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Mondi della differenza

di Figure

figure1111. Nel mondo anglosassone sono conosciute come identity politics e i gruppi cui sono rivolte sono detti identity groups. In Italia non c’è un vero e proprio corrispettivo: a volte si usa “politiche dell’identità”, altre volte “politiche della differenza”. Esse identificano tutti quei discorsi politici che ragionano attorno alla disuguaglianza degli individui o di alcuni gruppi, nel momento in cui questa disuguaglianza deriva da una loro differenza propria. Le due differenze che storicamente hanno fornito il modello apripista per le altre, e per le rispettive politiche, sono quella di genere e di razza.

La necessità di un fronte politico che faccia perno sulle questioni della differenza è figlia delle lotte di liberazione delle colonie, delle lotte per i diritti dei neri e delle lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta. Attraverso questa nuova conflittualità sono andati in frantumi i modelli e le norme che si volevano universalistici nella modernità. Diventa palese come l’Uomo, la Libertà, l’Uguaglianza e tutti i valori cardine della migliore cultura occidentale fossero costruiti anche sull’esclusione. A destra come a sinistra, tutti hanno dovuto fare i conti con le questioni che sono state poste da soggetti storicamente esclusi e discriminati nell’esercizio del potere non solamente per una differenza strettamente socio-economica – come vuole la vulgata comunista – ma per elementi che si posizionano su piani diversi.

Fra i due valori cardine di liberté ed égalité, le politiche della differenza aprono alcune contraddizioni: è davvero possibile coniugare l’uguaglianza dei soggetti alla rivendicazione della libertà di essere differenti? Se è possibile, come lo si realizza nella pratica? La complessa portata dei soggetti in campo e dei loro rapporti con la società pone infatti le politiche della differenza in perenne oscillazione tra due alternative: la volontà di essere ricondotti alla norma combattendo per politiche di non discriminazione e di pari opportunità, e un rifiuto della norma escludente unito alla rivendicazione di uno spazio altro e di un diritto differenziale.

 

2. Eppure il discorso della differenza va affrontato anche in relazione al problema della disuguaglianza socio-economica. Le donne protagoniste della prima stagione femminista in Italia, i neri che si mobilitarono in USA erano, non a caso, i soggetti economicamente più svantaggiati. Da questa iniziale fase conflittuale, ben presto si sono definite due linee distinte. Da una parte, i movimenti hanno continuato ad avanzare una rivendicazione chiara: la lotta per le differenze deve procedere parallela a quella contro le disuguaglianze, il legame fra i due elementi viene affrontato nella sua globalità. In questo caso, uguaglianza non è sinonimo di omologazione, ma identifica la prospettiva di un’equa realizzazione individuale e sociale nella diversità. Dall’altra parte, dalla fine degli anni Ottanta, i governi neoliberisti hanno a propria volta affrontato il problema di recidere quel legame, senza mirare però all’eliminazione della disuguaglianza socio- economica: questa, secondo un classico principio liberale, non deve essere una condanna ereditaria, legata al genere o al colore della pelle; ma deve continuare a sussistere, come enzima necessario al movimento del mercato e alla produzione di ricchezza. È evidente che le politiche della differenza assumono così due portati molto diversi.

 

3. Per come sono teorizzate da parte di molti movimenti, le politiche della differenza si pongono come obiettivo il mutamento delle strutture della società nel loro complesso: potenziare le differenze senza perpetrare le disuguaglianze è possibile solo mutando i modi di vivere dei soggetti, le relazioni con l’altro, i rapporti di produzione. La società attuale si basa infatti su un sistema di disuguaglianze disposte su vari livelli, che deve essere affrontato nel suo complesso: altrimenti, si rischia solo di spostare il problema su altri soggetti, i futuri discriminati. Il soggetto differente ricopre in questa lettura il ruolo che storicamente era stato assegnato alla classe operaia nella costruzione di una società più giusta; si pone come perno di un generale sollevamento della società intera e di risoluzione di tutte le sue contraddizioni. I movimenti interpretano la differenza in quest’ottica anti- sistemica e anti-capitalistica, conferendole un ruolo fondamentale nella lotta alle disuguaglianze.

Negli ultimi anni questi hanno avuto così la forza di porre all’ordine del giorno una serie di problemi che sono penetrati nel discorso pubblico. Su tutti, la necessità di un nuovo femminismo che esca da alcune secche del dibattito teorico ha avuto un peso fondamentale nella vita politica non solo italiana; con le pratiche antirazziste, inoltre, si è tentato di porre un argine al montare delle destre. Restano comunque aperte le questioni che riguardano la possibilità pratica di organizzare una pluralità di rivendicazioni e di soggetti in vista di un obiettivo comune; alcune aree del movimento, anzi, mettono in dubbio la stessa necessità di una struttura che garantisca alle differenze un terreno condiviso di dialogo e conflitto. Il muoversi pulviscolare di soggetti diversi, le loro lotte particolari, indipendentemente da qualsiasi organizzazione, dovrebbero spontaneamente condurre al traguardo.

Oltre al nodo dell’organizzazione, che sottende anche il problema del rapporto con le istituzioni, i movimenti che incentrano la propria azione politica sulle questioni poste dalla differenza, devono fare i conti con la capacità fagocitante del sistema capitalista, in grado di inglobare e mettere a valore tutto ciò che nasce come sua opposizione.

«Quante vicende, / tante domande»: ma se non si prova di certo non si riesce.

 

4. Sia per contingenza storica, sia perché la tolleranza ne costituisce il caposaldo, anche il discorso liberale è stato particolarmente recettivo nei confronti delle politiche della differenza, che hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire l’identità della sinistra ‘socialista’ dopo la fine del Secolo Breve (1914-1991). Soggetti, partititi e in generale tutto un humus culturale in cerca di un’identità post-comunista si sono definiti sul piano politico attraverso un liberalismo attento ai problemi e alle questioni poste dalle differenze e sul piano economico da una progettualità neo-liberista caratterizzata da un’accettazione totalizzante del mercato come unica forza viva della società.

Esempio significativo di questo nesso è il Partito Socialista spagnolo guidato da Zapatero. La radicalità del liberalismo di Zapatero e le conquiste fatte in Spagna in termini di diritti civili hanno avuto il proprio controcanto in una politica socio-economica prettamente neo-liberista.

Da un lato la parificazione dei matrimoni omosessuali a quelli eterosessuali (e quindi la possibilità di adozione per le coppie gay), la facilitazione dei processi di cambio di sesso per le persone transgender, una sensibilità significativa per le questioni di genere e per il multiculturalismo; dall’altro la liberalizzazione del mercato televisivo, una riforma del lavoro interessata più agli interessi produttivi che non a quelli dei lavoratori, un taglio significativo della spesa pubblica in un’ottica generale di smantellamento del welfare state e dei suoi meccanismi redistributivi.

In particolare è importante sottolineare come la risposta alla crisi del 2008 sia stata l’inasprimento delle politiche neo-liberiste, con la conseguente radicalità dei tagli: l’austerity. Come a dire: finché la congiuntura economica è favorevole stiamo tutti bene e possiamo permetterci ancora un po’ di diritti sociali e redistribuzione della ricchezza; quando arriva la crisi, avendo noi accettato il mercato, non possiamo che assecondarlo e quindi tagli e privatizzazioni. Ma nel compenso la nostra identità di sinistra rimane salva grazie al lavoro sui diritti civili e alla nostra tolleranza.

Il caso spagnolo può essere generalizzato a molti altri paesi europei, alla Francia – ad esempio – dove il PS di Hollande affianca una legge avanzata sui matrimoni gay ad una Loi du travail pesantemente contestata dai sindacati e dalla popolazione francese; e all’Italia, dove la retorica (senza grandi riscontri nella realtà, a ben vedere) tollerante, anti-razzista e anti-sessista del Partito Democratico (parliamo della Legge Cirinnà perché è meglio non parlare del Decreto Minniti) ha trovato un corrispettivo sul piano socio-economico fatto di provvedimenti come il Jobs Act e la Legge Fornero. Tolleranza, attenzione alla differenza, valori umanitari sono in questa cultura politica inscindibili dall’accettazione del mercato come generale mediatore dei rapporti umani, unico e sommo produttore di ricchezza e mobilità sociale. Libertà dell’individuo e libertà del mercato divengono allora tutt’uno: rinunciare alla seconda equivale a rinunciare alla prima. In questo discorso il valore dell’uguaglianza ha completamente perso: l’accettazione del mercato e della sua naturalità significa l’accettazione della disuguaglianza come elemento fondativo. Differenza e disuguaglianza si separano.

 

5. È chiaro come la libertà degli individui occidentali in una società capitalistica rischi perennemente di sovrapporsi completamente alla libertà che gli individui hanno di spendere i soldi guadagnati – molti o pochi che siano: di consumare. D’altronde – è la struttura del nostro sistema produttivo – la sovrapproduzione dev’essere smaltita, l’immensità dell’offerta di merci deve trovare una domanda adeguata. Le differenze in questi termini sono estremamente redditizie. A partire almeno dagli anni Cinquanta, dalla nascita del marketing moderno, si è visto come risulti molto più vantaggioso tarare la produzione avendo già chiari i destinatari; maggiormente essi saranno definiti, più alte saranno le chance di successo della merce in oggetto. Il bravo marketer procede quindi a una targhettizzazione, individuando la comunità (in senso anagrafico, di censo, ma anche razziale, di genere ecc.) cui rivolgere i propri prodotti.

A partire dagli anni Novanta, però, il trionfo del sistema neoliberista ha consentito una mossa singolare, un’inversione di causa e conseguenza. Se fino a quel momento le merci esistevano in funzione di una comunità, ad un certo punto le stesse comunità hanno iniziato a nascere dal consumo, dalla passione per determinati prodotti.

La creazione di identità attraverso una differenza nel consumo è diventata via via sempre più comune: gli appassionati di Ducati e quelli di iPhone, i consumatori compulsivi di Nutella e quelli di merendine Mulino Bianco, gli amanti del MacDonald e quelli, loro rivali, del Burger King non solo consumano ma discutono di tutto ciò, definiscono se stessi e le proprie cerchie di relazioni anche in base a questo. Si è parlato di tribal marketing: i pubblicitari hanno subito compreso come questi fenomeni garantiscano una notevole affiliazione del consumatore, e hanno pianificato metodi e strategie per incentivarla. L’ultima e più complessa evoluzione di questo modello è l’influencer.

 

6. «Perché sappiamo che il nostro retaggio multiforme è una forza, non una debolezza: siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù – e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra». «Credo che possiamo mantenere la promessa dei nostri padri fondatori, l’idea che se si lavora duramente non importa da dove si proviene, non importa chi siate o quale sia il vostro aspetto, non importa chi si ama, che siate bianchi, neri, ispanici, asiatici, nativi americani, giovani, vecchi, poveri, che siate gay o no: qui in America si riesce a realizzare un sogno».

I due stralci, dai discorsi di insediamento di Obama nel 2008 e nel 2012, chiariscono il valore della differenza per la sinistra liberista. Dall’inizio della crisi, tuttavia, il tentativo utopico che vedeva il mercato come soggetto in grado di fornire a tutti le stesse possibilità è entrato in crisi. Sull’incapacità di questo discorso di garantire una sicurezza economico-sociale ai più, separando in modo netto il valore della differenza dal tentativo di risolvere le disuguaglianze (anzi accettandone la naturalità e la necessità per il buon funzionamento del mercato), crescono in tutto il mondo occidentale le nuove destre.

L’esito di questo riassestamento ha visto una polarizzazione inedita. Da una parte dunque, adottate dalla sinistra, le politiche della differenza, i diritti civili e la globalizzazione economica; dall’altra un vuoto, ora appannaggio delle destre, costituito dai diritti sociali, dalla sovranità della nazione, dalle politiche del lavoro. Alla visione del mondo di Obama si contrappone specularmente quella di Trump: «Questo è il vostro giorno, questa è la vostra festa e questo Paese, gli Stati Uniti d’America, è il vostro Paese. Quello che davvero conta non è quale partito controlli il nostro governo, bensì che il nostro governo sia controllato dal popolo». «Toglieremo la nostra gente dai servizi di assistenza sociale e le ridaremo un lavoro, ricostruendo il nostro Paese con mani americane e forza lavoro americana. Seguiremo due semplici regole: comprare prodotti americani e assumere personale americano». Il centro gravitazionale e semantico è nella figura del lavoratore americano e nella sua forma collettiva, la classe media. La politica di Trump identifica un soggetto ben preciso che si definisce attraverso delle differenze – in primis di censo, razza, genere – e che viene privilegiato rispetto agli altri, anche attraverso atti discriminatori; al suo centro ha un’identità. Questa rappresenta il rovescio delle politiche della differenza: sia perché ne costituisce la controparte logica – una differenza traccia sempre i confini di un’identità – sia perché, nel caso specifico delle destre contemporanee, si costruisce in netta contrapposizione alle aperture delle sinistre neoliberiste, rivendicando per una parte ben precisa della popolazione i diritti sociali (salario, occupazione), ed escludendo il resto.

«Si dice di sinistra, ma non ha parlato di lavoro! Ragazzi, l’emergenza in Italia non sono i matrimoni gay, è la disoccupazione! Perché omosessuali o eterosessuali vorrebbero lavorare, l’emergenza è di permettere alla gente di lavorare! Perché se la gente lavora pensa al suo futuro, pensa ai figli, pensa all’asilo nido!». Anche in Italia esiste una tendenza verso questa disposizione politica, che ha portato ad una costante erosione del consenso a sinistra. Da una parte i diritti civili, dall’altra i diritti sociali. Salvini passa gli anni che precedono le ultime elezioni parlando (anche) di tutela delle imprese nazionali e del diritto degli italiani a condizioni dignitose di lavoro. Il mondo tollerante postulato dalle sinistre liberiste è crollato proprio perché le differenze erano state ancorate al modello di sviluppo economico: una società aperta costituirebbe l’humus ottimale per la crescita dei settori di punta, primo fra tutti il terziario avanzato. Allo scoccare della crisi, però, la millantata unione fra diritti sociali e diritti civili esplode, mentre aumentano esponenzialmente le disuguaglianze. Il paradosso per cui le destre occupano lo spazio tradizionalmente di sinistra – il discorso sul lavoro – non è quindi tale, è stato preparato dalle sinistre post-comuniste e dalle loro scelte politiche di stampo neoliberista.

Le destre, ovviamente, non intendono mettere in dubbio il sistema capitalista, ma proporre un corporativismo in cui lavoratore e imprenditore operino assieme per il bene della collettività, cioè della nazione. Non è una risposta che accettiamo, ma constatiamo come stia lentamente corrodendo l’egemonia neoliberista. La nostra sola possibilità, oggi, è quella di costruire collettivamente un’altra proposta potenzialmente egemonica, all’altezza del presente, rischioso e tragico come mai negli scorsi decenni, e che ponga una differenza qualitativa su tutti i piani. Si parte da qui, dalla domanda sul come.

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