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Valerio Verbano. Trent'anni di memoria senza giustizia né pace

di Guido Caldiron

«Questo non è un corteo ma neanche un funerale stamo tutti a pesà quanto sta vita vale. Il fumo dei lacrimogeni si fa sempre più acre e amaro, pagherete tutto sì, pagherete caro...».

Chissà chi l'ha scritta quella canzone che a pochi giorni dal funerale di Valerio Verbano già ricordava dalle frequenze di Radio onda rossa le cariche della polizia fin dentro il cimitero del Verano, i giovani inseguiti tra le lapidi e i chioschi di fiori, la gente spaventata che non capiva bene cosa ci facessero tutte quelle bandiere rosse nel luogo dell'estremo omaggio ai propri cari. Era il 25 febbraio del 1980, una vita fa. A Roma finivano davvero gli anni Settanta.

Valerio era stato ucciso solo pochi giorni prima, il 22, da tre giovani che, dopo aver finto di essere suoi amici - «gli vogliamo parlare» avevano detto alla madre per convincerla ad aprire la porta di casa -, avevano immobilizzato i suoi genitori, atteso il suo ritorno da scuola poco dopo l'una e poi l'avevano ucciso con un colpo di pistola alla nuca.

Alle nove di sera era arrivata una rivendicazione dei Nuclei Armati Rivoluzionari, il gruppo neofascista formatosi tra la sede del Msi di Monteverde e quella del Fuan di Via Siena, i cui membri si erano già resi responsabili della morte di Walter Rossi nel 1977 e di quella di Roberto Scialabba nel 1978, oltre che di quella dell'agente di polizia Maurizio Arnesano, ucciso sempre a Roma solo pochi giorni prima di Verbano. Il giorno dopo i Nar faranno ritrovare anche un volantino in cui si parla genericamente del «martello di Thor che ha colpito a Montesacro».

Valerio Verbano era un giovane militante dell'Autonomia Operaia, frequentava il Liceo Archimede e viveva con i genitori nel quartiere di Montesacro. Era «entrato nel Comitato di Lotta Valmelaina all'inizio del 1978. L'antifascismo militante occupava gran parte dell'orizzonte politico e Valerio scelse di impegnarsi nella controinformazione. Meticolosamente, cominciò a raccogliere documentazione sull'eversione nera in tutta la città», raccontano Pino Adriano e Giorgio Cingolani in Corpi di reato. Quattro storie degli anni di piombo (Costa & Nolan, 2000). Valerio Verbano era stato arrestato nell'aprile del 1979 mentre insieme ad altri giovani stava confezionando un rudimentale "ordigno esplosivo". Nella perquisizione che seguirà l'arresto nella sua stanza sarà trovata un'"ingente documentazione" riguardante l'attività dell'estrema destra e in particolare le attività di Terza Posizione e dei Nar. Un dossier che, acquisito dall'Ufficio Corpi di Reato del Tribunale di Roma, scomparirà misteriosamente. I materiali raccolti da Verbano saranno esaminati anche dal giudice Mario Amato che da solo indagava in quel momento sui gruppi del neofascismo e che sarebbe caduto anch'egli sotto i colpi dei Nar solo pochi mesi più tardi, il 23 giugno 1980.

«Prima di morire vorrei che l'assassino suonasse ancora alla mia porta - scrive oggi Carla Verbano, la madre di Valerio che con tenerezza e coraggio non ha mai smesso in tutti questi anni di chiedere giustizia per la sorte di suo figlio, nel libro che ha scritto insieme a Alessandro Capponi, Sia folgorante la fine (Rizzoli, pp. 240, euro 15,00) - Vorrei che, prima ancora di dirmi buongiorno, mi dicesse: "Io sono l'uomo che ha ucciso suo figlio". Lo farei entrare e gli parlerei. Prima di morire vorrei capire. Adesso ho quasi ottantasei anni e vorrei conoscere tutto di quell'esecuzione. Non m'interessa sapere perché hanno ucciso in quel modo un ragazzo di diciotto anni, perché hanno legato noi nella stanza a fianco, perché sono venuti a sparargli qui, in casa mia, su quel divano. Lo farei accomodare l'assassino, gli preparerei un caffè purché mi spiegasse perché l'hanno ucciso, purché mi raccontasse chi ha deciso che le fotografie scattate da mio figlio erano troppo pericolose, che tutto il lavoro fatto da Valerio sull'eversione nera doveva essere fermato, portato via, distrutto. Quel giorno mi hanno detto che gli dovevano solo parlare, solo chiedere delle cose. Cosa volevano sapere?».

Il fatto è che a trent'anni dall'omicidio di Valerio Verbano per la sua morte non ci sono né colpevoli né uno straccio di verità: tante voci, indiscrezioni, segnali ma nessuna vera pista investigativa, nessuna voce interna all'estrema destra romana che abbia voluto far luce su quella storia terribile. E così Carla Verbano, tutta l'energia e la determinazione del mondo riunita in un corpo minuto e esile, ha deciso di fare da sola, prima un blog e ora un libro, aiutata dagli amici e dai compagni di suo figlio a ricostruire i fatti di tanti anni fa, a metterli in ordine cercando di leggerci dentro anche solo un filo di memoria che la avvicini alla verità. Perché, come aveva spiegato già qualche anno fa nella trasmissione de "La Storia siamo noi" dedicata alla tragedia che l'ha colpita così duramente: «Avevo un figlio Valerio, che riempiva la nostra vita e me lo hanno ammazzato. E' caduto sul divano in quell'angolo, aveva la testa dove adesso c'è quel gattino di pezza. Sono stati i fascisti, forse per vendetta perché Valerio faceva parte di Autonomia o forse per paura. Valerio era un loro nemico giurato, stava raccogliendo un dossier sui fascisti del quartiere, chissà? Ma da quel giorno viviamo con uno scopo, scoprire la verità su nostro figlio. Dare un nome ai tre assassini che ce l'hanno ucciso davanti agli occhi. Se la sua morte rimarrà un mistero. Mio figlio sarà stato ucciso per la seconda volta».

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