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CIEra una volta la dignità umana

Il 12 Agosto nel CIE di Crotone, in seguito alla morte di uno degli “ospiti”, è scoppiata una rivolta che ha portato alla chiusura “temporanea”, ma a tempo indeterminato del centro. Non è che una delle continue proteste in cui l’esasperazione dei migranti cerca una qualche valvola di sfogo, nella speranza di essere sottratti ad una condizione di detenzione ingiustificata ed indeterminata. Nel nostro curioso Paese, infatti, chi non possiede un certificato amministrativo finisce internato con il solo timbro di un giudice di pace, mentre chi è stato condannato in ben tre gradi di giudizio scivola indisturbato sui parquets della sua villa di lusso e gioca a birilli con il governo nazionale.

Ma come funziona, questo antropofagico mostro CIE? In realtà al di fuori della cronaca se ne parla poco, anche per un motivo strutturale: si tratta di un mondo blindato, i cui contatti con l’esterno sono ridotti all’osso e rigorosamente irreggimentati dalle rispettive direzioni. Nel 2011 una circolare di Maroni aveva addirittura vietato l’ingresso a CIE e CARA ai mezzi d’informazione, alle organizzazioni indipendenti e agli esponenti della società civile. Un provvedimento revocato in seguito dalla ministra Cancellieri, ma il cui intento prosegue tutt’oggi, con mezzi più sottili. La prima indagine indipendente si deve all’associazione MEDU (Medici per i Diritti Umani), pubblicata pochi mesi fa e ricca di osservazioni che avrebbero dovuto quantomeno scuotere questa istituzione. Vale la pena, di fronte ai fatti recenti, di ricordarne alcune.

La discussione pubblica sembra focalizzarsi troppo spesso sul punto sbagliato: si studiano modi per migliorare le condizioni di detenzione, pardon, ospitalità, invece che opporsi al principio di base che determina il fenomeno CIE, ovvero l’adozione della detenzione amministrativa come risposta prioritaria all’immigrazione irregolare. Il trattenimento dei migranti a fini di identificazione ed espulsione fino a un massimo di 18 mesi è infatti riconosciuto come ammissibile dall’Unione Europea, nella cosiddetta Direttiva Rimpatri del 2008, ma ad una condizione: che si ricorra ad esso solamente come ultima istanza, quando misure alternative e meno coercitive (come il rimpatrio volontario) siano già state tentate o non siano disponibili. Essa concede però un margine di autonomia troppo ampio ai singoli stati, lasciati liberi di valutare l’eventualità di misure alternative, e ha portato l’Europa intera a fare ricorso sistematico alla detenzione, originando una rete di centri al confine della legalità, in cui la tutela della dignità umana è costantemente in pericolo.

In Italia quella che era pensata come una misura strettamente tecnica, il trattenimento per identificare il soggetto ed organizzare il rimpatrio, ha finito per cambiare completamente natura. Nel 2008 il tempo massimo di permanenza nei CIE è passato infatti da 60 a 180 giorni; nel 2011 è stato prolungato a ben 18 mesi. È chiaro che un intervallo simile non corrisponde più al tempo “tecnico” per attuare i provvedimenti amministrativi, ma rischia di tradursi in una misura puramente sanzionatoria: la privazione della libertà personale e della dignità umana come punizione per il supposto peccato originale dell’immigrazione.

Altra novità recente, e determinante, è stata l’affidamento sempre più frequente della gestione dei CIE a cooperative private, tramite bandi di gara basati sul principio del “massimo ribasso”: chi fornisce i servizi necessari ad un prezzo più basso, si aggiudica la gestione, su una base d’asta fissata a 30 euro al giorno per ogni “ospite”. Questo ha significato una cosa sola: tagli ai servizi, riduzione dei costi, peggioramento sostanziale della qualità di vita all’interno dei centri. Facciamo un esempio: qualche anno fa il mantenimento quotidiano di un detenuto presso il CIE di Modena costava 75 euro; nel 2012, dopo l’affidamento della gestione al consorzio Oasi, ne costava 29. Che si tratti solo di risparmio? Come può un taglio così drastico non comportare una diminuzione dei servizi garantiti? Ma il record l’ha battuto Crotone, dove La Misericordia ha offerto il pacchetto per 21,42 euro. Forse non è poi casuale che proprio qui sia scoppiata con tale intensità la rivolta.

Gli uomini di MEDU sono stati tenuti lontani dalle aree di trattenimento destinate ai migranti e non hanno potuto avere con essi conversazioni riservate, per motivi di “sicurezza e ordine pubblico”. Nonostante questo le loro analisi sono tutt’altro che edulcorate: nei CIE la tensione è sempre fervida, con continue rivolte, tentativi di fuga, danni alle strutture. È un dirigente stesso a definirli delle polveriere. Agli internati non vengono offerte attività ricreative di sorta, lasciati a macerare tra muri e filo spinato senza sapere cosa li aspetta e quanto a lungo saranno trattenuti. Le condizioni di igiene e pulizia sono il più delle volte inadeguate, la manutenzione dei centri è scadente e ai migranti non viene fornita un’assistenza sufficiente, né legale né psicologica. In alcuni luoghi essi non ricevono nemmeno le informazioni sui loro diritti e doveri, come prescrive la legge, privati quindi di qualsiasi strumento di comprensione della realtà che attraversano.

Perfino il diritto all’assistenza sanitaria viene loro riconosciuto in modo discontinuo. Il personale sanitario è infatti contrattato e gestito direttamente dagli enti gestori, quindi dalle cooperative private, in una sorta di “extraterritorialità sanitaria” che nega l’accesso a medici delle ASL pubbliche. Inoltre il modello è pensato per fornire un’assistenza sanitaria di base per periodi brevi (sui 30 giorni) e non è quindi preparato ad affrontare esigenze più corpose, come malattie croniche o terapie di lungo corso. A complicare ulteriormente le cose interviene la mancanza di fiducia tra medico e paziente: i medici tendono infatti a non credere ai sintomi narrati, per il sospetto che si tratti di “finti pazienti” che desiderano solo il trasferimento verso strutture esterne. Molti centri non dispongono poi di medici specialistici, come ginecologi o psichiatri, di cui si sentirebbe invece un acuto bisogno, date le storie di vita di queste persone.

Le condizioni psicologiche dei migranti sono infatti molto precarie, anche a causa della situazione di detenzione in cui si trovano. Numerosi sono i casi di autolesionismo e si registra un abuso massiccio di psicofarmaci, nonostante l’assenza di personale specializzato che possa prescriverli. Il 40-50% dei trattenuti assume ansiolitici, con picchi che toccano il 90% a Milano.

La creazione di tutto questo dolore è davvero necessaria? Costituisce una forma di lotta efficace alla clandestinità? No, da nessun punto di vista. Nel 2012 i migranti detenuti in tutti i CIE italiani erano 7.944, di cui solo 4.015 sono stati identificati e rimpatriati. Un tasso di efficacia del 50,54%, decisamente modesto. Anche con un calcolo meramente utilitaristico i conti non tornano: i dati completi sui costi non sono resi pubblici, ma il mantenimento delle strutture pesa gravemente sulle casse dello stato. Nel 2011 la sola spesa per la gestione dei servizi (a cui devono essere sommate altre voci, come le forze di pubblica sicurezza impiegate) è stata di 18,6 milioni di euro. Lo stesso prolungamento dei tempi di trattenimento si è dimostrato inutile ed irrilevante: i rimpatriati attraverso un CIE nel 2012 sono stati solamente l’1,2% dei 326.000 immigrati irregolari registrati dall’ISMU. Una goccia nell’oceano.

I CIE “non garantiscono la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti”, sono polveriere sempre più esplosive, costano troppo e sono inutili. Allora perchè il nostro Paese continua a servirsene come strumento imprescindibile? E perfino la Kyenge plaude ai tentativi di miglioramento e rinnovamento delle strutture, che non sono che uno specchietto per le allodole sul bordo della catastrofe?

Tendiamo a dimenticarcene, ma anche questi esseri accalcati dietro le sbarre o sotto tetti di nylon nelle campagne pugliesi sono persone. Si muovono ciascuno con i propri piedi, non in “flussi”: non stiamo parlando di gocce d’acqua o di correnti, né di grumi di sangue mestruale, ma di esseri umani che si mettono in cammino o si abbandonano alle onde per inseguire una qualche speranza di futuro. Ma oggi abbiamo bisogno di un nemico. Oggi il potere che ci governa ha bisogno di un nemico, di una minaccia da sventare aumentando la sicurezza e diminuendo la libertà di tutti noi, e allora grida all’emergenza. Emergenza immigrazione!, quante volte l’abbiamo sentito? 1 Gennaio 2012 (dati ISMU): gli immigrati in Italia sono 5.430.000, lo 0,5% in più rispetto al 2011. Una crescita vicina allo 0, nell’anno della tanto temuta “ondata” delle Primavere Arabe. Dov’era l’emergenza?

Una volta rinchiudevamo i matti, oggi dietro le sbarre ci buttiamo gli immigrati. I CIE non sono che strumenti di mera sanzione punitiva e di segregazione forzata di individui ritenuti socialmente indesiderabili, vittime di una criminalizzazione dell’immigrazione irregolare che in realtà è vitale per la sopravvivenza della nostra economia, ma che viene demonizzata e sfruttata come arma mediatica di straordinaria efficacia. “Qui è molto peggio che in prigione”, dicono ad una voce i migranti rinchiusi nei CIE, privati anche di quelle minime garanzie penali che caratterizzano la struttura carceraria. Abbandoniamo almeno l’ipocrisia di chiamarli ospiti. Sono reclusi. Anche le parole hanno una loro importanza.

Fonte: Indagine MEDU (http://www.mediciperidirittiumani.org/pdf/ARCIPELAGOCIEsintesi.pdf)

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