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Debito pubblico. Perché e come si può non pagarlo

Contropiano intervista Luciano Vasapollo

Il non pagamento del debito pubblico e la fuoriuscita dall’Eurozona non sono più proposte velleitarie, ma possono diventare soluzioni da percorrere. In un libro di prossimo uscita – “Il Risveglio dei maiali”, edizioni Jaca Book – tre economisti marxisti, Arriola, Martufi, Vasapollo, analizzano la crisi in corso, le micidiali conseguenze sui paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) dell’Unione Europea e le possibile proposte per non essere annientati dalla macelleria sociale imposta dalla Banca Centrale Europea e dal governo unico delle banche che sta determinando le sorti dei lavoratori, giovani, disoccupati, pensionati nel nostro e negli altri paesi europei

Abbiamo rivolto alcune domande a Luciano Vasapollo, uno degli autori del libro.


Tra i movimenti sociali e i sindacati di base del nostro paese, sta emergendo la parola d’ordine del “non pagamento del debito”. A tuo avviso è una campagna un po’ velleitaria o una soluzione che può diventare realista? Chi verrebbe danneggiato e chi avvantaggiato da un congelamento o una moratoria del pagamento del debito pubblico italiano?

Non chiediamo certo il non pagamento del debito pubblico in mano alle famiglie, che ad esempio rappresenta in Italia solo il 14% del totale. La moratoria richiesta è nel pagamento del debito pubblico interno ed estero in mano alle banche, finanziarie, assicurazioni, grandi fondi pensione ed investimento. Cerchiamo di capire perché e come.

Il passaggio dall’Europa finanziaria ed economica alla costruzione politica dello Stato sovranazionale europeo, crea un terrorismo massmediatico attraverso un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali per screditare il ruolo degli Stati-Nazione. E’ così che il debito pubblico si trasforma in debito sovrano.

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Dove va il welfare italiano

Francesco Ciafaloni

Il sistema pensionistico è quello che determina la vita e la morte delle persone. Si tratta insomma del più rilevante tra i temi politici. Andrebbe affrontato con rispetto e cautela e non con il disprezzo e la superficialità delle discussioni attuali

Si discute di bilanci e di sviluppo, di tagli ai servizi e all'assistenza, di sostenibilità del sistema pensionistico, di linee sindacali. Ci sono però aspetti demografici, pensionistici, assicurativi che saranno certo notissimi ai potenti che decideranno realmente chi colpire e chi difendere, e come, e in che prospettiva agire, ma che mi sembrano assenti dalla discussione pubblica.


Tendenze demografiche e loro conseguenze

Tutti parlano dell’allungamento dell’attesa di vita e della necessità di ritardare l’età della pensione per rendere il sistema sostenibile. In genere si replica, giustamente, che bisogna guardare alla lunghezza della vita in buona salute e che, soprattutto per i lavori manuali, dopo i 50 nessuno ti assume più e che alzare l’età di pensione non vuol dire far lavorare più a lungo ma solo pagare più tardi. Ma le cose non stanno proprio così.

È facile scoprire dai siti Istat e Inps che l’attesa di vita delle donne da cinque anni è sostanzialmente ferma: è diminuita per qualche anno, poi è aumentata di nuovo, oltre i livelli precedenti, ma, tendenzialmente, non cresce più. Certo, l’attesa di vita dei vecchi e dei grandi vecchi, oltre i 65 e oltre i 75, è alta. Ma, quelli, in pensione ci sono già, e ci sarebbero anche nell’ipotesi di allungamento.

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Note sul debito pubblico italiano

di Dario Di Nepi

In questi mesi il dibattito sui debiti sovrani è stato orientato prevalentemente alle discussioni in merito al rischio di default della Grecia, ai problemi relativi agli aiuti da dare al Portogallo e alla situazione irlandese. In Europa si parla dei Pigs e del loro ruolo destabilizzatore, dei rischi per l’economia europea e per il futuro dell’Euro.

L’Italia, pur non essendo inserita all’interno dei Pigs, e pur non avendo subito l’attacco speculativo a cui è stata sottoposta la Grecia, non può essere considerata esente da problemi riguardanti  sia il debito pubblico, sia il deficit di bilancio.  Come sappiamo  questi due elementi sono strettamente legati e connessi tra di loro, anche se non bisognerebbe fare l’errore tipico degli analisti liberisti di vedere una relazione diretta causa-effetto tra spesa sociale – deficit di bilancio – debito pubblico.

Sin dagli albori dello Stato moderno il debito pubblico infatti era legato principalmente al finanziamento di attività militari o coloniali, determinanti per l’espansione commerciale, necessaria alla nascente economia mercantilista. Da questo punto di vista gli esempi possono essere molteplici, basti pensare che sino alla Rivoluzione Industriale la Banca d’Inghilterra compie la maggior parte delle operazioni di credito con il governo reale.[1] Gli Stati (e dunque, in forma indiretta, l’intera collettività tramite imposte o tagli alla spesa sociale) sono stati quindi tra i principali finanziatori dello sviluppo di tutto il mercato finanziario internazionale, attraverso i loro debiti infatti hanno garantito delle rendite pressoché costanti ai propri debitori (inizialmente le banche nazionali, in seguito le banche private, le compagnie di assicurazioni, i fondi di investimento, etc).

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Spesa per pensioni, così è se vi pare

Maurizio Benetti

Le varie istituzioni applicano criteri diversi nel computo della spesa previdenziale, tanto che il suo rapporto sul Pil cambia fino a oltre 3 punti, una differenza enorme. Una giungla in cui si perde di vista il vero problema: che ormai non è la sostenibilità finanziaria, ma gli importi troppo bassi

unipol futuroMentre il ministro Tremonti afferma che finché ci sarà lui al governo le pensioni non saranno toccate, ci sono economisti ed esponenti di entrambi gli schieramenti che continuano a sostenere la necessità di intervenire per tagliare la spesa pensionistica, sorvolando sul fatto che le previsioni ci indicano più un problema di sostenibilità sociale che non uno di sostenibilità finanziaria.

Cominciamo per prima cosa a chiarire quale sia l’ammontare della spesa pensionistica in Italia dato che i dati che vengono citati sono spesso molto diversi tra loro con differenze superiori anche a 2-3 punti di Pil.

Un’utile opera di chiarimento in merito è quella fatta dalla Ragioneria generale dello Stato (Rgs) nella pubblicazione “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”, Rapporto n.10, riportata anche nel Rapporto 2008 del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (NVSP). La Rgs confronta i dati di spesa pensionistica in rapporto al Pil secondo le diverse definizioni dell’aggregato. Riporto per il 2006 i dati Rgs e per il 2007/8 il loro aggiornamento.

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manifesto

L'errore del Governatore

di Felice Roberto Pizzuti

draghi       Il Governatore Draghi, partendo dai problemi posti dalla crisi, ha fatto due proposte: il potenziamento degli ammortizzatori sociali e l'aumento dell'età pensionabile. La prima è largamente condivisibile proprio a partire dai dati ricordati dallo stesso Governatore che confermano come la vera anomalia del nostro welfare sia la marcata inadeguatezza dei nostri ammortizzatori sociali che lasciano del tutto scoperti proprio i lavoratori maggiormente a rischio di disoccupazione, come i parasubordinati, e coloro che sono in cerca del primo impiego.

      Attualmente, meno di un terzo dei disoccupati riceve un'indennità di disoccupazione, ma il basso tasso di attività indica che coloro che involontariamente non lavorano sono più di quanti appaiono nelle statistiche dei disoccupati poiché molti di essi, scoraggiati dalla possibilità di trovare un impiego, nemmeno figurano in cerca di lavoro. La crisi conferma (specialmente a chi l'aveva rimosso con teorie ottimistiche) che l'instabilità dei mercati è un dato strutturale e crescente, cosicché assicurare un reddito ai disoccupati non è solo un'esigenza sociale, ma anche economica perché sostiene la domanda in un momento di particolare bisogno.

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manifesto

Le false pensioni

 di Galapagos

pensionati3L'Ocse ha diffuso ieri un rapporto sulla spesa pensionistica nel 2005. Quello che ne emerge sono dati terrificanti per l'Italia: spende per la previdenza il 14% del Pil, quasi il doppio rispetto ai paesi concorrenti. Dopo la diffusione del rapporto c'è stata una corsa a reclamare una nuova riforma. In testa al gruppo, si è messo a tirare Enrico Letta. Ma c'è un «inghippo»: i dati Ocse sono palesemente falsi (magari ai pensionati italiani finisse veramente il 14% del Pil) e confrontano metodologie fra loro non confrontabili. Vediamo perché.

Con una premessa: oggi l'Ocse presenterà le nuove previsioni sulla crescita del Pil: l'anticipazione è che la ripresa slitterà al 2011. Nel frattempo, però, da Parigi chiedono una riforma che deve essere pagata dai lavoratori (quelli italiani sono già i più tartassati dal fisco) e non dal capitale finanziario che ha generato le bolle speculative che hanno innescato la recessione dell'economia mondiale.

Da parecchi anni in Italia viene pubblicato (a cura di Roberto Pizzuti) dal Dipartimento di economia pubblica dell'Università La Sapienza di Roma, un «Rapporto sullo stato sociale» che spiega - da tutti apprezzato - quello che l'Ocse nasconde. Apparentemente si tratta di questioni metodologiche, ma non lo sono. La spesa previdenziale pubblica è estremamente disomogenea rispetto a quella degli altri paesi.

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economiaepolitica

A che cosa serve la finanziaria 2009

Luigi Cavallaro

Ha destato e desta molte perplessità l’atteggiamento governativo (e del ministro Tremonti in particolare) a proposito della Finanziaria 2009, che il Parlamento ha definitivamente varato lo scorso 19 dicembre. Molti commentatori hanno rimproverato all’esecutivo di aver sottovalutato le conseguenze della recessione in atto e molti altri hanno rimproverato al ministro dell’Economia di aver tenuto un approccio “creativo” ai conti pubblici quando non ce n’era (a loro avviso) bisogno e di perseverare, per contro, in un atteggiamento “draconiano” in un momento gravissimo come quello attuale, in cui tanti economisti ed editorialisti si stanno reinventando dispensatori di ricette pseudo-keynesiane.

Crediamo che si tratti di considerazioni errate. Non soltanto perché imputano a Tremonti una sottovalutazione della crisi, quando invece egli è stato tra i pochi a rappresentarsela come evento possibile e anzi imminente, ma soprattutto perché non colgono le reali ragioni dell’insistenza tremontiana sulla necessità di non deflettere dalla linea di rigore sui conti pubblici.

Spiegarlo non è semplice e implica la necessità di risalire un po’ indietro nelle vicende economiche e politiche del nostro Paese. Siamo tuttavia convinti che solo un approccio del genere possa dar conto delle difficoltà e dei rischi della fase di politica economica che stiamo vivendo.

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manifesto

L'ossessione ricorrente: abbattere la previdenza pubblica

Felice Roberto Pizzuti

pensionati1Nelle «Considerazioni finali» si trovano preoccupanti riferimenti alla previdenza. L'idea di fondo è che «Un riequilibrio duraturo richiede un intervento sul sistema previdenziale».

L'intervento dovrebbe caratterizzarsi per l'aumento dell'età pensionabile e per l'aggiornamento dei coefficienti di calcolo delle pensioni; ma, più sostanzialmente, andrebbe molto più sostenuta la previdenza privata verso cui andrebbe dirottata anche una quota della contribuzione attualmente destinata alla previdenza pubblica.

Circa i collegamenti tra bilancio pubblico e pensioni vale la pena ricordare che il saldo tra i contributi incassati e le prestazioni previdenziali effettivamente erogate, cioè al netto delle trattenute fiscali, è positivo per un ammontare pari a circa mezzo punto di Pil. Dunque, attualmente, il bilancio pubblico è avvantaggiato, non peggiorato, dal sistema pensionistico previdenziale.

L'età di pensionamento effettiva dei lavoratori italiani è solo di 7 mesi più bassa della media europea, ma è superiore rispetto a quella d'importanti paesi come la Francia che, tra l'altro, ha una spesa pubblica complessiva più elevata della nostra e una crescita economica maggiore. In Italia, invece, il tasso d'occupazione è tra i più bassi in Europa, per motivi strutturali che evidentemente attengono alla scarsa capacità del nostro sistema produttivo di creare occupazione; in questo contesto, finché non verrà modificato, forzare l'aumento dell'età di pensionamento implicherà ridurre il turn over, aumentare la disoccupazione giovanile, peggiorare la composizione della forza lavoro e, dunque, ostacolare anche il rinnovamento produttivo.