionalmente deviato dal peccato o dall’imperizia. Tutti sanno che le contese commerciali non sono cause di crisi, bensì sue manifestazioni epifenomeniche. Tra compari si litiga e ci si accoltella quando il bottino è scarso: le guerre daziarie di solito precedono quelle militari.

Quindi torniamo a noi, ai padroncini italiani, le seconde e terze generazioni di quelli che avevano fatto il boom. I nostri baldi capitani d’impresa sono lì accovacciati con un orecchio in terra, il «Sole 24 Ore» in mano, lo sguardo perso rivolto a consulenti e collaboratori. Il range di scelte che hanno davanti è obiettivamente ristretto: la maggior parte delle impresuccie italiane non ha capitali e know how per fare competizione “sui processi e sui prodotti”. Si tratta di aziende che in questi anni, nel migliore dei casi, sono tornate a fare i contoterzisti del sistema franco-tedesco, enormemente più solido. I più attrezzati continuano ad esportare, dentro settori in cui permane una vocazione specialistica, settoriale, nella quale mantengono il primato. Ma anche questa faccenda dell’export a tutti i costi, sta rivelando l’altra faccia della crisi italiana. Sta a galla chi esporta perché l’Italia è un mercato di consumo chiuso, saturo, esposto a ogni genere di penetrazione di prodotti low cost, a causa della caduta dei redditi. In questa condizione, Boccia-Fantomas accetterebbe di buon grado anche un piano quinquennale varato dal Gosplan.

E poi chi è in grado oggi di competere e aumentare i volumi, ha sempre qualche carta nascosta nella manica. A Modena ha destato clamore nazionale la vertenza Italpizza – azienda esportatrice in crescita, eccellenza dell’agroalimentare, ben ammanicata con la politica che la additava come esempio virtuoso. In seguito a una dura lotta ai cancelli, in cui sono volati decine di lacrimogeni (ed è stato utilizzato per la prima volta il decreto Salvini per denunciare penalmente gli operai che facevano i blocchi stradali) i lavoratori Italpizza hanno conquistato le prime pagine locali: e i modenesi hanno scoperto che in quell’azienda-goiello si vessano normalmente i dipendenti, gli orari sono impossibili e più dell’80% di loro sono precari, poveri, in mano alle solite cooperative, inquadrati con il più miserabile dei contratti – quello delle pulizie – anche se farciscono le pizze che poi troviamo nei banchi surgelati. Pure il benpensante medio modenese ha cominciato ad arricciare il naso: non è che si sta eccedendo, con queste robacce? Non è che a forza di impoverire e precarizzare, finisce che tagliamo il ramo sui cui siamo tutti seduti? Si, è proprio così. I rimedi alla caduta dei profitti ne accelerano il corso. Sembra un bignamino marxista. E poi in certi territori permane una memoria di mobilità sociale e di dignità del lavoro, un residuo dei tempi gloriosi in cui l’impiego operaio non era una condanna alla miseria e alla dequalificazione. La chiamavano “coesione sociale” e sembra un’antica leggenda.

Anche gli economisti cominciano a manifestare qualche perplessità. E i giornalisti economici – sottocategoria sfigata dell’ambient – annusano l’aria. Migliaia di accademici e studiosi continuamente impegnati a sfornare saggi e consulenze e mai nessuno che sia in grado di effettuare una qualche realistica previsione: anche questa fase della crisi, fino alla primavera scorsa, non era stata predetta da nessun economista maistream. Viene da pensare che davvero le facoltà economiche coltivino generazioni di falliti, nottole di Minerva che, con i loro grafici stretti nel becco, provano a spiegare ciò che già è in essere, sotto gli occhi di tutti. E comincia a manifestarsi qualche legittimo dubbio anche tra i sapienti. In tutto il mondo occidentale esiste un gigantesco problema di caduta dei redditi da lavoro (una quota crescente di americani non riescono a onorare i prestiti subprime per l’acquisto dell’auto, altro che i mutui casa del 2008). E qualcuno (vedi il pasdaran riformista Fubini) sta iniziando a nutrire il timido sospetto che ciò rappresenti un problemino rilevante, rispetto a ogni velleità di ripresa. A Parigi da 4 mesi migliaia di persone anziché impegnarsi nello shopping del sabato pomeriggio, vanno a spaccare vetrine in centro: c’è una qualche connessione macroenomica tra questi comportamenti sociali, l’andamento del ciclo e la distribuzione del reddito nazionale? Qualche studente del primo anno di Economia e Commercio, potrebbe spiegarlo ai suoi prof?

E i sindacati, cosa annusano nell’aria mentre la recessione si avvicina? Sono francamente terrorizzati anche loro. Il fatto è che il capitalismo è un sistema di oggettiva corruttela morale: cioè corrompe le menti, costringe alla complicità anche chi dovrebbe esserne contrappeso. Il sindacato dentro un sistema capitalistico che si destabilizza o si impoverisce, perde progressivamente peso. Perde cioè il potere di interdizione e di contrattazione, che rappresentano i suoi fondamenti: antico dilemma del movimento operaio, la “lotta economica” è efficace solo se il capitalista guadagna e la macchina gira. È dal 2008 che, con queste materialissime contraddizioni, il movimento sindacale tutto, in Italia e in Occidente, ci sta sbattendo il grugno: i posti di lavoro persi, le aziende chiuse o delocalizzate, i territori impoveriti; e a catena, meno scioperi da praticare o minacciare, meno quote-delega, meno risorse, meno delegati e attivisti disponibili. Non è un caso che negli ultimi dieci anni, l’unico settore in cui si siano sviluppati lotte e organizzazione, sia quello della logistica, settore fisiologicamente in crescita per i colossali cambiamenti dei mercati e dei consumi. I sindacati da un po’ di tempo stavano ricominciando a fare un po’ di contrattazione aziendale, finanche con qualche elemento “acquisitivo”, dopo che per lunghi anni avevano svolto essenzialmente il ruolo di enti di cogestione degli ammortizzatori sociali. Qualche azienda, qua e là, a macchia di leopardo, aveva ricominciato timidamente ad assumere, sbloccando il turn over. I milioni di ore di cassa integrazione si erano andati anno dopo anno riducendo. E l’ipotesi di tornare al punto di partenza – tra l’altro con uno strumentario di ammortizzatori sempre più povero – deprime oggi anche i più arditi.

E gli operai e le operaie, gli impiegati, i tecnici, i precari del lavoro privato italiano, come vivono questa quasi-recessione ormai conclamata? Dieci anni di crisi hanno colpito duramente consapevolezza e morale. È come se l’orizzonte della crisi fosse stato interiorizzato, come se rimanere senza lavoro o perdere fette consistenti di reddito, facesse parte dell’ordine naturale delle cose. Perché fasciarsi la testa? Se arriva arriva. Pazienza per i mutui da onorare, per le rate dell’università dei figli, per carriere che si trasformano in corse ad ostacoli verso la pensione. E questo è uno dei segreti della longevità del capitalismo: riuscire a convincere i proletari che le sue categorie – il mercato, la valorizzazione e appunto la crisi – siano elementi naturali. E nelle zone industriali la memoria del 2008 è ancora vivida e terrorizzante: le aziende che chiudevano, migliaia di interinali e partite Iva a casa dalla sera alla mattina senza preavviso, microimprenditori strangolati dalla stretta creditizia e dall’annullamento delle commesse. Nei baretti di periferia si attendevano con ansia i dati dell’indice Nikkei.

Torna in mente una vecchia intervista al professor Cacciari, nel 1989. Nei giorni convulsi della caduta del blocco socialista, l’esimio accademico ebbe a dire: «oggi non possiamo più definirci marxisti, perché altrimenti dovremmo andare davanti ai cancelli delle fabbriche a raccontare ai lavoratori che per loro nel capitalismo non c’è alcun futuro!». E lo diceva in modo paradossale, come a dire, «suvvia: siamo alla vigilia di una belle epoque, di un rinascimento globale, basta con gli antichi pessimismi dei nostri vecchi maestri». Oggi, invece, sarebbe proprio necessario farli quei due passi davanti ai cancelli e dire parole di cruda verità sul futuro nostro e del nostro mondo. Un giorno per le prossime generazioni che avranno conquistato la libertà di un nuovo discorso anticapitalista, il nostro modo di produrre sembrerà una vecchia irrazionale superstizione.

Esistono spesso, nelle brutte zone industriali della Padania, degli spazi abbandonati tra gli stabilimenti; là dove finisce il muro di cinta di un capannone, si apre uno spazio di terra abbandonato che termina trenta o cinquanta metri più in là, per lasciare il posto alla recinzione di un’altra azienda. Sono pezzi di campagna che nessuno cura, pieni di rovi, spine, arbusti storti e intricati; o brulli, senza vegetazione, con la terra nera e secca, che d’inverno è sempre ghiacciata. I comuni non hanno i soldi per pulire, le piccole aziende pure, e forse non si sa neanche bene di chi è la competenza. Forse quei pezzi di terra sono ancora di proprietà di vecchi contadini ormai morti, che quaranta o cinquant’anni fa vendettero le loro aree agricole a vecchi imprenditori, morti pure loro. Quelle zolle ghiacciate sono i testimoni muti di un passaggio, di una transizione, di un cambio d’epoca. A qualcuno danno inquietudine, evocano l’idea di una bocca sdentata e malandata. Rappresentano l’ombra della povertà rurale, che solo un paio di generazioni prima fu il nostro pane. Meglio non fissare troppo lo sguardo su quei vuoti, di questi tempi.

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