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paroleecose2

Il bisogno (in)interrotto di una vita in comune

Che importa chi parla?, rubrica anonima

di Anonim*

bicocca1. Che fare?

Sono mesi ormai che mi chiedo insistentemente “che fare” nel regime di ‘austerità’ sociale impostoci a partire dallo scorzo marzo. Affatto evitabile in tempi ordinari – la ‘normalità’ è appunto il momento in cui non ci si pone il problema: le cose vanno da sé – quella domanda mi balena sempre più ossessivamente in testa, costringendomi a ritornare sulle tracce della mia storia personale (o meglio, della mia vicenda generazionale) e a interrogarmi quindi anche sul senso politico delle mie scelte di vita più e meno recenti. Con crudele puntualità, le implicazioni non solo esistenziali ma anzitutto sociali e storiche delle nostre stesse esistenze vengono infatti sbalzate in primo piano proprio da situazioni di crisi, individuale o collettiva, ed è allora che le contraddizioni, reali o apparenti che siano, si fanno più sentire. È allora, inoltre, che siamo obbligati a superare tali contraddizioni, per sperimentare nel migliore dei casi soluzioni di vita impensate. È allora che l’urgenza di costruire una prassi innovativa e il dovere di formulare e condividere un discorso propositivo diventano impellenti. In vista perciò di uno scioglimento possibile della paralisi pragmatica che mi (e ci) affligge, mi sono rivolto, come è opportuno fare talvolta, a un classico del pensiero politico – nello specifico, del pensiero sociale libertario, trovandovi una risposta più immediata di quel che avrei sperato. Scrive infatti Colin Ward, in un passo memorabile del suo Anarchia come organizzazione:

Una componente importante dell’impostazione anarchica dei problemi organizzativi è costituita da quella che potremmo definire la teoria dell’ordine spontaneo. Essa sostiene che, dato un comune bisogno, le persone sono in grado, per tentativi ed errori, con l’improvvisazione e l’esperienza, di sviluppare le condizioni per il suo soddisfacimento; e che l’ordine cui si approda per questa via è di gran lunga più duraturo, e funzionale a quel bisogno di qualsiasi altro imposto da un’autorità esterna […] Essa è stata confermata in quasi tutte le situazioni rivoluzionarie, nelle forme organizzative con cui la gente reagisce alle catastrofi naturali, e in ogni attività che si svolga in assenza di modelli precostituiti di organizzazione o strutture gerarchiche dell’autorità[1].

Straordinario, in queste poche righe, è infatti il riferimento a come siano spesso le condizioni di emergenza a facilitare un certo exploit auto-organizzativo, a rendere effettuale, data ovviamente la buona volontà dei suoi attori, una certa predisposizione, peraltro innata secondo il loro autore, all’autogoverno. Spontanea è invece la reazione, dopo averle lette, consistente nel cercare se e come sia possibile, nell’attuale situazione di emergenza sanitaria planetaria, rispondere per esempio a quel bisogno elementare di socialità che l’isolamento necessario al contenimento del contagio rende sempre più difficilmente esprimibile e, quindi, sempre più acutamente avvertito. D’altronde, una volta interrotto l’ordinario scorrimento di ogni socialità fisica extra-familiare, è tolta anche la possibilità di una qualsivoglia azione politica dal basso, impensabile, a mio parere, in un regime di distanziamento generalizzato nel quale l’unica occasione di condivisione avviene soltanto tendenzialmente in telepresenza. Sembra inevitabile insomma domandarsi quale forma di vita, se ne esiste una (o più di una), sia in grado di “sviluppare le condizioni del […] soddisfacimento” di tale bisogno, pur con le necessarie e inaggirabili condizioni di salvaguardia della salute delle persone che decidano (e non) di prendervi parte. Esiste in altri termini «un ordine spontaneo» in grado a sua volta di limitare i danni della strategia di limitazione dei danni dell’emergenza in corso? Certo, diranno subito alcuni: si tratta di un’improbabile se non di un’impossibile quadratura del cerchio. Non è auspicabile, nel momento in cui siamo, nessuna forma di comunità reale (non semplicemente virtuale), quale che siano le accortezze con le quali la si pensi e la si organizzi concretamente. Ogni tentativo di replicare con una scelta di vita in comune è, ora come ora, condannata a fare il gioco del virus, comunque la si voglia articolare. Eppure, a fronte di un’accettazione pressoché monolitica e universale di questa premessa – a fronte, in breve, di un’irriflessa concordanza di massa intorno al principio secondo il quale solo restandosene a casa, al massimo nel proprio nucleo famigliare (per chi ce l’ha), è possibile contribuire attivamente all’arginamento della pandemia – è opportuno chiedersi quanto di questo assioma ormai inappellabile sia effettivamente giustificato, e quanto in altre parole la sua messa in pratica corrisponda davvero all’esigenza diffusa delle persone colpite da circostanze così drammatiche. Una domanda, questa, che si fa ancora più pressante se si pensa a quella fetta della popolazione mondiale che, sia pure non in termini di morti, sta pagando più duramente il prezzo dell’emergenza: le nuove generazioni. Vedere infatti intere annate di nuovi studenti universitari, per fare un esempio ovvio, private di quelle fondamentali esperienze di partecipazione cenobitica[2] che, dacché esistono le istituzioni dell’istruzione superiore, contraddistinguono il percorso di formazione dei giovani, suscita più di un’inquietudine in merito agli effetti di lungo termine che questa privazione produrrà sulle loro esistenze. C’è più di un motivo per sospettare che essa avrà un impatto preoccupante sulla tempra civile dei futuri cittadini del mondo. Come mi ha confessato un amico ventenne con il quale discutevo di questa mia preoccupazione, c’è il rischio tutt’altro che collaterale “che essi (i giovani e le giovani) si abituino una volta per tutte all’obbedienza”.

Nella sua assoluta esplicitezza questa frase colpisce infatti nel segno. Ascoltarla mi ha costretto a soppesare bene un aspetto che, a parte una luminosa eccezione[3], mi sembra sia stato sistematicamente trascurato nel pur ipertrofico dibattito che sta accompagnando, come una gigantesca cassa di risonanza più o meno armonizzante, ognuna delle diverse fasi della pandemia e della sua gestione istituzionale. L’ipotesi di una replica comunitarista alle condizioni di isolamento alle quali il SARS-CoV-2 ci obbliga (per il resto insindacabilmente) invalida infatti alla radice il modello binario di ragionamento con il quale di solito si discute di ogni possibile via d’uscita dalla situazione. La questione del controllo sociale, e della sua inevitabilità per affrontare il contagio, non esclude in effetti che entrambe le due posizioni maggioritarie nel dibattito[4], per quanto contradditorie nelle nostre menti, possano trovare poi però una ‘pacifica’ coesistenza nel mondo. Al mondo, in effetti, non importa letteralmente un fico secco della logica bivalente delle argomentazioni, più o meno raffinate e più o meno agguerrite, con il quale ce ne facciamo carico. La realtà trova sempre il modo di accogliere in sé fattori apparentemente incompossibili per la nostra considerazione teorica e mettere così fuori quadro tutte le trappole discorsive accuratamente predisposte per catturarla. Si direbbe anzi che “reale” è precisamente ciò che possiede la capacità di comporre istanze peraltro inconciliabili se considerate in abstracto come corni di un mero dilemma logico. Sono in pochi infatti ad accorgersi ancora, dopo una prima fase di autofustigazione retorica di massa, che la vittoria del capitale, anche e soprattutto sul piano del controllo sociale e dell’atomizzazione a esso conseguente, è all’origine della stessa catastrofe ecologica, sanitaria e socio-politica che si profila insistentemente all’orizzonte e della quale la pandemia appare come un antipasto indigesto. Pochi sono coloro che trovano ancora il coraggio di cogliere, senza per forza di cose rimandare tutto a un fantomatico “dopo”, l’unica correlazione che basterebbe per cominciare a cambiare davvero le cose e che consiste appunto nell’inseparabilità di vita comunitaria e trasformazione radicale del sistema produttivo vigente. Non si riesce insomma a oltrepassare nella stragrande maggioranza dei dibattiti in corso il binarismo ottuso che esclude che due fattori apparentemente contraddittori, nelle nostre menti (il pericolo reale della pandemia e la repressione montante di ogni forma di socialità non produttiva), possano poi benissimo coesistere nel mondo reale. Persino il dibattito in merito è stato reso impraticabile dalla diffusione delle modalità di confronto e di dialogo (si fa per dire…) prodotte dai social network, per cui ogni minima divergenza è immediatamente derubricata nella categoria del negazionismo[5]. A ben guardare, allora, contradditorio realmente è solamente l’imperativo a rinunciare sic et simpliciter a cercare una qualche diversa soluzione – una terza via – a una situazione che appare problematica da tutti i punti di vista. Contraddittoria in senso proprio è l’ingiunzione a dover scegliere in maniera secca tra alternative tra loro incompossibili – ingiunzione di fronte alla quale non bisogna esitare a scagliarsi con tutta la propria forza. Il nome di questa ingiunzione è infatti sempre il medesimo: “fascismo”, che si situi poi dentro di noi o fuori di noi.

 

2. Incarnare la verità

Le frasi che più rimangono impresse nella nostra mente sono spesso dette da qualcuno che ha fatto della propria stessa vita, volente o nolente, una testimonianza concreta e continua del contenuto stesso delle sue affermazioni. Da qualcuno insomma che ha pagato fino in fondo il prezzo delle sue parole. Per dire la cosa altrimenti: c’è come un indice di verità o di autenticità che, inseparabile dal soggetto che la enuncia, certifica il valore di una certa sua posizione – un indice senza il quale parlare o scrivere può diventare facilmente un esercizio puramente narcisistico di auto-affermazione (e cioè, dell’opposto di uno sforzo di fattiva comunicazione: di messa in comune di un’idea). Ecco dunque che le parole summenzionate di un giovane ventenne mi permettono di prendere atto per davvero di qualcosa che sta accadendo intorno a noi e che deve forse essere supportato più di quanto non si sia già fatto sino ad ora. Quel ventenne appartiene infatti a un manipolo di adolescenti che, nel periodo compreso tra il 2012 e il 2016, si sono trovati a vivere, per necessità e per scelta, nel centro storico di una città, L’Aquila, che coincideva all’epoca ancora con una ampia Zona Rossa[6]. In quel contesto, senz’altro estremo e difficile, essi hanno praticato insomma una forma di vita comune – auto-organizzata – che ha pochi termini di paragone nel resto della storia recente del nostro Paese. Riattivando l’anarchismo spontaneo che la giovinezza porta quasi inevitabilmente con sé, hanno cioè attraversato e vissuto un contesto urbano – fatto di case diroccate, pericolanti e inagibili, ancora ricolme degli oggetti e degli effetti personali dei loro antichi abitanti – che non prevedeva in alcun modo, almeno sulla carta dei decisori istituzionali, una qualche forma dell’abitare. Praticando una disobbedienza quotidiana – attraverso l’effrazione dei sigilli che tenevano il resto della cittadinanza fuori della propria stessa città – questi ragazzi e queste ragazze, appena poco più che bambini, hanno dispiegato, a volte a contatto con le marginalità più problematiche che allignano negli interstizi delle nostre società (microcriminalità, prostituzione, spaccio, ecc.)[7], un’idea di riappropriazione dello spazio e delle proprie esistenze che, senza esagerare, non aveva precedenti nella comunità aquilana. Hanno dimostrato cioè esattamente come «le persone sono in grado, per tentativi ed errori, con l’improvvisazione e l’esperienza, di sviluppare» le condizioni per il soddisfacimento dei propri bisogni – nel caso specifico, il bisogno di un luogo in cui trascorrere la propria adolescenza in una città terremotata. E lo hanno fatto usando il writing e il rap, innanzitutto, come proprio linguaggio espressivo privilegiato. Usando cioè mezzi di comprensione musicale e artistica, in generale, della propria condizione. Non c’è infatti nulla di più intrinsecamente pubblico e comune di un’opera d’arte, ovvero di un oggetto la cui fruizione avviene sempre in un sentire diffuso tra le persone. L’arte, e la musica in primis, istituiscono quello spazio sensibile condiviso che prefigura – come sapeva bene Immanuel Kant – ogni forma possibile di una comunità a venire.

Ora, qualcuno si starà domandando che cosa c’entri tutto questo con la pandemia. Il punto è che coloro che furono una volta improvvisati esploratori del disastro aquilano hanno intrapreso, nell’ultima tornata autunnale-invernale di parziale quarantena collettiva, un confinamento conviviale, consapevoli del fatto che, altrimenti, sarebbe toccato loro tornare a un grado di illibertà incompatibile con la formazione ricevuta negli anni del dopo-sisma. Per loro, scegliere di affrontare insieme il semi-lockdown in vigore nella zona rossa abruzzese ha significato insomma cercare una naturale prosecuzione della passata esperienza insieme. Una volta sperimentate quelle circostanze (sfido chiunque a negarlo!) è difficile infatti rivenire del tutto indietro. La libertà autentica diventa sempre un’attitudine cronica, una volta assaggiata, alla quale si può rinunciare soltanto al prezzo di una grave afflizione personale. D’altronde anche io devo pressoché tutta la mia consapevolezza politica e il mio desiderio di autonomia agli eventi che hanno contrassegnato il post-sisma aquilano, ed è grazie a essi, ancora, che provo a sintonizzarmi, sebbene non più giovane, con quanto di più fresco e vero accade intorno a noi.

Come facevo notare, non sono certo il primo e, facile sospetto, non sarò nemmeno l’ultimo (lo spero!) a tornare sulla imprescindibilità, nella presente situazione pandemica, di una qualche forma di vita comune all’altezza della situazione. A fronte di una sparizione pressoché integrale delle comunità fisiche, l’esigenza di costruire un percorso che sia non soltanto individuale si fa in effetti ancora più incalzante e l’insufficienza acclarata dei mezzi istituzionali di governo dell’emergenza sembra anzi metterci di fronte al dovere storico di dare una risposta organizzata dal basso – per quanto possa effettivamente rasentare i limiti del possibile, nello scenario presente. Nella marea di articoli letti sull’emergenza sanitaria e sulle sue conseguenze, non mi è capitato infatti di incontrare nemmeno un accenno a una questione che, posta in maniera così semplice eppure così precisa dal mio amico ventenne, rischia di essere uno degli effetti più nefasti dell’attuale contingenza di annichilimento integrale della socialità. Le persone, al netto della reale pericolosità del virus (che nessuno qui si sogna di negare), sono purtroppo inclini a cedere alle sirene della passività, quando un sistema di restrizioni come quello attuale viene dispiegato in maniera così capillare sulle nostre vite – soprattutto se, come giovani individui, non hanno trovato ancora il modo di costruire la propria forma di vita generazionale. Non è difficile perciò immaginare la nascita, proprio ora, di comunità urbane e rurali che, per affrontare la pandemia, si collochino dalla parte dei legami liberamente scelti e tentino il percorso dell’autogestione. Anzi, sono sicuro che numerosi esperimenti del genere siano già in corso, anche se ne sentiamo parlare ancora poco o nulla. Esperimenti che andrebbero messi in rete e resi tra di essi, a loro volta, comunicanti – come appunto chiedono i giovanissimi cittadini aquilani nel loro comunicato[8] e come sembra emergere dalle diverse occupazioni in corso in alcune università e scuole superiori italiane. Come dicevo, d’altronde, lo stare insieme – l’essere-in-comune – non è soltanto un capriccio accidentale, ma la conditio sine qua non di ogni possibile espressione di vita activa, di qualsiasi forma di vita politicamente incisiva. E forse, in questo specifico frangente, la scelta della convivialità è addirittura di per sé una scelta politicamente dirompente, qualcosa che è destinato a lasciare il segno. Se si considera poi che il problema politico presente risiede esattamente in una riorganizzazione delle comunità umane su basi collettiviste, solidali e sostenibili, a fronte di una situazione globale – ecologica, innanzitutto – che sembra altrimenti annunciare l’estinzione stessa della nostra specie, la cosa è quanto mai evidente.

Si deve allora insistere sulla genealogia, anche psicologica, di questo senso di fine imminente che contraddistingue la nostra epoca e che si innesta, talvolta confondendosi con essa, sulla naturale consapevolezza circa la finitezza della vita umana. Per quanto strano possa sembrare, la sua insorgenza – battezzata ora Antropocene, ora Capitalocene – è tutt’uno con il senso di impotenza che ammorba i nostri contemporanei, consegnandoli a una contemplazione sempre più solitaria e malinconica del disastro incombente, delle macerie materiali e spirituali che affollano il presente. Nel corso della mia vita di xennial ho attraversato infatti varie fasi, tutte contraddistinte però da un sentimento crescente di inattuabilità, relativo nella fattispecie all’impossibilità di dare principio a un qualche genere d’azione rivoluzionaria, presentata ogni giorno di più come un’opzione ontologicamente irricevibile nell’attuale panorama socio-psico-politico. E questo pur avendo provato in ogni modo a contrastare quel sentimento, a parole e nei fatti. Come è cominciata, dunque, questa storia?

 

3. Un bisogno (in)interrotto di vita in comune

Quando mi sono accorto che gli anni ’80 del Novecento stavano ormai finendo, avevo appena cominciato a elaborare una percezione cosciente del tempo, ma non avevo ancora il senso della fine immancabile che colpisce ogni cosa. Qualcosa infatti tramontava, allora, e io imparavo appena a riconoscerlo, nella sua imperfetta identità di decennio di sconfitta sociale e di vittoria del capitale. Il riflusso politico, la deregulation economica, la dismissione delle aspettative di cambiamento radicale della società si erano infatti appena affacciati (prepotentemente) sul palcoscenico della Storia e io, mio malgrado, ero un loro figlio malnato. Mtv era stata creata da dieci anni e ogni cosa sembrava, malgrado tutto, ancora intatta. Quando sono finiti gli anni ’90, la mia adolescenza si srotolava al ritmo della musica migliore di quegli anni, dei video-clip rutilanti che invadevano i miei occhi e le mie orecchie, e l’epoca mi appariva ormai come qualcosa in cui avrei cercato me stesso, senza trovarlo. Continuavo tuttavia a non sapere bene che cosa significa “finire” – ero ancora troppo giovane per sentire che, prima o poi, le mie possibilità avrebbero cominciato ad esaurirsi. Non avrei mai immaginato che Mtv sarebbe diventata presto obsoleta e continuavo a pensare che si potessero cambiare le cose, una dopo l’altra, come non ci fosse nulla di strano a voler ancora sognare. Quando sono finiti i primi anni 2000 ho compreso – complice un terremoto – che il tempo per cambiare le cose era adesso e che tutto poteva cambiare, se solo lo avessimo voluto. La musica nel frattempo si era trasferita su altri supporti – nuovi canali di diffusione dei ritmi del nostro tempo avevano fatto la loro subitanea apparizione, costringendoci pian piano a imparare cosa e come ascoltare dalle macchine, ma concedendoci ancora la possibilità di resistere alla loro instancabile opera di persuasione. Capii allora che tra musica e ‘rivoluzione’ c’è un legame strutturale – e che tanto meno si è capaci di ballare e cantare assieme e tanto meno le cose possono mutare. Per questo negli anni successivi ho cantato e ballato non poco. Ma le cose sono cambiate ancora e tutto anzi ha cominciato a crollare, come se un terremoto mondiale avesse colpito la nostra fiducia collettiva, come se il mondo si fosse tramutato, da solo, in una vasta distesa di macerie in cui muoversi diventava ogni giorno più difficile. Quando finalmente gli anni dieci del XXI secolo sono volti al termine, la mia giovinezza era sparita e il mio desiderio di vivere intensamente non trovava più, in gran parte, una corrispondenza nel mondo circostante. Nel frattempo le amicizie – è la maturità, mi si diceva – si erano diradate, o perlomeno, avevano cambiato nella stragrande maggioranza dei casi il loro significato più profondo: non erano più la ricerca condivisa di una trasformazione reale, ma la consolazione reciproca dalle offese che il mondo implacabilmente ci infliggeva. Mtv era ormai un lontano ricordo e una pandemia aveva fatto sì che ballare e cantare assieme divenissero un pericolo inaudito. Sapevo ormai che cosa significa “finire” e anzi lo sapevamo tutti, persino i giovanissimi, sempre più persuasi – dalle macchine, forse – che la nostra fine si stava avvicinando senza sosta, sempre più rapidamente. La secolarizzazione di cui tanto si era parlato sul finire del secolo precedente aveva avuto nel frattempo, tra le altre cose, anche questo effetto di messa in prospettiva escatologica generale. Ero tornato a sperare, come nell’adolescenza, ma senza più la certezza che le speranze avrebbero trovato una qualche realizzazione. Per il mio bisogno di convivialità – perché di questo si trattava e si tratta – sembrava non ci fosse più spazio alcuno. O quasi.

Ora, è invece proprio questo bisogno che vedo riemergere nella scelta di alcuni e alcune giovani di inoltrarsi sulla strada della condivisione esistenziale e della vita in comune. È da loro che sento di poter imparare ancora una volta ad avere la certezza, e non soltanto la speranza, di un cambiamento praticabile. Anche nel caso della forclusione pandemica della socialità c’è forse, insomma, un modo di cavarsela insieme. Almeno una parte del discorso imperante secondo il quale non c’è via d’uscita comune all’emergenza sanitaria in corso dovrebbe perciò cominciare a crollare miseramente sotto i colpi di una serie di prassi, possibili e reali, che non si limitano a registrare lo status quo ma provano, perlomeno, a problematizzarlo nei suoi assunti di fondo. La repressione – nella forma dei coprifuoco punitivi, dell’interdizione a girare senza alcun motivo (nelle zone rosse) che non sia consumistico o lavorativo e l’impossibilità in generale di incontrare chicchessia che non appartenga al nucleo familiare mononucleare con cui si condivide l’abitazione – coabita ahinoi senza alcuna difficoltà con una situazione in cui la necessità di limitare il contagio è comunque di fatto imprescindibile. I due aspetti non si escludono e anzi, si direbbe, ci chiedono a gran voce di superare un modo di pensare ancora esageratamente “umano troppo umano”. Legato al pensiero dicotomico di chi si considera “padrone e possessore” (René Descartes) della Natura, questa attitudine squisitamente moderna consiste infatti nella convinzione di poter decidere, con un solo gesto netto e definitivo, il destino del proprio stesso ambiente di vita (e con esso, di tutti i suoi abitanti). Una consapevolezza anche minima di come la Natura non sia per nulla il dominio di esercizio senza ostacoli della nostra potenza invita però a dismettere l’abito ancora troppo antropocentrato di chi crede che basti una sola azione, che tagli in due una volta per tutte il campo di gioco, per cambiare le cose. Pensare la Natura adeguatamente – come anche tanta parte della scienza e della letteratura filosofica odierna ci invitano ormai a fare – significa accordare piena legittimità a diverse forme di vita (e dunque di esperienza), le quali convivono senza trovare mai uno spazio di radicale contrapposizione e ci chiedono anzi di imparare dalla loro insuperabile pluralità a organizzare su più livelli, tra di loro interagenti e cooperanti, anche il nostro stesso vivere. È tempo insomma di addestrarci a diluire le nostre iniziative di cambiamento su un arco temporale lungo e compartecipato, a concatenarle in un orizzonte di radicale coesistenza e collaborazione, anche quando tutto sembra remare in direzione di una polarizzazione letale (la sopravvivenza o l’estinzione…) degli elementi in ballo. D’altronde, difficile smentirlo, l’unica rivoluzione ancora possibile non può non avere questa vocazione pluralista e comunitarista, non può non scegliere la via della continua revisione (auto)critica dei propri presupposti.

È qui che si inseriscono, una volta di nuovo, le esperienze a cui ho fatto riferimento e che acquistano, oggi più che mai, un significato esemplare – un significato che deve farsi, questo sì, contagioso. È qui che sorge il bisogno di far coesistere una qualche forma di socialità con le pur indispensabili misure di emergenza (pericolosamente tendenti a divenire ordinarie…), pena l’addomesticamento morale, non sicuro ma molto probabile, delle nuove generazioni. Come ha scritto un altro rivoluzionario, Victor Serge, «Sin dall’infanzia, mi sembra d’aver sempre avuto, molto netto, il doppio sentimento che doveva dominarmi durante tutta la prima parte della mia vita: quello cioè di vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile». La vita umana è sempre (stata) uno sforzo per comporre insieme forze tra di loro (apparentemente) incompossibili e che solo a cose fatte perderanno questo carattere di intrinseca incompatibilità reciproca. La giovinezza, anzi, è proprio l’età della vita in cui gli opposti dualismi che paralizzano l’agire delle generazioni precedenti vengono bruscamente sospesi, per dare spazio a scelte e strutture organizzative che oltrepassano, questa volta sì di netto, le titubanze degli ‘adulti’. La giovinezza è il momento in cui trova piena cittadinanza quel «doppio sentimento» di cui parla Serge, riferendolo non a caso alla prima parte della propria esistenza. A discapito di tutto, infatti, la Natura continua, sempre, checché se ne dica e checché ci suggerisca la nostra umana convinzione che tutto prima o poi sia destinato a morire; la Natura rimane sempre giovane perché riesce a tenere insieme forme plurali e cangianti, senza incappare però in alcuna contraddizione – trovando anzi il modo di far risuonare insieme i contrasti, qualora emergano. Perché, insomma, è originariamente e irriducibilmente con-viviale, in tutti i sensi della parola. In questa ottica, anche le macerie – reali o metaforiche, locali o globali – possono non avere più nulla di inabitabile, come i giovani aquilani ci hanno dimostrato. Anche del disastro si può fare un uso.

Lasciamo perciò che almeno coloro che rischiano di meno, i e le giovani, trovino il modo di affrontare alla propria maniera l’emergenza, attuale e futura. Facciamo sì che ci sia il modo di imparare da loro; qualcosa di veramente importante accade infatti soltanto quando la trasmissione dei saperi (dei saper-fare) inverte il suo senso abituale di processo che va dal più vecchio al più nuovo e si comincia, improvvisamente, ad apprendere da chi o da ciò che è appena sul punto di fiorire. Sosteniamoli infine nello loro sforzo spontaneo di organizzazione per rispondere a un bisogno che solo la cattiva fede di chi ha rinunciato ormai a ogni prospettiva di trasformazione dell’esistente può ritenere decorativo o addirittura egoistico – il bisogno (in)interrotto di condurre una vita in comune. Così forse riusciremo anche noi a ritrovare un poco di indomita giovinezza.


Note
[1] C. Ward, Anarchia come organizzazione, elèutheura, Milano 2013 (1976), p. 36.
[2] Il pensiero va naturalmente al testo che Giorgio Agamben ha dedicato al problema, dal titolo inquietante di Requiem per gli studenti: https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-gli-studenti.html
[3] Ci riferiamo all’intervento di Bifo (Franco Berardi), «Il sistema psico-immunitario della generazione proto-digitale», pubblicato su Effimera (http://effimera.org/il-sistema-psico-immunitario-della-generazione-proto-digitale-di-franco-bifo-berardi/), dove appunto ci si chiede perché i giovani non prendano proprio adesso, senza esitazioni, la via delle comuni. Formulando tuttavia il suo discorso nei termini di una reprimenda generazionale – quella di chi, nei famigerati anni ’70, ha vissuto ben altre circostanze di mobilitazione e rivolta – ho l’impressione che il suo discorso finisca per produrre l’effetto contrario a quello auspicato, invertendo l’ordine causale del problema. Ecco infatti la diagnosi pessimista di Bifo: «Ma in secondo luogo vuol dire che la nuova generazione, nella sua grande generalità, non ha molte speranze di prendere in mano il proprio futuro, non ha molte speranze di autonomia politica e forse neppure esistenziale […] Se fossi uno psichiatra direi che le condizioni per una simile mostruosa evoluzione erano tutte presenti nella psicogenesi della generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla mamma». Non è però perché le nuove generazioni sono plasmate dall’ordine repressivo del capitalismo digitale che hanno perduto la capacità di organizzarsi altrimenti. È perché non si trova in generale il coraggio di farlo, coraggio da riattivare ogni volta daccapo, che le macchine, e con esse gli automatismi comportamentali vecchi e nuovi, prendono il sopravvento.
[4] Tagliando fuori quindi gli estremi di chi nega l’esistenza del problema o di chi si schiera per partito preso a favore della limitazione delle libertà individuali e collettive che la sua esistenza sembra necessariamente implicare, ergendosi per di più ad ausiliario delle forze di polizia nell’esercizio del controllo dei ‘comportamenti devianti’.
[5] Si veda in merito l’intervento di Wu Ming, A cosa serve l’epiteto negazionista e quale realtà contribuisce a nascondere, https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/11/caccia-al-negazionista/
[6] Su questa vicenda poco nota, si vedano gli importanti studi dell’antropologa Rita Ciccaglione, tra i quali segnaliamo, a titolo indicativo, R. Ciccaglione, «Abitare i vicoli e le “case” a L’Aquila post-sisma. Diritto alla città e spazi di desiderio tra gli adolescenti», in Antropologia, numero speciale, dicembre 2017.
[7] Un’eccezionale documentazione di quella stagione, conclusasi con l’avanzamento dei lavori di ristrutturazione del centro storico dell’Aquila, si deve al fotografo Marco D’Antonio, il quale ha significativamente intitolato il suo lavoro, raccogliendole in un piccolo ma prezioso libro, “La città nascosta” (2019), oltre che pubblicandole online al seguente indirizzo: http://www.lostatodellecose.com/portfolios/la-notte-dellaquila-cronache-dalla-citta-clandestina/.
[8] Scrivono infatti nel testo reperibile al seguente indirizzo, https://www.3e32.org/?p=9840&fbclid=IwAR02tpOvdMAtQH3ihFxjWlAJwSNePQ3VHTXged-VydwvUlDEjb8Ara6vtv4 : « A livello personale, abbiamo perciò ritenuto giusto rispondere per mezzo di una convivenza inter nos che ci permettesse di proseguire la vita a cui abbiamo diritto e di cui abbiamo bisogno. Oltre agli evidenti vantaggi che il perseguimento di un tale obiettivo ha garantito ai singoli che vi hanno preso parte, crediamo che il discorso così intrapreso possa ampliarsi mettendo in contatto varie esperienze di questo tipo. Si tratta insomma di sollecitare le persone a ritagliarsi uno spazio, il quale dovrebbe oggi necessariamente configurarsi in termini di convivenza, per garantire le interazioni sociali, pur ristrette, indispensabili a una vita non interamente votata alla produttività.Al fine inoltre di provare a creare una rete che possa permettere, attraverso lo scambio di esperienze, l’interazione tra le strategie di risposta elaborate da diverse realtà sociali, ci proponiamo di aprire un dibattito, non solo locale, concernente il senso e la portata di una simile sperimentazione».

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E Sem
Friday, 16 April 2021 10:16
Nulla di nuovo sotto il sole. Alcuni sognano, pochissimi fanno, quasi tutti si arrendono. La nostra immortalita' ha una scadenza "a breve". Tutto gia' visto, sentito. Tutto rimane sotto controllo, anche le nostre presunte ribellioni, meno il tempo che ci separa dalla misera fine della nostra onnipotenza di prediletti dal Creatore.
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Anonimo
Tuesday, 13 April 2021 16:09
Gentile anonimo,

grazie per il suo articolo, condivisibile e bello. Sono un giovane, anche se non più giovanissimo, che insieme ad altri giovani non giovanissimi prova a costruire una convivialità e una vita in comune con altri. Molta è l'ignoranza, propria e altrui, con cui fare i conti, e molte le occasioni di comprendere questa ignoranza, di fare i conti con una più vasta vita, che non sia limitata al solo spazio fisico e morale (se mai fosse possibile) della sola propria persona. Il processo di conoscenza, che è conoscenza di vita comune nel lavoro, nel dialogo, nel gioco, e in altri linguaggi umani che, come ha sottolineato, prefigurano ogni forma possibile di una comunità a venire, è, credo, ciò che consciamente ai suoi membri fonda queste comunità presenti e future. Noi si ha tutto da inventare, e sappiamo forse più della generazione dei padri e delle madri, di non essere eterni. Ciò ci permette di soppesare molto le scelte pratiche del nostro agire nel mondo, ma con il cuore meno pregno di paure, non avendo noi nulla da perdere, non identificandoci in alcun valore servile che domina le malate società capitalistiche. Non abbiamo un '900 a cui rivolgerci, siamo sgombri di retorica, di particolari ideologie, non abbiamo un futuro che ci attende. Non abbiamo nemmeno un presente da difendere, perché non edifichiamo con arroganza ed egoismo, o almeno così mi pare. Non avendo nulla, nemmeno abbiamo qualcosa da perdere.

Un abbraccio,

anonimo
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