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Pandemia e biocapitalismo cognitivo

Luca Onesti intervista Andrea Fumagalli

[Pubblichiamo l’intervista di Luca Onesti ad Andrea Fumagalli uscita nel n. 4/2020 (pp. 159-166) della rivista. Il volume completo è consultabile qui]

Schermata 2021 04 06 alle 22.19.58Partiamo dalla crisi sanitaria attuale. È indicativo che in questi mesi le due regioni con il divario di ricchezza e di risorse forse più grande in Italia, la Lombardia e la Calabria, siano diventate i luoghi in cui le contraddizioni della gestione economica e politica del sistema sanitario si sono mostrate in maniera più drammatica. Qual è lo scenario a cui siamo di fronte a seguito della politica di tagli e di disinvestimento degli ultimi decenni in questo campo?

Le due regioni presentano scenari molto diversi se non opposti. La Lombardia è la regione italiana che più ha privatizzato la sanità, in seguito a varie riforme, dopo che la sanità è stata regionalizzata. Tali riforme si sono mosse su due piani: concentrazione della sanità pubblica in grandi ospedali, con l’effetto di prolungare i tempi di attesa, ma anche di sfruttare le economie di scala per ridurre i costi, e via libera alle cliniche private per le visite specialistiche ad alta redditività. Il risultato è stato un peggioramento della qualità del servizio e lo smantellamento della sanità territoriale, con gli effetti distorti e critici che l’emergenza sanitaria ha evidenziato.

All’opposto, la Calabria è una delle regioni che ha maggiormente subito i tagli del finanziamento al Servizio Sanitario Nazionale (circa 47 miliardi di euro negli ultimi 10 anni), senza che tale tagli venissero compensati da una crescita della sanità privata (come è avvenuto in Lombardia).

L’esito è una carenza di organici, posti letto e strutture. II risultato è del tutto in linea con i dettami del New Public Management, ovvero quella logica di governance dei servizi sociali che delega la gestione di tali servizi ai privati laddove vi sono elevate aspettative di profitto e vale il principio di sussidiarietà. Per i servizi più costosi e senza possibilità di profittabilità, allora interviene lo Stato con tutte le carenze note. Dequalificazione del servizio pubblico e distribuzione delle fette più redditizie del business sanitario alle nuove imprese private sanitarie.

 

Una parte consistente dell’ortodossia economica neoliberale ha insistito sulle dimensioni «bibliche» della crisi che abbiamo di fronte. Cosa ne pensi? Dal tuo punto di vista, si tratta di una crisi che può preludere a un cambiamento di paradigma, e se sì, in che senso?

Non c’è niente di biblico in questa crisi sanitaria, in quanto non è il castigo di Dio, ma il frutto del processo di capitalocene che ha caratterizzato lo sviluppo e la diffusione del sistema capitalistico mondiale. La crisi ha accelerato processi già in corso, cioè la pervasiva diffusione del capitalismo delle piattaforme, la digitalizzazione dell’attività lavorativa (smart-working) e ha evidenziato un nuovo livello di governance politica- sociale, basata sul concetto di «responsabilizzazione individuale». Ognuno di noi si deve sentire «responsabile» della situazione che si crea e soprattutto degli aspetti più negativi, dalla crisi ecologica, a quella sanitaria ed economica. All’individualismo proprietario («siano tutti padroni di noi stessi», e quindi tutti potenzialmente uguali) si aggiunge, così, il «responsabilismo individuale» (siamo tutti responsabili di noi stessi e del nostro futuro e chi non lo è è un «irresponsabile»). Alla governance tradizionale basata sulla repressione e sul diritto del più forte (che rimane operativa per reprimere i movimenti anti-sistema e i flussi migratori), si aggiunge, in modo deleuziano, l’auto-controllo non più solo sociale ma anche individuale.

 

La crisi potrebbe aprire un margine per una ripresa di politiche macro- economiche di tipo keynesiano? Come valuti la politica economica europea in questo senso, e in particolare il Recovery fund?

Se per politica keynesiana si intende una politica di sostegno alla domanda, direi che sarebbe ora che si procedesse in tal senso, tramite interventi di sostegni ai salari e ai consumi, grazie a riforme adeguate (di tipo progressivo) al sistema fiscale e agli ammortizzatori sociali (verso un reddito di base incondizionato), in vista di un progetto di welfare adeguato alla trasformazione del lavoro (peso crescente della precarietà e del lavoro gratuito) e dei processi di valorizzazione capitalistica di oggi (Commonfare, Welfare del Comune).

Se per politica keynesiana si intende una politica di deficit spending, credo che in Europa il dogma dell’austerity (che dopo l’emergenza non si chiamerà più cosi, ma «responsabilità economica») sia lungi dall’essere sorpassato. In questa fase, i vincoli sono stati allentati e si sono allargati i cordoni della borsa, ma prima o poi i soldi presi a prestito dovranno essere restituiti.

La politica economica europea ha dispensato liquidità a sostegno del settore bancario e dei mercati finanziari, coprendo i buchi patrimoniali delle banche (soprattutto tedesche) e favorendo il rialzo degli indici di borsa (che sono oggi ai massimi storici). Tale politica monetaria non si è tradotta in una spinta alla domanda, al punto che sino a un mese fa eravamo in deflazione e l’obiettivo di un tasso d’inflazione al 2% è ancora ben lontano. Ciò dimostra che oggi il monetarismo è una teoria senza senso (se mai ha avuto senso), perché, nell’epoca della totale smaterializzazione della moneta, la creazione di moneta non è più sotto il controllo delle Banche Centrali ma della speculazione finanziaria (che fa il bello e il cattivo tempo). Ciò dovrebbe portare ad un ripensamento della validità della politica monetaria, il cui unico vantaggio è stato, per l’Italia, quello di tenere sotto controllo lo spread e di enfatizzare il ruolo della politica fiscale per sostenere non una crescita maggiore, ma una migliore distribuzione del reddito. Ma a livello europeo, guarda caso, non esiste una politica fiscale comune…

Il Recovery Fund va nella direzione opposta. Sostiene l’offerta con investimenti pubblici che renderanno profitti alle grandi imprese private, senza nessun effetto sulla domanda. È l’istituzionalizzazione del New Public Management come regola ferrea della gestione del pubblico in una logica di efficientismo di mercato.

 

Sei membro della rete BIN (Basic income network) per la richiesta di un Reddito di base universale e incondizionato. In che senso questo tipo di remunerazione si distingue da altri interventi di tipo redistributivo? Come cambierebbe lo stesso welfare con il Reddito di base universale e incondizionato?

Occorre dividere il reddito di base in due macro-famiglie. La prima intende il reddito come remunerazione, così come sostenuto dalla scuola neo-operaista (cfr. Fumagalli e Vercellone 2020) (alla luce dell’analisi dei nuovi meccanismi di valorizzazione che vedono la vita alla base dei processi di accumulazione), detto anche reddito primario, e, in quanto certificazione di un’attività produttrice di valore (di scambio) al momento non ancora riconosciuta, è per definizione incondizionato per quanto riguarda il comportamento del percettore/trice; la seconda famiglia (ben più numerosa) concepisce invece il reddito come ammortizzatore e strumento di protezione sociale, per coloro che non possono (perché non hanno i requisiti o per la limitatezza delle risorse) attingere agli usuali strumenti di sicurezza sociale (sussidi di disoccupazione e forme simili).

Il reddito di base incondizionato come reddito primario entra nel processo di distribuzione della ricchezza, al pari di salario e affini (remunerazione del lavoro), profitto (remunerazione dell’attività imprenditoriale), rendita (remunerazione della proprietà, qualunque essa sia). Da questo punto di vista, essendo il reddito di base remunerazione di quel tempo di vita produttivo che non viene riconosciuto come tale (tempo di formazione, apprendimento, riproduzione sociale, tempo di relazione, tempo di cura, tempo di svago, tempo di gioco, tempo di ozio per sé e le/gli altre/i), risulta complementare e non sostitutivo del salario come remunerazione del tempo certificato di lavoro. Reddito e salario tendono quindi a convergere in un’unica rivendicazione sociale. Il reddito come ammortizzatore e protezione sociale, invece, entra nella re- distribuzione del reddito, una volta che la ricchezza prodotta è stata distribuita tra i fattori produttivi che hanno contribuita a crearla. È un intervento di politica economica istituzionale e non esito del conflitto sociale distributivo.

La differenza è fondamentale per far comprendere come la richiesta di un reddito incondizionato sia una rivendicazione sociale e sindacale che intacca direttamente il processo di organizzazione della produzione e del lavoro.

Con riguardo al Welfare, il reddito di base incondizionato dovrebbe rappresentare l’unico strumento di sostegno al reddito, erogato su base individuale, residenziale (e non legato alla cittadinanza), come quota della ricchezza sociale, esito di un confronto tra le parti sociali (sindacato, padronato, Stato), ad un livello come minimo pari alla soglia di povertà relativa, in grado di sostituire nel tempo tutti gli altri ammortizzatori di pari o minor ammontare.

 

Il tema dell’utopia è al centro della ricerca di Thomas Project. Hai parlato spesso del Reddito di base universale e incondizionato come di una utopia realista. Ci spieghi meglio in che senso e perché lo possiamo pensare in questo modo? E infine, in che modi gli studi utopici, la spinta utopica alla trasformazione dello stato di cose presente, possono aiutare la teoria critica economica? A tuo parere, quanto il neoliberismo ha normalizzato, senza utopie, lo studio dell’economia?

L’utopia è sempre stato uno dei motori principali della storia e delle trasformazioni sociali ed economiche. Immaginare l’utopia significa indicare che c’è un’alternativa e un’alternativa c’è sempre, pur piccola che sia. Ciò che ieri veniva considerato un’utopia, oggi può non esserlo più, se l’utopia si muove nella direzione auspicata di cambiamento (e non si trasforma in distopia). Uno degli strumenti della governance culturale e sociale del neo-liberismo è stato proprio annullare la possibilità dell’utopia, con l’idea per cui «there is no alternative» (TINA). Tale risultato è stato anche ottenuto facendo credere che la società non esiste, ma c’è solo l’individuo. E l’individuo, solo, di fronte al potere, non può far nulla, neanche immaginare l’utopia. Per questo, l’utopia è realistica quando si ciba dei movimenti sociali e viceversa.

 

Una domanda a partire da un tema su cui hai lavorato a fondo, in dialogo ad esempio con l’economista Christian Marazzi: quello della distinzione marxiana tra lavoro vivo e lavoro morto e tra capitale variabile e capitale fisso. Con il «capitalismo cognitivo», ci troviamo di fronte a una inedita unione di qualcosa che prima era separato: il capitale variabile, messo in moto dalle facoltà e dall’opera intellettuale del lavoratore, e il capitale fisso, rappresentato dai mezzi di produzione intesi come conoscenze accumulate, come codici linguistici e comportamentali, come esperienze, in definitiva come lavoro passato, hanno ora una stessa sede inseparabile, quella del corpo del lavoratore. Che uso possiamo fare di questa prospettiva di analisi critica?

Il capitalismo delle piattaforme rappresenta oggi la punta avanzata del processo di riorganizzazione del capitale all’interno del paradigma del capitalismo bio-cogniivo. Tali piattaforme hanno creato le prime enclosure del software utilizzato (alla faccia del motto Tech to the people dei primi hacker), rendendolo non praticabile per i soggetti di piccole dimensioni. Nuove economie di scala possono così svilupparsi creando altrettante nuove forme di barriere all’entrata, basate sulla divisione cognitiva del lavoro e della proprietà intellettuale (learning and network economies).

Le prime piattaforme nascono quindi con lo scopo di razionalizzare le procedure di gestione della produzione e soprattutto dei costi di transazione, per dirla alla Williamson (o alla Lazonick e Chandler Jr). Solo successivamente, in particolare con lo sviluppo dei social media, tali procedure intervengono dal lato della domanda, coinvolgendo il potenziale cliente e fidelizzandolo con le nuove tecniche del Customer Relationship Management (CRM). La gestione di informazioni sempre più individualizzate necessita così di un salto di qualità nella manipolazione dei dati e nel loro incrocio.

Tale salto di qualità crea le premesse per la nascita di un nuovo paradigma tecnologico (nel senso della teoria evolutiva d’impresa, derivato dal concetto di paradigma scientifico di Kuhn). L’algoritmo diventa un nuovo fattore produttivo e il suo valore è il plusvalore di rete.

È un plusvalore, cioè, che coniuga contemporaneamente plusvalore assoluto e plusvalore relativo, sussunzione formale e sussunzione reale. Un nuovo valore che plasma un nuovo mercato del lavoro, non più esclusivamente basato sulla forma salario e sulla separazione tra umano e macchina. Il capitalismo diventa così pienamente bio-cognitivo.

La macchina di cui parliamo non è il classico mezzo di produzione meccanico (che non scompare affatto ma si delocalizza alle più diverse latitudini), ma piuttosto quella macchina linguistica che oggi è rappresentata dall’algoritmo. Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari. Il termine deriva dalla trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi, che è considerato uno dei primi autori ad aver fatto riferimento a questo concetto. L’algoritmo è un concetto fondamentale dell’informatica, quindi è uno strumento in primo luogo linguistico applicato alla nozione di calcolabilità. Non è infatti un caso che sia un concetto cardine anche della fase di programmazione di un software. Negli ultimi tre decenni, l’ibridazione tra essere umano e macchina si è intensificata, grazie soprattutto alla formulazione di algoritmi che sono in grado di evolversi continuamente sulla base degli input linguistici umani. Il principale campo di applicazione è rappresentato oggi dai social media e dalle produzioni computazionali di dati: dal data-mining e più in generale dal capitalismo delle piattaforme. Se inizialmente le tecniche di data-mining erano la sofisticata evoluzione di tecniche di calcolo statistico (e ancora oggi vengono studiate in questa prospettiva impolitica e neutrale), oggi sono sempre più fortemente interrelate con le caratteristiche personali, in grado di definire raccolte differenziate (individualizzate) di dati da commerciare poi liberamente.

Questo ibrido tra capitale e lavoro, il divenire macchinico del lavoro e il divenire umano della macchina implica una ridefinizione dei concetti marxiani di lavoro vivo e lavoro morto. Marazzi ha colto bene questo aspetto con il concetto di ammortamento del corpo umano. Ma la questione è: il general intellect di marxiana memoria si fissa nelle macchine (quindi è lavoro morto, come sosteneva Marx), oppure è espressione del lavoro vivo? La risposta non è sempre univoca.

 

Come hai argomentato nel tuo libro Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo (DeriveApprodi, 2017), le trasformazioni del capitalismo delle piattaforme e dei dati, oltre che la componente cognitiva e di relazione, puntano a mettere a valore l’intera vita, anche dal punto di vista biologico. Qual è il terreno di conflitto su cui contrastare queste dinamiche e quali sono le possibili strategie di lotta?

Nel contesto del capitalismo bio-cognitivo, parlo di sussunzione vitale per indicare che la vita umana è direttamente e indirettamente (tramite l’intermediazione del lavoro) produttrice di plus-valore. E lo è in una duplice veste. Vita come zoē (organi, placche, fecondazione surrogata, ecc.) e vita come bios (affetti, sentimenti, muscoli, nervi, cervello). I processi di sussunzione della vita umana al capitale sono fortemente eterogenei e non uniformabili ad un solo modello. Per questo di parla, di «estrazione», «imprinting», «sussunzione reale», «sussunzione formale», ecc.) a seconda dei contesti e delle soggettività inchiestate.

Parliamo di sussunzione vitale, non di sussunzione totale. Questo per dire che vi è un margine di scappatoia da questa sussunzione vitale, tramite la messa in opera di sperimentazione di pratiche di organizzazione della vita stessa, dell’opus umano e della produzione che siano autonome e non catturabili o sussumibili dal capitale. Credo che sia possibile (un’utopia realista) sperimentare circuiti monetari e sociali alternativi in cui il valore d’uso prodotto dal nostro agire sociale non debba essere forzosamente e violentemente tradotto in valore di scambio dalla macchina organizzativa e culturale del capitale. Non si tratta di un esodo al di fuori del capitalismo (come lo potevano essere le comuni della controcultura degli anni ’60), ma di sottrarre ambito di autonomia e di libertà all’interno del capitalismo stesso. Non abbiamo nulla da perdere.


Bibliografia
FUMAGALLI, Andrea, VERCELLONE, C., «Il reddito di base sociale incondizionato (Rbsi) come reddito primario e istituzione del Comune». In Questione Giustizia, N.1. 2020: URL QUI

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