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Settembre 1920. L'occupazione delle fabbriche e i suoi insegnamenti

di Concetto Solano

Lavoratori«Ogni discussione è inutile», affermò il capo della delegazione padronale, avvocato Rotigliani. «Gli industriali sono contrari alla concessione di qualunque miglioramento. Da quando la guerra è finita essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta, cominciamo da voi».

Era il 13 agosto 1920. Davanti i padroni avevano una delegazione dei sindacati metallurgici. Questa risposta chiudeva ogni possibilità di dialogo, auspicato dalla Fiom, e apriva il fronte di uno scontro durissimo tra padroni e lavoratori.

Tutto iniziò qualche mese prima, in uno scenario che sembrava destinato a restare limitato ad un ambito strettamente rivendicativo e sindacale.

Il memoriale varato dai dirigenti riformisti della Fiom, nel mese di maggio, puntava, infatti, a mantenere le relazioni con la Federazione industriale sul piano del confronto, evitando di inasprire la contrapposizione e di dare spazio alle spinte più radicali.

Le richieste presentate erano tutte attinenti rigorosamente a questioni sindacali, inserite entro il sistema di relazioni della contrattazione nazionale. I dirigenti sindacali si erano detti disposti ad attendere «sereni e fiduciosi, senza impazienze e senza movimenti impulsivi l’esito delle trattative»,1 in modo da arrivare ad una soluzione pacifica.

Le aspettative riformiste – come anticipato all’inizio – vennero smentite dalla reazione dei padroni. Secondo loro «sia per la portata sia per la forma delle richieste, queste vulnerano talmente gli attuali patti di lavoro da costituire una sostanziale denuncia» e ignorano «una valutazione reale delle condizioni delle industrie».2

Gli industriali, di fronte alla diminuzione delle ordinazioni conseguenti alla riduzione generale delle spese militari e al rischio, quanto mai concreto, della sovrapproduzione, spingevano per una drastica contrazione dei salari e una forte riduzione della manodopera impiegata.

L’intransigenza padronale vedeva schierati, insieme, gli industriali siderurgici e quelli meccanici, compresi quelli dell’industria automobilistica, che pure avevano avviato una rapida riconversione dalla produzione di guerra a quella di pace.

Il rifiuto della Confederazione generale dell’industria italiana di rinnovare il contratto proposto dalla Fiom rispondeva anche alla volontà di fare pressione sul governo a varare provvedimenti protezionistici per tutelare il settore siderurgico dalla concorrenza estera.

Agnelli il 24 giugno aveva detto che «per le pesantezze del mercato l’incertezza di un immediato futuro e per i nuovo gravami che i provvedimenti governativi hanno preannunciato, le industrie non sono in grado di accordare un qualsiasi aumento delle mercedi».3

La Fiom, anziché proclamare lo sciopero generale, adottò la tattica dell’ostruzionismo4 nelle aziende interessate alla vertenza. La preoccupazione principale di Buozzi e degli altri dirigenti della Fiom fu quella di tranquillizzare gli animi, rivendicando il ruolo «ragionevole”» della dirigenza sindacale che si attribuiva, di fronte agli operai, il merito di «aver fatto di tutto per far accettare pacificamente e ragionevolmente le vostre rivendicazioni».

Lunedì 30 agosto gli operai dell’Alfa Romeo trovarono la fabbrica presidiata dalle truppe. Impossibile entrare. La proprietà della fabbrica aveva la serrata.

Per evitare un’analoga situazione nelle altre fabbriche gli operai occuparono, senza perdere tempo, le industrie metallurgiche e meccaniche di Milano.

Il 31 agosto la Federazione nazionale dell’industria meccanica e metallurgica rispose proclamando la serrata in tutta Italia. Gli operai furono pronti ad entrare in azione, prima che soldati e carabinieri occupassero gli altri stabilimenti. L’occupazione, da parte operaia, si estese alle fabbriche di Piemonte, Liguria e delle altre regioni dove esistevano industrie metallurgiche.

Sabato 4 settembre l’occupazione raggiungeva il proprio culmine.

500.000 lavoratori si barricarono nelle fabbriche. La difesa delle industrie, fu approntata ovunque, «pur con un armamento scarso ed improvvisato»,5 con gli operai che si alternavano per sorvegliare gli stabilimenti per difenderli da eventuali irruzioni della forza pubblica.

In qualche stabilimento il clima era addirittura festoso. Tra falci e martello e bandiere rosse a Terni si celebrò l’avvenimento della «magnifica colata» ed a Livorno si varò addirittura una nave.

L’occupazione ebbe il suo punto di forza a Torino. Nello stabilimento Fiat Centro alla scrivania di Agnelli sedeva Giovanni Parodi. Malgrado le difficoltà obiettive, quello stabilimento riprese la produzione, costruendo 37 autovetture al giorno contro le 67 dei periodi ordinari.

L’occupazione mise in evidenza ammirevoli manifestazioni di combattività e di solidarietà operaia; vennero sperimentate forme di controllo e di gestione ma senza alcun criterio direttivo da parte del sindacato e del partito socialista. Non mancò tanto il coordinamento del moto operaio – che in una certa qual misura era realizzato dai dirigenti confederali – quanto il suo indirizzo politico.

A segnare la sconfitta politica dei lavoratori fu il gruppo dirigente del partito socialista che, dopo aver avanzato la proposta di politicizzare il movimento, rinunciò a dirigerlo, ridimensionando la mobilitazione operaia entro un quadro sindacale e di mera rivendicazione economica.

Ripercorriamo brevemente l’evolversi degli avvenimenti in quelle giornate.

Il 4 settembre, su proposta della Camera del Lavoro di Milano, si svolse una riunione in comune con i vertici del Psi, cui parteciparono anche rappresentanti della Camera del lavoro di Torino e della Fiom.

La proposta avanzata da Schiavello, a nome della Camera del lavoro di Milano, di estendere l’occupazione a tutte le aziende, e far transitare la direzione della mobilitazione dalle mani della Fiom a quelle del Psi, dimostrò tutta l’inconsistenza dell’estremismo parolaio dei massimalisti.

Gennari, segretario del Psi, dichiarò che la direzione del partito non intendeva avvalersi della facoltà di avocare a sé la direzione della lotta, dimostrando di non credere alla possibilità di una rivoluzione che, a parole, il suo partito proclamava di voler realizzare.

Il 10 e l’11 settembre, a Milano, si riunì il Consiglio nazionale CGdL e la direzione del Psi. Il giorno prima Togliatti, segretario della sezione socialista torinese e redattore de «l’Ordine Nuovo», affermò che era possibile difendere efficacemente le fabbriche, ma non organizzare un attacco: «se si arriva ad un attacco violento e insurrezionale, vogliamo sapere quali sono i fini che si vuol raggiungere. Non dovreste contare su un’azione svolta da Torino da sola. Noi non attaccheremo da soli, per poterlo fare occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto un’azione nazionale.»6

La posizione ordinovista era chiara, rigorosa, responsabile. La rivoluzione non si poteva lasciare all’improvvisazione né si poteva deciderla a tavolino senza una preparazione su scala nazionale, senza un’organizzazione militare della classe lavoratrice.

L’ipocrisia della direzione massimalista del Psi risultava facilmente smascherata: da mesi si predicava e si attendeva la rivoluzione, ma nulla si era fatto per prepararla.

Ma se non si poteva avere uno sbocco rivoluzionario era facile prevedere che prevalessero le posizioni riformiste che lavoravano per porvi fine.

Nel frattempo la resistenza operaia era giunta allo stremo. «Cucine comuniste» e buoni di prelevamento da cooperative, sottoscrizioni e vendita di prodotti fabbricati non potevano bastare.

L’11 settembre venne respinto l’ordine del giorno Schiavello-Bucco, che proponeva la politicizzazione del movimento, e prevalse la posizione riformista di D’Aragona che rifiutò di intensificare la lotta, affermando di non volersi “assumere delle responsabilità che si risolvevano in un massacro del popolo”, ed aggiunse alle rivendicazioni economiche la proposta di un surrogato di controllo operaio nelle aziende.

Il controllo sotto l’egida dello Stato, presentato agli operai come una conquista rivoluzionaria, sarà il pretesto per sancire la conclusione dell’esperienza dell’occupazione.

La Fiom, che aveva formalmente promosso la mobilitazione si astenne dal prendere posizione. Il Psi accettò, con qualche riserva di circostanza, il voto contrario.

Il presidente del Consiglio Giolitti, che non si era mai lasciato sfuggire il controllo della situazione aspettando pazientemente il logoramento delle parti, riuscì a porre fine all’occupazione senza l’impiego delle forze dell’ordine, che erano state poste a salvaguardia delle città e delle prefetture.

Le aspettative dell’anziano statista erano più che fondate. La mobilitazione resterà imprigionata entro i luoghi di lavoro e, nonostante l’elevato livello di partecipazione, terminerà senza scontri di piazza.

Giolitti che, d’accordo con la CGdL, aveva fatto di tutto per mantenere entro l’alveo sindacale il movimento di lotta7 ed aveva mantenuto una posizione di prudente neutralità, capì che era giunta l’ora di intervenire.

Il 15 settembre convocò le controparti presentando un progetto, destinato a restare lettera morta, che prevedeva l’istituzione di una commissione paritetica per «formulare proposte al governo per la presentazione di un progetto di legge sul controllo sindacale».

Gli industriali sapevano benissimo che la «commissione paritetica» per il «controllo sulle fabbriche» non sarebbe approdata a nessun risultato.

Ne era consapevole anche la parte più cosciente degli operai. Gli operai della sezione Fiat Centro – che facevano capo a Parodi, legato alla componente astensionista guidata da Bordiga – dopo aver aspramente criticato il comportamento dei dirigenti sindacali e politici «deliberano di separare la loro responsabilità da questi elementi, separandosi dal partito socialista ufficiale costituendosi in partito comunista rivoluzionario: invitano perciò tutti i compagni che seguono questo principio d’idee a dare la loro adesione al partito comunista».

La posizione degli operai torinesi sintetizzava efficacemente la rabbia e la delusione degli operai. Non c’è dubbio che l’occupazione rappresentò una grave sconfitta politica per la classe lavoratrice e registrò un risultato insufficiente anche sotto il profilo economico.8

Giolitti aveva ben chiaro che l’«esercizio diretto dell’attività produttiva […] non avrebbe potuto fare a meno di dimostrare agli operai l’impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi capitali, istruzione tecnica, e organizzazione commerciale, specie per l’acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti che fossero riusciti a fabbricare».9

Il mito dell’«occasione perduta» per fare la rivoluzione è privo di un reale fondamento.

L’occupazione delle fabbriche poteva diventare vincente solo se si fosse inserita all’interno di una strategia che si poneva l’obiettivo centrale di prendere il potere.

Inequivocabile, a tal proposito, l’indicazione che proveniva dall’Internazionale, resa pubblica da Losovsky, nella Lettera aperta alla CGL: «Occupare una fabbrica, impadronirsi di uno stabilimento è molto facile. Ma è difficilissimo conservare questa fabbrica, questo stabilimento, giacché il capitalismo è tutto un sistema che trova la sua espressione completa nello Stato contemporaneo, e finché il potere con tutto il suo apparato – polizia, funzionari, imposte, ministero, esercito, flotta, ecc. – resta nelle mani delle classi dominanti, l’impossessamento delle fabbriche e degli stabilimenti non è effettivo, non potendo esistere una contraddizione duratura fra condizioni economiche e politiche. Politica ed economia sono uno, e chi vuole impadronirsi delle fabbriche deve, prima di tutto, conquistare il potere, distruggere la borghesia come classe».10

Mancavano tutti i presupposti per parlare di tentativo rivoluzionario. Mancava una direzione politica e sindacale, una strategia, una tattica, una coscienza rivoluzionaria che dovevano precedere il moto rivoluzionario.

Mancava il coinvolgimento di ampie masse proletarie, necessario per avere una qualche possibilità di successo.

Apparve chiaro sia alla componente torinese del partito socialista, sia alla frazione astensionista che faceva riferimento a Bordiga, che il problema fondamentale era la mancanza di una guida rivoluzionaria, l’assenza del partito rivoluzionario e l’urgenza di costituirlo.

«I tratti caratteristici della rivoluzione proletaria – annotava Gramsci – possono essere ricercati solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare.

L’operaio nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo determinato e la linea risulta susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L’operaio tende a portare questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si acconcia facilmente, da per tutto, all’ufficio di esecuzione di esecutore materiale, di “massa” guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l’immediato, perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo.

Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie».11

Bordiga intervenne per disciplinare le iniziative spontanee di scissione, come quella torinese, determinate dalla rabbia della parte più consapevole della classe operaia per l’ennesima sconfitta: l’obiettivo doveva essere quello di dare battaglia in occasione del prossimo congresso del Psi per costituire il partito comunista.

La sconfitta del settembre 1920 rappresentò una scuola di comunismo per tanti operai e costituì la base per la loro rottura con il partito socialista, le sue ambiguità, le sue connivenze con il riformismo.

Gli sforzi e i sacrifici sostenuti nei giorni dell’occupazione non furono vani; ebbero un ruolo fondamentale nel processo di fondazione del partito e contribuirono a formare militanti e dirigenti temprati nelle lotte e del tutto estranei alla logica del compromesso e della rinuncia. E stanno a testimoniare e ad insegnarci, ancor oggi, l’imprescindibilità del ruolo del partito comunista, senza il quale anche gli sforzi più eroici sono destinati ad essere ridimensionati e sconfitti.


 

FONTI
1 Cfr. L’occupazione delle fabbriche. Relazione del Comitato Centrale della FIOM sull’agitazione dei metallurgici italiani, in La Fiom dalle origini al fascismo 1901-1924, a cura di M. Antonioli e B. Bezza, De Donato, Bari, 1978, p. 636.
2 Ivi, p. 637.
3 M. Abrate, La lotta sindacale nell’industrializzazione italiana (1906-1926), L’Impresa edizioni, Torino 1967, p. 284.
4 Cioè della “sospensione del lavoro a cottimo e [del] rallentamento del lavoro, effettuato mediante la minuziosa osservanza di tutte le norme per la protezione dei lavoratori” (cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli Editore, Milano 1978, p. 326).
5 Ivi, p. 328.
6 G. Bosio, La grande paura. Settembre 1920: l’occupazione delle fabbriche, La nuova sinistra Edizioni Samonà e Savelli, Roma 1970, p. 101.
7 «La Confederazione generale del lavoro – dirà Giolitti – aveva solennemente dichiarato che escludeva al movimento qualunque carattere politico, anche il movimento doveva essere mantenuto nei limiti della contestazione economica. La Confederazione generale del lavoro, nella quale io allora ebbi fiducia, ha dimostrato di meritarla» (in G. Giolitti, Discorsi parlamentari, Einaudi, Torino 1952, vol. IV, p. 1787).
8 Le richieste salariali vennero accolte solo in parte, licenziamenti e punizioni venivano demandati ad una commissione paritetica. In proporzione agli enormi sacrifici che gli operai dovettero affrontare, i risultati sugli aumenti e i minimi di paga, sulla retribuzione dello straordinario, sulle ferie e l’indennità di licenziamento rappresentarono un compromesso sostanzialmente deludente.
9 G. Giolitti, Memorie della mia vita, Fratelli Treves Editori, Milano 1922, p. 588.
10 In “Avanti!”, 25 novembre 1920.
11 A. Gramsci, Il partito comunista “l’Ordine Nuovo”, 9 ottobre 1920

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