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Sorveglianza globale e metropoli pandemica.

Attualità e genealogia di un disastro

di Ottavio Marzocca*

L’articolo di O. Marzocca, Sorveglianza globale e metropoli pandemica. Attualità e genealogia di un disastro è stato originariamente pubblicato in Abitare il territorio al tempo del Covid, a cura di A. Marson e A. Tarpino, “Scienze del Territorio”, numero speciale, 2020, pp. 18-28

sorveglianza21. Attualità

   1.1 Un mondo zoonotico: la scoperta di ciò che si sapeva

Un punto di partenza molto utile per contestualizzare l’evento della pandemia di SARS-COV2 è certamente la definizione di Emerging Infectious Diseases con la quale gli esperti e le istituzioni sanitarie definiscono una gran parte delle patologie potenzialmente pandemiche della nostra epoca[1]. Questa definizione si riferisce alle malattie trasmissibili la cui diffusione da alcuni decenni va crescendo e fra le quali la World Health Organization (WHO) attualmente ritiene particolarmente pericolose, oltre la SARS-COV2: la febbre emorragica Crimea-Congo, le malattie da virus Ebola e Marburg, la febbre di Lassa, la MERS (Middle East Respiratory Syndrome), la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), l’infezione da virus Nipah e da Henipavirus, le febbri Rift Valley e Zika. Un fatto degno di considerazione in proposito è che la stessa Organizzazione, nell’aggiornare periodicamente questo elenco, generalmente indica anche una malattia ancora sconosciuta, un ‘Disease X’; il che sta a significare che «una seria epidemia internazionale potrebbe essere causata da un patogeno del quale attualmente non si sa che possa provocare malattia nell’uomo»[2]. È una sorta di ‘Disease X’, infatti, quello che si è trasformato in pandemia nel 2020[3].

Riguardo alle Emerging Infectious Diseases c’è un concetto – ormai ben noto – che negli ultimi decenni ha assunto un’importanza fondamentale: quello di zoonosi, vale a dire l’idea che degli agenti patogeni di cui sono portatori gli animali, in certe condizioni, possono trasferirsi negli organismi umani; in tal caso essi possono provocare gravi processi epidemici, poiché gli uomini possono risultare privi di difese immunitarie efficaci nei loro confronti, se non ne hanno mai subìto prima l’azione infettiva. Oggi si dà ormai per certo che le malattie zoonotiche costituiscano la maggior parte delle patologie infettive emergenti[4]. Il concetto di zoonosi, perciò, implica la necessità di un’attenzione particolare alle relazioni tra le specie e alla possibilità che dalle modificazioni degli ecosistemi provocate dalle società contemporanee derivi non soltanto l’improvvisa trasmissione interspecifica di malattie pericolose, ma anche la loro diffusione epidemica o pandemica nelle società umane[5]. Oggi le istituzioni e i saperi impegnati direttamente nella protezione della vita non ignorano le conseguenze epidemiche che le alterazioni ambientali provocate dalle nostre società possono avere. Generalmente essi riconoscono che i processi più influenti in tal senso sono il cambiamento climatico, l’espansione delle aree urbanizzate e industrializzate, la deforestazione, le estrazioni minerarie crescenti, lo sviluppo dell’agricoltura industriale, l’aumento e l’accelerazione della mobilità di persone e merci, la crescita degli allevamenti industriali e quella del commercio di animali selvatici[6]. Ma se la consapevolezza sia della pericolosità delle malattie infettive emergenti sia del carattere ecosistemico di molte delle loro cause non manca, quali sono invece le strategie politiche principali che vengono messe in campo per fronteggiarle?

1.2 Sorveglianza globale: il pericolo guardato da lontano

In un’epoca di globalizzazione come la nostra, l’idea stessa che le malattie infettive tendano facilmente a divenire pandemiche e che le alterazioni ecosistemiche provocate dall’uomo possano esserne cause determinanti sembra richiedere necessariamente che siano delle istituzioni di livello mondiale a dettare le politiche da attuare per contrastare questo pericolo. Infatti, per ragioni simili, all’incirca dalla fine degli anni Novanta, la WHO ha avviato un ampio rinnovamento delle sue strategie cercando di andare oltre la loro dimensione meramente internazionale e proiettando il proprio ruolo in una prospettiva nettamente sovra-nazionale e globale[7]. Fino ad allora le politiche dell’Organizzazione tendevano soprattutto a coordinare le attività di sorveglianza epidemiologica dei vari Stati; da quel momento e soprattutto dopo l’esplosione dell’epidemia di SARS, invece, la WHO innanzitutto chiede agli Stati aderenti di impegnarsi a fornire in modo trasparente e tempestivo ogni informazione sugli eventi potenzialmente epidemici che si verificano nei loro confini; in secondo luogo, essa elabora in base a tali informazioni delle linee di prevenzione dei rischi e di gestione delle eventuali emergenze, cercando di farle corrispondere allo scenario globale in cui esse possono dispiegare i loro eventuali effetti pandemici[8]. Questa evoluzione delle strategie dell’Organizzazione, inoltre, ha trovato una sorta di coronamento nella convergenza di intenti che si è realizzata attorno all’idea di ‘One World, One Health’ fra le politiche della stessa WHO e quelle di FAO (Food and Agriculture Organization) e OIE (Office International des Epizooties – World Organization for Animal Health), oltre che di altre Organizzazioni mondiali come UNSIC (United Nations System Influenza Coordination), UNICEF (United Nations Children’s Fund) e World Bank[9].

L’adozione del concetto di ‘One World, One Health’ ha comportato il rafforzamento della dimensione planetaria come ambito privilegiato per affrontare le patologie epidemiche della nostra epoca. In questa prospettiva, fra le aspirazioni principali della WHO emerge quella di rimediare alla generale impreparazione degli Stati nazionali a fronteggiare i rischi derivanti dalle malattie infettive emergenti. Questa impreparazione consisterebbe innanzitutto nell’inadeguatezza degli Stati rispetto al carattere globale delle minacce provenienti dalle nuove malattie; essa, inoltre, starebbe nel fatto che molte nazioni sono prive di sistemi sanitari adeguati a fronteggiare i nuovi pericoli. Di qui l’importanza che la WHO attribuisce alla raccolta e all’elaborazione costante di informazioni su agenti patogeni e rischi epidemici, come strumenti fondamentali di una politica da basare soprattutto sulla sorveglianza preventiva. L’Organizzazione, infatti, privilegia decisamente questo approccio, considerando fondamentale «prepararsi all’inevitabile», poiché ormai «ciò che è incerto è cosa e quando»[10].

Nel contesto strategico definito dall’idea di ‘One World, One Health’, «il ruolo critico che gli ecosistemi giocano nel causare nuove malattie zoonotiche» viene chiaramente riconosciuto; ma anche a questo riguardo l’approccio che viene comunque privilegiato è quello del monitoraggio e della sorveglianza. La finalità di «ridurre i rischi di malattie infettive all’interfaccia animale-uomo-ecosistema», infatti, viene subordinata agli scopi primari: di «sviluppare capacità di sorveglianza, incluso lo sviluppo di standard, strumenti e processi di monitoraggio ai livelli nazionale, regionale e globale»; di «rafforzare la prontezza nella risposta alle emergenze nazionali, insieme alla capacità di supporto a una rapida risposta globale»[11]. Riguardo al rapporto con le specie animali, d’altra parte, si pone in luce che la sorveglianza può essere praticata solo entro certi limiti, poiché «in certe circostanze, un monitoraggio completo della fauna selvatica potrebbe richiedere risorse che andrebbero oltre il totale stimato per tutti gli altri ambiti prioritari messi insieme»[12]. In definitiva, se i problemi da ‘monitorare’ sono troppo ampi e complessi, per decidere di farlo veramente non può che valere il classico calcolo dei costi e dei benefici.

1.3 Sintomi e algoritmi: prevedere l’imprevedibile

La centralità che la WHO attribuisce alla sorveglianza globale sulle malattie infettive basandola innanzitutto su raccolta ed elaborazione di informazioni, si fonda sul presupposto – più o meno esplicito – che una soglia molto avanzata di pericolosità epidemiologica del pianeta sia stata ormai superata. La stessa medicina contemporanea, infatti, assume come un dato acquisito che la ‘guerra’ per l’eradicazione delle malattie infettive sia stata, almeno per ora, sostanzialmente persa[13]. Perciò si può dire, forse, che le attuali strategie di sorveglianza globale siano tanto ambiziose quanto disperate. Esse, certamente, tendono ad arrestare o a mitigare le epidemie potenzialmente pandemiche, ma di fatto delegano il perseguimento di questi scopi alle istituzioni nazionali; la loro finalità primaria, invece, è l’anticipazione del dilagare dei contagi, nella misura in cui questi, potendo derivare da patogeni sostanzialmente sconosciuti o difficilmente trattabili, in una società globalizzata come la nostra possono assumere rapidamente gravità e dimensioni ingovernabili.

Comunque sia, il rapporto privilegiato che la WHO intrattiene con gli Stati nazionali non rende particolarmente agevole il perseguimento di questo scopo. Questo rapporto infatti lascia comunque l’Organizzazione in una condizione di sostanziale dipendenza dagli Stati per quanto riguarda sia la raccolta sia la tempestività delle informazioni strettamente mediche su eventuali focolai. Non si possono trascurare, d’altra parte, le modalità prevalenti con le quali gli Stati gestiscono le informazioni sanitarie. Storicamente l’acquisizione e il trattamento statale di queste informazioni si basa sull’approccio statistico che tende generalmente allo studio complessivo dei fenomeni patologici e all’individuazione di un livello medio del loro andamento, da assumere come riferimento della ‘normalità’ e della ‘sicurezza’ che occorre garantire alla società[14]. Perciò, questo approccio appare adatto più alla gestione delle epidemie in atto che alla loro anticipazione. È quasi certamente per ragioni di questo tipo che, almeno dalla fine degli anni Novanta, circa due terzi delle informazioni raccolte dalla WHO e finalizzate direttamente alla sorveglianza delle malattie infettive proviene da piattaforme digitalizzate, più che dai rapporti ufficiali dei ministeri e dei servizi sanitari nazionali[15]. Si tratta dei cosiddetti syndromic surveillance systems il cui oggetto principale di attenzione è esattamente il pericolo di epidemie e pandemie. Ciò che va posto in luce in proposito è che questi sistemi basano il trattamento delle informazioni che raccolgono sull’uso delle tecnologie algoritmiche, più che sul metodo statistico; il che comporta un modo radicalmente nuovo di concepire e trattare le informazioni stesse: almeno nelle loro forme più avanzate, questi sistemi trattano con le tecnologie algoritmiche i cosiddetti Big Data, vale a dire masse enormi e in continua crescita di informazioni di ogni genere; essi, perciò, elaborano anche o soprattutto le informazioni ‘non-diagnostiche’ ricavate, per esempio, dai comportamenti che gli utenti del web rendono conoscibili con l’uso dei loro dispositivi telematici quando fanno certe ricerche su sintomi insoliti, acquistano certi rimedi terapeutici, frequentano o non frequentano certi luoghi; i dati che essi trattano, inoltre, possono comprendere «i rapporti dei dipartimenti di emergenza ospedaliera, i ricoveri in ospedale, le vendite di medicinali nelle farmacie, le telefonate ai provider di consulenze sanitarie, i livelli di assenteismo a scuola e/o nei luoghi di lavoro, ecc.»[16]. Uno dei syndromic surveillance systems che fanno l’uso più intenso dei procedimenti algoritmici è il Global Public Health Intelligence Network (GPHIN) che dimostrò notevole efficienza quando, alla fine del 2002, riuscì a ricavare dai media locali cinesi i primi segnali della ‘strana influenza’ che successivamente fu definita SARS e dichiarata pandemia. A questo sistema, promosso dalla Public Health Agency of Canada, partecipa la stessa WHO che, in tal modo, aggiunge un potente strumento di trattamento delle informazioni al proprio sistema istituzionale di sorveglianza (Global Outbreak Alert Response Network – GOARN) in cui sono coinvolti gli apparati informativi più tradizionali degli Stati aderenti[17].

Un altro esempio significativo di syndromic surveillance system è quello di Google Flu Trends, la cui attività iniziò nel 2008-2009 e fu interrotta nel 2014. Esso, basandosi soprattutto sulle ricerche che gli utenti della rete svolgevano su argomenti apparentemente collegabili a stati iniziali di influenza, nella stagione invernale 2012-2013 si trovò a sovrastimare ripetutamente i segnali di un’epidemia ‘imminente’ negli USA, che sostanzialmente non ebbe luogo. In questo caso, il trattamento algoritmico dei Big Data mostrò la notevole inattendibilità delle previsioni basate su presunte correlazioni fra le ricerche degli utenti e l’insorgere di malattie infettive. Queste ricerche possono avere le motivazioni più disparate e impenetrabili; perciò possono spingere i sistemi di calcolo a ‘fraintendere’ il senso e la portata di certi comportamenti registrati casualmente sulla rete. Come è stato osservato a tal proposito, infatti, la correlazione non dice quasi nulla sulla causazione[18]. La vicenda è stata considerata da molti un fallimento delle pretese predittive di Google Flu Trends, se non proprio delle tecnologie algoritmiche[19]. Ma, in realtà, bisognerebbe tener presente che la finalità principale per la quale queste tecnologie vengono applicate ai Big Data non è di costruire un sapere scientificamente verificabile, bensì di elaborare in maniera inevitabilmente imprecisa i ‘profili’ degli utenti della rete e ‘ipotizzare’ comportamenti e preferenze[20]. D’altra parte, i sistemi algoritmici di sorveglianza delle malattie infettive possono cercare di sfuggire al rischio di commettere grossolani errori se accettano di comparare i risultati congetturali delle loro indagini con quelli delle analisi delle istituzioni strettamente sanitarie. È in questo senso, infatti, che si orienta la WHO affiancando l’uso del sistema algoritmico del GPHIN a quello del GOARN, basato soprattutto sulla raccolta di dati provenienti dagli Stati[21]. Questo, in ogni caso, non risolve dei problemi assolutamente intrascurabili: la collaborazione degli Stati con la WHO, la loro capacità o disponibilità a fornire informazioni complete e tempestive sui pericoli epidemici restano inevitabilmente incerte: innanzitutto, non è irrilevante il fatto che gli Stati aderenti all’Organizzazione possono essere privi di strumenti efficaci per raccogliere, elaborare e comunicare nei modi migliori le informazioni opportune; come non lo è il fatto che non tutti gli Stati aderiscono alla WHO; molti di essi, inoltre, possono avere interesse ad evitare o a ritardare la trasmissione e la condivisione delle informazioni sulle loro disavventure sanitarie. Tutto questo, combinandosi con le eventuali esitazioni della WHO o con l’inefficacia occasionale di un sistema tecnologico di previsione, può bastare a far esplodere una pandemia come quella del 2020. Comunque sia, una politica antipandemica basata sulla sorveglianza globale è discutibile anche perché il suo presupposto implicito è che ormai si debba considerare ovvio che i fattori ecologici, politici ed economici delle epidemie contemporanee, anche se vengono posti al centro dell’attenzione nei documenti ufficiali, non possano essere effettivamente contrastati o ridimensionati, perché questo richiederebbe un capovolgimento del rapporto – su cui si fondano le stesse strategie di sorveglianza delle nuove malattie infettive – tra la realtà meta-geofisica della dimensione globale e quella ecosistemica dei territori reali.

 

2. Genealogia

2.1 Ritorno alla città appestata?

Tra i fattori di alterazione ecologica che sembrano avere un ruolo determinante nell’esplosione di una pandemia, ce n’è uno che è degno di essere messo a fuoco in questa sede: l’urbanizzazione crescente dei territori del pianeta. Questo processo, non soltanto contribuisce a creare le condizioni e ad accrescere le possibilità di spillover di agenti patogeni dalle specie animali all’uomo, ma produce anche neo-ecosistemi favorevoli al dilagare delle epidemie. Non c’è dubbio, infatti, che una metropoli o una megalopoli che venga colta di sorpresa da un contagio, possa trasformarsi immediatamente in un fattore decisivo della sua diffusione esponenziale e delle sue conseguenze incontrollabili. Del resto, non occorre un grande sforzo per constatare che molti dei luoghi in cui la pandemia del 2020 ha provocato le conseguenze più disastrose sono esattamente metropoli, megalopoli e regioni intensamente urbanizzate: Wuhan, New York, Londra, Madrid, Sao Paulo, New Delhi, Parigi, Milano, le loro aree, le loro province, le loro regioni. A tal proposito vale la pena di assumere una certa distanza dalla nostra immediata attualità per fare qualche considerazione sul rapporto privilegiato che la città moderna sembra intrattenere con le epidemie. In tal senso si può ritenere che la grande città sia il contesto principale della nascita della bio-politica – ossia delle forme moderne di protezione politica della vita – e che il potere stesso dello Stato moderno si sia trasformato in gran parte in bio-potere innanzitutto per fronteggiare i pericoli di epidemie che scaturiscono dai processi di urbanizzazione quando divengono troppo intensi.

Stando alle ricerche di Michel Foucault – l’autore che ha indagato più acutamente di altri questi temi – storicamente gli approcci biopolitici principali alle epidemie sono stati tre e generalmente hanno trovato il loro spazio privilegiato nella città moderna. Si tratta: 1) del blocco delle attività e della mobilità delle persone mediante la quarantena, sistema risalente al Medioevo, che agli inizi della modernità viene perfezionato e applicato ampiamente; 2) delle politiche tendenti a evitare il formarsi di focolai risanando i luoghi insalubri, promuovendo l’igiene pubblica, garantendo la fluidità della circolazione delle acque e dell’aria; 3) del controllo dei contagi mediante inoculazione o vaccinazione, che – dal XVIII secolo – comincia a ridimensionare il primo approccio e completa il secondo. Passando dalla prevalenza del primo a quella del secondo e del terzo approccio, il governo biopolitico delle epidemie tende a rinunciare all’ambizione di annullare i contagi e opta piuttosto per la loro ‘normalizzazione’, per il loro contenimento entro limiti che li fanno risultare accettabili o, appunto, ‘normali’[22]. Qui – detto per inciso – si può riconoscere un susseguirsi di strategie che allude molto da vicino al passaggio dalla prevalenza del lockdown alla gestione variabile di mobilità e attività, cui si è assistito nel 2020 nei vari tentativi di governare la pandemia, peraltro in assenza di un vaccino.

In un suo testo di alcuni anni fa – ben prima di esprimersi in modo decisamente avventato sul grande contagio del 2020 – Giorgio Agamben[23] pose le biopolitiche antiepidemiche esaminate da Foucault opportunamente in relazione con l’assurgere della metropoli a modello della dimensione urbana moderna. Dai primi secoli della modernità – secondo l’autore italiano – la metropoli non è più stata la ‘città madre’ di altre città fondate dai suoi abitanti, come ai tempi della polis; essa è divenuta il ‘destino’ della città moderna in continua crescita, in cui lo spazio pubblico della libertà politica del cittadino si sarebbe trasformato in spazio di depoliticizzazione, ossia in sfera privilegiata del governo economico e dell’iniziativa produttiva e mercantile del soggetto privato.

In effetti, se si tiene conto più precisamente delle ricerche di Foucault, si può dire che nel XVII secolo, l’imposizione di meticolosi regolamenti di quarantena alle città colpite dalla peste contribuisca in modo determinante alla trasformazione progressiva dello spazio urbano da dimensione civica e politica a sfera della commistione tra spazio privato e spazio pubblico. Il dispiegamento di una sorveglianza capillare della vita di ciascun abitante dà un impulso potentissimo al superamento della separazione tra i due ambiti; la quarantena trasforma in un problema pubblico ciò che accade nello spazio privato della casa dalle cui finestre ognuno deve rendersi quotidianamente visibile «rispondendo al proprio nome, mostrandosi quando glielo si chiede» e partecipando alla «grande rivista dei vivi e dei morti»[24]. Dal secolo seguente, inoltre, il controllo normalizzante delle epidemie basato sulla promozione di salubrità, igiene pubblica, fluidificazione della circolazione delle acque e vaccinazioni porta – per così dire – a compimento questo tipo di trasformazioni della città allentando, al tempo stesso, il loro legame col modello paralizzante della quarantena: la città diviene un luogo sempre più funzionale alla circolazione delle merci e delle persone, allo svolgersi dinamico delle attività private di cui sarà protagonista il moderno homo oeconomicus. Perciò, come dice Foucault, le politiche di normalizzazione dei contagi trovano la loro sede in una città in crescita tumultuosa, concepita ormai soprattutto come «città-mercato» della quale occorre garantire il buon ‘funzionamento’ tenendo conto che essa è sede di pericoli e paure, «focolaio di malattie, (…) luogo di rivolta; (…) luogo di miasmi e di morte»[25].

2.2 La metropoli senza mondo

La considerazione di questo intreccio che si crea storicamente tra economicizzazione progressiva della vita della città, processi di urbanizzazione crescente e gestione biopolitica del pericolo sanitario, deve essere completata almeno con un’altra osservazione: la città moderna, tendendo a subordinare la sua stessa ragion d’essere alla razionalità economica, non finisce per neutralizzare soltanto il carattere pubblico e politico del proprio spazio, ma anche il suo rapporto con il mondo di cui è parte. In altri termini, la biopoliticizzazione dello spazio urbano non è solo l’altra faccia della depoliticizzazione della sua sfera civica, ma anche il risultato dell’estraniamento della città dalla dimensione mondana, territoriale e comune della vita di tutti e di ciascuno: un estraniamento legato, appunto, alla trasformazione del territorio urbano in luogo deputato alle attività dell’industria e dell’economia di mercato che a loro volta sono fattori determinanti della tendenza della città all’espansione illimitata, ovvero all’indifferenza crescente verso il mondo che la circonda e la comprende.

È in questi termini che – in maniera inevitabilmente sintetica – qui si può rileggere l’interpretazione che Hannah Arendt propone della modernizzazione della nostra civiltà come insieme di processi di «alienazione dal mondo», processi fra i quali l’autrice fa rientrare la proiezione ultra-terrestre della scienza moderna, l’invenzione della mobilità aerea, il trionfo del soggettivismo in filosofia; non è un caso, d’altra parte, che la Arendt ponga tra questi processi anche l’espropriazione sistematica dei contadini poveri, iniziata all’epoca della Riforma, che sarà tra i fattori più potenti della confluenza crescente di moltitudini di uomini e donne verso le città[26]. Si tratta, in effetti, di un gigantesco processo di rottura delle relazioni immediate con il mondo materiale, naturale e artificiale della vita e dei modi di abitare, del bios e dell’ethos, di grandi masse di persone. Si può dire, inoltre, che l’espropriazione e l’urbanizzazione forzata di queste grandi masse rappresentino – sia pure indirettamente – una sorta di coronamento della crisi, innescatasi con il declino della polis, del legame che nell’antichità la libertà del cittadino intratteneva con la materialità del territorio mediante la proprietà di un ‘lotto’ di terra: era soprattutto questo, infatti, che consentiva al cittadino di svincolarsi dal bisogno e di praticare liberamente la partecipazione politica[27].

Oggi le realtà urbane – soprattutto nei paesi più poveri e in quelli ‘emergenti’ – continuano a crescere vertiginosamente, producendo talvolta degli effetti paradossali, ma perfettamente in sintonia con i processi di cui parliamo: per esempio – per quanto è dato sapere – l’espansione smisurata delle megalopoli industriali cinesi è giunta a un punto tale per cui gran parte dei nuovi insediamenti produttivi, per non accrescere ulteriormente l’inquinamento urbano, vengono localizzati direttamente a ridosso dei villaggi rurali più periferici. In generale, dunque, si può dire che le metropoli e le megalopoli post-moderne non facciano che riattualizzare e spingere verso conseguenze estreme sia i processi di economicizzazione e di depoliticizzazione dello spazio della città sia l’alienazione della vita urbana ed extraurbana dai suoi contesti eco-territoriali; anche per questo l’urbanizzazione illimitata ha creato ormai degli ambienti ideali per l’innesco di emergenze sanitarie e biopolitiche che vanno ben oltre le questioni di salute pubblica risolvibili nell’ambito del governo di uno stato nazionale.

Nella nostra epoca, due sembrano i momenti in cui delle potenti accelerazioni sono state impresse a questi processi e alle conseguenti alterazioni ecosistemiche da cui oggi scaturiscono eventi e pericoli pandemici. Il primo è quello dello sviluppo della città-fabbrica fordista nei paesi occidentali, acceleratosi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale[28]; il secondo è invece quello dell’esplosione urbana che ha portato al moltiplicarsi delle megalopoli contemporanee destinate a superare i dieci milioni di residenti, soprattutto nei paesi del Sud e in quelli ‘emergenti’[29].

2.3 Abitanti o smart workers?

Di fronte al rivelarsi impietoso, attraverso la pandemia, delle gravi implicazioni della crescita illimitata delle realtà urbane, l’approccio territorialista sembra in grado di proporsi come valida strategia di inversione della prospettiva che ne consegue. In tal senso qui è opportuno segnalare l’evoluzione che questo approccio ha avuto mediante l’elaborazione dell’idea di bioregione urbana[30]. In questa evoluzione vengono riprese e rilanciate sia le critiche consolidate dell’‘urbanizzazione infinita’, sia l’assunzione del territorio come oggetto privilegiato di cura e riproduzione, in quanto bene comune degli abitanti dei luoghi[31]; d’altra parte, attraverso il collegamento tra il concetto di bioregione e quello di dimensione urbana viene superata chiaramente l’idea che la costruzione di un modello alternativo a quello delle megacities postmoderne possa basarsi semplicemente sulla rigenerazione della città storica o sul richiamo ideale ai modelli della polis greca e della civitas romana: il riferimento alle esperienze ‘virtuose’ del passato ha senso se viene connesso all’esigenza di ricostruire i rapporti della città con la complessità biosferica ed antropica del suo contesto ecosistemico. Di qui l’impegno a basare ed elaborare su simili presupposti l’idea e le condizioni di una nuova urbanità.

Si tratta di una prospettiva che trova una sua legittimazione in tendenze che caratterizzano da tempo le società che per prime hanno subito le conseguenze distruttive dell’urbanizzazione infinita: tendenze come quelle del controesodo dalle metropoli verso i centri urbani e i territori periferici o della promozione di nuove forme di economia e di cittadinanza legate alla cura dei luoghi[32]. Bisogna aggiungere, a questo riguardo, che l’impossibilità di ignorare la relazione che la pandemia ha fatto emergere tra dimensione metropolitana, degrado degli ecosistemi e pericoli sanitari globali sta spingendo molte altre voci a sollecitare un ripensamento generale del rapporto tra le grandi realtà urbane e quelle che le circondano. Alcune iniziative di riflessione e ideazione di nuovi scenari che ne stanno derivando appaiono certamente apprezzabili e degne di grande attenzione[33]. Altre invece fanno emergere sia nuove prospettive sia problemi intrascurabili cui vale la pena di accennare conclusivamente.

Uno dei riferimenti paradigmatici che vengono assunti per la definizione di scenari alternativi a quello dominato dalla metropoli è lo smart working: esso sembra ormai destinato a passare da forma provvisoria di attività resa necessaria dall’emergenza a modalità strategica di riorganizzazione della relazione di gran parte delle persone con le proprie occupazioni; esso, inoltre, viene presentato come fattore decisivo di ridimensionamento del rapporto gerarchico tra centro e periferia, aree metropolitane e aree interne, ridimensionamento dal quale deriverebbero effetti benefici sulle relazioni interpersonali di prossimità e riduzioni dell’impronta ecologica dei «lavori remotizzabili»[34].

Al di là del richiamo specifico allo smart working, una declinazione estrema, ma tutt’altro che peregrina, di questa prospettiva viene delineata inoltre da ‘politici lungimiranti’ e protagonisti dell’economia legata alle tecnologie telematiche con l’annuncio di grandi investimenti per lo sviluppo della sanità a distanza, dell’apprendimento da remoto, della banda larga e così via. Per esempio – come riferisce Naomi Klein[35] – il governatore dello Stato di New York nel maggio 2020, rendendo nota la collaborazione con la Fondazione Bill & Melinda Gates per sviluppare «un sistema educativo più intelligente», si esprimeva in termini apparentemente retorici come i seguenti: «tutti questi edifici materiali, tutte queste aule fisiche – a quale scopo, considerando la tecnologia di cui oggi disponiamo?».

Al di là di ogni altra considerazione su questi scenari, due rischi notevoli sembrano scaturire dalla loro assunzione acritica o addirittura entusiastica: il primo consiste nella possibilità di concepire la conversione a cui bisognerebbe dedicarsi come pura e semplice promozione di una sorta di ‘toyotismo del terzo millennio’, mediante il quale si riuscirebbe a mitigare le forme più avvilenti di ‘alienazione’ di certi lavori ‘in presenza’, lasciando comunque che i modelli economici restino immutati; il secondo consiste invece nel rischio di adattarsi all’idea che lo spazio urbano non sia una realtà che, per così dire, andrebbe salvata da se stessa e riconnessa alla complessità del mondo, ma una dimensione che – dopo una pandemia sempre pronta a tornare – sia ormai destinata a divenire residuale o ad essere perennemente esposta al contagio; una realtà dalla quale tenersi a distanza il più possibile, trasferendo la maggior parte delle relazioni, delle iniziative politiche, delle attività e degli stessi commerci nella dimensione virtuale delle piattaforme telematiche. Se siamo davvero a questo punto, occorrerà tenerne conto.


Note:
1. M. S. Smolinski, M. A. Hamburg, J. Lederberg (a cura di), Microbial threats to health. Emergence, detection, and response, National Academies Press, Washington 2003, DC.; Institute of Medicine, Emerging Infections: Microbial Threats to Health in the United States, J. Lederberg, R. E. Shope, S. C. Oaks (a cura di), National Academies Press, Washington, DC. 1992; S. S. Morse, Emerging Viruses, Oxford University Press, New York and Oxford 1993.
2. WHO, 2020, “Prioritizing diseases for research and development in emergency contexts”: https://www.who.int/activities/prioritizing-diseases-for-research-and-development-in-emergency-contexts (visitato Aprile 2020).
3. R. Lu, X. Zhao, J. Li, P. Niu, B. Yang, H. Wu, W. Wang, H. Song, B. Huang, N. Zhu, Y. Bi, X. Ma, F. Zhan, L. Wang, T. Hu, H. Zhou, Z. Hu, W. Zhou, L. Zhao, J. Chen, Y. Meng, J. Wang, Y. Lin, J. Yuan, Z. Xie, J. Ma, W. J. Liu, D. Wang, W. Xu, E. C. Holmes, G. F. Gao, G. Wu, W. Chen, W. Shi, W. Tan, “Genomic characterisation and epidemiology of 2019 novel coronavirus: implications for virus origins and receptor binding”, Lancet, 395, 2020, pp. 565574.
4. F. Keck, Avian Reservoirs: Virus Hunters and Birdwatchers in Chinese Sentinel Posts, Duke University Press, Durham and London 2020, p. 2.
5. D. Quammen, Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, New York 2012: D. T. Haydon, S. Cleaveland, L. H. Taylor, M. K. Laurenson, “Identifying Reservoirs of Infection: A Conceptual and Practical Challenge”, Emerging Infectious Diseases, 8, 12, 2002, pp.1468-73; R. W. Ashford, “What it takes to be a reservoir host”, Belgian Journal of Zoology, 127, 1997, pp. 85-90.
6. National Research Council, Under the Weather. Climate, Ecosystems and Infectious Disease, National Academies Press, Washington DC 2001; Institute of Medicine, The Impact of Globalization on Infectious Disease Emergence and Control: Exploring the Consequences and Opportunities, S. Knobler, A. Mahmoud, S. Lemon, L. Pray (a cura di), National Academies Press, Washington, DC. 2006; G. C. Nelson, E. Bennett, A. A. Berhe, K. Cassman, R. DeFries, T. Dietz, A. Dobermann, A. Dobson, A. Janetos, M. Levy, D. Marco, N. Nakicenovic., B. O’Neill, R. Norgaard, G. Petschel-Held, D. Ojima, P. Pingali, R. Watson, M. Zurek, “Anthropogenic Drivers of Ecosystem Change: an Overview”, Ecology and Society, 11, 2, art. 29, 2006: http://www.ecologyandsociety.org/vol11/iss2/art29/ (visitato Maggio 2020); Y. Si, W. F. de Boer, P. Gong P., “Different Environmental Drivers of Highly Pathogenic Avian Influenza H5N1 Outbreaks in Poultry and Wild Birds”. PLoS ONE 8, 1, 2013: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0053362 (visitato Luglio 2020).; J. Louies, “Of Markets, Wet & Pet & Case for One World, One Health”, May 5, 2020: https://www.daijiworld.com/chan/exclusiveDisplay.aspx?articlesID=5193 (visitato Maggio 2020).
7. M. Figuié, “Towards a Global Governance of Risks: International Health Organisations and the Surveillance of Emerging Infectious Diseases”, Journal of Risk Research, 17, 4, 2014, p. 473.
8. WHO, International Health Regulations (2005), Third Edition, WHO Press, Geneva, Sw 2016.
9. FAO, OIE, WHO, UNSIC, UNICEF, WB (2008), Contributing to One World, One Health: A Strategic Framework for Reducing Risks of Infectious Diseases at the Animal–Human–Ecosystems Interface. Consultation Document: https://www.oie.int/doc/ged/D5720.PDF; M. Figuié, “Towards a Global Governance of Risks: International Health Organisations and the Surveillance of Emerging Infectious Diseases”, Journal of Risk Research, 17, 4, 2014, pp. 473-477.
10. WHO, Anticipating Emerging Infectious Disease Epidemics, WHO Press, Geneva, Sw. 2016, p.50; Institute of Medicine, The Impact of Globalization on Infectious Disease Emergence and Control: Exploring the Consequences and Opportunities, S. Knobler, A. Mahmoud, S. Lemon, L. Pray (a cura di), National Academies Press, Washington, DC. 2006, pp. 125-174.
11. FAO, OIE, WHO, UNSIC, UNICEF, WB (2008), Contributing to One World, One Health: A Strategic Framework for Reducing Risks of Infectious Diseases at the Animal–Human–Ecosystems Interface. Consultation Document: https://www.oie.int/doc/ged/D5720.PDF, pp. 23-24.
12. Ivi, p. 46.
13. B. Fantini,La storia delle epidemie, le politiche sanitarie e la sfida delle malattie emergenti”, L’Idomeneo, 17, 2014 pp. 9-42 ; M. Cooper, Life as Surplus: Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era, University of Washington Press, Seattle-London 2008, p. 55 e p. 76.
14. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), M. Senellart (a cura di), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 50-56.
15. Roberts 2019, p. 99.
16. S. L. Roberts, S. Elbe, “Catching the flu: Syndromic surveillance, algorithmic governmentality and global health security”, Security Dialogue, 48,1, 2017, p. 47.
17. Ivi, 52-53. Altro importante sistema dello stesso tipo è HealthMap che ha mostrato le proprie capacità quando nel 2014 è riuscito a segnalare prima delle istituzioni ufficiali l’insorgere in Guinea della più grave epidemia di Ebola della storia (ivi, 53-54).
18. T. Harford, “Big data: are we making a big mistake?”, Financial Times Magazine, March 28, 2014: https://www.ft.com/content/21a6e7d8-b479-11e3-a09a-00144feabdc0 (visitato Maggio 2020).
19. D. Butler, “When Google got flu wrong”, Nature, 494, 7436, 2013, pp.155-6.; H. Hodson, “Google Flu Trends gets it wrong three years running”, New Scientist, 2961, 2014: https://www.newscientist.com/article/dn25217-google-flu-trends-gets-it-wrong-three-years-running/#ixzz6Kc1E1CQN (visitato Aprile 2020).; D. Lazer, R. Kennedy, G. King, A. Vespignani, “The parable of Google flu: Traps in big data analysis”, Science, 343, 6176, 2014, pp. 1203-1205.
20. A. Rouvroy, “Algorithmic governmentality: radicalisation and immune strategy of capitalism and neoliberalism?”, La Deleuziana, 3, 2016, pp.30-36; Id., “The end(s) of critique: data-behaviourism vs. due process”, in M. Hildebrandt, K. de Vries (a cura di), Privacy, Due Process and the Computational Turn: The Philosophy of Law Meets the Philosophy of Technology, Routledge, Abingdon 2013, p.151; A. Rouvroy, T. Berns, “Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. Le disparate comme condition d’individuation par la relation?”, Réseaux, 177, 1, 2013, pp. 163-196.
21. S. L. Roberts, S. Elbe, “Catching the flu: Syndromic surveillance, algorithmic governmentality and global health security”, Security Dialogue, 48,1, 2017, p. 59; Institute of Medicine, The Impact of Globalization on Infectious Disease Emergence and Control: Exploring the Consequences and Opportunities, S. Knobler, A. Mahmoud, S. Lemon, L. Pray (a cura di), National Academies Press, Washington, DC. 2006, pp. 121-122.
22. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, pp. 213-217; Id., “La nascita della medicina sociale”, in A. Pandolfi (a cura di), Archivio Foucault, 3. 1971-1977, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 227-235; Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), M. Senellart (a cura di), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 50-58.
23. G. Agamben, “La città e la metropoli”, Posse, 13, 2017: https://www.sinistrainrete.info/teoria/133-la-citta-e-la/amp; cfr. Id., “The Invention of an Epidemic”, European Journal of Psycoanalysis, 2020: https://www.journal-psychoanalysis.eu/
24. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 214.
25. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), M. Senellart (a cura di), Feltrinelli, Milano 2005, p. 56; Id., “La nascita della medicina sociale”, in A. Pandolfi (a cura di), Archivio Foucault, 3. 1971-1977, Feltrinelli, Milano 1997, p. 229.
26. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994, pp.183-242; cfr. K. Marx, Il capitale, libro I, A. Macchioro e B. Maffi (a cura di), UTET, Torino 2009, pp. 900-919; O. Marzocca, “Il mondo dell’abitare fra polis e città biopolitica”, in C. Danani(a cura di), I luoghi e gli altri. La cura dell’abitare, Aracne, Ariccia 2016, pp. 161-176.
27. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica – 1857-1858, vol. II, E. Grillo (a cura di), La Nuova Italia, Firenze 1970, pp. 111-112; M. Weber, La città, Bompiani, Milano 1979, p. 10; cfr. O. Marzocca, “La libertà e la terra: destini comuni”, Scienze del Territorio, 1, 2013, pp. 231-238 e Id., Il mondo comune. Dalla virtualità alla cura, Manifestolibri, Roma 2019, pp. 209-212.
28. A. Magnaghi, A. Perelli, R. Sarfatti, C. Stevan, La città fabbrica. Contributi per un’analisi di classe del territorio, CLUP, Milano 1970.
29. S. Sassen, La città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2010 (3a ediz.).
30. Cfr. A. Magnaghi, La biorégion urbaine. Petit traité sur le territoire bien commun, Eterotopia France, Paris 2014; Id., La regola e il progetto. Un approccio bioregionalista alla pianificazione territoriale, Firenze University Press, Firenze 2014.
31. A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino.
32. A. Magnaghi, La biorégion urbaine. Petit traité sur le territoire bien commun, Eterotopia France, Paris 2014, pp. 73-87.
33. Cfr. D. Cerosimo, C. Donzelli C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2020.
34. M. Bentivogli, Indipendenti. Guida allo smart working, Rubettino, Soveria Mannelli 2020.
35. N. Klein, “Screen New Deal”, The Intercept, May 8, 2020: https://theintercept.com/2020/05/08/andrew-cuomo-eric-schmidt-coronavirus-tech-shock-doctrine/ (visitato Giugno 2020).

* Professore di Filosofia etico-politica presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Si occupa dei rapporti tra forme del potere e sistemi di sapere nel governo delle società avanzate. Ne ha studiato le implicazioni biopolitiche in diversi campi, dalla gestione della salute alla tutela dell’ambiente, dal consumo del territorio alle trasformazioni della soggettività. Ha curato edizioni di scritti di Michel Foucault. Tra i suoi libri: Filosofia dell’incommensurabile (Milano 1989); La stanchezza di Atlante. Crisi dell’universalismo e geofilosofia (Bari 1994); Transizioni senza meta. Oltre marxismo e antieconomia (Milano 1998); Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault (Roma 2007); Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico (Milano 2011); Il mondo comune: Dalla virtualità alla cura (Manifestolibri 2019) e Biopolitics for Beginners: Knowledge of Life and Governement of People (Mimesis International 2020). Ha curato: Lessico di biopolitica (Roma 2006) e Governare l’ambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti (Milano 2010).

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